Dopo cinque mesi di terremoto con sequenze sismiche che si sono presentate più forti della prima e le migliaia (alle 11 del 3 febbraio l’INVG ne aveva registrate 52.700 dal 24 agosto scorso) che quotidianamente scuotono la terra e l’animo delle persone, nei paesi terremotati si pensa alla ricostruzione. La stanchezza si accompagna, e in qualche misura alimenta, il desiderio di andare avanti per tornare a vivere e a lavorare nelle proprie case e nei propri paesi. E di questo desiderio si fanno voce anche i vescovi che fin da subito hanno fatto il possibile per stare vicino ai terremotati. L’arcivescovo di Spoleto – Norcia mons. Renato Boccardo, piemontese di origine, non aveva mai sperimentato il terremoto.
Mons. Boccardo, come ha vissuto questi mesi di scosse?
“Direi che c’è la sorpresa, nel senso che non sapendo che cos’è uno impara vivendo e dunque la prima sensazione è la sorpresa, e poi l’impotenza. Cosa fai davanti ad una scossa del terremoto? Non c’è niente da fare, sei confrontato con la piccolezza, con l’impotenza, di fronte ad una cosa che è più grande di te e che non puoi né prevedere, né controllare, né dominare. Viene spontaneamente alla mente da una parte, appunto, la piccolezza dell’uomo e dall’altra l’affidamento. Non è perché c’è la paura che si riscopre la dimensione di affidamento ma piuttosto la paura ti aiuta a prendere coscienza che la vita si svolge tra le mani di Qualcuno che è più grande, come dice il Salmo: Che cos’è l’uomo perché te ne curi?. Questo non vuol dire fatalismo né arrendevolezza. La dimensione del credente è proprio quella di sapere di essere in buone mani: Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla”.
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L’esperienza dei fedeli della sua diocesi, che invece il terremoto lo hanno conosciuto, l’ha aiutata ad affrontare questa situazione?
“È vero, hanno vissuto altre esperienze di terremoto ma credo che ogni esperienza sia unica, irripetibile. Comunque, vedere questa gente affrontare con forza e con grande solidarietà reciproca, e allo steso tempo con grande determinazione a non voler lasciare la propria terra e ricominciare comunque pur nella fatica, certamente è un messaggio molto forte. Ho citato più volte l’episodio dopo terremoto del 24 di agosto, a San Pellegrino di Norcia, in mezzo alle macerie un uomo ultra ottantenne che mi diceva ‘Certo, è pesante, è la terza volta che devo rifare casa’. E mentre tentavo di dargli qualche parola di incoraggiamento, di conforto lui mi risponde, quasi invertendo i ruoli, che ‘Quando Dio dà il peso dà anche la forza di portarlo’. Quando uno dice queste cose è perché l’ha sperimentato, l’ha provato!”.
Andando a visitare i suoi fedeli ha invitato più volte a guardare al futuro con speranza. Come vede questo futuro?
“Da una parte, grazie alla determinazione e alla tenacia della gente della Valnerina penso che bisogna parlare di un futuro possibile, non lontano, fatto di gesti concreti di ricostruzione. Ma non conta soltanto la ricostruzione materiale. Conta soprattutto la ricostruzione del tessuto umano, del tessuto sociale della vita comune. Direi che c’è un miscuglio di fiducia e speranza fondata sulla ricca umanità di questa gente, e dall’altra parte qualche dubbio e incertezza dovute alla situazione contingente, cioè alle difficoltà che si devono affrontare giorno per giorno e ad un futuro che non si vede ancora ben delineato, ben definito”.
Questo riferimento a ciò che non è “ben definito” fa riferimento al quadro nazionale legislativo e dei finanziamenti?
“Certamente a tutto questo, ma anche, da un punto di vista molto concreto, al fatto che la gente ha bisogno di sapere come si fa per ricostruire, chi ci da una mano e, concretamente, fino a che punto interviene il governo centrale o regionale e fino a che punto devo mettere io i miei soldi. Questo ancora non è chiaro e dopo cinque mesi questo aumenta l’incertezza”.
In questa fase dell’emergenza avete sperimentato anche molta solidarietà …
“Tutta questa solidarietà in qualche modo ‘costringe’ a ripartire. È quasi una forza dall’esterno che ti spinge, e sperimentando questa condivisione, vicinanza, incoraggiamento. Si è quasi costretti a rimettersi in piedi nel senso più positivo. La cosa bella è che si è visto in questi mesi un fiorire, un moltiplicarsi di iniziative, dalla persona singola che ha mandato 25 euro discendo ‘è quello che io posso dare’, fino a delle istituzioni, associazioni, parrocchie, movimenti, comunità. Gruppi diversi che si sono resi non solo disponibili, ma si sono fatti concretamente attivi per sostenere e alimentare la ripresa. In questo contesto non si può non pensare alla Caritas italiana, alle diverse Caritas regionali e diocesane che in contato stretto con la nostra Caritas diocesana hanno messo in atto già concretamente dei gesti specifici di sostegno e di promozione. Penso in particolare all’aiuto che la Caritas diocesana ha potuto assicurare agli agricoltori che sono andati ad una fiera a Milano, a quegli interventi fatti a favore degli allevatori fornendo loro degli strumenti o le stalle a mo’ di tenda in cui ospitare gli animali. È chiaro che non tocca alla Caritas risolvere tutti i problemi. La Caritas secondo le forze che ha e a volte anche al di là delle proprie forze viene incontro con delle risposte specifiche a dei bisogni, ma questo non esclude la responsabilità delle istituzioni nei confronti di questa gente”.
Stiamo entrando nella fase in cui si discute più concretamente di ricostruzione e nella sua diocesi molte chiese sono distrutte o lesionate…
“Nella zona dell’Alta Valnerina gli edifici di culto sono tutti o distrutti o non agibili perché gravemente danneggiate. Nel resto della diocesi ci sono alcune chiese che sono danneggiate e dunque chiuse o per ragioni di sicurezza o perché necessitano di interventi, ma per fortuna nel resto della diocesi la situazione non è così grave”.
Lei ne ha parlato al convegno dell’Opera Romana Pellegrinaggi. Chiudendo la sua relazione ha posto la domanda sul come ricostruire…
“Io credo sia necessaria una riflessione congiunta di tutti gli enti e le istituzioni coinvolte (penso alla diocesi che è proprietaria e custode di tutti questi beni, penso ai comuni, al Ministero competente e alla Soprintendenza), per delineare i criteri da porre alla base della ricostruzione. Per esempio: cosa vale la pena ricostruire? Bisogna ricostruire tutto? Che cosa, e come deve essere ricostruito? In quella relazione ho detto che le ferite non si cancellano, le ferite si rimarginano e diventano cicatrici, e ogni cicatrice è segno di un evento e racconta una storia. Allora mi sembra che le ferite che il terremoto ha inferto anche ai monumenti storici e artistici devono diventare cicatrici, cioè devono diventare visibili. Ricostruire tutto come prima, ammesso che sia possibile – e avrei qualche dubbio-, vorrebbe dire cancellare le tracce delle ferite di questo terremoto, ma questo come gli altri terremoti è un evento storico che lascia il segno nella vita delle persone innanzitutto. Quando il Papa ha accolto i terremotati, il 5 gennaio scorso, ha detto ‘con questo terremoto la vita è cambiata, non sarà più come prima’. Dunque lascia il segno nella vita delle persone, ma lascia il segno anche negli edifici. Le nostre chiese che oggi ammiriamo come opere d’arte sono state rifatte più volte nel corso dei secoli e ogni volta si vede che c’è stato un intervento. Ricostruire tutto come prima, ripeto, ammesso che sia possibile, vorrebbe dire fare dei falsi, cancellare qualsiasi traccia di questo terremoto. Dunque rispetto alla storia è una grande responsabilità”.
Su questo tema vi siete confrontati tra vescovi delle diocesi colpite dal terremoto?
“Su questo tema specifico non ancora ma immagino che ci sarà il tempo e l’occasione per farlo”.
Il suo invito a discuterne ha già avuto dei riscontri?
“Siamo alle prime battute di questo che sicuramente deve essere un tema da affrontare insieme nella ricerca di quello che è bene. Qui non si tratta di essere da una parte o dall’altra. È un lavoro serio e impegnativo che dobbiamo affrontare pacificamente, cioè senza polemiche, senza prese di parte ma nella ricerca e nel rispetto del meglio”.
Si parla di chiese come beni culturali però le chiese sono il luogo della comunità. Come pensare al futuro, a luoghi di culto per delle comunità che sono cambiate e che hanno esigenze pastorali nuove?
“Per questo dicevo che bisogna domandarsi se e dove ricostruire, proprio perché queste chiese, che sono testimonianze dell’arte e della storia, sono anzitutto testimonianze della fede. Non possiamo trattare questi edifici unicamente come monumenti. Non possiamo dimenticare che sono frutto di una coscienza cristiana, di gente che ha voluto costruire la casa di Dio in mezzo alle case degli uomini, E tante volte nei secoli passati ‘si è tolta il pane di bocca’ per poter abbellire la propria chiesa e dunque ritrova in questa chiesa la propria storia, la propria identità, il luogo del rapporto con Dio e anche del rapporto con gli altri. Ho visto in questi mesi, quando venivano estratti dalle macerie statue o tele per metterle in sicurezza, gente commossa che raccontava “io mi sono sposata davanti a questa Madonna…”, “mio nonno mi ha detto che questo Crocifisso …, questo quadro…”. C’è tutto un patrimonio di fede e di sentimenti che racconta la vita di questa gente”.
Vedrebbe una chiesa moderna in quelle zone?
“Una chiesa moderna da capo a piedi, perché no. Così come nei secoli c’è stata l’espressione dell’arte e della sensibilità di quel tempo, perché no oggi fare qualcosa di nuovo. Nello stesso tempo dico che abbiamo tante chiese e non abbiamo più i cristiani da metterci dentro. E allora perché non pensare che alcuni di questi luoghi diventino, non mi piace dire dei musei, ma quasi dei luoghi della memoria, cioè ricostruendo alcune di queste chiese farle diventare luoghi che raccontano la storia di quelle vallate, e dunque renderli così fruibili. Penso, per esempio, a San Salvatore a Campi come luogo dove le opere venute dalle chiese della zona possano essere rese fruibili dagli abitanti e anche dai turisti”.
Per la Basilica di San Benedetto a Norcia è annunciato un contributo dell’Unione Europea per ricostruirla. Un bel segnale se si pensa al duro dibattito che ci fu sulle radici cristiane dell’Europa…
“È chiaro che un impegno dell’Europa a questo livello avrebbe un grande valore simbolico. Se l’Europa si impegna a ricostruire la basilica di San Benedetto vuol dire che l’Europa riconosce il contributo di Benedetto alla costruzione della coscienza europea e che l’apporto dell’umanesimo cristiano interpretato dal patrono d’Europa nella sua Regola, è ancora valido oggi”.
Il Terremoto del 1997 ha portato all’attenzione del mondo san Francesco. Questo terremoto sta portando l’attenzione su san Benedetto …
“La facciata della Basilica è diventata un po’ l’icona di questo terremoto richiamando l’attenzione su tutto il centro Italia. È chiaro che insieme a questo c’è tutto il messaggio di Benedetto”.
Come si concretizza la comunione tra le diocesi interessate dal sisma?
“Certamente c’è una comunione di aiuto e solidarietà. Con i Vescovi delle zone terremotate ci siamo incontrati molte volte tra noi, con le autorità, con i responsabili della Cei, proprio per un coordinamento di azione e un confronto. L’importante è lavorare insieme, coordinare le attività anche perché ci si può arricchire reciprocamente con le conoscenze e le esperienze. C’è una responsabilità condivisa di noi Vescovi e insieme stiamo cercando di dare una risposta, perché qui non si tratta semplicemente di affrontare la ricostruzione, e quindi trovare i fondi per rimettere in piedi case e aziende, che pure è un aspetto molto importante. Qui c’è, altrettanto importante, una attenzione alla dimensione umana di questa vicenda e noi Vescovi sentiamo la responsabilità di aiutare la nostra gente a leggere ‘dentro’ l’evento del terremoto, altrimenti rischiamo di farci prendere dall’emergenza. Forse il terremoto ci dice anche qualche cosa, ci chiede una lettura sapienziale degli eventi. In diocesi abbiamo voluto sottolineare questo aspetto nella festa del patrono San Ponziano, con un triduo di preparazione in cui abbiamo tentato di leggere ‘dentro‘ il terremoto, e nella celebrazione invitando i vescovi vicini delle zone terremotate abbiamo voluto manifestare anche visivamente questa solidarietà e vicinanza reciproca”.
Cosa vorrebbe dire a chi non è terremotato?
“Anzitutto il ringraziamento per le diverse manifestazioni di vicinanza, attenzione, solidarietà, aiuto e comunione. E poi direi anche che il terremoto non tocca esclusivamente i terremotati ma può essere un messaggio per tutti. Tanta fatica, tanto affanno, a volte tanto veleno, per accumulare, costruire, edificare – edificare la casa, la propria posizione, il conto in banca ecc – e poi una scossetta di terremoto fa venire giù tutto! Allora il messaggio, che vale anche per chi non è terremotato, oggi è: quali sono gli edifici che devono essere costruiti e che non temono né il terremoto, né la crisi economica né altri tipi di assalto?”.