Si avvicina l’Anno della fede, che Benedetto XVI ha indetto per tutta la Chiesa. Arriva in un momento in cui ci tiene sotto scacco la crisi economica che attanaglia gran parte dell’umanità, e che tocchiamo con mano anche in Italia e nella nostra regione. È ovviamente una coincidenza: è chiaro infatti che il senso della proposta papale non riguarda la crisi economica, semmai ha a che fare con la crisi della fede nella quale l’Europa si dibatte. L’anno prossimo ci farà ricordare quell’anno 313 nel quale Costantino apriva definitivamente le porte dell’Impero romano al cristianesimo, chiudendo l’epoca delle persecuzioni. Oggi siamo nell’epoca in cui i legislatori dei nostri Parlamenti – da quello europeo a quelli nazionali, regionali, fino ai Consigli comunali – prendono spesso decisioni su punti importanti dell’etica e del costume in una linea decisamente non cristiana. La crisi di fede ci interpella. Ma non ci deve abbattere. Mentre sentiamo l’amarezza di un cristianesimo che si contrae, almeno numericamente, siamo invitati a risentire, in qualche modo, l’entusiasmo delle origini, quando da tutti, dagli apostoli ai semplici battezzati, l’annuncio si faceva col passaparola, e veniva sigillato da una testimonianza che non raramente giungeva all’effusione del sangue. L’Anno della fede è anche questo. Si tratta di riprendere il grande slancio di una fede ri-compresa per il nostro tempo, nella continuità con la fede di sempre, ma parlando ai nostri contemporanei: fu, cinquant’anni fa, l’impresa esaltante del Concilio Vaticano II, che il Sommo Pontefice ci invita a riscoprire. Il Papa ci invita anche a “ripassare” – per così dire – la dottrina, per non perderne una sola stilla, con l’aiuto di quel testo denso, autorevole e bello che è il Catechismo della Chiesa cattolica. Tempo di crisi, dunque, tempo di un rinnovato annuncio della fede. Ma la crisi economica non entra in nessun modo in questa iniziativa che ci vedrà coinvolti? Io penso che c’entri, nella misura in cui l’odierna crisi non è soltanto economica. E non lo è, perché – lo sappiamo – è stata generata da un deficit di etica della finanza, che invoca un ritorno a un quadro valoriale nel quale non ci sono compartimenti stagni: l’etica della finanza suppone l’etica tout court. Dove c’è infatti una lacuna nella concezione della vita, al punto da non coglierne più la dimensione trascendente, sarà difficile porre rimedio – con semplici ritocchi legislativi – al tonfo della coscienza morale.
Perché mai, e per chi, gli istinti che spingono a profitti sfrenati e a una finanza malsana dovrebbero placarsi, in coscienze che non hanno più che il godimento immediato come loro criterio? A un livello profondo, la crisi della fede, la crisi delle coscienze, la crisi del costume, si tengono. Sono espressioni di un unico grande travaglio dell’umanità. Vivremo dunque l’Anno della fede prendendo coscienza di questo orizzonte globale. La fede riguarda certamente il cammino interno della Chiesa, ma questa, per sua natura, non sta chiusa dentro i suoi confini. Ha porte sempre aperte, getta ponti, e ripete oggi, con la stessa convinzione di cinquant’anni fa, l’esordio toccante della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”. Nella luce di questo “esordio”, l’Anno della fede si fa, per i credenti, stimolo a portarsi in campo aperto, sia per riproporre la fede con un annuncio caldo ed efficace, seppur dialogico e rispettoso, sia per mettere in campo tutte le risorse della carità, che danno alla fede stessa il suo pieno sapore evangelico. Rimane sempre valido il monito della Lettera di Giacomo: “La fede, senza le opere, è morta”. Istanza che un grande teologo del nostro tempo, Hans Urs von Balthasar, esprimeva così, nel titolo di un suo saggio: Solo l’amore è credibile.