Fino a due giorni fa corso Fanti era affollato di gente e vi si affacciavano i negozi aperti; ora calcinacci e, ovunque, le strisce bianco-rosse a delimitare quella che è divenuta “zona rossa”. Allontanandosi di qualche centinaio di metri, i parchi sono presi d’assalto, trasformati in campeggi improvvisati, eletti a rifugio al pari delle automobili e dei camper, da gente che non ha alcuna intenzione – e in molti casi neppure la possibilità – di tornare a casa. Siamo a Carpi, sede dell’omonima diocesi e in provincia di Modena, passata quasi indenne dalla scossa del 20 maggio (mentre seri danni si erano già registrati nel mirandolese) e, invece, colpita più duramente ieri. Nel seminario vescovile, che si affaccia appunto sul corso deserto, incontriamo mons. Francesco Cavina, dallo scorso febbraio vescovo della diocesi.
Già la scorsa settimana la diocesi lamentava molte chiese danneggiate. E ora?
“Non abbiamo più un luogo di culto, eccezion fatta per 2-3 chiese a Carpi, le più recenti, e la cappella privata di una famiglia nel mirandolese, ora messa a disposizione della comunità ma di dimensioni ridotte. Solo in città nel duomo c’è pericolo di crollo, in San Francesco – dove erano da poco finiti i restauri – è crollata l’abside, San Nicolò è chiusa…. In questi giorni l’Eucaristia viene celebrata nelle tende o all’aperto”.
Oltre alla morte di don Ivan Martini, parroco di Rovereto sulla Secchia, il clero ha registrato feriti?
“No. Purtroppo è morto don Ivan, entrato in chiesa per mettere in salvo la statua della Madonna. Era un sacerdote molto disponibile, sempre sorridente, generoso, molto attento alla dimensione sociale e con un forte carisma sulla popolazione. Prestava servizio anche all’ospedale di Carpi, oltre che al carcere di Modena. Domenica scorsa ero nella sua parrocchia per celebrare le cresime; ieri, quando sono tornato là, ho visto molta gente piangere”.
La popolazione, e la comunità cristiana in particolare, come sta reagendo a quanto succede?
“Predomina la paura. Carpi sembra un deserto, e ancora peggio è il mirandolese. Chi ha potuto è partito per luoghi più sicuri, altri sono accampati all’aperto o in macchina. Ora la priorità è curare le ferite interiori. Un compito possibile solo con la fortezza intesa come dono dello Spirito”.
Da dove ripartire?
“Bisogna cominciare al più presto la ricostruzione. In questi paesi le strutture parrocchiali erano l’unico luogo di aggregazione, oltre che un’importante realtà storico-artistica e punto di riferimento per la fede”.
Come tenere coese le comunità in questo frangente?
“Infondendo coraggio, facendo vedere che la ricostruzione è possibile. Se non si comincia a ricostruire appena possibile il rischio è che la coesione sociale con il tempo venga meno e le comunità cristiane vadano dissolvendosi. Bisogna invece salvaguardare questo patrimonio di persone, dando luoghi per pregare, celebrare l’eucaristia, confrontarsi, far giocare i ragazzi… Andando ieri in una chiesa danneggiata per prendere il Santissimo Sacramento, una donna mi ha così apostrofato: ‘Se portate via anche Lui, che cosa ci rimane?’”.
Qual è il senso della presenza dei sacerdoti, in questo momento, in mezzo alle comunità ferite?
“I parroci rappresentano il senso della continuità, testimoniano una fedeltà che nasce dal sacramento dell’Ordine. In tante parrocchie sono stati i primi ad allestire tendopoli, centri d’accoglienza, andando a visitare le famiglie una per una. È la concretezza del buon pastore che sta col proprio gregge, e questo è stato molto apprezzato”.
La scorsa settimana, in Vaticano, è stato ricevuto dal Papa…
“È stato di una delicatezza e di un’attenzione straordinarie: si è interessato alle nostre chiese distrutte, al danno economico, mi ha chiesto persino del vescovado. Mi ha fatto cogliere davvero la sollecitudine di un padre, e gliene sono enormemente grato. Sappiamo con certezza che il Papa non ci ha dimenticato”.