Yad Vashem Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/yad-vashem/ Settimanale di informazione regionale Sat, 26 Mar 2022 20:10:10 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Yad Vashem Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/yad-vashem/ 32 32 Manciano di trevi: giusti tra le Nazioni. Riconoscimento per Agostino e Clementina Falchetti https://www.lavoce.it/manciano-di-trevi-giusti-tra-le-nazioni-riconoscimento-per-agostino-e-clementina-falchetti/ Fri, 22 May 2015 13:19:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=33851 Due nuovi umbri sono stati inseriti nell’elenco dei “Giusti tra le nazioni”: si tratta dei coniugi Agostino Falchetti e Clementina Nartifagni. Riceveranno la pergamena alla memoria, perchè deceduti, per aver ospitato nel 1943, nella loro casa a Manciano di Trevi, durante la persecuzione nazista, la famiglia dei Montalcini di origini ebraiche. La storia è stata ricostruita da Gianfranco Cialini grazie ai ricordi di Maddalena Falchetti (oggi 83enne e figlia dei due coniugi), al contributo del figlio di lei, Luigi e alle ricerche d’archivio.

La donna ricordava di quando a 11 anni giocava con una bambina di nome Francesca Montalcini, di 5 anni. Nei sette mesi passati insieme le due bambine ignoravano completamente la realtà delle cose e solo molti anni dopo ricollegarono i fatti. A distanza di circa 70 anni Maddalena e Francesca si sono incontrate ed hanno ricostruito i loro ricordi di bambine.

La signora Francesca Montalcini il 9 ottobre 2013 ha richiesto allo Yad Vashem di Gerusalemme il riconoscimento di Giusto tra le nazioni per la famiglia della signora Maddalena Falchetti. L’istanza, autenticata dal rabbino capo di Roma Riccardo De Segni, è stata richiesta su sollecitazione del dott. Cialini. Lo Yad Vashem, dopo aver istruito la pratica e fatto le dovute verifiche, ha riconosciuto i genitori di Maddalena Agostino Falchetti (1899) e Clementina Nartifagni (1900) “Giusti tra le Nazioni”. (Clicca qui per un ampio racconto della vicenda).

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Papa Francesco in Terra Santa. Dove c’è sofferenza ha lasciato segni di pace https://www.lavoce.it/papa-francesco-in-terra-santa-dove-ce-sofferenza-ha-lasciato-segni-di-pace/ Fri, 30 May 2014 18:44:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25188

Papa-betlemme-bnDiverse sono le ragioni che hanno reso straordinario il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa. È già di per sé un evento importante che Pietro sia di nuovo tornato nei luoghi da dove il primo degli apostoli era partito millenni fa, ed esattamente 50 anni dopo la visita di Paolo VI, primo tra i Papi a compiervi un pellegrinaggio (4-6 gennaio 1964). È importante che Francesco abbia voluto abbracciare l’attuale Patriarca ecumenico Bartolomeo I come già Paolo VI aveva scambiato un abbraccio di pace e di reciproca richiesta di perdono con Atenagora, connotando così il suo viaggio come un passo ulteriore nel dialogo ecumenico. Ed è stato ugualmente importante che Francesco abbia voluto incoraggiare i cristiani che vivono in Giordania, nei Territori dell’autonomia palestinese, e in Israele, sottolineando le prove che questi vivono e rivolgendosi con gratitudine anche a quei religiosi e sacerdoti (tra cui anzitutto i francescani della Custodia) che custodiscono i luoghi santi. Ma sono stati anche i fuori-programma che hanno reso le tre giornate di Francesco così speciali. Ne scegliamo due. Anzitutto, l’immagine dei due “muri”. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si erano recati al Muro occidentale (il “muro del pianto”), ribadendo una continuità non solo storica ma soprattutto teologica tra l’ebraismo e il cristianesimo. Ma solo di Papa Francesco rimarrà l’istantanea di una particolarissima preghiera davanti a un altro muro, quello che - anche fisicamente - divide lo Stato di Israele dalla Palestina, e segnala in modo evidentissimo il perdurare di un conflitto. Senza bisogno di pronunciare alcuna parola, Francesco ha posato la mano e il capo su quel blocco di cemento armato che, se da una parte difende gli israeliani da quegli attentati che creavano terrore in Terra Santa, dall’altra però provoca anche altro dolore e separazione. È proprio lì dove si perpetua ogni sofferenza - di qualsivoglia origine politica o ideologica - che Francesco ha voluto lasciare un segno non tanto di accusa, quanto piuttosto di partecipazione: per dire che lì, anche lì, dove un muro di separazione è l’esatto contrario di quanto significato da quell’altro tratto di muro (quello erodiano, che sosteneva l’antico tempio di Dio), proprio lì deve essere annunciato il Vangelo della mitezza, della pace, del perdono. Poi le parole e i gesti allo Yad Vashem. Anche altri Papi avevano pronunciato discorsi al museo della Memoria dello sterminio degli ebrei. Rispetto a quanto aveva detto Papa Ratzinger l’11 maggio 2009 al mausoleo della Shoah (“Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose e imperscrutabili vie”), o ancor prima al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006, centrando soprattutto la questione su Dio e la domanda sulla Sua assenza (“Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”), Papa Francesco ha aggiunto un’ulteriore prospettiva. La domanda di Papa Benedetto veniva da molto lontano, e si era fatta strada già nella seconda metà dello scorso secolo, anche grazie a ebrei come Elie Wiesel o Emil Fackenheim e Martin Buber, o cattolici come il teologo Johann Baptist Metz, i quali ritenevano che, dopo Auschwitz, la teologia dovesse cambiare, anzi era già totalmente cambiata. Ma quella domanda necessitava anche di un’ulteriore sguardo, colto questa volta da Bergoglio. Alla domanda su dove fosse Dio, deve essere affiancata quella sull’uomo. Il teologo Metz scriveva proprio così: “La questione teologica, dopo Auschwitz, non è solo: dov’era Dio ad Auschwitz? È anche: dov’era l’umanità ad Auschwitz? Questa catastrofe ha spezzato le fasce di solidarietà fra tutti coloro che hanno un volto umano”. Papa Francesco ha completato con il suo viaggio la drammatica riflessione che sta svolgendo con tutto il suo magistero a riguardo delle marginalità e le periferie dell’esistenza umana. Ha fatto risuonare a Gerusalemme anche la domanda all’uomo, la domanda originaria che Dio gli rivolge, e che non cessa di interpellare tutti nelle nostre responsabilità: “In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: ‘Adamo, dove sei?’. In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: ‘Dove sei?’, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo”. A coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto e sono stati presentati al Papa allo Yad Vashem, Francesco ha baciato le mani, imprimendo con quel gesto, per sempre, tutto quanto si poteva dire o domandare: a Dio e all’Uomo.]]>

Papa-betlemme-bnDiverse sono le ragioni che hanno reso straordinario il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa. È già di per sé un evento importante che Pietro sia di nuovo tornato nei luoghi da dove il primo degli apostoli era partito millenni fa, ed esattamente 50 anni dopo la visita di Paolo VI, primo tra i Papi a compiervi un pellegrinaggio (4-6 gennaio 1964). È importante che Francesco abbia voluto abbracciare l’attuale Patriarca ecumenico Bartolomeo I come già Paolo VI aveva scambiato un abbraccio di pace e di reciproca richiesta di perdono con Atenagora, connotando così il suo viaggio come un passo ulteriore nel dialogo ecumenico. Ed è stato ugualmente importante che Francesco abbia voluto incoraggiare i cristiani che vivono in Giordania, nei Territori dell’autonomia palestinese, e in Israele, sottolineando le prove che questi vivono e rivolgendosi con gratitudine anche a quei religiosi e sacerdoti (tra cui anzitutto i francescani della Custodia) che custodiscono i luoghi santi. Ma sono stati anche i fuori-programma che hanno reso le tre giornate di Francesco così speciali. Ne scegliamo due. Anzitutto, l’immagine dei due “muri”. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si erano recati al Muro occidentale (il “muro del pianto”), ribadendo una continuità non solo storica ma soprattutto teologica tra l’ebraismo e il cristianesimo. Ma solo di Papa Francesco rimarrà l’istantanea di una particolarissima preghiera davanti a un altro muro, quello che - anche fisicamente - divide lo Stato di Israele dalla Palestina, e segnala in modo evidentissimo il perdurare di un conflitto. Senza bisogno di pronunciare alcuna parola, Francesco ha posato la mano e il capo su quel blocco di cemento armato che, se da una parte difende gli israeliani da quegli attentati che creavano terrore in Terra Santa, dall’altra però provoca anche altro dolore e separazione. È proprio lì dove si perpetua ogni sofferenza - di qualsivoglia origine politica o ideologica - che Francesco ha voluto lasciare un segno non tanto di accusa, quanto piuttosto di partecipazione: per dire che lì, anche lì, dove un muro di separazione è l’esatto contrario di quanto significato da quell’altro tratto di muro (quello erodiano, che sosteneva l’antico tempio di Dio), proprio lì deve essere annunciato il Vangelo della mitezza, della pace, del perdono. Poi le parole e i gesti allo Yad Vashem. Anche altri Papi avevano pronunciato discorsi al museo della Memoria dello sterminio degli ebrei. Rispetto a quanto aveva detto Papa Ratzinger l’11 maggio 2009 al mausoleo della Shoah (“Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose e imperscrutabili vie”), o ancor prima al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006, centrando soprattutto la questione su Dio e la domanda sulla Sua assenza (“Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”), Papa Francesco ha aggiunto un’ulteriore prospettiva. La domanda di Papa Benedetto veniva da molto lontano, e si era fatta strada già nella seconda metà dello scorso secolo, anche grazie a ebrei come Elie Wiesel o Emil Fackenheim e Martin Buber, o cattolici come il teologo Johann Baptist Metz, i quali ritenevano che, dopo Auschwitz, la teologia dovesse cambiare, anzi era già totalmente cambiata. Ma quella domanda necessitava anche di un’ulteriore sguardo, colto questa volta da Bergoglio. Alla domanda su dove fosse Dio, deve essere affiancata quella sull’uomo. Il teologo Metz scriveva proprio così: “La questione teologica, dopo Auschwitz, non è solo: dov’era Dio ad Auschwitz? È anche: dov’era l’umanità ad Auschwitz? Questa catastrofe ha spezzato le fasce di solidarietà fra tutti coloro che hanno un volto umano”. Papa Francesco ha completato con il suo viaggio la drammatica riflessione che sta svolgendo con tutto il suo magistero a riguardo delle marginalità e le periferie dell’esistenza umana. Ha fatto risuonare a Gerusalemme anche la domanda all’uomo, la domanda originaria che Dio gli rivolge, e che non cessa di interpellare tutti nelle nostre responsabilità: “In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: ‘Adamo, dove sei?’. In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: ‘Dove sei?’, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo”. A coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto e sono stati presentati al Papa allo Yad Vashem, Francesco ha baciato le mani, imprimendo con quel gesto, per sempre, tutto quanto si poteva dire o domandare: a Dio e all’Uomo.]]>
Il Papa in Terrasanta: intervista a padre Pizzaballa https://www.lavoce.it/il-papa-in-terrasanta-intervista-a-padre-pizzaballa/ Fri, 23 May 2014 12:40:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25063 Incontro tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora nell’ottobre del 1967
Incontro tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora nell’ottobre del 1967

Novene di preghiera, tempi di adorazione, digiuni e visite ai più bisognosi: così la comunità cristiana di Gerusalemme si prepara ad accogliere Papa Francesco nel suo viaggio che lo porterà prima ad Amman, poi a Betlemme e infine a Gerusalemme (24-26 maggio). Qui, presso la basilica del Santo Sepolcro, il Pontefice incontrerà Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, a 50 anni dallo storico abbraccio tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora. Nella Città santa sale l’attesa, sebbene non manchino motivi di preoccupazione legati alle violenze anticristiane di queste ultime settimane causate da gruppi di religiosi ultraortodossi. “Siamo preoccupati, ma non più di tanto – dice il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa. – La presenza del Papa è solo un pretesto per questi gruppi per avere visibilità”.

Padre Pizzaballa, come è il clima in Israele?

“La stragrande maggioranza della popolazione israeliana attende Papa Francesco. Il 13 maggio alla Knesset, il Parlamento israeliano, sono stati commemorati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II e si è parlato anche della visita di Francesco. Per l’occasione, il Parlamento ha condannato ogni forma di estremismo. La destra religiosa si è organizzata in forme mai viste in precedenza, non tanto contro la visita quanto contro il significato che essa potrà avere. Stiamo assistendo a episodi di intolleranza violenta, fomentati da alcuni rabbini estremisti, che non dobbiamo sottovalutare perché fanno molto danno, ma che vanno considerati nelle loro giuste proporzioni. Per esempio, si doveva tenere una manifestazione sul monte Sion, dove è il Cenacolo, con migliaia di persone a protestare contro l’accordo tra Santa Sede e Israele, ma i partecipanti non erano più di 300. Questi gruppi oltranzisti non rappresentano gli umori prevalenti nella società israeliana. Nei luoghi visitati, il Pontefice avrà una grande accoglienza. Le misure di sicurezza saranno pesantissime, e non ci saranno bagni di folla”.

Tutta la visita ruoterà intorno alla basilica del Santo Sepolcro: 50 anni fa, Paolo VI e Atenagora s’incontrarono nella periferia di Gerusalemme. Ma quel Sepolcro è anche il simbolo delle divisioni dei cristiani…

“L’evento principale sarà al Santo Sepolcro dove Papa Francesco e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, s’incontreranno in un evento simile organizzato insieme, per la prima volta, dalla Chiesa cattolica e da quella greco-ortodossa. Cosa che acquista rilievo anche per i problemi legati allo statu quo. Sarà una cerimonia ecumenica alla presenza di circa 400 persone. Si tratta di un segno molto forte che getta le basi per il futuro”.

La visita avrà anche una valenza interreligiosa, con il passaggio allo Yad Vashem e le visite al Gran muftì di Gerusalemme e ai due Gran rabbini di Israele. Con quali effetti per il dialogo?

“Il desiderio del Papa di incontrare tutte le componenti religiose è un segno importante di dialogo e di amicizia che, è bene dirlo, non avrà effetti immediati. Tuttavia, che i leader religiosi si vedano è un esempio soprattutto per i giovani. Significativa sarà la visita al Muro occidentale. Un momento di rispetto, e se si vuole chiamare di preghiera, nei confronti non solo dello Stato di Israele ma di tutto il popolo israeliano, che ha nel Muro il luogo santo per eccellenza”.

Se dal punto di vista del dialogo interreligioso non ci saranno effetti immediati, forse da quello politico si potrebbe muovere qualcosa?

“Mi auguro che questo viaggio possa dare impulso alla ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, ma temo che non accadrà. Papa Francesco potrà incoraggiare la pace, ma il negoziato deve essere voluto dalle due parti. E questa volontà non la vedo all’orizzonte”.

Nei tre giorni di visita, il Papa sarà anche a Betania in Giordania, dove incontrerà dei rifugiati siriani, e a Betlemme, città palestinese circondata dal muro israeliano.

“Quello che avverrà a Betania oltre il Giordano, sito del Battesimo, dove il Papa incontrerà anche dei rifugiati siriani, è molto significativo. La Siria, nel Medio Oriente, è la zona a più alta tensione, e questo gesto è espressione di solidarietà. La presenza del Papa non cambierà certo il corso degli eventi siriani, ma sarà un abbraccio importante”.

E a Betlemme?

“A Betlemme, prima ancora delle parole saranno significativi i gesti: il Papa vedrà il Muro, passerà nel campo profughi. Ripeto: non cambierà il corso degli eventi, ma qui la gente ha bisogno di soluzioni e di consolazione, di qualcuno che dica loro: ecco, io sono con voi”.

Papa Francesco celebrerà una messa nella sala del Cenacolo, oggetto di discussione per l’accordo fondamentale tra Israele e Santa Sede. C’è qualche legame con l’attesa firma dell’accordo?

“Il Papa celebrerà la messa come fece Giovanni Paolo II. Questa celebrazione ha scatenato gli elementi religiosi israeliani in un modo mai visto in precedenza. Circa l’Accordo fondamentale, siamo in una fase di stallo, a ogni modo si va avanti e mi auguro che entro questo 2014 si possa chiudere”.

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Papa in Terra Santa: incontri politici, ecumenici, interreligiosi https://www.lavoce.it/papa-in-terra-santa-incontri-politici-ecumenici-interreligiosi/ Fri, 16 May 2014 07:47:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25005

[caption id="attachment_25008" align="alignleft" width="400"]Gerusalemme, veduta del quartiere cristiano della città vecchia. In primo piano, a destra, le cupole della Basilica del Santo Sepolcro Gerusalemme, veduta del quartiere cristiano della città vecchia. In primo piano, a destra, le cupole della Basilica del Santo Sepolcro[/caption] Grande attesa per il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa il 24-26 maggio. Un viaggio di grande valore simbolico, ecumenico - in memoria dell’incontro tra Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli, Atenagora, nel 1964 - e interreligioso, e in nome della pace, dato che Bergoglio toccherà il suolo di tre nazioni: Giordania, Israele e Territori palestinesi, che peraltro il Vaticano già definisce “Stato di Palestina”. In preparazione all’evento è stata promossa una novena di preghiera dal 14 al 22 maggio: le varie Chiese cristiane di Gerusalemme in tal modo intendono sostenere spiritualmente il pellegrinaggio e l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo, successore di Atenagora. L’incontro si svolge esattamente 50 anni dopo quello storico, e proprio a Gerusalemme, tra Montini e il Patriarca di Costantinopoli; incontro che ha segnato un nuovo inizio nelle relazioni fra le Chiese cattoliche e ortodosse. La novena consiste di momenti di preghiera nei luoghi santi, sia individuali sia comunitari, con digiuni e liturgie. Incontri di preghiera comunitari si svolgeranno a turno nelle diverse chiese della Città santa; sono invitate a partecipare tutte le diverse comunità cristiane. Si è cominciato mercoledì, 14 maggio, con un giorno di digiuno e una adorazione della Croce nella cappella greco-ortodossa del Golgota. Ieri, giovedì, un tempo di adorazione, e la Via crucis presso il Patriarcato armeno cattolico. Nei giorni seguenti la comunità cristiana, oltre a partecipare ai vari momenti di preghiera, è invitata a fare visita ad amici, familiari o a malati e poveri. Fino al 22 maggio, tutte le Chiese cristiane di Gerusalemme saranno impegnate nell’iniziativa di preparazione. Intanto, già il 24 aprile una delegazione dell’Autorità palestinese si era recata al Patriarcato latino di Gerusalemme per gli auguri pasquali. Durante l’incontro si era parlato della visita di Papa Francesco “sotto un’angolatura più politica”. Era stato esaminato l’accordo di riconciliazione tra l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e Hamas, le formazioni politiche palestinesi che governano rispettivamente sui Territori e sulla Striscia di Gaza. L’accordo prevede la formazione di un Governo di unità nazionale. Anche se l’iniziativa è condannata dal Governo israeliano, che rifiuta ogni contatto con Hamas (che, a sua volta, non riconosce Israele), mons. William Shomali, vicario patriarcale per Gerusalemme e la Palestina, ha formulato auguri di successo per la formazione di un futuro Governo, augurandosi che “i cristiani non cessino di cercare l’unità ogni giorno e in ogni momento”. [caption id="attachment_24945" align="alignleft" width="350"]Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964 Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964[/caption] Il programma del viaggio papale è intenso. Qui di seguito, le tappe più significative. Sabato 24 maggio: ore 13, arrivo all’aeroporto di Amman in Giordania - a seguire, cerimonia di benevenuto al palazzo reale - ore 16, messa allo stadio di Amman - ore 19, visita al luogo in cui battezzava Giovanni il Battista, quindi incontro con rifugiati e disabili. Domenica 25 maggio: ore 9.20 arrivo all’eliporto di Betlemme, e visita di cortesia al Presidente palestinese - ore 11, messa nella piazza della Mangiatoia - pranzo con famiglie - ore 15, il Papa visita la grotta della Natività, quindi un campo profughi - ore 16.30, benevenuto all’aeroporto “Ben Gurion” di tel Aviv, poi trasferimento in elicottero a Gerusalemme - ore 18.15 incontro con Bartolomeo I e firma di una Dichiarazione congiunta - ore 19, incontro ecumenico nella basilica del Santo Sepolcro. Lunedì 26 maggio: ore 8.15, visita al Gran Muftì di Gerusalemme - ore 9.10, visita al Muro occidentale del Tempio - ore 10, allo Yad Vashem - ore 10.45, visita ai due Gran Rabbini di Israele - ore 11.45, visita al Presidente israeliano - ore 13, udienza privata con il Premier israeliano - ore 16, incontro con sacerdoti e religiosi presso il Getsemani - ore 17.20, messa nel Cenacolo con i Vescovi di Terra Santa - ore 20.15 partenza per Roma.]]>

[caption id="attachment_25008" align="alignleft" width="400"]Gerusalemme, veduta del quartiere cristiano della città vecchia. In primo piano, a destra, le cupole della Basilica del Santo Sepolcro Gerusalemme, veduta del quartiere cristiano della città vecchia. In primo piano, a destra, le cupole della Basilica del Santo Sepolcro[/caption] Grande attesa per il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa il 24-26 maggio. Un viaggio di grande valore simbolico, ecumenico - in memoria dell’incontro tra Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli, Atenagora, nel 1964 - e interreligioso, e in nome della pace, dato che Bergoglio toccherà il suolo di tre nazioni: Giordania, Israele e Territori palestinesi, che peraltro il Vaticano già definisce “Stato di Palestina”. In preparazione all’evento è stata promossa una novena di preghiera dal 14 al 22 maggio: le varie Chiese cristiane di Gerusalemme in tal modo intendono sostenere spiritualmente il pellegrinaggio e l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo, successore di Atenagora. L’incontro si svolge esattamente 50 anni dopo quello storico, e proprio a Gerusalemme, tra Montini e il Patriarca di Costantinopoli; incontro che ha segnato un nuovo inizio nelle relazioni fra le Chiese cattoliche e ortodosse. La novena consiste di momenti di preghiera nei luoghi santi, sia individuali sia comunitari, con digiuni e liturgie. Incontri di preghiera comunitari si svolgeranno a turno nelle diverse chiese della Città santa; sono invitate a partecipare tutte le diverse comunità cristiane. Si è cominciato mercoledì, 14 maggio, con un giorno di digiuno e una adorazione della Croce nella cappella greco-ortodossa del Golgota. Ieri, giovedì, un tempo di adorazione, e la Via crucis presso il Patriarcato armeno cattolico. Nei giorni seguenti la comunità cristiana, oltre a partecipare ai vari momenti di preghiera, è invitata a fare visita ad amici, familiari o a malati e poveri. Fino al 22 maggio, tutte le Chiese cristiane di Gerusalemme saranno impegnate nell’iniziativa di preparazione. Intanto, già il 24 aprile una delegazione dell’Autorità palestinese si era recata al Patriarcato latino di Gerusalemme per gli auguri pasquali. Durante l’incontro si era parlato della visita di Papa Francesco “sotto un’angolatura più politica”. Era stato esaminato l’accordo di riconciliazione tra l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e Hamas, le formazioni politiche palestinesi che governano rispettivamente sui Territori e sulla Striscia di Gaza. L’accordo prevede la formazione di un Governo di unità nazionale. Anche se l’iniziativa è condannata dal Governo israeliano, che rifiuta ogni contatto con Hamas (che, a sua volta, non riconosce Israele), mons. William Shomali, vicario patriarcale per Gerusalemme e la Palestina, ha formulato auguri di successo per la formazione di un futuro Governo, augurandosi che “i cristiani non cessino di cercare l’unità ogni giorno e in ogni momento”. [caption id="attachment_24945" align="alignleft" width="350"]Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964 Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964[/caption] Il programma del viaggio papale è intenso. Qui di seguito, le tappe più significative. Sabato 24 maggio: ore 13, arrivo all’aeroporto di Amman in Giordania - a seguire, cerimonia di benevenuto al palazzo reale - ore 16, messa allo stadio di Amman - ore 19, visita al luogo in cui battezzava Giovanni il Battista, quindi incontro con rifugiati e disabili. Domenica 25 maggio: ore 9.20 arrivo all’eliporto di Betlemme, e visita di cortesia al Presidente palestinese - ore 11, messa nella piazza della Mangiatoia - pranzo con famiglie - ore 15, il Papa visita la grotta della Natività, quindi un campo profughi - ore 16.30, benevenuto all’aeroporto “Ben Gurion” di tel Aviv, poi trasferimento in elicottero a Gerusalemme - ore 18.15 incontro con Bartolomeo I e firma di una Dichiarazione congiunta - ore 19, incontro ecumenico nella basilica del Santo Sepolcro. Lunedì 26 maggio: ore 8.15, visita al Gran Muftì di Gerusalemme - ore 9.10, visita al Muro occidentale del Tempio - ore 10, allo Yad Vashem - ore 10.45, visita ai due Gran Rabbini di Israele - ore 11.45, visita al Presidente israeliano - ore 13, udienza privata con il Premier israeliano - ore 16, incontro con sacerdoti e religiosi presso il Getsemani - ore 17.20, messa nel Cenacolo con i Vescovi di Terra Santa - ore 20.15 partenza per Roma.]]>
STORIA. Insieme a don Ottavio Posta, a salvare gli ebrei di isola Maggiore nel 1944 c’era un poliziotto, Giuseppe Baratta https://www.lavoce.it/storia-insieme-a-don-ottavio-posta-a-salvare-gli-ebrei-di-isola-maggiore-nel-1944-cera-un-poliziotto-giuseppe-baratta/ Thu, 27 Mar 2014 14:29:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=23938 GIUSEPPE-BARATTA-bnUn altro tassello della vicenda relativa alla liberazione degli ebrei da isola Maggiore, dove erano stati deportati dai tedeschi, trova dopo settant’anni una sua collocazione.

Si deve ancora una volta al ricercatore Gianfranco Cialini e ai suoi studi fatti nell’Archivio di Stato di Perugia, se si è riusciti a dare un nome e un cognome all’agente (citato dall’ebrea Livia Coen nella testimonianza resa in tribunale nel 1945) che insieme a don Ottavio Posta salvò gli ebrei nel 1944 dalla rappresaglia tedesca.

Si tratta dell’agente di polizia della questura di Perugia Giuseppe Baratta. Per il suo contributo nel salvataggio, fu arrestato dai tedeschi e solo ‘miracolosamente’ risparmiato dalla fucilazione.

Le ricerche documentano che il cognome Baratta compariva già nelle testimonianze di alcuni abitanti di Isola e di un ebrea salvata. Nel 1944, infatti, vi era in organico della questura di Perugia l’agente Giuseppe Baratta, nato a Perito (Salerno), arruolato nella polizia nel 1940; dopo Perugia, presterà servizio alla questura di Forlì e di Ancona, dove morirà nel 1994.

Il figlio, rintracciato dallo stesso Cialini, ha confermato la presenza del padre a isola Maggiore e il particolare della salvezza in extremis.

Fin a oggi si è parlato, a ragione, del solo ‘regista’ dell’eroica operazione, don Ottavio Posta che, nelle ore nottume del 19 e 20 giugno, fece trasferire i ricercati con barche di pescatori locali da isola Maggiore, ancora in mano dei tedeschi, a Sant’Arcangelo di Magione dove li affidò agli Alleati, salvandoli così da morte certa. Per questo gesto eroico il sacerdote ha ottenuto la Medaglia d’oro alla memoria dal Presidente della Repubblica nel 2008 e, nel 2011, il riconoscimento di Giusto tra le nazioni dallo Stato d’Israele (che si ottenne anche grazie alla documentazione da me raccolta e consegnata allo Yad Vashem di Gerusalemme). Con quest’ultima scoperta Cialini, dopo aver ritrovato nel 2013 in Francia un ebreo salvato nella stessa vicenda, Henry Levi, consente di ricostruire un altro pezzo importante d tutta la vicenda.

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La clarissa madre Biviglia “Giusto tra le Nazioni” https://www.lavoce.it/la-clarissa-madre-biviglia-giusto-tra-le-nazioni/ Fri, 06 Dec 2013 15:06:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=20957 Biviglia 1934Martedì 10 dicembre 2013, presso la sede comunale di Foligno, avrà luogo una solenne cerimonia per il conferimento del titolo di “Giusto tra le nazioni” a Suor Maria Giuseppina Biviglia, madre abbadessa del monastero di clausura delle suore clarisse di S. Quirico in Assisi, che durante l’occupazione tedesca della città, e precisamente dall’ottobre 1943 al giugno 1944, accolse e protesse clandestinamente alcuni ebrei e altre vittime della persecuzione nazi-fascista.

***

Oltre a qualche decina di ebrei, anche altri rifugiati clandestini in Assisi riuscirono a munirsi di documenti falsi per non essere riconosciuti dai nazi-fascisti.
Alcuni di costoro avevano trovato rifugio presso il monastero di clausura di S. Quirico grazie all’intervento di mons. Giuseppe Placido Nicolini, vescovo della Diocesi serafica, al quale quei perseguitati si erano fiduciosamente rivolti.
Il giornale “La Riscossa”, organo del movimento fascista repubblicano di Perugia, in data 25 marzo 1944 pubblicava un breve articolo la cui importanza risultava evidente dal titolo su tre colonne: «La cattura del col. Gay dell’Armata Caracciolo, di un disertore, di due slavi e di altri due italiani muniti di documenti falsi».
Questo il contenuto:

«Nel convento delle clarisse di S. Quirico in Assisi il Nucleo Investigativo della Polizia repubblicana ha tratto in arresto il colonnello di stato maggiore Paolo Gay, già ufficiale «I» della quinta armata al comando del Gen. Caracciolo di Ferroreto, a suo tempo sorpreso in un convento di francescani. Il Gay era fornito di documenti falsi ed il suo nome non risultava nell’apposito registro di P.S. che le monache hanno per l’esercizio della foresteria.

Sono stati, altresì, tratti in arresto quali ospiti dello stesso convento due slavi e due giovani italiani, uno dei quali ufficiale della ex R. Aeronautica. Due di questi individui erano forniti, come il Gay, di falsi documenti di identificazione personale. Inoltre, sempre ad opera del Nucleo Investigativo, nel convento dei frati cappuccini di Monte Malbe, è stato catturato ed arrestato un soldato disertore».

 

Pertanto, cinque dei sei arrestati (tranne il «disertore» catturato nel convento di Monte Malbe) erano stati scovati dalla polizia fascista nel monastero di S. Quirico, dove avevano trovato rifugio varie persone di diversa religione e parte politica, come si legge nella “Cronaca” del monastero, redatta dalla madre abbadessa suor Maria Giuseppina Biviglia:

«Le persone che si rifugiarono da noi, furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi, tutte oneste, rette, buone, e anche religiose, tanto i cattolici quanto gli Ebrei. Venne qualche fascista durante il Governo Badoglio e dopo l’entrata degli Americani; qualche socialista in certi momenti di pericolo, durante la Repubblica sociale. Subito dopo l’8 settembre avemmo ufficiali e soldati del R. Esercito ligi al giuramento costituzionale, e poco più tardi un folto numero di ebrei (era proprio un’arca di Noè).
Un gruppetto di questa gente, ossia gli Ufficiali e gli uomini giovani degli Ebrei (Ebrei di confessione o anche soltanto di razza) rimasero celati nel grande dormitorio dall’arrivo sino all’infausto 27 febbraio del ‘44: invece le famiglie (donne e parenti anziani) erano negli alti ambienti di foresteria, come ospiti privati, come sfollati dalle proprie città per pericoli aerei, ma sotto mentite spoglie. Ogni tanto questa povera gente si spostava: qualcuno andava in altro alloggio, qualche altro veniva a prendere il suo posto; erano misure precauzionali, onde far perdere le loro tracce (sic) in caso di ricerche da parte della Polizia».

 

Come abbiamo detto, gli arresti ebbero luogo il 27 febbraio 1944. Così suor Giuseppina rievoca quei drammatici momenti:

«Il giorno prima, 26, due dei nostri giovani (un croato già evaso da un campo di concentramento della Jugoslavia, e un Ufficiale dell’aviazione Italiana) si erano tolti al loro rifugio per unirsi ad altri due o tre compagni, per una corsa a Perugia in bicicletta, con proposito di ritornare al più presto: ma il viaggio di ritorno fu loro fatale, perché, causa l’accento straniero del giovane croato, tutta la comitiva fu sospetta a certi agenti della R. S. (che cercavano appunto in quei giorni un delinquente croato) e da questi tratto in arresto. Lo stesso giovane, al primo interrogatorio, non seppe schernirsi dal dichiarare il suo luogo di abitazione, il nostro monastero, e perciò il 27 mattina, domenica, gli agenti erano qui per un sopralluogo, dopo di aver fatto circondare da forze il monastero stesso. I funzionari della R. S. entrarono per l’ispezione della Foresteria e poi vollero che mi presentassi alla grata. Dopo un penosissimo colloquio, durante il quale quasi tutta la Comunità si era raccolta in Coro a pregare, mi convenne mostrar loro il dormitorio grande, ossia l’appartato luogo di rifugio degli Ufficiali e dei giovani Ebrei. In quel momento là dentro, c’erano i due fratelli Maionica e il Colonnello Gay che dormivano saporitamente: si ebbe appena il tempo di far entrare in clausura i due fratelli, mentre il Col. Gay affidato alla speranza d’aver libero passaggio tra i Funzionari e gli Agenti, a causa de’ suoi capelli bianchi (infatti essi cercavano solo di stabilire la verità dei fatti denunciati dagli arresti, che riguardavano soltanto la loro persona) credette di poter uscire ma fu invece fermato nell’ortino e coi funzionari condotto al Dormitorio, affinché egli stesso desse informazioni su se stesso, sui suoi compagni e sui motivi della sua presenza in questo luogo. Il Col. dichiarò in seguito l’esser suo.
Va ricordato che fra il settembre ’43 e il febbraio ’44, la nostra pattuglietta di rifugiati, conosciuta l’esistenza della grotta sotterranea con unico ingresso in discesa dall’ortino di Foresteria, l’avevano giudicato un buon luogo di rifugio in un caso estremo, purché si togliessero le tracce (sic) dell’ingresso suaccennato e si aprisse una botola entro la clausura. Con lungo lavoro avevano realizzato il progetto e ciò si mostrò veramente provvidenziale la mattina del febbraio ’44, quando si trattò di salvare almeno i fratelli Maionica, con la loro roba: anzi, la stessa grotta servì da nascondiglio anche a tante cose preziose e care di tutti gli ospiti in quel momento di panico.
Dunque, alla porta tra il Dormitorio e la Clausura, ebbe luogo altro increscioso colloquio tra i Funzionari, il Colonnello e me. Le affrettate misure prese lì per lì per occultare la presenza dei due fratelli non avevano potuto prevedere tutto, ed infatti, oltre il letto del Col. Gay che figurava d’essere il solo rifugiato in quel giorno – dopo l’arresto degli altri – trovarono anche un altro letto caldo, quello che uno dei fratelli aveva appena abbandonato in fretta e in furia […]. Così i funzionari, avendo dovuto aspettare per qualche momento, ebbero la sicurezza che qualcuno, in quel tempo, era fuggito per la clausura ove minacciarono di entrare, progetto non effettuato, perché, dietro la mia parola affermativa – “entrino pure e si accertino da loro” – immaginarono impossibile il fatto che il fuggitivo si fosse trattenuto in clausura, ma solo che attraverso a questa da noi favorito, si fosse dato alla fuga: allora, esasperati, minacciarono di condurmi in prigione; io risposi con una franchezza insolita: “Eccomi pronta; munitevi del permesso, perché son monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione”. Per grazia di Dio non ne fu nulla. Dio sa quanto mi premeva la sorte di quei due poveri giovani, quanto tremavo anche per il Monastero e con quale intimo spasimo cercassi di mostrarmi calma e sicura […]».

La lunga “Cronaca” così continua:

«Come detto, nello stesso giorno tutti i nostri ospiti straordinari sparirono, o meglio cambiarono alloggio: quanto ai fratelli Maionica, rimasero tutto il giorno a patire freddo nella Grotta che si era mostrata così provvida all’atto pratico, col buio della sera uscirono con le loro valigie e, accompagnati dal Guardiano di S. Damiano (ch’era allora Padre Rufino Niccacci, sic) se ne andarono in un altro alloggio. Quanto invece agli arrestati, ebbero a soffrire parecchi mesi di prigionia, addolcita peraltro dalla presenza delle Suore delle Carceri, essendo stati posti in quello ch’era il reparto femminile, alle dipendenze delle Suore appunto. In tempi diversi uscirono tutti, grazie a Dio, sani e salvi. E tutti serbarono amicizia e riconoscenza anche verso il nostro Monastero e verso tutte le persone che li avevano aiutati. La Domenica appresso dell’interrogatorio, cioè il giorno 5 marzo, io ne subii un altro da parte del Vice Questore di Perugia d’un Brigadiere e del Commissario di Polizia di Assisi, per la stesura del Verbale relativo agli arrestati: colloquio come il primo, assai increscioso. E poi non ebbi più noie».

Dopo quegli avvenimenti, tutti coloro che avevano ricevuto generosa e rischiosa ospitalità nel monastero di S. Quirico «serbarono amicizia e riconoscenza» verso il monastero, come testimoniano queste due lettere, posteriori di circa quarant’anni rispetto agli aventi narrati, inviate alla madre abbadessa di S. Quirico da Paolo Gay, colonnello di artiglieria del Ministero della Guerra.

La prima, datata Torino 5 gennaio 1982, è del seguente tenore:

«Grazie a Lei, Rev.ma madre Abbadessa e alle Rev.de Consorelle Sue per il prezioso dono che mi hanno inviato. Esso mi venne recapitato alla vigilia del S. Natale e formò oggetto delle mie letture per il periodo delle sante Feste, suscitando in me ondate di ricordi seguite da altrettante ondate di commozione profonda.
Credevo di conoscere tutto della instancabile e tanto benemerita attività del compianto P. Rufino a pro dei profughi, degli sbandati e dei perseguitati durante il periodo clandestino, in ciò generosamente coadiuvato dalla intera comunità di S. Quirico sotto la saggia e avveduta guida della Rev.ma Madre Abbadessa sr. Giuseppina Beviglia, sic). Ignoravo invece i molteplici episodi, talora veramente drammatici dei quali Egli fu eroe, come ad esempio la spedizione in Abruzzo; i suoi contatti con S. Eminenza il cardinale Dalla Costa per i bisognosi della Toscana; i Suoi incontri e scontri con il capitano delle S.S. Von den Welde che lo trattenne in carcere a Bastia torturandolo per alcuni giorni – senza acqua e cibo – per carpigli i segreti dell’organizzazione sorta in Assisi e della quale era a capo. Egli, degno epigono di tutte le virtù di S. Francesco, per umiltà, non amava parlare di sé.
Per connessione di idee sono portato a pensare che anche la rev. Madre Giuseppina Beviglia (della quale conservo sempre un ricordo meraviglioso e ammirato) può essere considerata degna epigona di s. Chiara, la gloriosa e coraggiosa fondatrice del Vostro Ordine.
E sono lieto di aver potuto leggere nel libro donatomi che anch’essa ha ricevuto dai Suoi beneficati ora in Israele una medaglia a titolo di riconoscenza.
Mentre rinnovo i miei ringraziamenti più cordiali porgo Loro i saluti di mia moglie unitamente alla mia indefettibile gratitudine.
Paolo Gay

P.S. a parte ho spedito un modesto obolo a mezzo vaglia postale, che nella mia intenzione dovrebbe servire per il Culto della Loro Suggestiva Cappella, fra cui quello di farvi celebrare in essa una S. Messa (letta) in suffragio dell’Anima di P. Rufino quando Ella, Rev.da Madre, crederà più opportuno.
Devotamente, Paolo Gay».

 

In un’altra missiva del “Lunedì dell’Angelo 1982”, il col. Gay così scriveva:

«Rev.ma Madre Abbadessa, nel godere che sia cessato l’affanno della intera Sua Comunità allarmata per la salute contemporanea di ben due Reverende Consorelle (che voglio augurarmi siano già guarite e ritornate al monastero) Le manifesto la mia grande soddisfazione per il modo felicissimo con il quale si sono svolte – in Assisi – le cerimonie delle “Giornate degli Ebrei Italiani” con esaltazione, meritatissima, del Suo Monastero!
Su esse mi ha già adeguatamente riferito la gent.ma Signora Hella Kropf, con scritto e bellissime fotografie, che terrò assai care, soprattutto quelle con effigi della indimenticabile coraggiosa Madre Giuseppina Beviglia e di Suor Alfonsina sempre sorridente e serena, come già in quei giorni, non certo lieti, nei quali l’ho conosciuta».

 

Nella lettera precedente, il col.Gay nominava la sig.ra Hella Kropf, moglie di uno dei due “slavi” arrestati nel monastero di S. Quirico il 27 febbraio 1944, Giorgio Kropf, che si spacciava, con documenti falsi, per “Giorgio Cianura”, del cui arresto, avvenuto con gli altri tre ‘ospiti’ del monastero di S. Quirico, si ha ampia notizia da una comunicazione “riservata” dell’Ufficio Provinciale di Perugia della Polizia Repubblicana, inviata alla Questura di Assisi in data 29 febbraio 1944, che così inizia:

«Il giorno 26 corr., alle ore 16 circa un militare dell’ufficio scrivente, insospettito dal loro atteggiamento invitava in ufficio per l’opportuno riconoscimento quattro giovani in possesso di documenti che avrebbero dovuto farli conoscere per: I) Macri Paolo fu Eugenio; II) Facco Bruno di Angelo; III) Podda Antonio fu Giuseppe; iv) Cianura Giorgio di Cosimo ecc.».

 

Circa un mese dopo la liberazione di Assisi da parte alleata, avvenuta il 17 giugno 1944, il segretario capo del Comune avv. Mario Vannini rilasciava il seguente attestato sul conto di Giorgio Kropf, alias Giorgio Cianura: «Si attesta che il Sig. Giorgio Cianura (Giorgio Kropf) – già interprete presso il Comando Tedesco 1018 (alimentazione) – dal 12 maggio al 16 Giugno c.a., nel periodo cioè che ha prestato servizio presso la sezione di Assisi del Comando stesso, si è comportato in modo da favorire, nel limite del possibile, gli interessi della città […]. Il secondo slavo arrestato, di cui si parla nel precedente documento compariva sotto il falso nome di «Macri Paolo», ma in realtà si trattava di Paolo Jotza. Il terzo, dal nome non falsificato, era tenente della Regia Aeronautica. Anche il quarto («Facco Bruno di Angelo») era uno dei due arrestati «muniti di documenti falsi»; ma non sappiamo di chi effettivamente potesse trattarsi. Gli altri due presenti nel monastero di S. Quirico il giorno 27 febbraio 1944, ma non scoperti perché rifugiatisi nella «grotta sotterranea» dello stesso – come si apprende sempre dalla “Cronaca” – sappiamo che erano i fratelli ebrei Maionica o Majonica, originari di Trieste. Un altro militare, rifugiato e scoperto in S. Quirico, era il tenente Angelo Clerici, che proveniva dalla Regia Marina.

Passate quelle burrascose giornate, alle parole di gratitudine per mons. Nicolini si uniranno quelle per altri protagonisti eroici di quelle giornate, in particolare per Suor Giuseppina Biviglia (folignate, 1897-1991), alla quale – come già a mons. Nicolini, a don Aldo Brunacci, al tipografo assisano Trento Brizi e a p. Rufino Niccacci ofm, il Museo Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito il titolo di “Giusto tra le nazioni”.

Yad-Vashem

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Madre Giuseppina Biviglia “Giusto tra le nazioni” https://www.lavoce.it/metti-biviglia/ Thu, 17 Oct 2013 12:21:57 +0000 https://www.lavoce.it/?p=20070 madre-giuseppina-Biviglia-1934

Madre Giuseppina Biviglia, abbadessa del Monastero di clarisse di S. Quirico di Assisi durante la seconda guerra mondiale, è stata proclamata “Giusto fra le nazioni”  per per aver salvato numerosi ebrei anche a rischio della sua vita,  vicende narrate anche dalla pellicola Assisi underground (Usa, 1985, regia di A. Ramati). Il riconoscimento giunge dal Museo Yad Vashem di Gerusalemme, che ha conferito il titolo di “giusto tra le nazioni” a Madre Giuseppina Biviglia (folignate, 1897-1991), allora abbadessa del Monastero di San Quirico. La testimonianza che, in spirito di clariana semplicità, Madre Giuseppina ha lasciato di quegli anni tumultuosi, è ricordata con le sue stesse parole nel comunicato diffuso dalla abbadessa Madre Benedetta e sorelle di S. Quirico, non appena ricevuta la notizia, nel quale è anche annunciato che la cerimonia di consegna “avverrà nei prossimi mesi probabilmente presso il Museo della Memoria di Assisi”.

Madre Giuseppina (nata a Serrone di Foligno (PG) il 31 marzo 1897 e morta a 94 anni il 31 marzo 1991) entrò in monastero il 13 maggio 1922 in qualità d’insegnante alla lavorazione delle telerie elettriche, lavoro che permetteva il sostentamento della comunità. L’8 settembre 1922 chiese d’iniziare il probandato e il 18 marzo 1923 fece la vestizione con il nome di sr. Maria Giuseppina di Gesù Nazareno. Il 19 marzo, solennità di S. Giuseppe, del 1924 e del 1927 fece successivamente la professione temporanea e la professione solenne. Madre Giuseppina guidò la comunità come madre abbadessa dal 1942 al 1945, dal 1945 al 1948, dal 1964 al 1967 e dal 1967 al 1970. A conclusione del secondo triennio del suo servizio di abbadessa lasciò nel libro delle memorie del monastero i suoi ricordi del periodo bellico:

“…Mentre fino dal settembre 1943 s’intensificava l’offesa aerea anglo-americana sull’Italia con somma sorpresa di tutti, mentre in patria rincrudivano persecuzioni politiche, vendette personali e ordini odiosi venivano spiccati contro Ebrei e soldati ligi allo spirito dell’armistizio, i nostri Istituti divenivano luogo di rifugio agli sbandati, ai perseguitati politici, ai fuggitivi, agli Ebrei, agli evasi dai campi di concentramento. Ne ebbe la sua parte il nostro Monastero. Superfluo dire che incapaci noi stesse di capire quanto avveniva in tanta confusione, si obbediva solo a un sentimento che sorgeva spontaneo di volta in volta che si presentavano dei disgraziati: davanti al dolore di ciascuno avrebbe taciuto ogni velleità di giudizio, anche se avessimo saputo darne uno: la pietà avrebbe in ogni caso trionfato come trionfò. E trionfò per amor di Dio e del prossimo: il Primo dava l’impulso ad aiutare il debole; il secondo quasi sempre innocente viveva in quei giorni sotto l’incubo degli arresti, dei campi di concentramento, della fucilazione e peggio! Devo dire tuttavia che qualche volta opposi un po’ di resistenza all’accettazione di queste persone sentendo tutta la responsabilità della mia posizione di fronte alla Comunità e temendone per questa qualche conseguenza: ma in quei momenti fui sempre incoraggiata dal nostro Venerato Superiore, da altri Sacerdoti e dalle mie stesse Consorelle ad agire in favore di quei poveretti. Le persone che si rifugiavano da noi furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone, e anche religiose, tanto i cattolici quanto gli Ebrei. Venne qualche fascista durante il Governo Badoglio e dopo l’entrata degli Americani; qualche socialista in certi momenti di pericolo durante la Repubblica Sociale. Subito dopo l’8 settembre avemmo ufficiali e soldati del R. Esercito ligi al giuramento costituzionale, e poco più tardi un folto numero di Ebrei (era proprio un’arca di Noè).”

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L’eroe di Assisi Underground https://www.lavoce.it/leroe-di-assisi-underground/ https://www.lavoce.it/leroe-di-assisi-underground/#comments Thu, 27 Oct 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9725

(In occasione della giornata della Memoria riproponiamo il ricordo di padre Niccacci pubblicato il 28 ottobre 2011) Nell’anno centenario della nascita di padre Rufino Niccacci (n. 19 marzo 1911) è bello far memoria di un figlio di san Francesco la cui opera ad Assisi, unita a quella di tanti altri generosi, ha contribuito a riscattare i tempi bui della Seconda guerra mondiale. Padre Rufino Niccacci, in comunione con il vescovo di Assisi, mons. Placido Nicolini, con religiose, religiosi e laici della città, costituì un’organizzazione clandestina che salvò la vita di un numero considerevole di ebrei perseguitati dalla follia nazista. Per due volte a Gerusalemme, nel 1996 e 1997, un frate suo parente, padre Alviero Niccacci, fu invitato a presentare la figura e l’opera di padre Rufino ad un’associazione ebraica chiamata Root and Branch (“Radice e ramo”) alla vigilia del ricordo annuale dell’Olocausto, Shoah in ebraico. Ogni volta la cosa produsse grande interesse e commozione dell’uditorio. Si verificò però anche un forte shock quando il padre Alviero lesse una parte della lettera che padre Rufino scrisse alla nipote suor Chiara, Stimmatina, il 27 novembre 1945: “Avrai saputo dei miei arresti, della mia condanna alla deportazione, ma poi nulla!!! Dio mi ha protetto. E poi sono seguite insidie, ricatti, intimidazioni e simili complimenti. Ancora non è tutto finito. Ancora sono in campo di battaglia, ieri con i perseguitati, oggi con gli sventurati… Così mi piace la vita. Non la so concepire senza battaglia. Ho lottato, lotto e lotterò ancora perché mi pare sia diritto di ognuno di difendere gli oppressi e soprattutto per tenere alti i nostri ideali di civiltà, di religione, di patria”. Solenne memoria a Toronto nel 1990 Parecchi anni dopo il riconoscimento a Gerusalemme di padre Rufino come “Giusto tra le nazioni”, ricordiamo una memorabile serata di gala in suo onore tenutasi a Toronto, Canada, il 1° aprile 1990, organizzata da un comitato congiunto di ebrei e di italiani residenti in quella nazione. Lo scopo era presentare a quel grande Paese multietnico, in cui gli ebrei e gli italiani sono le comunità maggiori, un modello di dedizione e di collaborazione tra comunità etniche e religiose differenti. In quell’occasione fu presente anche padre Alviero Niccacci, ma speaker di eccezione fu il prof. Philippe Garigue, che era stato comandante delle truppe alleate che liberarono Assisi nell’estate del 1944. La sua testimonianza sulla vicenda e sui personaggi coinvolti, in particolare padre Rufino, costituisce uno dei documenti più importanti degli ultimi anni. Commemorazione nel centenario della nascita Il 20 marzo 2011 il Comune di Deruta, in collaborazione con la famiglia Niccacci e con la parrocchia, ha organizzato una giornata in memoria di padre Rufino nel centenario della sua nascita. Il motto della giornata è stato lo stesso della memoria di Toronto: “Io sono il custode di mio fratello”. La figura e l’opera di padre Rufino sono state tracciate in particolare da padre Alviero Niccacci, dal padre Provinciale dei Frati minori e da alcuni confratelli che ebbero modo di conoscerlo personalmente. L’assessore alla Cultura ha dato poi lettura di alcune testimonianze tratte dal volumetto Colligere fragmenta, una raccolta di documenti curata dai Frati minori di Assisi, che attesta su basi storiche e testimonianze dirette l’azione di padre Rufino. Il Sindaco ha infine ricordato “quanto padre Rufino debba essere da esempio per tutti. La sua azione di aiuto nei confronti delle persone in grave difficoltà ne fa una figura così importante da meritare di essere nominato cittadino benemerito del Comune di Deruta”. Conclusione È facile comprendere quanto la figura e l’opera di Padre Rufino siano importanti per i tempi che stiamo vivendo oggi. Basterà citare un piccolo brano del documento pontificio Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (1998), numero 4: “Coloro che aiutarono a salvare quanti più ebrei fu loro possibile, sino al punto di mettere le loro vite in pericolo mortale, non devono essere dimenticati. Durante e dopo la guerra, comunità e personalità ebraiche espressero la loro gratitudine per quanto era stato fatto per loro, compreso anche ciò che Pio XII aveva fatto personalmente o attraverso suoi rappresentanti per salvare centinaia di migliaia di vite di ebrei.” La famiglia Padre Rufino apparteneva alla famiglia dei Niccacci della Molinella, originaria di Deruta, che produceva farina nel mulino che ha chiuso l’attività dopo seicento anni di storia nel mese di maggio scorso. A conclusione del suo libro Assisi clandestina, Alexander Ramati scrive di padre Rufino: “Alla memoria di questo nobile contadino, il Gentile più giusto che io abbia mai avuto l’onore di conoscere, questo libro è dedicato”. Si nota un riferimento a una frase del comandante Ernst von den Velde che in un momento decisivo della vicenda disse a padre Rufino: “Lei è furbo, Padre, forse troppo furbo per essere un contadino di Deruta”. Sicuramente padre Rufino avrà preso la frase come un complimento! Ora è sepolto a Deruta nella cappella di famiglia, liberamente visitabile. Il riconoscimento Padre Rufino andò in pellegrinaggio in Terra Santa la settimana prima della Pasqua 1974. In quell’occasione Alexander Ramati, che risiedeva a Tel Aviv, organizzò la cerimonia di consegna di una medaglia come riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele per lui che, come parecchi altri “Giusti tra le nazioni”, avevano rischiato la vita per salvare ebrei durante la guerra. Era il 29 aprile 1974. Sulla collina di Yad Vashem, o Memoriale dell’Olocausto, a Gerusalemme, padre Rufino ricevette una medaglia di riconoscimento e piantò un albero di carrubo con accanto il suo nome. Padre Rufino dedicò la medaglia alla memoria di suo fratello Luigi che tanto lo aiutò nell’operazione clandestina insieme alla moglie Maria e all’altro fratello Enrico. Libro e film La sua opera è stata fatta conoscere da un volume scritto dall’ebreo polacco Alexander Ramati, pubblicato originariamente in inglese nel 1978 (Assisi Underground), poi in italiano nel 1981 dalle edizioni Porziuncola (Assisi clandestina, ripubblicato nel 2000), e anche in tedesco e in ebraico. In uno stile semplice e immediato, il volume fa rivivere la figura di padre Rufino, il quale racconta in prima persona la storia che ha vissuto negli anni ’43-44. Nel 1984 è stato prodotto anche un film, diretto dallo stesso autore e con il titolo The Assisi Underground.]]>

(In occasione della giornata della Memoria riproponiamo il ricordo di padre Niccacci pubblicato il 28 ottobre 2011) Nell’anno centenario della nascita di padre Rufino Niccacci (n. 19 marzo 1911) è bello far memoria di un figlio di san Francesco la cui opera ad Assisi, unita a quella di tanti altri generosi, ha contribuito a riscattare i tempi bui della Seconda guerra mondiale. Padre Rufino Niccacci, in comunione con il vescovo di Assisi, mons. Placido Nicolini, con religiose, religiosi e laici della città, costituì un’organizzazione clandestina che salvò la vita di un numero considerevole di ebrei perseguitati dalla follia nazista. Per due volte a Gerusalemme, nel 1996 e 1997, un frate suo parente, padre Alviero Niccacci, fu invitato a presentare la figura e l’opera di padre Rufino ad un’associazione ebraica chiamata Root and Branch (“Radice e ramo”) alla vigilia del ricordo annuale dell’Olocausto, Shoah in ebraico. Ogni volta la cosa produsse grande interesse e commozione dell’uditorio. Si verificò però anche un forte shock quando il padre Alviero lesse una parte della lettera che padre Rufino scrisse alla nipote suor Chiara, Stimmatina, il 27 novembre 1945: “Avrai saputo dei miei arresti, della mia condanna alla deportazione, ma poi nulla!!! Dio mi ha protetto. E poi sono seguite insidie, ricatti, intimidazioni e simili complimenti. Ancora non è tutto finito. Ancora sono in campo di battaglia, ieri con i perseguitati, oggi con gli sventurati… Così mi piace la vita. Non la so concepire senza battaglia. Ho lottato, lotto e lotterò ancora perché mi pare sia diritto di ognuno di difendere gli oppressi e soprattutto per tenere alti i nostri ideali di civiltà, di religione, di patria”. Solenne memoria a Toronto nel 1990 Parecchi anni dopo il riconoscimento a Gerusalemme di padre Rufino come “Giusto tra le nazioni”, ricordiamo una memorabile serata di gala in suo onore tenutasi a Toronto, Canada, il 1° aprile 1990, organizzata da un comitato congiunto di ebrei e di italiani residenti in quella nazione. Lo scopo era presentare a quel grande Paese multietnico, in cui gli ebrei e gli italiani sono le comunità maggiori, un modello di dedizione e di collaborazione tra comunità etniche e religiose differenti. In quell’occasione fu presente anche padre Alviero Niccacci, ma speaker di eccezione fu il prof. Philippe Garigue, che era stato comandante delle truppe alleate che liberarono Assisi nell’estate del 1944. La sua testimonianza sulla vicenda e sui personaggi coinvolti, in particolare padre Rufino, costituisce uno dei documenti più importanti degli ultimi anni. Commemorazione nel centenario della nascita Il 20 marzo 2011 il Comune di Deruta, in collaborazione con la famiglia Niccacci e con la parrocchia, ha organizzato una giornata in memoria di padre Rufino nel centenario della sua nascita. Il motto della giornata è stato lo stesso della memoria di Toronto: “Io sono il custode di mio fratello”. La figura e l’opera di padre Rufino sono state tracciate in particolare da padre Alviero Niccacci, dal padre Provinciale dei Frati minori e da alcuni confratelli che ebbero modo di conoscerlo personalmente. L’assessore alla Cultura ha dato poi lettura di alcune testimonianze tratte dal volumetto Colligere fragmenta, una raccolta di documenti curata dai Frati minori di Assisi, che attesta su basi storiche e testimonianze dirette l’azione di padre Rufino. Il Sindaco ha infine ricordato “quanto padre Rufino debba essere da esempio per tutti. La sua azione di aiuto nei confronti delle persone in grave difficoltà ne fa una figura così importante da meritare di essere nominato cittadino benemerito del Comune di Deruta”. Conclusione È facile comprendere quanto la figura e l’opera di Padre Rufino siano importanti per i tempi che stiamo vivendo oggi. Basterà citare un piccolo brano del documento pontificio Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (1998), numero 4: “Coloro che aiutarono a salvare quanti più ebrei fu loro possibile, sino al punto di mettere le loro vite in pericolo mortale, non devono essere dimenticati. Durante e dopo la guerra, comunità e personalità ebraiche espressero la loro gratitudine per quanto era stato fatto per loro, compreso anche ciò che Pio XII aveva fatto personalmente o attraverso suoi rappresentanti per salvare centinaia di migliaia di vite di ebrei.” La famiglia Padre Rufino apparteneva alla famiglia dei Niccacci della Molinella, originaria di Deruta, che produceva farina nel mulino che ha chiuso l’attività dopo seicento anni di storia nel mese di maggio scorso. A conclusione del suo libro Assisi clandestina, Alexander Ramati scrive di padre Rufino: “Alla memoria di questo nobile contadino, il Gentile più giusto che io abbia mai avuto l’onore di conoscere, questo libro è dedicato”. Si nota un riferimento a una frase del comandante Ernst von den Velde che in un momento decisivo della vicenda disse a padre Rufino: “Lei è furbo, Padre, forse troppo furbo per essere un contadino di Deruta”. Sicuramente padre Rufino avrà preso la frase come un complimento! Ora è sepolto a Deruta nella cappella di famiglia, liberamente visitabile. Il riconoscimento Padre Rufino andò in pellegrinaggio in Terra Santa la settimana prima della Pasqua 1974. In quell’occasione Alexander Ramati, che risiedeva a Tel Aviv, organizzò la cerimonia di consegna di una medaglia come riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele per lui che, come parecchi altri “Giusti tra le nazioni”, avevano rischiato la vita per salvare ebrei durante la guerra. Era il 29 aprile 1974. Sulla collina di Yad Vashem, o Memoriale dell’Olocausto, a Gerusalemme, padre Rufino ricevette una medaglia di riconoscimento e piantò un albero di carrubo con accanto il suo nome. Padre Rufino dedicò la medaglia alla memoria di suo fratello Luigi che tanto lo aiutò nell’operazione clandestina insieme alla moglie Maria e all’altro fratello Enrico. Libro e film La sua opera è stata fatta conoscere da un volume scritto dall’ebreo polacco Alexander Ramati, pubblicato originariamente in inglese nel 1978 (Assisi Underground), poi in italiano nel 1981 dalle edizioni Porziuncola (Assisi clandestina, ripubblicato nel 2000), e anche in tedesco e in ebraico. In uno stile semplice e immediato, il volume fa rivivere la figura di padre Rufino, il quale racconta in prima persona la storia che ha vissuto negli anni ’43-44. Nel 1984 è stato prodotto anche un film, diretto dallo stesso autore e con il titolo The Assisi Underground.]]>
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Un viaggio tra le croci dell’Armenia https://www.lavoce.it/un-viaggio-tra-le-croci-dellarmenia/ Thu, 23 Jun 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9462 L’Armenia – o meglio, quel che resta della Grande Armenia dei secoli passati – ha ottenuto autonomia e libertà di governo, riconosciuta dall’Onu e da altri Stati, nel settembre 1991. Uno Stato “giovane” quindi, anche se dalle più remote età preistoriche è stata un crocevia obbligato per tutti tra Europa ed Asia, come indica la ancora esistente ed identificabile “Via della seta”, percorsa anche dal nostro fra’ Giovanni da Pian del Carpine nel suo viaggio alla corte del Gran Kan dei Tartari. Questa regione fu la prima a dichiararsi cristiana, già nel 301, con il re Tiridate III e il monaco-vescovo Gregorio l’Illuminatore. Ed anzi i khachkar, e cioè le croci di pietra scolpita e quasi cesellata, sono diventati l’emblema insieme religioso e civile del popolo e della nazione armena; se ne trovano ancora in gran quantità, nonostante le distruzioni sistematiche sia delle croci che delle tipiche chiese cruciformi in pietra e dei tanti monasteri, avvenute sotto i diversi domini politici (persiani, islamici, comunisti). È una fedeltà pagata sempre a caro prezzo, sino al tragico Genocidio armeno, che ha visto il massacro indiscriminato degli intellettuali e del popolo negli anni della Prima guerra mondiale (1916-17), con lo sterminio di tre quarti della popolazione (oltre un milione e mezzo di persone), mentre i Giovani turchi erano al potere. S’ebbe allora un grido di raccapriccio da parte di alcune nazioni europee (Russia, Francia, Gran Bretagna), che in una dichiarazione collettiva del maggio 1915 parlarono di “crimine contro l’umanità e la civiltà ”, come documenta anche la recente ricerca di Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni, Guerini 2000. Fu quello il mets yerern, il “grande male” del popolo armeno, una sorta di tragico prologo della Shoah, lo sterminio nazista di milioni di ebrei e altri indesiderati. E con commozione profonda si fa visita ad Erevan al Mausoleo del genocidio, come a Gerusalemme al Yad Vashem. Questo fitto reticolo di storia, insieme religioso e civile, si ripercorre nella visita a queste terre e a questo popolo ora libero, che ha nelle sue tradizioni il segno di tanta sofferenza e di tanta dignità: un popolo giovane, desideroso di sapere e di vivere, aiutato dalla solidarietà di tanti armeni sparsi in tutto il mondo, che amano appassionatamente la madre patria finalmente libera, e non dimenticano. C’è ricchezza di storia e di umanità, ma anche bellezza di paesaggi, sempre presenti nei canti. Come non menzionare il monte biblico dell’Ararat, ed altri paesaggi carichi di verde e di nevi, con i ponticelli sui corsi d’acqua a segnare l’antica Via della seta? Si tratta di un Paese che alterna la monumentalità dell’ambiente cittadino a Yerevan, la capitale, con palazzoni costruiti dai russi, alla modestia dei suoi villaggi; un Paese che fa del buon pane con metodi antichi e singolari, attaccando pasta lievitata alle pareti d’un orcio surriscaldato, e fa del buon vino anche in altura con essenze profumate; un Paese che desidera conoscere e d’essere conosciuto. Non sarebbe male che anche le autorità civili, oltre a sostenere politicamente la giovane democrazia armena e a riconoscere lo sterminio perpetrato in passato, promuovessero incontri con visite più o meno ufficiali, scambio di aiuti, iniziative culturali e ricreative. L’incontro tra persone è sempre un segno di amicizia e di incoraggiamento, e come tale è stata anche la recente visita d’una comitiva di perugini (guidata da mons. Chiaretti ndr). Perugia in particolar modo dovrebbe curare queste relazioni, per antica presenza di armeni in città con il monastero e la chiesa di San Matteo degli Armeni, di rilevante interesse storico; su questa presenza sono stati fatti anche mostre e convegni di studio, l’ultimo dei quali il 24 ottobre 1998. In questo contesto è molto ricordata in Armenia la visita che Papa Giovanni Paolo II, ospite del Catholikos, fece nel 2001 per celebrare i 1.700 anni della conversione al cristianesimo, come è anche ricordato il suo dono d’un ospedale nel villaggio di Ashotsk, denominato “Redemptoris Mater”, dopo il terribile terremoto del dicembre 1988.

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Don Posta, Giusto tra le nazioni https://www.lavoce.it/don-posta-giusto-tra-le-nazioni/ Thu, 02 Jun 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9406 La notizia che è stato finalmente concesso il titolo di “Giusto fra le nazioni” alla memoria di don Ottavio Posta, che fu per 47 anni il parroco di isola Maggiore, riempie di gioia la diocesi di Perugia-Città della Pieve e onora tutto il clero umbro. Fanno festa anche la comunità di Isola e la parrocchia di Passignano. Se la vicenda è giunta in porto ed ha avuto questo felice esito il merito va certamente a Gianfranco Cialini, che si è adoperato per rimettere in piedi la storia attraverso documenti e testimonianze. La diocesi perugina ha ricostruito la storia in un opuscolo pubblicato nel 2007, che riporta una presentazione dell’arcivescovo, ora emerito, Giuseppe Chiaretti che ha firmato la richiesta ufficiale per il riconoscimento di don Posta a Giusto tra le nazioni nel 2006, rivolta all’incaricato dell’Alta Corte d’Israele, Ben Horin Nathan, già ambasciatore presso la Santa Sede, che avviò dettagliate ricerche in merito. Il testimone ancora in vita, uno dei 15 pescatori che condussero l’operazione, è Agostino Piazzesi. La vicenda, non a tutti nota, è avvenuta la notte tra il 19 e il 20 giugno 1944, quando i 15 pescatori compirono la traversata con cinque barche per condurre questi 30 ebrei, internati al castello Guglielmi, fino la sponda di Sant’Arcangelo già in mano alle truppe alleate. Tutta l’operazione fu pensata e organizzata dal parroco.Chi ha conosciuto don Posta non si stupisce di quest’opera, compiuta ben consapevole dei rischi (non ultimo quello della morte) ai quali andava incontro assieme ai pescatori: egli della carità cristiana aveva fatto la sua bandiera. Visse povero tra i poveri, distribuendo a tutti, fino a privarsene per se stesso, di quanto la Provvidenza gli faceva capitare tra le mani. Questo alto riconoscimento di Giusto tra le nazioni, unito alla medaglia d’oro al merito civile, che gli fu attribuita alla memoria dal Presidente della Repubblica il 18 gennaio 2006, rende giustizia alla figura dell’indimenticato pievano che, come è scritto nell’ epigrafe tombale: “Per 47 anni divise le gioie e i dolori dei suoi parrocchiani”. Il suo nome sarà inserito tra quelli dei Giusti nel mausoleo dello Yad Vashem di Gerusalemme, insieme ad atri sacerdoti umbri quali don Federico Vincenti di Perugia, don Aldo Brunacci di Assisi e mons. Giulio Cii di Città di Castello, Al pescatore Piazzesi il 2 giugno il Prefetto di Perugia ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica.

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Nel nome dell’unico Dio https://www.lavoce.it/nel-nome-dellunico-dio/ Thu, 14 May 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7531 Scendendo dal monte Nebo, dopo averla contemplata come Mosè, Benedetto XVI è entrato nella Terra promessa, dove ha avuto un forte impatto con un tragica ferita della storia, ancora viva nella memoria del popolo di Israele: la Shoah. Papa Joseph Ratzinger, tedesco, ha già vissuto personalmente con particolare intensità, nella visita al campo di sterminio ad Auschwitz (28 maggio 2006), l’umiliazione di appartenere al popolo che fu il principale artefice delle atrocità commesse contro gli ebrei. In quell’occasione osò ripetere il grido da molti rivolto al Cielo: perché, Signore, hai taciuto? ‘Perché hai potuto tollerare tutto questo?’. L’11 maggio, al mausoleo dello Yad Vashem di Gerusalemme, Benedetto XVI ha avuto parole alte e nuove, diverse, con altrettanta intensità ed emozione, concise, pregnanti, immergendosi nell’abissale mistero di Dio che conosce e custodisce ognuno per nome. Yad infatti vuol dire ‘memoriale’, shem significa ‘nome’. All’uomo si possono rubare le cose che possiede, togliere persino la vita, ma nessuno può rubargli il nome: ‘Milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah persero la propria vita, ma non perderanno mai il loro nome’. Oltre che nella memoria dei loro cari, i loro nomi ‘sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio onnipotente’. Il discorso del Papa non è da leggere in chiave puramente consolatoria, ma come un vero e proprio atto di fede comune, ebraica-cristiana, e un comune impegno perché quanto accaduto non si ripeta. Un impegno da prendere ‘oggi’ a difesa di quanti sono soggetti a persecuzioni per causa dell’etnia, del colore, della condizione di vita e della religione. Questo discorso è correlato con l’altro, più ampio e articolato, rivolto ai membri delle Organizzazioni per il dialogo interreligioso nel Centro di NÈtre Dame Jerusalem. Benedetto XVI ha impostato la riflessione su Abramo, la sua fede, la sua storia, nella quale si ritrovano le antiche radici di ebrei, musulmani, e cristiani ed è, in qualche modo, paradigma perenne di una autentica fede religiosa personale. È convinzione del Papa che sia possibile, nella diversità delle religioni, trovare – o meglio, scoprire – un dato di fondo che unisce i credenti e favorisce lo sviluppo culturale dell’intera società. In modo particolare, oggi, nel mondo globale, a coloro che calcano la penna e la voce sulle differenze e paventano la conflittualità tra le religioni e lo scontro delle civiltà, si deve presentare la potenzialità che i credenti hanno di plasmare la cultura in cui si trovano a vivere la loro esperienza religiosa, innestando in essa i principi della trascendenza, dell’amore alla verità, del rispetto per la razionalità. ‘Insieme possiamo proclamare che Dio esiste, e che può essere conosciuto; che la terra è sua creazione; che noi siamo sue creature e che Egli chiama ogni uomo e ogni donna ad uno stile di vita che rispetta il suo disegno per il mondo’. La nostra unità per la pace nel mondo non dipende dalla uniformità, perché il superiore senso di ‘rispetto per l’universale, per l’assoluto, per la verità spinge le persone religiose innanzitutto a stabilire rapporti l’una con l’altra’. Il discorso di Benedetto XVI, articolato e complesso, sulla linea della dichiarazione conciliare sulle religioni Nostra aetate, segna un punto di ripresa del dialogo interreligioso che negli ultimi tempi, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, ha subìto forti ritardi. Se questa prospettiva sarà accolta, aiuterà a vincere le tentazioni ricorrenti in tutte le religioni di chiusura e lettura letteralistica delle proprie sacre Scritture.

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