vita Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vita/ Settimanale di informazione regionale Thu, 11 Nov 2021 14:28:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg vita Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vita/ 32 32 Gesù è risorto! E anche noi possiamo vederlo https://www.lavoce.it/gesu-e-risorto-e-anche-noi-possiamo-vederlo/ Wed, 31 Mar 2021 15:05:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59971

“Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” è la professione di fede che rinnoviamo ogni domenica e che risplende nella notte di Pasqua, nella ricchezza della Lituriga e della Parola che la Chiesa ci propone. È la luce che splende nelle tenebre, è la luce che ha sconfitto le tenebre (Gv 1,5). Le tenebre hanno tentato di avvolgere e di “inghiottire” la luce, così come un “buco nero” che inghiotte ogni cosa. Il buio, le tenebre, la morte hanno tentato di porre un limite alla Luce e alla Vita, dentro il freddo sepolcro di pietra. Ma il “macigno” della morte è stato ribaltato via dalla Luce, che ha ridato vita a un corpo. Il corpo di Gesù, segnato dal dolore e dalla sofferenza della croce, ricomposto dalla tenerezza di una madre e da alcune donne, ha ritrovato nel sepolcro un nuovo grembo da cui “ri-generare vita”.

Nella luce della Pasqua

Proprio perché “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre” è egli stesso, Gesù, l’autore della vita. Quella luce divina, come rugiada, penetra nelle fenditure della pietra del sepolcro e illumina ciò che la morte avrebbe voluto spegnere. Quella piccola luce è capace di sconfiggere l’abisso di oscurità della morte e la sua luce fa esplodere la vita. Per questo, la mattina di Pasqua, la pietra che aveva tentato di sigillare la vita nelle tenebre è stata rotolata via (Mc 16,3-4). E così da quel sepolcro, sigillato da una pietra, nel silenzio della notte, la vita rinnovata dalla croce muove i suoi primi passi.

La morte è stata vinta

La Parola germina dal silenzio, l’alba di un nuovo giorno annuncia che la morte non ha più l’ultima parola. Possiamo gridare con san Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria!”. Possiamo “sbeffeggiare” il nemico sconfitto: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54-55). Ma la liturgia ci ricorda che è stata una vera battaglia: “Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa”.

Il “canto” della Sequenza pasquale

La Sequenza che ascolteremo prima dell’Alleluia nella domenica di Pasqua canta questa vittoria innalzando un inno di lode “all’Agnello che ha redento il suo gregge. / L’innocente ha riconciliato / noi peccatori con il Padre”. Con questa forma poetica il testo canta al Signore risorto, definendolo “la vittima pasquale”. La seconda parte esprime il desiderio di ogni credente di conoscere dai testimoni della mattina di Pasqua cosa è successo, cosa hanno visto in quell’alba di futuro: “Raccontaci, Maria, / cosa hai visto sulla via?”. La descrizione della tomba vuota, anziché desolazione, accende la speranza. La vista del sudario e delle bende, poste in modo ordinato, composte, come descrive l’evangelista Giovanni (Gv 20,5-7), rende la scena non un luogo di morte, ma un giaciglio su cui un corpo si è addormentato, riprendendo poi il suo cammino. Le stesse parole della Sequenza confermano questa interpretazione. Maria infatti racconta che gli angeli, in qualità di testimoni, rimandano i discepoli a un altro luogo, l’incontro con il Cristo risorto, con il Vivente: “Cristo, mia speranza, vi precede in Galilea”.

Gesù è risorto!

Il testo riprende questa indicazione dal Vangelo di Marco proclamato nella notte di Pasqua. Gli angeli annunciano alle donne, giunte al sepolcro “di buon mattino” (Mc 16,1-2), che “Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto, non è qui” (v. 6). L’angelo dice alle donne - e a tutti noi - che il Risorto ci attende in Galilea, lui è già lì. Aveva già dato questo appuntamento ai suoi, quando nell’Orto degli ulivi annunciava la tragedia imminente del suo arresto e della sua morte. Quest’annuncio di Pasqua riguarda soprattutto noi. Noi che non abbiamo visto i lini e le bende, come Pietro e Giovanni, che non abbiamo visto la tomba vuota, che non abbiamo ascoltato le donne di ritorno dal sepolcro, ma possiamo ugualmente vedere e toccare il Risorto: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). Anche per noi c’è una “Galilea delle genti” che ci attende, là vedremo il Risorto.

E anche noi possiamo vederlo

La Galilea non è solo un luogo geografico, non è solo una provincia della Palestina, ma si identifica con la quotidianità della vita. Là dove a ogni credente è chiesto di annunciare la bellezza del Vangelo con la testimonianza della vita. Facendo questo, vedremo le meraviglie che già il Risorto ha compiuto; infatti Lui sempre ci precede e ci attende. Là dove ogni credente porta la sua testimonianza, la Chiesa mostra il suo volto più bello e allarga i confini della sua presenza. È il volto della Chiesa del Concilio, è la Chiesa della Evangelii gaudium, che non si preoccupa di difendere le sue posizioni, ma cammina accanto all’umanità con umiltà e stile di servizio.]]>

“Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” è la professione di fede che rinnoviamo ogni domenica e che risplende nella notte di Pasqua, nella ricchezza della Lituriga e della Parola che la Chiesa ci propone. È la luce che splende nelle tenebre, è la luce che ha sconfitto le tenebre (Gv 1,5). Le tenebre hanno tentato di avvolgere e di “inghiottire” la luce, così come un “buco nero” che inghiotte ogni cosa. Il buio, le tenebre, la morte hanno tentato di porre un limite alla Luce e alla Vita, dentro il freddo sepolcro di pietra. Ma il “macigno” della morte è stato ribaltato via dalla Luce, che ha ridato vita a un corpo. Il corpo di Gesù, segnato dal dolore e dalla sofferenza della croce, ricomposto dalla tenerezza di una madre e da alcune donne, ha ritrovato nel sepolcro un nuovo grembo da cui “ri-generare vita”.

Nella luce della Pasqua

Proprio perché “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre” è egli stesso, Gesù, l’autore della vita. Quella luce divina, come rugiada, penetra nelle fenditure della pietra del sepolcro e illumina ciò che la morte avrebbe voluto spegnere. Quella piccola luce è capace di sconfiggere l’abisso di oscurità della morte e la sua luce fa esplodere la vita. Per questo, la mattina di Pasqua, la pietra che aveva tentato di sigillare la vita nelle tenebre è stata rotolata via (Mc 16,3-4). E così da quel sepolcro, sigillato da una pietra, nel silenzio della notte, la vita rinnovata dalla croce muove i suoi primi passi.

La morte è stata vinta

La Parola germina dal silenzio, l’alba di un nuovo giorno annuncia che la morte non ha più l’ultima parola. Possiamo gridare con san Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria!”. Possiamo “sbeffeggiare” il nemico sconfitto: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54-55). Ma la liturgia ci ricorda che è stata una vera battaglia: “Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa”.

Il “canto” della Sequenza pasquale

La Sequenza che ascolteremo prima dell’Alleluia nella domenica di Pasqua canta questa vittoria innalzando un inno di lode “all’Agnello che ha redento il suo gregge. / L’innocente ha riconciliato / noi peccatori con il Padre”. Con questa forma poetica il testo canta al Signore risorto, definendolo “la vittima pasquale”. La seconda parte esprime il desiderio di ogni credente di conoscere dai testimoni della mattina di Pasqua cosa è successo, cosa hanno visto in quell’alba di futuro: “Raccontaci, Maria, / cosa hai visto sulla via?”. La descrizione della tomba vuota, anziché desolazione, accende la speranza. La vista del sudario e delle bende, poste in modo ordinato, composte, come descrive l’evangelista Giovanni (Gv 20,5-7), rende la scena non un luogo di morte, ma un giaciglio su cui un corpo si è addormentato, riprendendo poi il suo cammino. Le stesse parole della Sequenza confermano questa interpretazione. Maria infatti racconta che gli angeli, in qualità di testimoni, rimandano i discepoli a un altro luogo, l’incontro con il Cristo risorto, con il Vivente: “Cristo, mia speranza, vi precede in Galilea”.

Gesù è risorto!

Il testo riprende questa indicazione dal Vangelo di Marco proclamato nella notte di Pasqua. Gli angeli annunciano alle donne, giunte al sepolcro “di buon mattino” (Mc 16,1-2), che “Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto, non è qui” (v. 6). L’angelo dice alle donne - e a tutti noi - che il Risorto ci attende in Galilea, lui è già lì. Aveva già dato questo appuntamento ai suoi, quando nell’Orto degli ulivi annunciava la tragedia imminente del suo arresto e della sua morte. Quest’annuncio di Pasqua riguarda soprattutto noi. Noi che non abbiamo visto i lini e le bende, come Pietro e Giovanni, che non abbiamo visto la tomba vuota, che non abbiamo ascoltato le donne di ritorno dal sepolcro, ma possiamo ugualmente vedere e toccare il Risorto: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). Anche per noi c’è una “Galilea delle genti” che ci attende, là vedremo il Risorto.

E anche noi possiamo vederlo

La Galilea non è solo un luogo geografico, non è solo una provincia della Palestina, ma si identifica con la quotidianità della vita. Là dove a ogni credente è chiesto di annunciare la bellezza del Vangelo con la testimonianza della vita. Facendo questo, vedremo le meraviglie che già il Risorto ha compiuto; infatti Lui sempre ci precede e ci attende. Là dove ogni credente porta la sua testimonianza, la Chiesa mostra il suo volto più bello e allarga i confini della sua presenza. È il volto della Chiesa del Concilio, è la Chiesa della Evangelii gaudium, che non si preoccupa di difendere le sue posizioni, ma cammina accanto all’umanità con umiltà e stile di servizio.]]>
Nuovo parere sulla RU486. Cosa fa l’Umbria? https://www.lavoce.it/nuovo-parere-ru486-umbria/ Mon, 31 Aug 2020 10:46:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57643 ministro speranza

di Assuntina Morresi*

In agosto sono state rese pubbliche le nuove linee di indirizzo sull’aborto farmacologico firmate dal ministro Roberto Speranza, basate su un nuovo parere del Consiglio superiore di sanità.

E l’aborto cambia radicalmente nella sua concezione, con una svolta a 180 gradi rispetto all’impostazione della Legge 194 che ritiene l’Interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) non solo un evento negativo di cui cercare di rimuovere le cause, ma un problema sociale, che ci riguarda tutti, e di cui le istituzioni sanitarie e sociali debbono farsi carico.

È per questo che, secondo la 194, l’intera procedura deve svolgersi in una struttura ospedaliera autorizzata fra quelle del Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Cosa avveniva 10 anni fa

Dieci anni fa, invece, tre pareri del Consiglio superiore di sanità avevano orientato le linee di indirizzo per il metodo farmacologico, che prevedevano tre giorni di ricovero ordinario per chi volesse abortire con la RU486, evitando che le Ivg avvenissero al di fuori delle strutture del Ssn, senza tutele per le donne.

L’aborto chimico, infatti, è di per sé imprevedibile, nelle modalità e nei tempi: mediamente si impiega tre giorni a completare la procedura, ma possono essere anche di più e soprattutto non è possibile prevedere a priori quando inizierà l’emorragia che segna che l’aborto è in corso.

Dieci anni fa, mentre la RU486 veniva introdotta in Italia dall’Europa, chi scrive era consulente del ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali Maurizio Sacconi, ed era sottosegretaria Eugenia Roccella: insieme abbiamo seguito i lavori ministeriali che hanno portato alle precedenti linee di indirizzo.

E proprio per la conoscenza diretta di quegli avvenimenti, Eugenia Roccella e io abbiamo firmato tre interventi sul quotidiano Avvenire.

Il primo del 12 agosto è una lettera aperta ai governatori di tutte le regioni italiane.

Indirizzi ministeriali e sentenze sulla ru486

Spieghiamo che gli indirizzi ministeriali non sono vincolanti, tanto che dieci anni fa l’Emilia Romagna se ne discostò subito, organizzandosi per un regime di day hospital, e lo ha potuto fare: se un governatore volesse, insomma, potrebbe benissimo continuare a garantire un regime di ricovero ospedaliero, non per un boicottaggio ma per un di più di sicurezza sanitaria, rispetto alle nuove indicazioni, che sono contraddittorie e non offrono tutele sufficienti nei confronti delle donne che affrontano l’aborto chimico.

Ma soprattutto chiediamo un monitoraggio specifico per l’aborto farmacologico, per gli effetti collaterali e gli eventi avversi specifici per questa procedura, e che sfuggono alla farmacovigilanza, costruita intorno alle tecniche chirurgiche.

Il secondo intervento, del 18 agosto, è un commento al nuovo parere del Consiglio superiore di sanità e alle linee guida che ne sono derivate. Tante le contraddizioni interne, soprattutto la possibilità di abortire in consultorio è evidentemente in contraddizione con la Legge 194, che ai consultori affida altre finalità, e non li nomina neppure fra le strutture in cui si può abortire.

In un terzo intervento, del 23 agosto, rivolto al ministro Speranza, andiamo nel dettaglio della farmacovigilanza necessaria per monitorare la procedura abortiva farmacologica, illustrando i dati necessari da raccogliere. La governatrice umbra Tesei ha già confermato l’adesione alle nuove linee ministeriali, e l’assessore Coletto ha specificato che sarà anche possibile optare per il ricovero ospedaliero, per chi lo chiedesse, ma sicuramente non avrà bisogno di specificarlo formalmente: non si può certo vietare a livello regionale il ricovero ospedaliero, qualora ce ne fossero i presupposti clinici, a prescindere dal fatto che si parli di aborto o meno.

In Umbria: mobilitazioni a sostegno della vita

Vedremo piuttosto se ci saranno iniziative della amministrazione per organizzare in Umbria una farmacovigilanza adeguata al nuovo corso abortivo farmacologico. Ma non è tutto: ricordiamo che nella nostra regione si sta lavorando anche a un altro tavolo, fortemente richiesto dal Movimento per la Vita: fondi di sostegno alle maternità difficili.

Nelle settimane scorse, nel pieno delle polemiche sull’aborto, abbiamo chiesto alla politica locale un cambio di passo: sosteniamo la vita! Dobbiamo farlo soprattutto quando ci sono condizioni difficili: tante donne in gravidanza, se sostenute adeguatamente, diventerebbero felicemente madri e non affronterebbero l’esperienza più drammatica che una donna può fare nella sua vita, quella dell’aborto.

È una ingiustizia evidente e radicale quella di uno stato che, a una donna incinta in difficoltà, offre solamente la possibilità di rinunciare al figlio, e non dà invece quella solidarietà concreta e fattiva che consentirebbe di farlo nascere.

L’esperienza del Movimento per la Vita dice che fra le migliaia di donne che sono riuscite a diventare madri perché hanno trovato l’aiuto liberamente richiesto, nessuna si è mai pentita di averlo fatto, ma ognuna è rifiorita, ha trovato in sé energie e forza e competenze inaspettate, che l’hanno accompagnata nella vita insieme al proprio bambino.

La politica in Umbria ha risposto al nostro appello. In regione, rappresentanti dell’opposizione civica hanno già presentato una proposta di legge a sostegno della natalità, con aiuti per maternità difficili, mentre politici della maggioranza hanno annunciato un testo riguardante la famiglia. Anche a livello di amministrazione comunale ci sono state iniziative. Il lavoro continua.

Le novità del Css

L e nuove linee di indirizzo annunciate dal ministro Speranza via Twitter, e anticipate con una circolare ministeriale, si basano su un parere del Consiglio superiore di sanità (Css) molto contraddittorio. Innanzitutto non si capisce perchè siano state modificate quelle vigenti: non ci sono novità giuridiche né scientifiche, i prodotti chimici usati sono sempre gli stessi, e soprattutto non vengono mai messi in discussione i presupposti con cui i precedenti tre pareri del Css concordano nel ricovero ospedaliero.

Al contrario, vengono confermate tutte le caratteristiche del metodo farmacologico, che lo rendono incerto, imprevedibile e più pericoloso di quello chirurgico. Senza ricovero ospedaliero, infatti, è possibile che l’emorragia che segna l’inizio dell’aborto avvenga ovunque si trovi la donna – a casa, al lavoro, in giro – con tutte le conseguenze del caso. Impressiona leggere i criteri non clinici di ammissione al metodo: la donna non deve essere ansiosa, non deve avere una bassa soglia di tolleranza del dolore, non deve avere condizioni abitative troppo precarie, deve avere la possibilità di raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale entro un’ora.

È poi significativo il fatto che per le minori che abortiscono con la RU486 continui l’indicazione per il ricovero ospedaliero. Ma se fosse un metodo tanto migliore di quello chirurgico e meno invasivo, dovrebbero essere proprio le minori ad avere un accesso garantito: perché negarglielo?

È esteso il limite da 7 a 9 settimane di gravidanza, mostrando esplicitamente che gli eventi avversi raddoppiano in percentuale e, al contrario, commentando che l’aumento è lieve. E soprattutto ad applicare le linee ministeriali si rischiano fino a tre anni di reclusione: l’articolo 19 della Legge 194 prevede queste sanzioni per chi pratica l’aborto al di fuori delle modalità previste negli artt.5 e 8, cioè anche per aborti effettuati al di fuori delle strutture del Ssn esplicitate. E il domicilio delle donne, e i consultori sono nel nuovo indirizzo ministeriale, ma non nella legge. (A.M.)

*pres. Movimento per la Vita - Umbria

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ministro speranza

di Assuntina Morresi*

In agosto sono state rese pubbliche le nuove linee di indirizzo sull’aborto farmacologico firmate dal ministro Roberto Speranza, basate su un nuovo parere del Consiglio superiore di sanità.

E l’aborto cambia radicalmente nella sua concezione, con una svolta a 180 gradi rispetto all’impostazione della Legge 194 che ritiene l’Interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) non solo un evento negativo di cui cercare di rimuovere le cause, ma un problema sociale, che ci riguarda tutti, e di cui le istituzioni sanitarie e sociali debbono farsi carico.

È per questo che, secondo la 194, l’intera procedura deve svolgersi in una struttura ospedaliera autorizzata fra quelle del Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Cosa avveniva 10 anni fa

Dieci anni fa, invece, tre pareri del Consiglio superiore di sanità avevano orientato le linee di indirizzo per il metodo farmacologico, che prevedevano tre giorni di ricovero ordinario per chi volesse abortire con la RU486, evitando che le Ivg avvenissero al di fuori delle strutture del Ssn, senza tutele per le donne.

L’aborto chimico, infatti, è di per sé imprevedibile, nelle modalità e nei tempi: mediamente si impiega tre giorni a completare la procedura, ma possono essere anche di più e soprattutto non è possibile prevedere a priori quando inizierà l’emorragia che segna che l’aborto è in corso.

Dieci anni fa, mentre la RU486 veniva introdotta in Italia dall’Europa, chi scrive era consulente del ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali Maurizio Sacconi, ed era sottosegretaria Eugenia Roccella: insieme abbiamo seguito i lavori ministeriali che hanno portato alle precedenti linee di indirizzo.

E proprio per la conoscenza diretta di quegli avvenimenti, Eugenia Roccella e io abbiamo firmato tre interventi sul quotidiano Avvenire.

Il primo del 12 agosto è una lettera aperta ai governatori di tutte le regioni italiane.

Indirizzi ministeriali e sentenze sulla ru486

Spieghiamo che gli indirizzi ministeriali non sono vincolanti, tanto che dieci anni fa l’Emilia Romagna se ne discostò subito, organizzandosi per un regime di day hospital, e lo ha potuto fare: se un governatore volesse, insomma, potrebbe benissimo continuare a garantire un regime di ricovero ospedaliero, non per un boicottaggio ma per un di più di sicurezza sanitaria, rispetto alle nuove indicazioni, che sono contraddittorie e non offrono tutele sufficienti nei confronti delle donne che affrontano l’aborto chimico.

Ma soprattutto chiediamo un monitoraggio specifico per l’aborto farmacologico, per gli effetti collaterali e gli eventi avversi specifici per questa procedura, e che sfuggono alla farmacovigilanza, costruita intorno alle tecniche chirurgiche.

Il secondo intervento, del 18 agosto, è un commento al nuovo parere del Consiglio superiore di sanità e alle linee guida che ne sono derivate. Tante le contraddizioni interne, soprattutto la possibilità di abortire in consultorio è evidentemente in contraddizione con la Legge 194, che ai consultori affida altre finalità, e non li nomina neppure fra le strutture in cui si può abortire.

In un terzo intervento, del 23 agosto, rivolto al ministro Speranza, andiamo nel dettaglio della farmacovigilanza necessaria per monitorare la procedura abortiva farmacologica, illustrando i dati necessari da raccogliere. La governatrice umbra Tesei ha già confermato l’adesione alle nuove linee ministeriali, e l’assessore Coletto ha specificato che sarà anche possibile optare per il ricovero ospedaliero, per chi lo chiedesse, ma sicuramente non avrà bisogno di specificarlo formalmente: non si può certo vietare a livello regionale il ricovero ospedaliero, qualora ce ne fossero i presupposti clinici, a prescindere dal fatto che si parli di aborto o meno.

In Umbria: mobilitazioni a sostegno della vita

Vedremo piuttosto se ci saranno iniziative della amministrazione per organizzare in Umbria una farmacovigilanza adeguata al nuovo corso abortivo farmacologico. Ma non è tutto: ricordiamo che nella nostra regione si sta lavorando anche a un altro tavolo, fortemente richiesto dal Movimento per la Vita: fondi di sostegno alle maternità difficili.

Nelle settimane scorse, nel pieno delle polemiche sull’aborto, abbiamo chiesto alla politica locale un cambio di passo: sosteniamo la vita! Dobbiamo farlo soprattutto quando ci sono condizioni difficili: tante donne in gravidanza, se sostenute adeguatamente, diventerebbero felicemente madri e non affronterebbero l’esperienza più drammatica che una donna può fare nella sua vita, quella dell’aborto.

È una ingiustizia evidente e radicale quella di uno stato che, a una donna incinta in difficoltà, offre solamente la possibilità di rinunciare al figlio, e non dà invece quella solidarietà concreta e fattiva che consentirebbe di farlo nascere.

L’esperienza del Movimento per la Vita dice che fra le migliaia di donne che sono riuscite a diventare madri perché hanno trovato l’aiuto liberamente richiesto, nessuna si è mai pentita di averlo fatto, ma ognuna è rifiorita, ha trovato in sé energie e forza e competenze inaspettate, che l’hanno accompagnata nella vita insieme al proprio bambino.

La politica in Umbria ha risposto al nostro appello. In regione, rappresentanti dell’opposizione civica hanno già presentato una proposta di legge a sostegno della natalità, con aiuti per maternità difficili, mentre politici della maggioranza hanno annunciato un testo riguardante la famiglia. Anche a livello di amministrazione comunale ci sono state iniziative. Il lavoro continua.

Le novità del Css

L e nuove linee di indirizzo annunciate dal ministro Speranza via Twitter, e anticipate con una circolare ministeriale, si basano su un parere del Consiglio superiore di sanità (Css) molto contraddittorio. Innanzitutto non si capisce perchè siano state modificate quelle vigenti: non ci sono novità giuridiche né scientifiche, i prodotti chimici usati sono sempre gli stessi, e soprattutto non vengono mai messi in discussione i presupposti con cui i precedenti tre pareri del Css concordano nel ricovero ospedaliero.

Al contrario, vengono confermate tutte le caratteristiche del metodo farmacologico, che lo rendono incerto, imprevedibile e più pericoloso di quello chirurgico. Senza ricovero ospedaliero, infatti, è possibile che l’emorragia che segna l’inizio dell’aborto avvenga ovunque si trovi la donna – a casa, al lavoro, in giro – con tutte le conseguenze del caso. Impressiona leggere i criteri non clinici di ammissione al metodo: la donna non deve essere ansiosa, non deve avere una bassa soglia di tolleranza del dolore, non deve avere condizioni abitative troppo precarie, deve avere la possibilità di raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale entro un’ora.

È poi significativo il fatto che per le minori che abortiscono con la RU486 continui l’indicazione per il ricovero ospedaliero. Ma se fosse un metodo tanto migliore di quello chirurgico e meno invasivo, dovrebbero essere proprio le minori ad avere un accesso garantito: perché negarglielo?

È esteso il limite da 7 a 9 settimane di gravidanza, mostrando esplicitamente che gli eventi avversi raddoppiano in percentuale e, al contrario, commentando che l’aumento è lieve. E soprattutto ad applicare le linee ministeriali si rischiano fino a tre anni di reclusione: l’articolo 19 della Legge 194 prevede queste sanzioni per chi pratica l’aborto al di fuori delle modalità previste negli artt.5 e 8, cioè anche per aborti effettuati al di fuori delle strutture del Ssn esplicitate. E il domicilio delle donne, e i consultori sono nel nuovo indirizzo ministeriale, ma non nella legge. (A.M.)

*pres. Movimento per la Vita - Umbria

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Creare un “fondo” per le mamme in difficoltà. La proposta del MPV https://www.lavoce.it/creare-un-fondo-per-le-mamme-in-difficolta-la-proposta-del-mpv/ Fri, 24 Jul 2020 09:30:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57550

“Perché non istituire un fondo appositamente dedicato alle donne che si trovano ad affrontare una gravidanza difficile?”. La proposta, calata nel pieno delle polemiche sulla decisione della Giunta regionale relativa alla RU486, chiudeva il commento della presidente regionale del Movimento per la Vita, Assuntina Morresi, su La Voce del 10 luglio, in prima pagina. Un commento che invitava a “voltare pagina” nel dibattito sull’aborto, al di là del mezzo utilizzato, chimico o chirurgico che fosse. [caption id="attachment_57559" align="alignleft" width="177"] Assuntina Morresi[/caption] Presidente Morresi, come immagina questo fondo regionale? “Dovrebbe trattarsi di un fondo destinato direttamente alle donne, senza intoppi burocratici, a prescindere dalla loro condizione personale, ovvero se siano coniugate o meno. Donne in stato di gravidanza che hanno difficoltà a portarla avanti per motivi economici o anche sociali o di salute, per i quali un aiuto economico può essere decisivo. Lo immagino come un percorso protetto per chi ha gravidanze vulnerabili, per esempio per le extracomunitarie o per chi ha un lavoro in nero”. Il Movimento per la Vita con i Centri di aiuto alla vita non si limita a dare soldi ma offre un accompagnamento umano e personale. Nel momento in cui si dovesse istituire il fondo si dovranno attivare anche percorsi con figure che accompagnino le donne in difficoltà? O solo con i volontari Mpv? “Lo immagino integrato con le istituzioni. Per esempio nella fase di un eventuale colloquio ci potrebbero essere sia volontari del Mpv sia operatori del Consultorio o l’assistente sociale, secondo le problematiche della madre. Sicuramente la presenza del volontariato, che ha maturato trent’anni di esperienza in questo particolare accompagnamento, può essere un valore aggiunto. Sarebbe in una integrazione con un volontariato che non chiede soldi per sé perché i soldi devono andare alle mamme, alle donne”.

Integrazione tra istituzioni e volontariato

Nel momento in cui si dovesse discutere della istituzione del fondo si dovrebbe anche intervenire sui compiti dei consultori e dei servizi sociali? “Sì, ma la 194 già prevede la collaborazione con le associazioni di volontariato. Si può declinare in una fase di sperimentazione, che so, due anni, in cui si pensa insieme un percorso che abbia al centro l’approccio con la persona, perché il problema di queste iniziative non è la cattiva volontà delle istituzioni ma è una burocrazia che non aiuta le donne. Questa fase “burocratica” con il volontariato non c’è perché ci sono dei colloqui, ci sono degli incontri, c’è un percorso in cui vengono ascoltate le donne. Chiaramente tutto parte da una loro richiesta, ma le donne devono sapere che c’è un posto in cui questo è possibile. Non vorrei entrare nel dettaglio perché penso che questo sia da costruire insieme”. Lei nel suo commento su La Voce parla di “fallimento dello Stato” quando offre l’aborto come unico percorso per una gravidanza difficile… “Quando si parla di fallimento voglio essere esplicita. Parlo del fatto che molte volte il Mpv ha chiesto semplicemente uno spazio fisico all’interno degli ospedali o dei consultori, per consentire alle donne di chiedere aiuto nel rispetto della loro libertà. Ma il fatto stesso di offrire una possibile alternativa all’aborto viene vista purtroppo in maniera ideologica come un voler ostacolare la possibilità di abortire delle donne. Invece non è così. Se si parla di libera scelta la donna dovrebbe poter avere diverse opzioni. La posizione del Movimento per la vita sulla 194 è nota, però questa legge ha delle parti che prevedono la possibilità di eliminare le cause che portano all’aborto e noi ci offriamo di collaborare per quella parte. Una donna che chiede l’interruzione di gravidanza è una donna che dice ‘io non ce la faccio’, e bisogna capire perché, poiché molto spesso ce la potrebbe fare. La nostra esperienza ci dice che quando la donna, opportunamente supportata, ha trovato in sé le risorse per diventare mamma, è fiorita, e nessuna in tanti anni è tornata indietro da noi per dire di essersi pentita di aver fatto nascere il bambino”. Con questa proposta si mette sul tavolo della discussione politica il sostegno a tutte le donne che vorrebbero essere madri? “Se io vedo che lo Stato mi aiuta quando io voglio avere un figlio, perché non è solo una questione privata questo figlio che arriverà, allora anche coloro che hanno una paura diversa, che non hanno figli non per questioni economiche ma per un timore generale, potranno vedere con meno paura la maternità. Iniziare da un sostegno economico e da un accompagnamento sociale e lavorativo quando queste sono le cause, contribuisce a creare una mentalità a favore della maternità”.

Vita e natalità: tema non solo cattolico

Ii dati Istat sul calo della popolazione portano il tema sul piano oggettivo di interesse di tutta la società e in Umbria il dato è drammatico. Non teme che possa ripresentarsi la barriera ideologica che fa del tema una battaglia cattolica? “Questa preoccupazione c’é, ma è talmente evidente che stiamo morendo come nazione, come regione, che chi pensa che sia una battaglia solo cattolica deve fare uno sforzo di onestà intellettuale perché un paese che si spegne, un Paese fatto di Rsa è un paese destinato a finire”. Ha descritto un paese di Rsa e l’Umbria non ne ha poche. Possiamo concludere dicendo che vorreste vedere una regione di asili nido? “Asili nido e famiglie con nonni e bambini. La Rsa è necessaria quando la famiglia che è povera e fragile non può tenere gli anziani in casa. Quindi vorrei vedere un paese con asili nido, con meno Rsa e più famiglie nel territorio con anziani che non vengono istituzionalizzati ma che sono una risorsa per il territorio”.
La 194 da applicare
C’è una parte della legge sull’aborto sulla quale il Movimento per la vita chiede un impegno comune per la sua applicazione. È l’articolo 5 della legge 194 approvata nel 1978 che detta le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Eccone un passaggio.
«Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».
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“Perché non istituire un fondo appositamente dedicato alle donne che si trovano ad affrontare una gravidanza difficile?”. La proposta, calata nel pieno delle polemiche sulla decisione della Giunta regionale relativa alla RU486, chiudeva il commento della presidente regionale del Movimento per la Vita, Assuntina Morresi, su La Voce del 10 luglio, in prima pagina. Un commento che invitava a “voltare pagina” nel dibattito sull’aborto, al di là del mezzo utilizzato, chimico o chirurgico che fosse. [caption id="attachment_57559" align="alignleft" width="177"] Assuntina Morresi[/caption] Presidente Morresi, come immagina questo fondo regionale? “Dovrebbe trattarsi di un fondo destinato direttamente alle donne, senza intoppi burocratici, a prescindere dalla loro condizione personale, ovvero se siano coniugate o meno. Donne in stato di gravidanza che hanno difficoltà a portarla avanti per motivi economici o anche sociali o di salute, per i quali un aiuto economico può essere decisivo. Lo immagino come un percorso protetto per chi ha gravidanze vulnerabili, per esempio per le extracomunitarie o per chi ha un lavoro in nero”. Il Movimento per la Vita con i Centri di aiuto alla vita non si limita a dare soldi ma offre un accompagnamento umano e personale. Nel momento in cui si dovesse istituire il fondo si dovranno attivare anche percorsi con figure che accompagnino le donne in difficoltà? O solo con i volontari Mpv? “Lo immagino integrato con le istituzioni. Per esempio nella fase di un eventuale colloquio ci potrebbero essere sia volontari del Mpv sia operatori del Consultorio o l’assistente sociale, secondo le problematiche della madre. Sicuramente la presenza del volontariato, che ha maturato trent’anni di esperienza in questo particolare accompagnamento, può essere un valore aggiunto. Sarebbe in una integrazione con un volontariato che non chiede soldi per sé perché i soldi devono andare alle mamme, alle donne”.

Integrazione tra istituzioni e volontariato

Nel momento in cui si dovesse discutere della istituzione del fondo si dovrebbe anche intervenire sui compiti dei consultori e dei servizi sociali? “Sì, ma la 194 già prevede la collaborazione con le associazioni di volontariato. Si può declinare in una fase di sperimentazione, che so, due anni, in cui si pensa insieme un percorso che abbia al centro l’approccio con la persona, perché il problema di queste iniziative non è la cattiva volontà delle istituzioni ma è una burocrazia che non aiuta le donne. Questa fase “burocratica” con il volontariato non c’è perché ci sono dei colloqui, ci sono degli incontri, c’è un percorso in cui vengono ascoltate le donne. Chiaramente tutto parte da una loro richiesta, ma le donne devono sapere che c’è un posto in cui questo è possibile. Non vorrei entrare nel dettaglio perché penso che questo sia da costruire insieme”. Lei nel suo commento su La Voce parla di “fallimento dello Stato” quando offre l’aborto come unico percorso per una gravidanza difficile… “Quando si parla di fallimento voglio essere esplicita. Parlo del fatto che molte volte il Mpv ha chiesto semplicemente uno spazio fisico all’interno degli ospedali o dei consultori, per consentire alle donne di chiedere aiuto nel rispetto della loro libertà. Ma il fatto stesso di offrire una possibile alternativa all’aborto viene vista purtroppo in maniera ideologica come un voler ostacolare la possibilità di abortire delle donne. Invece non è così. Se si parla di libera scelta la donna dovrebbe poter avere diverse opzioni. La posizione del Movimento per la vita sulla 194 è nota, però questa legge ha delle parti che prevedono la possibilità di eliminare le cause che portano all’aborto e noi ci offriamo di collaborare per quella parte. Una donna che chiede l’interruzione di gravidanza è una donna che dice ‘io non ce la faccio’, e bisogna capire perché, poiché molto spesso ce la potrebbe fare. La nostra esperienza ci dice che quando la donna, opportunamente supportata, ha trovato in sé le risorse per diventare mamma, è fiorita, e nessuna in tanti anni è tornata indietro da noi per dire di essersi pentita di aver fatto nascere il bambino”. Con questa proposta si mette sul tavolo della discussione politica il sostegno a tutte le donne che vorrebbero essere madri? “Se io vedo che lo Stato mi aiuta quando io voglio avere un figlio, perché non è solo una questione privata questo figlio che arriverà, allora anche coloro che hanno una paura diversa, che non hanno figli non per questioni economiche ma per un timore generale, potranno vedere con meno paura la maternità. Iniziare da un sostegno economico e da un accompagnamento sociale e lavorativo quando queste sono le cause, contribuisce a creare una mentalità a favore della maternità”.

Vita e natalità: tema non solo cattolico

Ii dati Istat sul calo della popolazione portano il tema sul piano oggettivo di interesse di tutta la società e in Umbria il dato è drammatico. Non teme che possa ripresentarsi la barriera ideologica che fa del tema una battaglia cattolica? “Questa preoccupazione c’é, ma è talmente evidente che stiamo morendo come nazione, come regione, che chi pensa che sia una battaglia solo cattolica deve fare uno sforzo di onestà intellettuale perché un paese che si spegne, un Paese fatto di Rsa è un paese destinato a finire”. Ha descritto un paese di Rsa e l’Umbria non ne ha poche. Possiamo concludere dicendo che vorreste vedere una regione di asili nido? “Asili nido e famiglie con nonni e bambini. La Rsa è necessaria quando la famiglia che è povera e fragile non può tenere gli anziani in casa. Quindi vorrei vedere un paese con asili nido, con meno Rsa e più famiglie nel territorio con anziani che non vengono istituzionalizzati ma che sono una risorsa per il territorio”.
La 194 da applicare
C’è una parte della legge sull’aborto sulla quale il Movimento per la vita chiede un impegno comune per la sua applicazione. È l’articolo 5 della legge 194 approvata nel 1978 che detta le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Eccone un passaggio.
«Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».
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La Vita duella con la morte https://www.lavoce.it/la-vita-duella-con-la-morte/ Fri, 03 Apr 2020 14:46:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56759 logo reubrica commento al Vangelo

Domenica delle Palme – 5 aprile 2020

“Osanna al Figlio di David” è l’inno che introduce la celebrazione della Domenica delle Palme, è anche il canto che l’assemblea in cammino intona dopo le parole del sacerdote che dice: “Imitiamo, fratelli carissimi, le folle di Gerusalemme, che acclamavano Gesù, Re e Signore, e avviamoci in pace”. Con i rami di ulivo, processionalmente si entrava in chiesa, iniziando così la Settimana Santa, accompagnata dall’ascolto della Passione del Signore proclamata ben due volte: la domenica e il Venerdì santo. Un rito caro alle nostre comunità. Quest’anno lo dovremo interiorizzare vivendolo nelle famiglie all’ascolto della parola (qui le letture della Domenica), lasciandoci aiutare dalle immagini ma anche da un particolare atteggiamento spirituale.

La grande settimana

Questa domenica che precede la Pasqua è chiamata dai liturgisti “la grande settimana”, segnata dal mistero del dolore che si arresta al Sabato santo in attesa della Pasqua. Possiamo chiamarla anche “settimana di passione” a motivo non solo della doppia lettura dei testi evangelici della passione, ma anche a motivo ascolto dei quattro canti del Servo di YHWH, definiti del “Servo Sofferente” tratti dal profeta Isaia. Una “colonna sonora” che non crea certo distonia con il contesto che stiamo vivendo. Se qualche volta ci viene da dire: “Dov’è Dio”, questa domenica di risponde: “È qui in mezzo a noi”, egli ha fatto il suo ingresso nel mistero del dolore, affinché noi non perdessimo la speranza. Gesù entra a Gerusalemme, accolto con canti festosi, esultanza di popolo, al grido “Osanna” (Mt 21,9). Ma i canti di festa si tramutano, di lì a qualche giorno, come ci racconta il vangelo della passione, in urla rabbiose che lo condannano a morte (Mt 27,22-23). La folla è uno degli elementi caratteristici delle vicende narrate in questo lungo Evangelo. Dapprima la folla (Mt 21,8) riconosce in Gesù il profeta di Nazareth (v. 11) e l’inviato del Signore (v. 9), poi sempre la folla si erge a giudice in tribunale davanti a Pilato che commette il più grande “peccato di omissione” della storia lavandosi le mani (Mt 27,34). La folla farà da corteo a Giuda che si reca da Gesù per l’arresto, mandata dai sacerdoti e dagli anziani del popolo, armata di bastoni (Mt 26, 47); ad essa Gesù si rivolge chiedendo una spiegazione riguardo a questo atteggiamento, mai emerso quando nei giorni precedenti era al tempio e insegnava (v. 55).

Chissà, quanti sono passati dagli “applausi a Gesù” al grido di condanna!

Quando il testo parla della folla, compaiono sempre i sacerdoti e gli anziani in veste di “suggeritore occulto”. La sua azione trasforma le individualità in viltà, sfruttando la semplicità popolare che degenera in “populismo”. La folla diviene allora l’amplificatore dei peggiori istinti dell’uomo. Qual è l’atteggiamento di Gesù, di fronte alla sua condizione di indagato, accusato, arrestato ed infine di condannato? Il processo di piazza della folla, il processo del sinedrio, sembrano dominare sull’imputato, ma è in realtà Gesù a dominare la situazione. È Lui che decide, Lui stabilisce l’ora e il giorno della condanna e della sentenza. È Lui che decide di non difendersi con una schiera di angeli al suo comando, quando toglie la spada a chi voleva difenderlo dall’arresto (Mt 26, 52-53).

Il bene ed il male

Il Vangelo della Passione evidenzia, anche, lo scontro decisivo tra il bene ed il male. L’atto d’amore supremo di Gesù genera l’odio più profondo e sembra concentrarsi proprio negli ultimi eventi della vita di Gesù. In Lui sembra esserci la consapevolezza che si sta “giocando” la partita decisiva. Il male a sua volta concentra tutta la sua potenza, per trascinare nell’abisso il progetto della salvezza. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello” ascolteremo nella Sequenza di Pasqua, ma il combattimento, nella logica umana, non ha la certezza della facile vittoria. Il male ha la forza di trascinare l’uomo nelle tenebre e se non si scorge il piano inclinato che il Principe delle Tenebre ha preparato. Il degrado raggiunge l’abisso del male e l’uomo si costruisce il suo inferno.

Il duello ha un vincitore apparente.

La morte sembra avere l’ultima parola, ma essa “è stata ingoiata per la vittoria” ci ricorda san Paolo (1Cor 15,54). La vita ha ricollocato la morte nell’ambito del provvisorio, grazie al circuito dell’amore che troviamo espresso nel Vangelo della Passione: l’Eucarestia, il Getzemani, la Croce. In quell’ultima Cena che Gesù trasforma nella prima del tempo nuovo, egli esprime l’atto d’amore nel dono di sé, è la sua consegna ai suoi discepoli e lo spezzare il pane che è il suo corpo, anticipa l’evento della croce. Un atto d’amore compiuto nell’intimità di una tenerezza corrisposta. L’uscita verso il Getzemani, segna la tappa dell’amore, messo alla prova dal dolore dell’abbandono. La ferita interiore del dubbio penetra in profondità, ma il tutto si conferma con la fiducia totale che si fa abbandono tra le braccia del Padre. La croce diviene ormai il talamo nuziale, dove consumare quell’amore indissolubile con l’umanità, già fatto proprio e confermato. Le ferite del male, che hanno segnato l’intimo della volontà e del cuore di Gesù, sono ora visibili sul corpo ormai donato. La croce diventa una sorta di rito esplicativo, del supremo atto d’amore celebrato. San Tommaso tradurrà nell’Adoro te Devote questo “sovrapporsi” di immagini: il corpo sfigurato di Cristo sulla croce, e il Corpo di Cristo che è l’Eucaristia: “sulla croce era nascosta la sola divinità. Ma qui (nell’eucaristia) è celata anche l’umanità”. La fede in entrambe ci salverà. don Andrea Rossi]]>
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Domenica delle Palme – 5 aprile 2020

“Osanna al Figlio di David” è l’inno che introduce la celebrazione della Domenica delle Palme, è anche il canto che l’assemblea in cammino intona dopo le parole del sacerdote che dice: “Imitiamo, fratelli carissimi, le folle di Gerusalemme, che acclamavano Gesù, Re e Signore, e avviamoci in pace”. Con i rami di ulivo, processionalmente si entrava in chiesa, iniziando così la Settimana Santa, accompagnata dall’ascolto della Passione del Signore proclamata ben due volte: la domenica e il Venerdì santo. Un rito caro alle nostre comunità. Quest’anno lo dovremo interiorizzare vivendolo nelle famiglie all’ascolto della parola (qui le letture della Domenica), lasciandoci aiutare dalle immagini ma anche da un particolare atteggiamento spirituale.

La grande settimana

Questa domenica che precede la Pasqua è chiamata dai liturgisti “la grande settimana”, segnata dal mistero del dolore che si arresta al Sabato santo in attesa della Pasqua. Possiamo chiamarla anche “settimana di passione” a motivo non solo della doppia lettura dei testi evangelici della passione, ma anche a motivo ascolto dei quattro canti del Servo di YHWH, definiti del “Servo Sofferente” tratti dal profeta Isaia. Una “colonna sonora” che non crea certo distonia con il contesto che stiamo vivendo. Se qualche volta ci viene da dire: “Dov’è Dio”, questa domenica di risponde: “È qui in mezzo a noi”, egli ha fatto il suo ingresso nel mistero del dolore, affinché noi non perdessimo la speranza. Gesù entra a Gerusalemme, accolto con canti festosi, esultanza di popolo, al grido “Osanna” (Mt 21,9). Ma i canti di festa si tramutano, di lì a qualche giorno, come ci racconta il vangelo della passione, in urla rabbiose che lo condannano a morte (Mt 27,22-23). La folla è uno degli elementi caratteristici delle vicende narrate in questo lungo Evangelo. Dapprima la folla (Mt 21,8) riconosce in Gesù il profeta di Nazareth (v. 11) e l’inviato del Signore (v. 9), poi sempre la folla si erge a giudice in tribunale davanti a Pilato che commette il più grande “peccato di omissione” della storia lavandosi le mani (Mt 27,34). La folla farà da corteo a Giuda che si reca da Gesù per l’arresto, mandata dai sacerdoti e dagli anziani del popolo, armata di bastoni (Mt 26, 47); ad essa Gesù si rivolge chiedendo una spiegazione riguardo a questo atteggiamento, mai emerso quando nei giorni precedenti era al tempio e insegnava (v. 55).

Chissà, quanti sono passati dagli “applausi a Gesù” al grido di condanna!

Quando il testo parla della folla, compaiono sempre i sacerdoti e gli anziani in veste di “suggeritore occulto”. La sua azione trasforma le individualità in viltà, sfruttando la semplicità popolare che degenera in “populismo”. La folla diviene allora l’amplificatore dei peggiori istinti dell’uomo. Qual è l’atteggiamento di Gesù, di fronte alla sua condizione di indagato, accusato, arrestato ed infine di condannato? Il processo di piazza della folla, il processo del sinedrio, sembrano dominare sull’imputato, ma è in realtà Gesù a dominare la situazione. È Lui che decide, Lui stabilisce l’ora e il giorno della condanna e della sentenza. È Lui che decide di non difendersi con una schiera di angeli al suo comando, quando toglie la spada a chi voleva difenderlo dall’arresto (Mt 26, 52-53).

Il bene ed il male

Il Vangelo della Passione evidenzia, anche, lo scontro decisivo tra il bene ed il male. L’atto d’amore supremo di Gesù genera l’odio più profondo e sembra concentrarsi proprio negli ultimi eventi della vita di Gesù. In Lui sembra esserci la consapevolezza che si sta “giocando” la partita decisiva. Il male a sua volta concentra tutta la sua potenza, per trascinare nell’abisso il progetto della salvezza. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello” ascolteremo nella Sequenza di Pasqua, ma il combattimento, nella logica umana, non ha la certezza della facile vittoria. Il male ha la forza di trascinare l’uomo nelle tenebre e se non si scorge il piano inclinato che il Principe delle Tenebre ha preparato. Il degrado raggiunge l’abisso del male e l’uomo si costruisce il suo inferno.

Il duello ha un vincitore apparente.

La morte sembra avere l’ultima parola, ma essa “è stata ingoiata per la vittoria” ci ricorda san Paolo (1Cor 15,54). La vita ha ricollocato la morte nell’ambito del provvisorio, grazie al circuito dell’amore che troviamo espresso nel Vangelo della Passione: l’Eucarestia, il Getzemani, la Croce. In quell’ultima Cena che Gesù trasforma nella prima del tempo nuovo, egli esprime l’atto d’amore nel dono di sé, è la sua consegna ai suoi discepoli e lo spezzare il pane che è il suo corpo, anticipa l’evento della croce. Un atto d’amore compiuto nell’intimità di una tenerezza corrisposta. L’uscita verso il Getzemani, segna la tappa dell’amore, messo alla prova dal dolore dell’abbandono. La ferita interiore del dubbio penetra in profondità, ma il tutto si conferma con la fiducia totale che si fa abbandono tra le braccia del Padre. La croce diviene ormai il talamo nuziale, dove consumare quell’amore indissolubile con l’umanità, già fatto proprio e confermato. Le ferite del male, che hanno segnato l’intimo della volontà e del cuore di Gesù, sono ora visibili sul corpo ormai donato. La croce diventa una sorta di rito esplicativo, del supremo atto d’amore celebrato. San Tommaso tradurrà nell’Adoro te Devote questo “sovrapporsi” di immagini: il corpo sfigurato di Cristo sulla croce, e il Corpo di Cristo che è l’Eucaristia: “sulla croce era nascosta la sola divinità. Ma qui (nell’eucaristia) è celata anche l’umanità”. La fede in entrambe ci salverà. don Andrea Rossi]]>
Giornata per la vita. A Spoleto le voci di chi combatte per la vita nonostante tutto https://www.lavoce.it/giornata-vita-spoleto/ Mon, 04 Feb 2019 19:52:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53959 spoleto

Sabato 2 e domenica 3 febbraio 2019 la Chiesa italiana ha celebrato la 41ª Giornata nazionale per la Vita dal tema “È vita, è futuro”. A Spoleto, com’è oramai tradizione, questo evento è organizzato dall’archidiocesi di Spoleto-Norcia, in collaborazione con il reparto di Ginecologia ed Ostetricia dell’Ospedale “S. Matteo degli infermi” di Spoleto diretto dal dott. Fabrizio Damiani.

L'evento "Racconta la vita"

Il primo appuntamento è stato “Racconta la vita” che si è svolto sabato 2 febbraio all’auditorium della Scuola di Polizia di Spoleto. Benedetta Rinaldi, giornalista RAI, conduttrice di Uno Mattina, ha moderato il pomeriggio scandito da testimonianze sulla vita, sulle sue gioie e le sue difficoltà e da alcuni canti religiosi inerenti proposti dal “tenore di Dio” fra Alessandro Brustenghi, ofm.

Le testimonianze

Suor Monica dalla Costa d'Avorio

La prima testimonianza è stata di suor Monica Auccello, delle suore della Sacra Famiglia di Spoleto, da dodici anni missionaria in Costa d’Avorio, Africa, in collegamento video tramite facebook. Ha raccontato del servizio che le “figlie” del beato Pietro Bonilli garantiscono nella casa “Arc-en-ciel” (arcobaleno), dove accolgono bambini abbandonati dalle mamme e malnutriti, spesso orfani, tutti musulmani. «Diamo loro una prospettiva di futuro, cerchiamo di trasformare le loro “spine” in “rose e gigli”. Quando ci riusciamo – ha detto suor Monica - piangiamo per la gioia; quando la vita di questi piccoli bimbi si spegne tra le nostre mani e siamo chiamate a deporli nella nuda terra le nostre lacrime sono amare».

Elisabetta e la lotta contro il cancro

Elisabetta Giovannetti, 47 anni di Montefalco, ha testimoniato come la malattia, il cancro, ha cambiato la sua vita, senza intaccare però le sue radici. «Ho scoperto il tumore nel 2013, all’inizio lo consideravo un intruso che dovevo togliere quanto prima dal mio corpo. Mi ero isolata. Poi, col passare del tempo il cancro mi ha fatto fare delle esperienze incredibili, mi ha fatto conoscere tante persone, ha dato nuovo ossigeno alla mia famiglia, ha risvegliato la mia fede e alimentato la speranza nella scienza medica. Oggi non riesco ad odiare fino in fondo il mio cancro, anche se so che mi accompagnerà fino a quando lui vorrà».

Carla, ostetrica in missione in Etiopia

Una breve clip di video e foto ha mostrato l’esperienza “missionaria” di Carla Erbaioli in Etiopia. Ha preso le ferie dal lavoro, ostetrica nell’ospedale di Spoleto, per prestare servizio nella missione di Getche, nella regione etiope del Gurage, mettendo in campo la sua specialità: quella di far nascere bambini. È stato il dott. Damiani a commentare ai presenti la scelta di Carla: «È dotata di particolare dedizione nel lavoro, è empatica, ha tanta vitalità ed entusiasmo, abbina genio e sregolatezza. Tutto ciò lo declina con le partorienti, nella sua esperienza al servizio della collettività quale consigliere comunale prima a Castel Ritaldi e ora a Spoleto e, periodicamente, sfocia in queste esperienze all’estero».

Padre Bahiat, parroco di Damasco

Un altro collegamento in diretta facebook è stato fatto con padre Bahiat Elia Karakach dei francescani della Custodia di Terra Santa, parroco a Damasco in Siria. «La situazione – ha detto – è un po’ migliore in questo momento. La guerra però ha lasciato conseguenze psicologiche e sociali enormi. Il nostro compito, oltre alla pastorale, è quello di dare dignità alla vita di queste persone cresciute col conflitto, a renderla il più normale possibile, ad amarla e a non annientarla con le armi».

Fabrizia, madre coraggiosa

Fabrizia Felici di Norcia, mamma di Rosa Valentina, una ragazza di 28 anni affetta da una patologia gravissima: è ventilata parzialmente di notte e si nutre e idrata artificialmente. «Quando mia figlia aveva due anni un medico mi consigliò di metterla in un istituto: sei giovane, mi disse, devi vivere la tua vita. Chiaro che non lo feci. Il primo sorriso mia figlia me l’ha dato a cinque anni. Lei per il mondo è un fallimento, ma non lo è…ride, comunica, anche se non verbalmente, è con noi. A Norcia abbiamo fondato un’associazione per ragazzi disabili con l’obiettivo di farli uscire da casa…il sisma del 2016 ha distrutto tutto, ma vogliamo ricominciare. L’amore vince anche la morte…la sofferenza può essere trasformata in gioia». Maria Teresa Panone, direttore della Scuola di Polizia dove si è tenuto l'evento, si è detta lieta di poter accogliere una manifestazione dai contenuti così alti. L’arcivescovo Renato Boccardo ha sottolineato che la «vita è bella e vale la pena accoglierla dall’inizio alla sua fine naturale». Il sindaco di Spoleto Umberto de Augustinis ha detto che «la scelta per la vita è una scommessa sempre vincente e che l’amministrazione di Spoleto garantisce collaborazione per tutte le manifestazioni a sostegno di essa». Fabrizio Damiani, primario del reparto di ginecologia ed ostetricia dell’ospedale di Spoleto, ha ricordato che il reparto è in buona salute ma che è comunque «necessario lavorare sempre di più e monitorare le difficoltà che potrebbero aprirsi nel futuro, come conseguenza del calo generale delle nascite». Damiani ha voluto anche ricordare il compianto sindaco di Spoleto Fabrizio Cardarelli (deceduto a dicembre 2017, ndr) «che – ha detto - ha sempre molto creduto in questa iniziativa».

La messa per i nati nell'anno 2018

Il secondo appuntamento è stato la messa per i nati nell’anno 2018 all’Ospedale di Spoleto, celebrata domenica 3 febbraio in duomo dall’arcivescovo di Spoleto-Norcia mons. Renato Boccardo. Sotto il portico della cattedrale, su due pannelli, sono state appese le foto dei piccoli venuti alla luce nel nosocomio spoletino nello scorso anno (in totale 505). Molte le famiglie che hanno accettato l’invito, riempendo così la Cattedrale nonostante la pioggia incessante. Tutti sono stati accolti sotto il portico dall’arcivescovo Renato Boccardo. Alla messa, animata dal coro della Pastorale giovanile diocesana, ha preso parte il Sindaco Umberto de Augustinis e il dott. Fabrizio Damiani con parte del suo staff del reparto di ginecologia ed ostetricia. La sacrestia del Duomo era stata adibita a sala per le pappe e il cambio dei pannolini dei piccoli. Nell’omelia mons. Boccardo ha sottolineato come «ognuno di questi bimbi è oggetto del pensiero particolare di Dio che è padre amoroso. È in Dio che noi comprendiamo la loro bellezza e preziosità; è Lui che ha posto in voi, care mamme e cari papà, la sua fiducia donandovi questi batuffoletti che dovete far diventare persone». L’Arcivescovo ha poi ricordato che «la famiglia è il luogo ideale per accogliere la vita, per trasmettere a questi neonati le chiavi giuste per interpretare l’esistenza. È necessario allora un’alleanza tra famiglie e società, civile ed ecclesiale, per farli crescere in età, sapienza e grazia, per far sì che abitino con serietà la società che noi gli stiamo costruendo». Al termine della Messa, come tradizione, c’è stato il lancio verso il cielo di palloncini rosa e blu: «Un segno esteriore – ha detto mons. Boccardo - per “cantare” la nostra felicità nei confronti della vita».

Francesco Carlini

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Sabato 2 e domenica 3 febbraio 2019 la Chiesa italiana ha celebrato la 41ª Giornata nazionale per la Vita dal tema “È vita, è futuro”. A Spoleto, com’è oramai tradizione, questo evento è organizzato dall’archidiocesi di Spoleto-Norcia, in collaborazione con il reparto di Ginecologia ed Ostetricia dell’Ospedale “S. Matteo degli infermi” di Spoleto diretto dal dott. Fabrizio Damiani.

L'evento "Racconta la vita"

Il primo appuntamento è stato “Racconta la vita” che si è svolto sabato 2 febbraio all’auditorium della Scuola di Polizia di Spoleto. Benedetta Rinaldi, giornalista RAI, conduttrice di Uno Mattina, ha moderato il pomeriggio scandito da testimonianze sulla vita, sulle sue gioie e le sue difficoltà e da alcuni canti religiosi inerenti proposti dal “tenore di Dio” fra Alessandro Brustenghi, ofm.

Le testimonianze

Suor Monica dalla Costa d'Avorio

La prima testimonianza è stata di suor Monica Auccello, delle suore della Sacra Famiglia di Spoleto, da dodici anni missionaria in Costa d’Avorio, Africa, in collegamento video tramite facebook. Ha raccontato del servizio che le “figlie” del beato Pietro Bonilli garantiscono nella casa “Arc-en-ciel” (arcobaleno), dove accolgono bambini abbandonati dalle mamme e malnutriti, spesso orfani, tutti musulmani. «Diamo loro una prospettiva di futuro, cerchiamo di trasformare le loro “spine” in “rose e gigli”. Quando ci riusciamo – ha detto suor Monica - piangiamo per la gioia; quando la vita di questi piccoli bimbi si spegne tra le nostre mani e siamo chiamate a deporli nella nuda terra le nostre lacrime sono amare».

Elisabetta e la lotta contro il cancro

Elisabetta Giovannetti, 47 anni di Montefalco, ha testimoniato come la malattia, il cancro, ha cambiato la sua vita, senza intaccare però le sue radici. «Ho scoperto il tumore nel 2013, all’inizio lo consideravo un intruso che dovevo togliere quanto prima dal mio corpo. Mi ero isolata. Poi, col passare del tempo il cancro mi ha fatto fare delle esperienze incredibili, mi ha fatto conoscere tante persone, ha dato nuovo ossigeno alla mia famiglia, ha risvegliato la mia fede e alimentato la speranza nella scienza medica. Oggi non riesco ad odiare fino in fondo il mio cancro, anche se so che mi accompagnerà fino a quando lui vorrà».

Carla, ostetrica in missione in Etiopia

Una breve clip di video e foto ha mostrato l’esperienza “missionaria” di Carla Erbaioli in Etiopia. Ha preso le ferie dal lavoro, ostetrica nell’ospedale di Spoleto, per prestare servizio nella missione di Getche, nella regione etiope del Gurage, mettendo in campo la sua specialità: quella di far nascere bambini. È stato il dott. Damiani a commentare ai presenti la scelta di Carla: «È dotata di particolare dedizione nel lavoro, è empatica, ha tanta vitalità ed entusiasmo, abbina genio e sregolatezza. Tutto ciò lo declina con le partorienti, nella sua esperienza al servizio della collettività quale consigliere comunale prima a Castel Ritaldi e ora a Spoleto e, periodicamente, sfocia in queste esperienze all’estero».

Padre Bahiat, parroco di Damasco

Un altro collegamento in diretta facebook è stato fatto con padre Bahiat Elia Karakach dei francescani della Custodia di Terra Santa, parroco a Damasco in Siria. «La situazione – ha detto – è un po’ migliore in questo momento. La guerra però ha lasciato conseguenze psicologiche e sociali enormi. Il nostro compito, oltre alla pastorale, è quello di dare dignità alla vita di queste persone cresciute col conflitto, a renderla il più normale possibile, ad amarla e a non annientarla con le armi».

Fabrizia, madre coraggiosa

Fabrizia Felici di Norcia, mamma di Rosa Valentina, una ragazza di 28 anni affetta da una patologia gravissima: è ventilata parzialmente di notte e si nutre e idrata artificialmente. «Quando mia figlia aveva due anni un medico mi consigliò di metterla in un istituto: sei giovane, mi disse, devi vivere la tua vita. Chiaro che non lo feci. Il primo sorriso mia figlia me l’ha dato a cinque anni. Lei per il mondo è un fallimento, ma non lo è…ride, comunica, anche se non verbalmente, è con noi. A Norcia abbiamo fondato un’associazione per ragazzi disabili con l’obiettivo di farli uscire da casa…il sisma del 2016 ha distrutto tutto, ma vogliamo ricominciare. L’amore vince anche la morte…la sofferenza può essere trasformata in gioia». Maria Teresa Panone, direttore della Scuola di Polizia dove si è tenuto l'evento, si è detta lieta di poter accogliere una manifestazione dai contenuti così alti. L’arcivescovo Renato Boccardo ha sottolineato che la «vita è bella e vale la pena accoglierla dall’inizio alla sua fine naturale». Il sindaco di Spoleto Umberto de Augustinis ha detto che «la scelta per la vita è una scommessa sempre vincente e che l’amministrazione di Spoleto garantisce collaborazione per tutte le manifestazioni a sostegno di essa». Fabrizio Damiani, primario del reparto di ginecologia ed ostetricia dell’ospedale di Spoleto, ha ricordato che il reparto è in buona salute ma che è comunque «necessario lavorare sempre di più e monitorare le difficoltà che potrebbero aprirsi nel futuro, come conseguenza del calo generale delle nascite». Damiani ha voluto anche ricordare il compianto sindaco di Spoleto Fabrizio Cardarelli (deceduto a dicembre 2017, ndr) «che – ha detto - ha sempre molto creduto in questa iniziativa».

La messa per i nati nell'anno 2018

Il secondo appuntamento è stato la messa per i nati nell’anno 2018 all’Ospedale di Spoleto, celebrata domenica 3 febbraio in duomo dall’arcivescovo di Spoleto-Norcia mons. Renato Boccardo. Sotto il portico della cattedrale, su due pannelli, sono state appese le foto dei piccoli venuti alla luce nel nosocomio spoletino nello scorso anno (in totale 505). Molte le famiglie che hanno accettato l’invito, riempendo così la Cattedrale nonostante la pioggia incessante. Tutti sono stati accolti sotto il portico dall’arcivescovo Renato Boccardo. Alla messa, animata dal coro della Pastorale giovanile diocesana, ha preso parte il Sindaco Umberto de Augustinis e il dott. Fabrizio Damiani con parte del suo staff del reparto di ginecologia ed ostetricia. La sacrestia del Duomo era stata adibita a sala per le pappe e il cambio dei pannolini dei piccoli. Nell’omelia mons. Boccardo ha sottolineato come «ognuno di questi bimbi è oggetto del pensiero particolare di Dio che è padre amoroso. È in Dio che noi comprendiamo la loro bellezza e preziosità; è Lui che ha posto in voi, care mamme e cari papà, la sua fiducia donandovi questi batuffoletti che dovete far diventare persone». L’Arcivescovo ha poi ricordato che «la famiglia è il luogo ideale per accogliere la vita, per trasmettere a questi neonati le chiavi giuste per interpretare l’esistenza. È necessario allora un’alleanza tra famiglie e società, civile ed ecclesiale, per farli crescere in età, sapienza e grazia, per far sì che abitino con serietà la società che noi gli stiamo costruendo». Al termine della Messa, come tradizione, c’è stato il lancio verso il cielo di palloncini rosa e blu: «Un segno esteriore – ha detto mons. Boccardo - per “cantare” la nostra felicità nei confronti della vita».

Francesco Carlini

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Giornata per la vita. Cei: ” La forza del possibile nonostante tutto” https://www.lavoce.it/giornata-vita-cei-possibile/ Sat, 02 Feb 2019 10:16:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53939 possibile

Il messaggio dei Vescovi italiani per la Giornata della vita 2019 (domenica 3 febbraio) ha un titolo emblematico: “È vita, è futuro”. La riflessione intreccia le preoccupazioni e le sfide del presente con la speranza. Virtù che genera futuro e, con esso, quella carica di senso e di scopo che attiva e anima l’impegno più generoso e audace.

Non un futuro immobile nel suo al di là, ma un futuro veniente: “Il futuro inizia oggi: è un investimento nel presente”. La vita è così vista sulla lunghezza d’onda della speranza e della passione del possibile che essa genera e alimenta. Una speranza che non evade dalla terra: “Il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, con i piedi ben piantati sulla terra per rispondere con coraggio alle innumerevoli sfide”. Sono sfide alla vita che riflettono un difetto di speranza e tolgono futuro alla vita, all’amore e all’impegno per essa.

Le sfide della vita

Il messaggio pone come prima sfida “la mancanza di un lavoro stabile e dignitoso”, che “spegne nei più giovani l’anelito al futuro” e, con esso, alla formazione di una famiglia e alla generazione della vita. Il deficit di futuro provocato dall’instabilità e insicurezza del lavoro concorre fortemente al “calo demografico” in atto nel nostro Paese e al suo progressivo aggravamento.

Al dato socio-economico della carenza e precarietà del lavoro si salda quello socio-culturale di una diffusa e pervasiva “mentalità antinatalista”, esito di quell’ anti- life mentality che sottrae valore e amore alla vita, alla vita nascente in primis .

Il che “determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato”. Non solo: “Rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire”. Di qui l’urgenza di “un patto per la natalità”, che “coinvolga tutte le forze culturali e politiche” e “riconosca la famiglia come grembo generativo del nostro Paese”.

Altra sfida sono le molte e multiformi condizioni di “chi soffre per la malattia, per la violenza subita o per l’emarginazione”. Sofferenza gravata da “l’indifferenza” dello sguardo distratto e incurante, incapace di misurarsi con la fragilità.

Due emergenze

Un’attenzione particolare è rivolta a due emergenze. La prima viene da lontano: è la “piaga dell’aborto” che, come ha detto Papa Francesco, “non è un male minore, è un crimine”. Denuncia che lo porta a ribadire in modo forte: “La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana”.

La seconda è un’emergenza dei nostri giorni che si fa sempre più inquietante. Tocca la vita di donne, uomini e bambini “bisognosi di trovare rifugio in una terra sicura” e vanno incontro a naufragi e tentativi di “respingimento verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze”.

In linea con l’insegnamento del Papa, il messaggio congiunge in un’unica denuncia l’indifferenza, l’incuria e gli affronti alla vita umana con gli “attentati all’integrità e alla salute della “casa comune”, che è il nostro pianeta”. Oggetto entrambe delle stesse negligenze e violazioni.

La speranza

Ciononostante domina la speranza: la forza del possibile nonostante tutto. Forza attinta alla vittoria pasquale del Crocifisso, che fuga ogni rassegnazione e sconforto e porta a “rinnovarsi e rinnovare”. Il futuro è dalla parte della vita, perché “la vita è sempre un bene”. Riconoscere e promuovere questo bene schiude orizzonti. “Per aprire il futuro siamo chiamati all’accoglienza della vita”. A prescindere dalle sue fragilità. Anzi con attenzione privilegiata ad esse: “L’abbraccio alla vita fragile genera futuro”.

Mauro Cozzoli ordinario di Teologia morale pontificia università Lateranense

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possibile

Il messaggio dei Vescovi italiani per la Giornata della vita 2019 (domenica 3 febbraio) ha un titolo emblematico: “È vita, è futuro”. La riflessione intreccia le preoccupazioni e le sfide del presente con la speranza. Virtù che genera futuro e, con esso, quella carica di senso e di scopo che attiva e anima l’impegno più generoso e audace.

Non un futuro immobile nel suo al di là, ma un futuro veniente: “Il futuro inizia oggi: è un investimento nel presente”. La vita è così vista sulla lunghezza d’onda della speranza e della passione del possibile che essa genera e alimenta. Una speranza che non evade dalla terra: “Il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, con i piedi ben piantati sulla terra per rispondere con coraggio alle innumerevoli sfide”. Sono sfide alla vita che riflettono un difetto di speranza e tolgono futuro alla vita, all’amore e all’impegno per essa.

Le sfide della vita

Il messaggio pone come prima sfida “la mancanza di un lavoro stabile e dignitoso”, che “spegne nei più giovani l’anelito al futuro” e, con esso, alla formazione di una famiglia e alla generazione della vita. Il deficit di futuro provocato dall’instabilità e insicurezza del lavoro concorre fortemente al “calo demografico” in atto nel nostro Paese e al suo progressivo aggravamento.

Al dato socio-economico della carenza e precarietà del lavoro si salda quello socio-culturale di una diffusa e pervasiva “mentalità antinatalista”, esito di quell’ anti- life mentality che sottrae valore e amore alla vita, alla vita nascente in primis .

Il che “determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato”. Non solo: “Rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire”. Di qui l’urgenza di “un patto per la natalità”, che “coinvolga tutte le forze culturali e politiche” e “riconosca la famiglia come grembo generativo del nostro Paese”.

Altra sfida sono le molte e multiformi condizioni di “chi soffre per la malattia, per la violenza subita o per l’emarginazione”. Sofferenza gravata da “l’indifferenza” dello sguardo distratto e incurante, incapace di misurarsi con la fragilità.

Due emergenze

Un’attenzione particolare è rivolta a due emergenze. La prima viene da lontano: è la “piaga dell’aborto” che, come ha detto Papa Francesco, “non è un male minore, è un crimine”. Denuncia che lo porta a ribadire in modo forte: “La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana”.

La seconda è un’emergenza dei nostri giorni che si fa sempre più inquietante. Tocca la vita di donne, uomini e bambini “bisognosi di trovare rifugio in una terra sicura” e vanno incontro a naufragi e tentativi di “respingimento verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze”.

In linea con l’insegnamento del Papa, il messaggio congiunge in un’unica denuncia l’indifferenza, l’incuria e gli affronti alla vita umana con gli “attentati all’integrità e alla salute della “casa comune”, che è il nostro pianeta”. Oggetto entrambe delle stesse negligenze e violazioni.

La speranza

Ciononostante domina la speranza: la forza del possibile nonostante tutto. Forza attinta alla vittoria pasquale del Crocifisso, che fuga ogni rassegnazione e sconforto e porta a “rinnovarsi e rinnovare”. Il futuro è dalla parte della vita, perché “la vita è sempre un bene”. Riconoscere e promuovere questo bene schiude orizzonti. “Per aprire il futuro siamo chiamati all’accoglienza della vita”. A prescindere dalle sue fragilità. Anzi con attenzione privilegiata ad esse: “L’abbraccio alla vita fragile genera futuro”.

Mauro Cozzoli ordinario di Teologia morale pontificia università Lateranense

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L’aborto non diminuisce: si nasconde https://www.lavoce.it/aborto-diminuisce-nasconde/ Thu, 31 Jan 2019 10:11:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53917 aborto

Come ogni anno, è stata fatta in Parlamento la relazione ministeriale circa l’applicazione della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza. E, anche quest’anno, le interpretazioni fornite su quei dati appaiono contestabili all’Aigoc (Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici) di cui è vice presidente l’umbro Angelo M. Filardo. Il testo dettagliato del comunicato stampa dell’Aigoc può essere letto al link Appunti per la 41^ Giornata per la Vita Umbria; qui segnaliamo alcuni aspetti controversi sui dati “ufficiali” relativi all’aborto.

Da parte delle pubbliche autorità, infatti, si tende ad affermare che il fenomeno in Italia è in calo. In realtà - scrive l’Aigoc - “l’aborto volontario non diminuisce, si nasconde!

Leggendo attentamente la relazione [ministeriale], ci accorgiamo che la diminuzione di 4.193 aborti registrata nell’anno 2017 è solo apparente: a pag. 12-13 possiamo verificare che nello stesso periodo sono state vendute 155.960 confezioni di ellaOne e Norlevo [pillole ‘del giorno dopo’] in più rispetto al 2016, che, con tasso di concepimento del 20%, corrisponderebbero a 31.192 aborti precoci”. Per quanto riguarda l’Umbria, “dopo le Marche (86,63%), è la regione in cui i Consultori pubblici rilasciano la percentuale maggiore (82,12%) di attestati per abortire dopo un colloquio”. Nel 2017, in regione, il tasso di abortività era del 4,3 per mille per le ragazze di 15-19 anni, del 9,7 per i 20-24 anni, del 10,35 per i 25-29 anni, del 9,96 per i 30-34 anni, dell’ 8,41 per i 35-39 anni, del 3,76 per i 40-44 anni.

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aborto

Come ogni anno, è stata fatta in Parlamento la relazione ministeriale circa l’applicazione della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza. E, anche quest’anno, le interpretazioni fornite su quei dati appaiono contestabili all’Aigoc (Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici) di cui è vice presidente l’umbro Angelo M. Filardo. Il testo dettagliato del comunicato stampa dell’Aigoc può essere letto al link Appunti per la 41^ Giornata per la Vita Umbria; qui segnaliamo alcuni aspetti controversi sui dati “ufficiali” relativi all’aborto.

Da parte delle pubbliche autorità, infatti, si tende ad affermare che il fenomeno in Italia è in calo. In realtà - scrive l’Aigoc - “l’aborto volontario non diminuisce, si nasconde!

Leggendo attentamente la relazione [ministeriale], ci accorgiamo che la diminuzione di 4.193 aborti registrata nell’anno 2017 è solo apparente: a pag. 12-13 possiamo verificare che nello stesso periodo sono state vendute 155.960 confezioni di ellaOne e Norlevo [pillole ‘del giorno dopo’] in più rispetto al 2016, che, con tasso di concepimento del 20%, corrisponderebbero a 31.192 aborti precoci”. Per quanto riguarda l’Umbria, “dopo le Marche (86,63%), è la regione in cui i Consultori pubblici rilasciano la percentuale maggiore (82,12%) di attestati per abortire dopo un colloquio”. Nel 2017, in regione, il tasso di abortività era del 4,3 per mille per le ragazze di 15-19 anni, del 9,7 per i 20-24 anni, del 10,35 per i 25-29 anni, del 9,96 per i 30-34 anni, dell’ 8,41 per i 35-39 anni, del 3,76 per i 40-44 anni.

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Il sogno di un mondo più umano e più bello https://www.lavoce.it/sogno-mondo-umano/ Wed, 30 Jan 2019 12:05:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53903 Il mio sogno è che ciascuno abbia degli amici radicalmente diversi da lui, che si possa accettare e vivere l’avventura di una amicizia veramente sincera con gente che non ha la nostra stessa educazione, lingua, religione. Se riusciremo a fare questo, il mondo sarà migliore”. È il sogno di un giovane frate domenicano francese, Jean Druel, che al Cairo dirige l’Istituto domenicano di studi orientali.

Quello riportato è un breve passaggio dell’intervista pubblicata dalla rivista del Centro ecumenico di Perugia Una città per il dialogo. In questa frase di p. Jean ci sono alcune parole-chiave che riecheggiano in questi giorni in quella parte di società – e di Chiesa – che non si arrende alla cultura dei muri innalzati e dei porti chiusi. Sono le parole “amicizia”, “diversità”, “mondo”, e, pensando ai giovani anche la parola “sogno”.

Il “sogno” di p. Jean è il “sogno” di Dio che nell’incarnazione del Figlio si è fatto “amico” dell’uomo. E cosa c’è di più “radicalmente diverso” dall’uomo se non “Dio”? I cristiani con la preghiera del “Padre nostro” hanno imparato a pensare a tutto il genere umano come a dei fratelli, seppure tanto e a volte umanamente troppo diversi.

Certo è una sfida continua quella della accettazione della diversità di ogni genere che per i credenti diventa un invito che va oltre quando Gesù dice che dobbiamo “amare” anche i “nemici”. Per questo la questione dei migranti tenuti fuori dai nostri spazi mentali prima che geografici non è una tra le tante discutibili scelte politiche ma tocca nel profondo l’identità del cristiano.

Il vescovo Paolo Giulietti, nell’omelia per i primi vespri della festa del patrono di Perugia, san Costanzo, ha evidenziato il valore e la forza interiore di coloro che ascoltano la propria coscienza e, aggiungiamo noi, il proprio cuore e non si accodano al pensiero dominante. Come il vescovo Costanzo, nel II secolo, che per essere fedele a Cristo perde la vita a causa delle persecuzioni scatenate contro i cristiani per la loro religione.

E come i “Giusti delle nazioni” che negli anni della II guerra mondiale, a rischio della propria vita, hanno salvato la vita degli ebrei perseguitati a causa della loro religione. Nel Martirologio romano la Chiesa ricorda i martiri come esempi da seguire e fa festa per loro, perché dalla loro testimonianza è nato un mondo migliore. Anche i “Giusti delle nazioni” sono testimoni della possibilità che a tutti è data di poter scegliere tra l’essere umani, riconoscendo fino in fondo l’umanità di chi è “diverso”, ed essere invece disumani ovvero distruttivi per tutti.

Il vescovo di Terni, mons. Giuseppe Piemontese, ha usato parole chiare e forti per condannare il modo in cui sono trattati gli immigrati oggi nel nostro Paese. “Il timore per la propria sicurezza – ha detto – , la paura dell’estraneo e del diverso, lo stato di precarietà economica e sociale stanno facendo perdere quella lucidità mentale e quel coraggio civico che porta ad affrontare i problemi con razionalità, intelligenza, solidarietà e compassione. … Non sono nella condizione di fare la predica a nessuno, ma non posso non fare appello al senso di umanità dei cittadini, cristiani e non, anche in vista di evitare situazioni di ulteriori disagi per tutti”.

E infine, ma non ultimo, nel Messaggio per la Giornata per la vita i vescovi italiani ricordano che corriamo il rischio di abituarci alla sofferenza dell’altro pensando che non ci riguarda, e così concludono: “Vivere fino in fondo ciò che è umano migliora il cristiano e feconda la città. La costruzione di questo nuovo umanesimo è la vera sfida che ci attende e parte dal sì alla vita”.

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I bambini non sono tutti uguali https://www.lavoce.it/bambini-non-tutti-uguali/ Thu, 12 Jul 2018 08:12:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52323 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Fino a qualche giorno fa, parecchi Italiani (me compreso) avrebbero avuto qualche difficoltà a trovare la Thailandia sulla carta geografica. Ma tutti abbiamo seguito l’avventura di dodici ragazzini in gita di piacere, rimasti chiusi nel fondo di una grotta per colpa dell’incredibile leggerezza del loro istruttore. Per tirarli fuori vivi, diecine (forse centinaia) di esperti soccorritori si sono prodigati giorno e notte per circa due settimane, con profusione di mezzi tecnologicamente avanzati e ovviamente costosi. Uno dei soccorritori ci ha rimesso la vita. Per tutto questo tempo la cronaca del difficile salvataggio ha riempito telegiornali, radiogiornali, giornali stampati e internet, segno che la gente comune si appassionava alla vicenda. Una bella prova, si direbbe, di sensibilità umana e di solidarietà. Ma negli stessi giorni, e anche nelle settimane e nei mesi precedenti, molto più vicino a noi, nelle acque di quello che i Romani chiamavano mare nostrum, un gran numero di altri ragazzini, anche più piccoli, non in gita di piacere ma in fuga da condizioni di vita subumane, rischiavano di morire miseramente annegati, e non pochi di loro ci sono effettivamente morti. E per questi non c’è stata emozione collettiva, ma da parte della maggioranza degli italiani (o almeno dalla maggioranza in senso politico) una distratta e infastidita indifferenza; quando non il disprezzo, espresso anche ad alta voce, nei confronti di chi invece manifestasse preoccupazione e solidarietà. Una delle tante drammatiche contraddizioni del mondo moderno. Un mondo che non ha più confini, quanto alle comunicazioni, alla circolazione dei pensieri e delle immagini, agli idoli dello spettacolo e dello sport; ma che i confini immediatamente li riscopre, e li proclama sacri e inviolabili, quando i disperati bussano alla porta. Così abbiamo trovato giusto e doveroso che in Thailandia, per salvare alcune vite, si facesse di tutto perché “tutto è dovuto per salvare una vita umana in pericolo”; ma quando tocca a noi fare la nostra parte, diciamo – magari con un Rosario in mano - che “la pacchia deve finire”.]]>
Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Fino a qualche giorno fa, parecchi Italiani (me compreso) avrebbero avuto qualche difficoltà a trovare la Thailandia sulla carta geografica. Ma tutti abbiamo seguito l’avventura di dodici ragazzini in gita di piacere, rimasti chiusi nel fondo di una grotta per colpa dell’incredibile leggerezza del loro istruttore. Per tirarli fuori vivi, diecine (forse centinaia) di esperti soccorritori si sono prodigati giorno e notte per circa due settimane, con profusione di mezzi tecnologicamente avanzati e ovviamente costosi. Uno dei soccorritori ci ha rimesso la vita. Per tutto questo tempo la cronaca del difficile salvataggio ha riempito telegiornali, radiogiornali, giornali stampati e internet, segno che la gente comune si appassionava alla vicenda. Una bella prova, si direbbe, di sensibilità umana e di solidarietà. Ma negli stessi giorni, e anche nelle settimane e nei mesi precedenti, molto più vicino a noi, nelle acque di quello che i Romani chiamavano mare nostrum, un gran numero di altri ragazzini, anche più piccoli, non in gita di piacere ma in fuga da condizioni di vita subumane, rischiavano di morire miseramente annegati, e non pochi di loro ci sono effettivamente morti. E per questi non c’è stata emozione collettiva, ma da parte della maggioranza degli italiani (o almeno dalla maggioranza in senso politico) una distratta e infastidita indifferenza; quando non il disprezzo, espresso anche ad alta voce, nei confronti di chi invece manifestasse preoccupazione e solidarietà. Una delle tante drammatiche contraddizioni del mondo moderno. Un mondo che non ha più confini, quanto alle comunicazioni, alla circolazione dei pensieri e delle immagini, agli idoli dello spettacolo e dello sport; ma che i confini immediatamente li riscopre, e li proclama sacri e inviolabili, quando i disperati bussano alla porta. Così abbiamo trovato giusto e doveroso che in Thailandia, per salvare alcune vite, si facesse di tutto perché “tutto è dovuto per salvare una vita umana in pericolo”; ma quando tocca a noi fare la nostra parte, diciamo – magari con un Rosario in mano - che “la pacchia deve finire”.]]>
Vita nascente: 40 anni di scoperte https://www.lavoce.it/vita-nascente-40-anni-scoperte/ Wed, 23 May 2018 14:42:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51937 di Maria Rita Valli

“La realtà è superiore all’idea”. Papa Francesco lo ripete spesso, lo ha scritto anche nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium laddove affronta il tema del bene comune e della pace sociale.

In modo molto efficace ricorda che occorre sempre partire dalla realtà perché questa non dipende dalle nostre idee. Ripartire dalla realtà consente di riprendere il confronto in un dialogo costruttivo anche su quei temi etici che sono fortemente divisivi quando affrontati con approccio ideologico. Uno di questi è il tema della vita nascente, che diventa tabù non appena se ne parla, ancor più se in relazione all’aborto. Ed è ciò che sta accadendo in questi giorni con le iniziative dei movimenti pro life promosse in occasione dei quaranta anni dell’approvazione, in Italia, della legge 194 del 22 maggio 1978 sull’aborto. Dai manifesti ProVita e CitizenGo con il feto di 11 settimane per ricordare a chi lo vede che “Tu eri così” e che “Ora sei qui perché tua mamma non ti ha abortito”, alla marcia per la vita che sabato scorso ha raccolto a Roma migliaia di persone.

I manifesti sono stati censurati a Roma come a Magione dalle stesse amministrazioni che prima li avevano affissi, mentre a Perugia è stato imbrattato e l’opposizione in Consiglio comunale (i consiglieri Pd Tommaso Bori e Sara Bistocchi) ne chiede, anche qui, la censura, ritenendolo “lesivo dei diritti e delle libertà individuali” perché, secondo loro, oltre ad essere “offensivo” sarebbe un attacco alla legge 194 e al (presunto) diritto all’aborto. Da parte loro, i pro-life (che la stampa internazionale e anche italiana definisce in senso dispregiativo “integralisti cattolici”) affermano che la campagna non è contro le donne ma anzi a sostegno della loro reale libera scelta, anche di quella di non abortire.

Si può dissentire dalla forma di comunicazione, per la scelta delle immagini piuttosto che per il tono diretto dei testi (e dubbi e perplessità , se non proprio contrarietà, sono stati espressi anche da chi è contro l’aborto) ma ciò che colpisce nella reazione dei paladini della 194 è la totale assenza di confronto con la realtà: la realtà, anzitutto, di ciò che accade nel corpo di una donna sin dal concepimento.

Della realtà possiamo avere una comprensione diversa nel tempo, questo anche quando parliamo della vita che nasce. Ciò che oggi conosciamo non ci consente più di affrontare il tema con le categorie – le idee – di quarant’anni fa. Il neonatologo Carlo Bellieni, su Avvenire di martedì 22 maggio (on line su www.avvenire.it) scrive che “Quarant’anni per la scienza sono un’infinità. All’epoca del varo della 194 non si conosceva la potenzialità interattiva del figlio con la madre prima della nascita, non si sapeva come il Dna viene influenzato dalle esperienze prenatali, e pochissimo si sapeva della sensorialità fetale.

Oggi conosciamo molto”. E continua, citando studi e scoperte, per concludere sottolineando che “la lezione di questi quarant’anni è che non possono esistere difensori del feto contrapposti a difensori delle donne ma un’alleanza, perché laddove si rispetta la donna necessariamente si rispetta anche il bambino, e viceversa”.

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MPV Umbria. Legge sull’aborto, quarant’anni dopo https://www.lavoce.it/legge-sullaborto-quarantanni/ Mon, 21 May 2018 15:14:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51917

La legge 194/78 dal titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, datata 22 Maggio 1978, compie quarant’anni e non lascia in silenzio l’opinione pubblica sul tema dell’aborto. Considerato da una larga parte della società come un “diritto della donna”, si dimentica che l’aborto volontario comporta inevitabilmente la soppressione di un’altra vita umana, quella dell’embrione, che la donna porta in grembo. Oggi appare “politicamente scorretto” ricordare pubblicamente questa verità, che anche la scienza ci conferma: se infatti è possibile curare ormai molte patologie umane durante il periodo prenatale, perché non dovremmo considerare quel momento della vita che precede la nascita come degno dei diritti umani per cui in tante parti del mondo ci si batte? Secondo Assuntina Morresi, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica: “L’aborto sembra quasi che non costituisca più una preoccupazione. Il rischio è che siccome i dati lo danno in costante diminuzione nel nostro paese, sembra che non debba destare allarme. Ma molti non notano che la diminuzione è correlata innanzitutto al fatto che anche le nascite sono in netto calo. Non nascono più persone. Ecco perché rispetto agli altri paesi in Italia si abortisce di meno”. La Morresi mette dunque l’accento su una realtà già molte volte segnalata dal Movimento per la Vita: la drammatica crisi demografica italiana. “Un altro dato ingarbuglia le idee sul tema dell’aborto volontario – prosegue la bioeticista – cioè il fatto che la cosiddetta contraccezione di emergenza (specie da quando è stata tolta la ricetta per la prescrizione) confonde i numeri: non sapremo mai quante volte gli embrioni formati non si sono annidati, perché questo tipo di contraccezione può avere un effetto sia anticoncezionale sia antinidatorio. In sintesi, l’aborto tende a scomparire non perché non ci sia più, ma perché tende a diventare invisibile: non ce se ne preoccupa più”. Nelle parole del ginecologo Angelo Francesco Filardo, vice presidente della Federazione Umbra MpV, alcuni impressionanti numeri sui primi quaranta anni della legge che permette l’aborto volontario in Italia (analisi della relazione del Ministro della Salute sull’applicazione della legge 194/1978 al Parlamento, anno 2016): “Nelle 129 pagine di relazione mai è stato fatto cenno alle prime vittime di questa legge, cioè ai 5.830.930 embrioni/feti umani uccisi, né alle altre vittime di questa mortifera legge, cioè le donne stesse che abortiscono, i loro mariti/partner, i loro figli già nati, i nonni, che in gran parte vanno incontro a complicanze psichiche di cui il ministero e le strutture sanitarie territoriali continuano a non prendersi cura. La costante crescita degli aborti volontari oltre i 90 giorni, che nel 2016 sono diventati 4.432, è l’indicatore più veritiero del diffondersi tra noi della cultura di morte in quanto a quest’epoca gestazionale l’aborto volontario non può essere occultato da atri mezzi abortivi come negli aborti precoci e precocissimi (pillole del/i giorno/i dopo, spirale, pillole e.p., …). Solo un’educazione all’amore fecondo e responsabile ed al rispetto della vita umana dal concepimento alla morte naturale assieme alla conoscenza della fertilità della donna offerta dai Metodi Naturali di Regolazione della Fertilità possono ricreare una cultura della vita e sciogliere il gelo, che ci sta conducendo al suicidio demografico”. Vincenzo Silvestrelli, presidente della Federazione Umbra MpV, sottolinea la necessità di sviluppare politiche che aiutino la natalità. “Per ottenere questo risultato è necessario agire su due fronti. Da una parte occorre agire per realizzare le previsioni della prima parte della legge 194, in gran parte inattuate. Sarebbe utile favorire la presenza del volontariato per la vita presso le strutture pubbliche al fine di dare la possibilità alle donne di conoscere quali possibilità di aiuto sia possibile ottenere. Dove questo avviene si assiste ad una significativa riduzione del numero degli aborti. In questo momento il Movimento per la vita sta collaborando con i consultori dell’ASL di Perugia. Dall’altra parte occorre promuovere politiche pubbliche e private per facilitare le donne. Il Movimento per la vita dell’Umbria ha elaborato una proposta per l’istituzione di un osservatorio per il welfare aziendale che è stata presentata dal Consigliere Sergio De Vincenzi e che potrà favorire l’adozione di buone pratiche per favorire il rapporto famiglia lavoro da parte delle aziende”. La Federazione dei Movimenti per la Vita e CAV dell’Umbria si augura che tutta la società, a partire dalle istituzioni e da quanti sono preposti a tutelare il diritto alla vita di tutti, possano prendere coscienza dell’urgenza di tutelare realmente la maternità, in vista del benessere e della prosecuzione della società stessa.]]>

La legge 194/78 dal titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, datata 22 Maggio 1978, compie quarant’anni e non lascia in silenzio l’opinione pubblica sul tema dell’aborto. Considerato da una larga parte della società come un “diritto della donna”, si dimentica che l’aborto volontario comporta inevitabilmente la soppressione di un’altra vita umana, quella dell’embrione, che la donna porta in grembo. Oggi appare “politicamente scorretto” ricordare pubblicamente questa verità, che anche la scienza ci conferma: se infatti è possibile curare ormai molte patologie umane durante il periodo prenatale, perché non dovremmo considerare quel momento della vita che precede la nascita come degno dei diritti umani per cui in tante parti del mondo ci si batte? Secondo Assuntina Morresi, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica: “L’aborto sembra quasi che non costituisca più una preoccupazione. Il rischio è che siccome i dati lo danno in costante diminuzione nel nostro paese, sembra che non debba destare allarme. Ma molti non notano che la diminuzione è correlata innanzitutto al fatto che anche le nascite sono in netto calo. Non nascono più persone. Ecco perché rispetto agli altri paesi in Italia si abortisce di meno”. La Morresi mette dunque l’accento su una realtà già molte volte segnalata dal Movimento per la Vita: la drammatica crisi demografica italiana. “Un altro dato ingarbuglia le idee sul tema dell’aborto volontario – prosegue la bioeticista – cioè il fatto che la cosiddetta contraccezione di emergenza (specie da quando è stata tolta la ricetta per la prescrizione) confonde i numeri: non sapremo mai quante volte gli embrioni formati non si sono annidati, perché questo tipo di contraccezione può avere un effetto sia anticoncezionale sia antinidatorio. In sintesi, l’aborto tende a scomparire non perché non ci sia più, ma perché tende a diventare invisibile: non ce se ne preoccupa più”. Nelle parole del ginecologo Angelo Francesco Filardo, vice presidente della Federazione Umbra MpV, alcuni impressionanti numeri sui primi quaranta anni della legge che permette l’aborto volontario in Italia (analisi della relazione del Ministro della Salute sull’applicazione della legge 194/1978 al Parlamento, anno 2016): “Nelle 129 pagine di relazione mai è stato fatto cenno alle prime vittime di questa legge, cioè ai 5.830.930 embrioni/feti umani uccisi, né alle altre vittime di questa mortifera legge, cioè le donne stesse che abortiscono, i loro mariti/partner, i loro figli già nati, i nonni, che in gran parte vanno incontro a complicanze psichiche di cui il ministero e le strutture sanitarie territoriali continuano a non prendersi cura. La costante crescita degli aborti volontari oltre i 90 giorni, che nel 2016 sono diventati 4.432, è l’indicatore più veritiero del diffondersi tra noi della cultura di morte in quanto a quest’epoca gestazionale l’aborto volontario non può essere occultato da atri mezzi abortivi come negli aborti precoci e precocissimi (pillole del/i giorno/i dopo, spirale, pillole e.p., …). Solo un’educazione all’amore fecondo e responsabile ed al rispetto della vita umana dal concepimento alla morte naturale assieme alla conoscenza della fertilità della donna offerta dai Metodi Naturali di Regolazione della Fertilità possono ricreare una cultura della vita e sciogliere il gelo, che ci sta conducendo al suicidio demografico”. Vincenzo Silvestrelli, presidente della Federazione Umbra MpV, sottolinea la necessità di sviluppare politiche che aiutino la natalità. “Per ottenere questo risultato è necessario agire su due fronti. Da una parte occorre agire per realizzare le previsioni della prima parte della legge 194, in gran parte inattuate. Sarebbe utile favorire la presenza del volontariato per la vita presso le strutture pubbliche al fine di dare la possibilità alle donne di conoscere quali possibilità di aiuto sia possibile ottenere. Dove questo avviene si assiste ad una significativa riduzione del numero degli aborti. In questo momento il Movimento per la vita sta collaborando con i consultori dell’ASL di Perugia. Dall’altra parte occorre promuovere politiche pubbliche e private per facilitare le donne. Il Movimento per la vita dell’Umbria ha elaborato una proposta per l’istituzione di un osservatorio per il welfare aziendale che è stata presentata dal Consigliere Sergio De Vincenzi e che potrà favorire l’adozione di buone pratiche per favorire il rapporto famiglia lavoro da parte delle aziende”. La Federazione dei Movimenti per la Vita e CAV dell’Umbria si augura che tutta la società, a partire dalle istituzioni e da quanti sono preposti a tutelare il diritto alla vita di tutti, possano prendere coscienza dell’urgenza di tutelare realmente la maternità, in vista del benessere e della prosecuzione della società stessa.]]>
Quello che ci ha insegnato Alfie https://www.lavoce.it/quello-ci-insegnato-alfie/ Sun, 06 May 2018 11:05:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51828

Nel dolore che provoca la perdita prematura – per cause prossime e in circostanze così drammatiche, perché non indipendenti dalla mano dell’uomo – di un piccolo figlio che sentiamo davvero nostro, perché di Dio e della Chiesa nella cui fede è stato battezzato, la penna fa fatica a scrivere e i pensieri si moltiplicano e si intersecano. Eppure, dopo aver fatto silenzio e pregato per Alfie e per i suoi genitori dal coraggio e dalla speranza inarrendibili, qualcosa occorre dire, per amore della Verità che questo bambino ora contempla in Cielo, tutta intera, prima di averla potuta conoscere in Terra, e per onorare il suo lascito, il “testamento spirituale” non scritto con l’inchiostro ma inciso nella sua carne. Anzitutto, una duplice verità che Papa Francesco ha evidenziato mercoledì 18 aprile, al termine dell’udienza generale, ricordando Alfie e anche Vincent, il tetraplegico francese in stato di minima coscienza su cui pende una richiesta di sospensione di idratazione e nutrizione parenterale. “L’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio – ha detto il Santo Padre – e nostro dovere è fare del tutto per custodire la vita” che Egli ha donato ad ogni uomo e donna, bambino e adulto, sano o malato che sia. Sono due rocce granitiche, pietre miliari dell’etica medica, di quella sociale e anche di quella politica. Chi si arroga il diritto (inesistente) di farsi padrone della vita propria o di un altro essere umano, per qualsivoglia motivazione, nega il diritto di Dio che è Padre di tutti e datore di ogni bene. Chi – potendolo fare in proprio o delegando ad altri che si sono offerti per farlo – non si prende cura fino all’ultimo istante di custodire la vita di coloro che gli sono stati affidati a motivo della loro indigenza, fragilità e malattia, non ha fatto questo a Gesù, secondo quanto lui stesso ha detto: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45). In ogni civiltà, la misura umana della giustizia (nell’antichità quella del re e dei suoi delegati, nelle moderne democrazie quella dei giudici) consiste nella capacità di difendere i deboli dai soprusi dei potenti, di dare voce a chi non ha voce di fronte al più forte. Dovere esemplificato nella Bibbia dalla tutela dei diritti della vedova, del figlio orfano e dello straniero (cfr. Dt 26,12-13; 27,19). E il diritto fondamentale di ogni essere umano è quello alla sua vita, in qualunque stagione o condizione dell’esistenza si trovi. Un diritto alla vita che, in alcune circostanze, passa attraverso l’accoglienza in una terra ospitale lontano dalla povertà endemica e dalle violenze senza fine, in altre dal ristabilimento della pace e dalla sospensione dei bombardamenti e di ogni azione bellica, e in altre ancora dalla fornitura sanitaria dei supporti fisiologici essenziali per il proprio corpo malato. Come ha affermato Papa Francesco, “ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita” (Regina Coeli, 15 aprile 2018). Infine, non si può dimenticare l’importanza decisiva che ha il quadro normativo di uno Stato nel tutelare e promuovere la vita dei suoi cittadini. In Europa e fuori di essa si stanno moltiplicando le leggi cosiddette “sul fine vita”. Anche in Italia ne è stata approvata una nel dicembre dello scorso anno. La vicenda sanitaria-giurisdizionale di Alfie ha evidenziato che il nodo più delicato e decisivo di queste leggi – e, ancor più, delle loro applicazioni – ruota attorno alla sottile lama che separa quelli che vengono chiamati “accanimento terapeutico” ed “eutanasia omissiva”. Una lama che passa attraverso la fondamentale distinzione clinica, antropologica, etica e giuridica tra “terapia”, che può essere interrotta qualora risulti futile per un miglioramento o stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente, e “cura” (ovvero, “sostegno delle funzioni vitali” essenziali per la vita), che non deve mai venire meno finché risulta efficace per sostenere la vita. Il mancato recepimento di questa differenza nella legislazione di un Paese lascia intravvedere che ingiuste e drammatiche situazioni come quella di Alfie possano purtroppo ripetersi. Per scongiurare questo, occorre rivedere le norme che rendono operativamente equivalenti la terapia e le cure, e garantendo che a qualunque ammalato inguaribile non possano mai venire sospese le cure indispensabili per giungere dignitosamente fino all’ultima ora che Dio vorrà donargli, senza abbreviare mai intenzionalmente la sua vita.  ]]>

Nel dolore che provoca la perdita prematura – per cause prossime e in circostanze così drammatiche, perché non indipendenti dalla mano dell’uomo – di un piccolo figlio che sentiamo davvero nostro, perché di Dio e della Chiesa nella cui fede è stato battezzato, la penna fa fatica a scrivere e i pensieri si moltiplicano e si intersecano. Eppure, dopo aver fatto silenzio e pregato per Alfie e per i suoi genitori dal coraggio e dalla speranza inarrendibili, qualcosa occorre dire, per amore della Verità che questo bambino ora contempla in Cielo, tutta intera, prima di averla potuta conoscere in Terra, e per onorare il suo lascito, il “testamento spirituale” non scritto con l’inchiostro ma inciso nella sua carne. Anzitutto, una duplice verità che Papa Francesco ha evidenziato mercoledì 18 aprile, al termine dell’udienza generale, ricordando Alfie e anche Vincent, il tetraplegico francese in stato di minima coscienza su cui pende una richiesta di sospensione di idratazione e nutrizione parenterale. “L’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio – ha detto il Santo Padre – e nostro dovere è fare del tutto per custodire la vita” che Egli ha donato ad ogni uomo e donna, bambino e adulto, sano o malato che sia. Sono due rocce granitiche, pietre miliari dell’etica medica, di quella sociale e anche di quella politica. Chi si arroga il diritto (inesistente) di farsi padrone della vita propria o di un altro essere umano, per qualsivoglia motivazione, nega il diritto di Dio che è Padre di tutti e datore di ogni bene. Chi – potendolo fare in proprio o delegando ad altri che si sono offerti per farlo – non si prende cura fino all’ultimo istante di custodire la vita di coloro che gli sono stati affidati a motivo della loro indigenza, fragilità e malattia, non ha fatto questo a Gesù, secondo quanto lui stesso ha detto: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45). In ogni civiltà, la misura umana della giustizia (nell’antichità quella del re e dei suoi delegati, nelle moderne democrazie quella dei giudici) consiste nella capacità di difendere i deboli dai soprusi dei potenti, di dare voce a chi non ha voce di fronte al più forte. Dovere esemplificato nella Bibbia dalla tutela dei diritti della vedova, del figlio orfano e dello straniero (cfr. Dt 26,12-13; 27,19). E il diritto fondamentale di ogni essere umano è quello alla sua vita, in qualunque stagione o condizione dell’esistenza si trovi. Un diritto alla vita che, in alcune circostanze, passa attraverso l’accoglienza in una terra ospitale lontano dalla povertà endemica e dalle violenze senza fine, in altre dal ristabilimento della pace e dalla sospensione dei bombardamenti e di ogni azione bellica, e in altre ancora dalla fornitura sanitaria dei supporti fisiologici essenziali per il proprio corpo malato. Come ha affermato Papa Francesco, “ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita” (Regina Coeli, 15 aprile 2018). Infine, non si può dimenticare l’importanza decisiva che ha il quadro normativo di uno Stato nel tutelare e promuovere la vita dei suoi cittadini. In Europa e fuori di essa si stanno moltiplicando le leggi cosiddette “sul fine vita”. Anche in Italia ne è stata approvata una nel dicembre dello scorso anno. La vicenda sanitaria-giurisdizionale di Alfie ha evidenziato che il nodo più delicato e decisivo di queste leggi – e, ancor più, delle loro applicazioni – ruota attorno alla sottile lama che separa quelli che vengono chiamati “accanimento terapeutico” ed “eutanasia omissiva”. Una lama che passa attraverso la fondamentale distinzione clinica, antropologica, etica e giuridica tra “terapia”, che può essere interrotta qualora risulti futile per un miglioramento o stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente, e “cura” (ovvero, “sostegno delle funzioni vitali” essenziali per la vita), che non deve mai venire meno finché risulta efficace per sostenere la vita. Il mancato recepimento di questa differenza nella legislazione di un Paese lascia intravvedere che ingiuste e drammatiche situazioni come quella di Alfie possano purtroppo ripetersi. Per scongiurare questo, occorre rivedere le norme che rendono operativamente equivalenti la terapia e le cure, e garantendo che a qualunque ammalato inguaribile non possano mai venire sospese le cure indispensabili per giungere dignitosamente fino all’ultima ora che Dio vorrà donargli, senza abbreviare mai intenzionalmente la sua vita.  ]]>
Il gesto di Arnaud, la forza della Pasqua https://www.lavoce.it/gesto-arnaud-la-forza-della-pasqua/ Wed, 28 Mar 2018 14:28:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51534 di Paolo Giulietti

“Non bisognava che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria?”. Le parole con cui il Risorto introduce la sua “catechesi biblica itinerante” ai due discepoli che stanno tornando delusi al loro villaggio di Emmaus (Lc 24, 23-35) condensano il significato delle celebrazioni pasquali. La liturgia e la pietà popolare manifestano, in modo pressoché complementare, come la tragica fine di Gesù sulla croce, abbandonato da tutti – sembrerebbe persino da Dio! – e lo splendore della sua vita nuova di Risorto siano le inseparabili facce di una medesima medaglia. È proprio il Crocifisso a rifulgere di gloria, mentre sul suo corpo glorioso continuano ad essere visibili le ferite della crocifissione.

Nessun dolorismo, dunque, nei riti del venerdì santo, poiché la croce del Signore è anche la sua gloria, il momento in cui la libera decisione di donare se stesso non viene travolta né dall’odio dei nemici né dalla viltà degli amici. Le icone del primo millennio e quelle della tradizione orientale fanno danzare il Cristo sulla croce, sulle parole del salmo 22, che nella seconda parte diviene, da invocazione di un uomo sofferente, cantico di lode per la salvezza ottenuta.

Nessun trionfalismo, inoltre, nei segni e nelle parole della grande veglia pasquale e della domenica di risurrezione, perché non si dimentica che a prezzo di sangue Dio ha riscattato i suoi figli e che la sua vittoria non si tinge del rosso della vendetta, ma del bianco della misericor- dia, disponibile con abbondanza per tutti, anche per quelli che lo hanno trafitto, perché davvero tutti ne hanno bisogno.

Il binomio sofferenza-gloria pare essere, ai nostri giorni, poco apprezzato: a ben vedere, la ricerca del risultato senza fatica o la mancanza di prospettive dinanzi al limite sono la cifra che accomuna diversi fenomeni della società contemporanea, rendendola, tra l’altro, estremamente fragile. Basti pensare all’inconsistenza di tanti legami affettivi o all’emergenza educativa.

È andata diversamente, qualche giorno fa, in Francia: il tenente colonnello Arnaude Beltrame si è offerto volontariamente al posto di un ostaggio nel supermercato di Trèbes, perdendo poi la vita per le mani del terrorista dell’Isis che aveva persuaso ad accettare lo scambio. Arnaude era un cristiano convinto; convertito a 33 anni, aveva ricevuto prima comunione e cresima dopo due anni di catecumenato. Si era fidanzato con Marielle sei anni dopo; l’aveva sposata civilmente dopo aver celebrato la promessa di matrimonio nell’abbazia di Timadeuc, in attesa di celebrare le nozze in chiesa (sarebbe accaduto il prossimo 9 giugno). Di lui ha detto un amico prete, padre Jean Baptiste Golfier, canonico regolare nell’abbazia di Lagrasse: “Mi sembra che solamente la sua fede può spiegare la follia di questo sacrificio che oggi suscita l’ammirazione di tutti. Sapeva, come ci ha detto Gesù, che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Sapeva che, se la sua vita apparteneva a Marielle, apparteneva anche a Dio, alla Francia, ai suoi fratelli in pericolo di morte. Credo che solo una fede cristiana animata dalla carità poteva chiedergli questo sacrificio”. Nessun fanatico desiderio di morte, nessun gesto di spavalderia. Ancora una volta croce e gloria. La forza della Pasqua.

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La 40a edizione della Giornata nazionale per la vita. Il tema di quest’anno https://www.lavoce.it/la-40a-edizione-della-giornata-nazionale-la-vita-tema-questanno/ Sun, 04 Feb 2018 11:00:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51163

Gli anniversari sono importanti perché sono l’occasione di ricordare il motivo per cui quell’anniversario si celebra, e la 40a Giornata nazionale per la vita del 4 febbraio non fa certo eccezione. Nata per iniziativa dei Vescovi italiani a seguito dell’approvazione della legge 194, che ha legalizzato l’aborto in Italia, sarebbe riduttivo confinarla all’opposizione a una legge, pur gravemente ingiusta. È necessario prendere atto, anche se con amarezza, che in questi quarant’anni la secolarizzazione sempre più spinta del nostro Occidente è andata di pari passo con una svalutazione del bene “vita” in generale, e non solo di quella appena concepita e non ancora nata, a favore di un’idea di autodeterminazione come trave portante di una nuova impalcatura valoriale. Nell’“inizio vita” si parla di autodeterminazione della donna di fronte a una generica maternità, e non guardando a una vita umana ben precisa, quella del nascituro che ha in grembo. Il bene che si vuole tutelare è la sua libertà di scelta, come se decidere di portare avanti una gravidanza o di interromperla avesse lo stesso valore e lo stesso peso. Il biotestamento Ugualmente sta accadendo adesso nel “fine vita”, soprattutto dopo la recente approvazione della legge sul consenso informato e il cosiddetto biotestamento: come è noto, adesso interrompere i sostegni vitali come alimentazione e idratazione artificiale è diventato un diritto esigibile, a prescindere dal fatto che si sia o meno in prossimità della morte, e che tali sostegni siano sproporzionati o gravosi. Il che significa che essere lasciati morire se si dipende da un dispositivo sanitario anche semplice, come una flebo o un sondino, adesso è possibile, sia quando si è in grado di dare un consenso attuale, sia per un ipotetico futuro, quando lo si lascia scritto nel proprio biotestamento. In altre parole, a essere tutelata non è più la vita di una persona in uno dei suoi momenti di maggior vulnerabilità, cioè nel caso di una malattia grave e inguaribile (ma non incurabile), ma la personale possibilità di stabilire se essere o no curato, come se le due opzioni fossero equivalenti, come se scegliere di vivere o di morire avesse lo stesso valore. Cultura dello scarto Ed è sempre nel nome dell’autodeterminazione che si può decidere di fare la diagnosi preimpianto agli embrioni formati in laboratorio nella fecondazione assistita – mettendo per il momento da parte tutte le considerazioni sulla pratica in sé, per motivi di spazio – scartando quelli “malati” e trasferendo in utero solo i “sani”; o che si può sopprimere il nascituro durante la gravidanza, se si scopre che sarà disabile. E analogamente, per i malati di Alzheimer, o per le persone in stato vegetativo o in minima coscienza, e più in generale per tutti quei disabili che vivono una condizione di non autonomia: è in queste situazioni che si pensa che la vita non vale più la pena viverla. Papa Francesco ha parlato più volte della “cultura dello scarto”, quella secondo cui ci sono persone di serie B, che nella mentalità diffusa sono innanzitutto coloro che non riescono ad autodeterminarsi, cioè, in altre parole, coloro che dipendono in modo importante da altre persone. Disabili, malati, specie se vecchi o bambini. Il piccolo inglese Charlie Gard aveva una “bassa qualità di vita” per via di una malattia neurodegenerativa ultra- rara, ed il massimo interesse per lui era morire, secondo i suoi medici e i giudici, i quali, contro la volontà dei genitori, hanno impedito un tentativo di curarlo (pur con poche possibilità di riuscita), ed hanno imposto di interrompergli la ventilazione artificiale, provocandone la morte. Lo stesso sta accadendo alla quattordicenne francese Inès, non malata ma in stato vegetativo, per cui non ci sono terapie in discussione, ma solo respirazione e nutrizione artificiale, che non ‘curano’ ma mantengono in vita. Noi “dipendiamo” E purtroppo l’elenco rischia di diventare lungo. Non hanno mai avuto un nome i milioni di bambini non nati, abortiti per le tante “leggi 194” che sono in vigore nel mondo, e d’altra parte le persone fatte morire per pratiche eutanasiche, dirette ed esplicite o indirette e non dichiarate, sono talmente numerose che riusciamo a ricordare solo coloro che sono diventati “casi” internazionali. E ci stiamo pericolosamente abituando a tutto questo. Dipendere da qualcun altro è diventato insopportabile, è sinonimo di perdita della libertà, propria e altrui. Anche se quel qualcuno è la persona amata: il marito, la moglie, un figlio, un familiare. Ma è possibile vivere senza dipendere da altre persone? La risposta è no. Dal “Libro bianco” Nel Libro bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza, scritto dalle associazioni dei familiari delle persone in questa condizione, si legge: “Cambiare vuol dire accettare la dipendenza; la dipendenza di colui che assiste il paziente dagli aiuti, dai volontari o dagli operatori che entrano in casa e che spesso sono sentiti quasi come una invasione della propria privacy, ma che tanto fanno per la famiglia e il paziente; vuol dire accettare la dipendenza dai servizi che fanno arrabbiare per la loro lentezza e spesso la loro sordità, ma che forniscono i supporti necessari per il quotidiano; vuol dire accettare la dipendenza del proprio congiunto di cui il familiare diventa voce, occhi, orecchi, memoria. Viviamo nell’illusione di essere indipendenti, autonomi da tutto e tutti, di solito pronti a scappare quando il rapporto con l’altro impone restrizioni o vincoli alla nostra libertà. Rinunciare a questa illusione è forse il primo passo che permette a una famiglia di ricostruire un equilibrio in cui, nella cura del proprio membro più debole, ci sia spazio per la realizzazione di tutti, in una costruzione comune per la migliore qualità di vita possibile”. Parole di vita e di speranza, scritte da chi vive sulla propria pelle situazioni intollerabili, per i nostri tempi, e che invece mostrano quanto quella vita e quella speranza abbiano significato, aprendo uno squarcio su un diverso mondo possibile. Leggi anche il Messaggio del Consiglio permanente Cei per la Giornata.  ]]>

Gli anniversari sono importanti perché sono l’occasione di ricordare il motivo per cui quell’anniversario si celebra, e la 40a Giornata nazionale per la vita del 4 febbraio non fa certo eccezione. Nata per iniziativa dei Vescovi italiani a seguito dell’approvazione della legge 194, che ha legalizzato l’aborto in Italia, sarebbe riduttivo confinarla all’opposizione a una legge, pur gravemente ingiusta. È necessario prendere atto, anche se con amarezza, che in questi quarant’anni la secolarizzazione sempre più spinta del nostro Occidente è andata di pari passo con una svalutazione del bene “vita” in generale, e non solo di quella appena concepita e non ancora nata, a favore di un’idea di autodeterminazione come trave portante di una nuova impalcatura valoriale. Nell’“inizio vita” si parla di autodeterminazione della donna di fronte a una generica maternità, e non guardando a una vita umana ben precisa, quella del nascituro che ha in grembo. Il bene che si vuole tutelare è la sua libertà di scelta, come se decidere di portare avanti una gravidanza o di interromperla avesse lo stesso valore e lo stesso peso. Il biotestamento Ugualmente sta accadendo adesso nel “fine vita”, soprattutto dopo la recente approvazione della legge sul consenso informato e il cosiddetto biotestamento: come è noto, adesso interrompere i sostegni vitali come alimentazione e idratazione artificiale è diventato un diritto esigibile, a prescindere dal fatto che si sia o meno in prossimità della morte, e che tali sostegni siano sproporzionati o gravosi. Il che significa che essere lasciati morire se si dipende da un dispositivo sanitario anche semplice, come una flebo o un sondino, adesso è possibile, sia quando si è in grado di dare un consenso attuale, sia per un ipotetico futuro, quando lo si lascia scritto nel proprio biotestamento. In altre parole, a essere tutelata non è più la vita di una persona in uno dei suoi momenti di maggior vulnerabilità, cioè nel caso di una malattia grave e inguaribile (ma non incurabile), ma la personale possibilità di stabilire se essere o no curato, come se le due opzioni fossero equivalenti, come se scegliere di vivere o di morire avesse lo stesso valore. Cultura dello scarto Ed è sempre nel nome dell’autodeterminazione che si può decidere di fare la diagnosi preimpianto agli embrioni formati in laboratorio nella fecondazione assistita – mettendo per il momento da parte tutte le considerazioni sulla pratica in sé, per motivi di spazio – scartando quelli “malati” e trasferendo in utero solo i “sani”; o che si può sopprimere il nascituro durante la gravidanza, se si scopre che sarà disabile. E analogamente, per i malati di Alzheimer, o per le persone in stato vegetativo o in minima coscienza, e più in generale per tutti quei disabili che vivono una condizione di non autonomia: è in queste situazioni che si pensa che la vita non vale più la pena viverla. Papa Francesco ha parlato più volte della “cultura dello scarto”, quella secondo cui ci sono persone di serie B, che nella mentalità diffusa sono innanzitutto coloro che non riescono ad autodeterminarsi, cioè, in altre parole, coloro che dipendono in modo importante da altre persone. Disabili, malati, specie se vecchi o bambini. Il piccolo inglese Charlie Gard aveva una “bassa qualità di vita” per via di una malattia neurodegenerativa ultra- rara, ed il massimo interesse per lui era morire, secondo i suoi medici e i giudici, i quali, contro la volontà dei genitori, hanno impedito un tentativo di curarlo (pur con poche possibilità di riuscita), ed hanno imposto di interrompergli la ventilazione artificiale, provocandone la morte. Lo stesso sta accadendo alla quattordicenne francese Inès, non malata ma in stato vegetativo, per cui non ci sono terapie in discussione, ma solo respirazione e nutrizione artificiale, che non ‘curano’ ma mantengono in vita. Noi “dipendiamo” E purtroppo l’elenco rischia di diventare lungo. Non hanno mai avuto un nome i milioni di bambini non nati, abortiti per le tante “leggi 194” che sono in vigore nel mondo, e d’altra parte le persone fatte morire per pratiche eutanasiche, dirette ed esplicite o indirette e non dichiarate, sono talmente numerose che riusciamo a ricordare solo coloro che sono diventati “casi” internazionali. E ci stiamo pericolosamente abituando a tutto questo. Dipendere da qualcun altro è diventato insopportabile, è sinonimo di perdita della libertà, propria e altrui. Anche se quel qualcuno è la persona amata: il marito, la moglie, un figlio, un familiare. Ma è possibile vivere senza dipendere da altre persone? La risposta è no. Dal “Libro bianco” Nel Libro bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza, scritto dalle associazioni dei familiari delle persone in questa condizione, si legge: “Cambiare vuol dire accettare la dipendenza; la dipendenza di colui che assiste il paziente dagli aiuti, dai volontari o dagli operatori che entrano in casa e che spesso sono sentiti quasi come una invasione della propria privacy, ma che tanto fanno per la famiglia e il paziente; vuol dire accettare la dipendenza dai servizi che fanno arrabbiare per la loro lentezza e spesso la loro sordità, ma che forniscono i supporti necessari per il quotidiano; vuol dire accettare la dipendenza del proprio congiunto di cui il familiare diventa voce, occhi, orecchi, memoria. Viviamo nell’illusione di essere indipendenti, autonomi da tutto e tutti, di solito pronti a scappare quando il rapporto con l’altro impone restrizioni o vincoli alla nostra libertà. Rinunciare a questa illusione è forse il primo passo che permette a una famiglia di ricostruire un equilibrio in cui, nella cura del proprio membro più debole, ci sia spazio per la realizzazione di tutti, in una costruzione comune per la migliore qualità di vita possibile”. Parole di vita e di speranza, scritte da chi vive sulla propria pelle situazioni intollerabili, per i nostri tempi, e che invece mostrano quanto quella vita e quella speranza abbiano significato, aprendo uno squarcio su un diverso mondo possibile. Leggi anche il Messaggio del Consiglio permanente Cei per la Giornata.  ]]>
Cosa la sedazione non è: un po’ di chiarezza https://www.lavoce.it/cosa-la-sedazione-non-un-po-chiarezza/ Tue, 30 Jan 2018 11:00:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51105

Ancora una volta, lasciate sedimentare le agitate acque del “clamore a tutti i costi”, legato ad episodi di cronaca (in questo caso, il video-testamento della signora Marina Ripa di Meana, pochi giorni prima della sua morte), torniamo a ragionare con pacatezza sui fatti concreti e sui termini usati per descriverli. Questa volta, il tentativo di strumentalizzazione si è concentrato su un delicato atto medico: la sedazione palliativa profonda continua (Sppc). Nel suo videotestamento, Marina Ripa di Meana, affetta da 16 anni da una grave forma tumorale e ormai giunta alle ultime fasi della sua malattia, dichiarava di aver pensato ad attuare il suicidio assistito in Svizzera (essendo in Italia un reato), ma informata – pur tardivamente - della possibilità di ricorrere alla Sppc, aveva deciso di rinunciare al suo mesto viaggio e di sottoporsi a essa. Quindi valutava la disponibilità di questo presidio palliativo come una conquista di civiltà, ribattezzandola (insieme all’Associazione Luca Coscioni) “la via italiana” per morire con dignità e senza inutili sofferenze. “Fate sapere a tutti di questa possibilità”, l’ultima accorata raccomandazione della signora Ripa di Meana. In un certo senso, vorremmo raccogliere questo suo invito, preoccupandoci però di contribuire perchè alla gente arrivi un’informazione completa e corretta, senza “ammiccanti” e ambigui sottintesi. Occorre infatti intendersi bene quando si afferma che la Sppc è un buono strumento per morire con dignità e senza inutili sofferenze. La stessa cosa, di fatto, viene affermata con enfasi dell’eutanasia/ suicidio assistito da parte dei suoi sostenitori! In realtà, stiamo parlando di due azioni radicalmente differenti tra loro e nessuno, che sia animato da onestà intellettuale, dati scientifici alla mano, potrebbe pensare di metterle sullo stesso piano. Si tratterebbe di una vera e propria forzatura, spiegabile solo con altre finalità, del tutto estranee all’agire medico. Continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce.]]>

Ancora una volta, lasciate sedimentare le agitate acque del “clamore a tutti i costi”, legato ad episodi di cronaca (in questo caso, il video-testamento della signora Marina Ripa di Meana, pochi giorni prima della sua morte), torniamo a ragionare con pacatezza sui fatti concreti e sui termini usati per descriverli. Questa volta, il tentativo di strumentalizzazione si è concentrato su un delicato atto medico: la sedazione palliativa profonda continua (Sppc). Nel suo videotestamento, Marina Ripa di Meana, affetta da 16 anni da una grave forma tumorale e ormai giunta alle ultime fasi della sua malattia, dichiarava di aver pensato ad attuare il suicidio assistito in Svizzera (essendo in Italia un reato), ma informata – pur tardivamente - della possibilità di ricorrere alla Sppc, aveva deciso di rinunciare al suo mesto viaggio e di sottoporsi a essa. Quindi valutava la disponibilità di questo presidio palliativo come una conquista di civiltà, ribattezzandola (insieme all’Associazione Luca Coscioni) “la via italiana” per morire con dignità e senza inutili sofferenze. “Fate sapere a tutti di questa possibilità”, l’ultima accorata raccomandazione della signora Ripa di Meana. In un certo senso, vorremmo raccogliere questo suo invito, preoccupandoci però di contribuire perchè alla gente arrivi un’informazione completa e corretta, senza “ammiccanti” e ambigui sottintesi. Occorre infatti intendersi bene quando si afferma che la Sppc è un buono strumento per morire con dignità e senza inutili sofferenze. La stessa cosa, di fatto, viene affermata con enfasi dell’eutanasia/ suicidio assistito da parte dei suoi sostenitori! In realtà, stiamo parlando di due azioni radicalmente differenti tra loro e nessuno, che sia animato da onestà intellettuale, dati scientifici alla mano, potrebbe pensare di metterle sullo stesso piano. Si tratterebbe di una vera e propria forzatura, spiegabile solo con altre finalità, del tutto estranee all’agire medico. Continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce.]]>
I cattolici e il Paese. Realismo e fiducia https://www.lavoce.it/cattolici-paese-realismo-fiducia/ Wed, 24 Jan 2018 16:11:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51069 di Francesco Bonini

Era atteso alla “prova” delle elezioni e di questa campagna elettorale così intorcinata. Il cardinal Bassetti non si sottrae all’appuntamento. E la sua indicazione è chiara. Prima di tutto nell’atteggiamento, nello sguardo. Uno sguardo realistico e fiducioso. Realistico perché è ben consapevole della situazione.

Ovvero del fatto che tanti sono adirati, delusi, timorosi, financo rancorosi. Ma fiducioso, come chi sa che ci sono tante risorse da mettere in campo. Perché l’Italia si costruisca un futuro adeguato, nel quadro europeo e mondiale che le compete. Così le indicazioni sono coerenti con questo sguardo, questo atteggiamento di fondo. Si parla ovviamente dei grandi temi, dal lavoro, alla famiglia, alle immigrazioni. Ma le priorità di programma si riassumono non a caso su un tema di cui si parla poco, la scuola e più in generale il sistema formativo.

E il fatto che se ne parli poco – anche solo per dire che non servono riforme mirabolanti, ma ben governare il sistema, puntando sui contenuti, ovvero sulla preparazione disciplinare degli studenti di ogni ordine e grado e non sulla molteplicità di troppe distrazioni e di troppa burocrazia – è una ulteriore dimostrazione che abbiamo un rapporto non buono, non fluido con il nostro futuro.

Così ecco una parola antica, “bene comune”, che il Presidente della Cei attualizza e concretizza. Così come affronta la questione spinosa dell’impegno dei cattolici in politica: anche qui le indicazioni sono prima di tutto di atteggiamento, e poi di programma, dato che cattolici sono presenti nella gran parte degli schieramenti e dei partiti in campo, anche se ovviamente con diversi gradi di visibilità e di rilievo, di cui è bene tenere conto. L’appello è chiaro e accorato: “La vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia!”. Potrebbe essere il minimo comune denominatore per chi fa campagna elettorale e poi sarà eletto. E anche per reagire a una sindrome di irrilevanza che rischia di essere uno dei risultati di una stagione confusa di cambiamento. Ma tanto più sarà importante e significativo l’impegno dei singoli – per cui si parla di sobrietà, di gratuità, di consapevolezza storica e dunque di memoria – quanto sarà visibile e si farà sentire una opinione pubblica di cattolici capace di rappresentare – insieme, coesi e coerenti – un riferimento e, nello stesso tempo, un pungolo. Non intrappolato negli schermanti, ma chiaro e propositivo sulle cose, sulle indicazioni, sui contenuti. In questo senso Papa Francesco, come ha sottolineato il Presidente della Cei, è un riferimento, una risorsa preziosa.

Difficile, molto difficile, come è arduo il passaggio di questi anni. Per affrontarlo bene serve appunto un chiaro quadro di riferimento. Per poter aprire così alla creatività politica, che servirà non poco, e non solo in Italia, come dimostrano il caso tedesco e più in generale le vicende dell’Unione.

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Una Culla per la vita indifesa https://www.lavoce.it/culla-la-vita-indifesa/ Mon, 18 Dec 2017 14:00:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50865

La “Culla per la vita” è una realtà nella nostra regione. Ne esiste una a Perugia, inaugurata nel 2013 su iniziativa del Movimento per la vita del capoluogo con il sostegno del Comune di Perugia e di molte associazioni di volontariato del mondo cattolico, ma anche laico; ne esiste un’altra a Città di Castello, presso l’ospedale cittadino, anche in questo caso realizzata su iniziativa del locale Movimento per la vita. Per far conoscere l’utilizzo della Culla per la vita, ma soprattutto per promuovere una cultura del valore di ogni vita concepita, il Mpv di Perugia ha promosso quest’anno varie iniziative, anche grazie al sostegno della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia. Tra esse, una serie di locandine e volantini in più lingue che spiegano come funzionano le Culle della vita e un video “virale” per promuovere l’uso delle Culle per la vita a Perugia e Città di Castello, visibile sul canale Youtube del Movimento per la vita Umbria. Anche Federfarma Umbria ha mostrato la sua sensibilità verso questa tematica, pertanto tutte le le farmacie dell’Umbria nei prossimi mesi promuoveranno questo prezioso presidio con una serie di materiali e trasmettendo in video di cui sopra. Che cos’è e come funziona la Culla per la vita? Si tratta di versione moderna e tecnologicamente avanzata della medievale “ruota degli esposti”, presente nei conventi per offrire un’estrema possibilità di accoglienza e di vita per un bambino che viene al mondo. Un’alternativa all’abbandono dei neonati nei cassonetti, pratica purtroppo ancora oggi diffusa nel nostro Paese, dove il bambino è destinato a morte certa. È anche una possibilità in più per la donna che non vede altra soluzione - oltre all’aborto - di fronte a una gravidanza non desiderata. La Culla per la vita è un presidio medico che permette a una madre, che non possa o non voglia tenere un neonato, di lasciarlo al sicuro, in un luogo protetto, nel pieno rispetto della sicurezza del bambino e della privacy di chi lo deposita. Questo servizio si affianca alla possibilità – già esistente per legge – di partorire in anonimato presso le strutture ospedaliere e non riconoscere il bambino, affidandolo ai Servizi sociali territoriali. La Culla è facilmente raggiungibile: quella di Perugia si trova presso la sede del Comitato per la vita “Daniele Chianelli”, in prossimità dell’ospedale Santa Maria della Misericordia. Garantisce l’anonimato della mamma che vuole lasciare il bambino ed è dotata di una serie di dispositivi (riscaldamento, chiusura in sicurezza della botola, presidio di controllo h24 e rete con il servizio di soccorso medico) che permettono un facile utilizzo e un pronto intervento per la salvaguardia del bambino.  ]]>

La “Culla per la vita” è una realtà nella nostra regione. Ne esiste una a Perugia, inaugurata nel 2013 su iniziativa del Movimento per la vita del capoluogo con il sostegno del Comune di Perugia e di molte associazioni di volontariato del mondo cattolico, ma anche laico; ne esiste un’altra a Città di Castello, presso l’ospedale cittadino, anche in questo caso realizzata su iniziativa del locale Movimento per la vita. Per far conoscere l’utilizzo della Culla per la vita, ma soprattutto per promuovere una cultura del valore di ogni vita concepita, il Mpv di Perugia ha promosso quest’anno varie iniziative, anche grazie al sostegno della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia. Tra esse, una serie di locandine e volantini in più lingue che spiegano come funzionano le Culle della vita e un video “virale” per promuovere l’uso delle Culle per la vita a Perugia e Città di Castello, visibile sul canale Youtube del Movimento per la vita Umbria. Anche Federfarma Umbria ha mostrato la sua sensibilità verso questa tematica, pertanto tutte le le farmacie dell’Umbria nei prossimi mesi promuoveranno questo prezioso presidio con una serie di materiali e trasmettendo in video di cui sopra. Che cos’è e come funziona la Culla per la vita? Si tratta di versione moderna e tecnologicamente avanzata della medievale “ruota degli esposti”, presente nei conventi per offrire un’estrema possibilità di accoglienza e di vita per un bambino che viene al mondo. Un’alternativa all’abbandono dei neonati nei cassonetti, pratica purtroppo ancora oggi diffusa nel nostro Paese, dove il bambino è destinato a morte certa. È anche una possibilità in più per la donna che non vede altra soluzione - oltre all’aborto - di fronte a una gravidanza non desiderata. La Culla per la vita è un presidio medico che permette a una madre, che non possa o non voglia tenere un neonato, di lasciarlo al sicuro, in un luogo protetto, nel pieno rispetto della sicurezza del bambino e della privacy di chi lo deposita. Questo servizio si affianca alla possibilità – già esistente per legge – di partorire in anonimato presso le strutture ospedaliere e non riconoscere il bambino, affidandolo ai Servizi sociali territoriali. La Culla è facilmente raggiungibile: quella di Perugia si trova presso la sede del Comitato per la vita “Daniele Chianelli”, in prossimità dell’ospedale Santa Maria della Misericordia. Garantisce l’anonimato della mamma che vuole lasciare il bambino ed è dotata di una serie di dispositivi (riscaldamento, chiusura in sicurezza della botola, presidio di controllo h24 e rete con il servizio di soccorso medico) che permettono un facile utilizzo e un pronto intervento per la salvaguardia del bambino.  ]]>
Alt ai pregiudizi sui vaccini https://www.lavoce.it/alt-ai-pregiudizi-sui-vaccini/ Thu, 03 Aug 2017 10:12:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=49596 Il difetto di vaccinazione della popolazione implica il grave rischio sanitario di diffusione di pericolose e spesso letali malattie infettive, debellate in passato, proprio grazie all’uso dei vaccini, come ad esempio il morbillo, la rosolia e la varicella”.

È quanto si legge in una nota diffusa il 31 luglio da Pontificia accademia per la vita, Ufficio Cei per la pastorale della salute e Associazione medici cvaccini-CMYKattolici italiani (Amci). La nota risponde con chiarezza a quanti da più parti in questi ultimi tempi hanno posto il problema prospettando la scelta di non vaccinare i propri figli come “obiezione di coscienza” relativa all’aborto. Una posizione non condivisa dai biologi che conoscono la storia e la tecnica usata per la produzione dei vaccini, ma che stava creando molta confusione tra i fedeli, anche perché nel 2005 la Pontificia accademia per la vita aveva pubblicato un documento intitolato Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule provenienti da feti umani abortiti. Documento che, alla luce dei progressi della medicina e delle attuali condizioni di preparazione di alcuni vaccini, potrebbe essere a breve rivisto e aggiornato.

“Le caratteristiche tecniche – si legge nella Nota – di produzione dei vaccini più comunemente utilizzati in età infantile ci portano a escludere che vi sia una cooperazione moralmente rilevante tra coloro che oggi utilizzano questi vaccini e la pratica dell’aborto volontario. Quindi riteniamo che si possano applicare tutte le vaccinazioni clinicamente consigliate, con coscienza sicura che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione all’aborto volontario”. E ancora: “I vaccini a cui si fa riferimento, fra quelli maggiormente in uso in Italia, sono quelli contro la rosolia, la varicella, la poliomielite e l’epatite A.

Va considerato che oggi non è più necessario ricavare cellule da nuovi aborti volontari, e che le linee cellulari sulle quali i vaccini in questione sono coltivati derivano unicamente dai due feti abortiti originariamente negli anni Sessanta del Novecento”. Dal punto di vista clinico, inoltre, “va ribadito che il trattamento coi vaccini, pur a fronte di rarissimi effetti collaterali (gli eventi che si verificano più comunemente sono di lieve entità e dovuti alla risposta immunitaria al vaccino stesso), è sicuro ed efficace e che nessuna correlazione sussiste fra somministrazione del vaccino ed insorgenza dell’autismo”. Per i firmatari del documento, “non meno urgente risulta l’obbligo morale di garantire la copertura vaccinale necessaria per la sicurezza altrui, soprattutto di quei soggetti deboli e vulnerabili come le donne in gravidanza e i soggetti colpiti da immunodeficienza che non possono direttamente vaccinarsi contro queste patologie”.

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Dopo Bruxelles “non temere” https://www.lavoce.it/dopo-bruxelles-non-temere/ Fri, 25 Mar 2016 18:51:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45820 resurrezione-prima“Non abbiate paura”. Facile a dirsi. Di paura ne abbiamo, tanta e più d’una. Paura dinanzi alla vigliacca strategia del terrorismo, che genera diffidenza e timore proprio nei luoghi e nei tempi della vita quotidiana, del divertimento o perfino della preghiera. Paura delle masse migratorie in movimento verso l’Europa, per la cui diversità culturale e religiosa si evocano scenari di colonizzazione e di scontro di civiltà, alle porte delle nostre case. Paura di un futuro economico denso di incertezze e povero di prospettive, per cui ogni impegno sembra vano.

Paura dei cambiamenti dell’ambiente, sempre più evidenti e – chi lo sa? ineluttabili. Paura di essere abbandonati da chi dovrebbe prendersi cura del bene comune. Paura di rimanere da soli dinanzi alle prove della vita. Paura dell’altro, che non conosco più, che non guardo più negli occhi, di cui non è più scontato fidarmi, anche se dorme nello stesso letto o guida l’autobus che dovrebbe riportarmi a casa. E così via.

“Non abbiate paura” potrebbe risultare uno slogan clericale a buon mercato, una di quelle frasi del Vangelo (cfr. Mt 14,27; Gv 16,33) – platealmente fuori dal mondo – utili per una bella predica o per un commovente biglietto d’auguri. Da considerare, benevolmente o astiosamente, come buonismo.

“Non abbiate paura”, invece, è tutt’altro che un’esortazione ingenua; è l’invito di Uno che ha subìto fino in fondo l’abisso dell’ostilità e della cattiveria altrui, senza però farsi trascinare a rispondere al male con il male. Di Uno che ha sconfitto la malvagità e la morte proprio passando attraverso la malvagità e la morte. È come la sintesi dell’esperienza pasquale di Cristo e di tanti credenti di ieri e di oggi. A ben vedere, è divenuta la cifra di una civiltà, quella cristiana, che ha saputo infondere nelle persone una basilare fiducia nella bontà dell’uomo, della vita, delle cose.

E che su questa fiducia ha costruito monumenti d’arte, di pensiero, di spiritualità, d’educazione, di convivenza. Anzi, li ha più volte ricostruiti sulle macerie della stupidità. Gloriosamente. È un’ipotesi di lavoro radicalmente alternativa a quella dell’odio e della violenza; un’ipotesi che è probabilmente ragionevole per tutti accogliere come l’unica davvero percorribile, anche dinanzi alle stragi efferate di questi giorni. La paura, infatti, non può condurre che al radicalizzarsi delle divisioni, delle incomprensioni, delle chiusure, dei fondamentalismi, del tutticontro- tutti. Chi se ne lascia vincere imbocca vicoli ciechi; chi la genera, e anche chi la cavalca, commette un crimine.

Abbiamo più che mai bisogno, in questa Pasqua, di lasciarci liberare dalla schiavitù della paura celebrando l’avvenimento pasquale nella vita di Gesù e nella vita nostra: permettergli cioè di ispirarci un modo nuovo di fronteggiare i problemi, con la indefettibile forza del bene. Costi quel che costi, perché sappiamo che nessun prezzo viene pagato invano. “Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina… Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima” (M. L. King, discorso a Washington, 28 agosto 1963).

Buona Pasqua, caro amico lettore. Non avere paura.

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Asili con il pedigree https://www.lavoce.it/asili-con-il-pedigree/ Fri, 05 Feb 2016 10:00:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45319 BambiniTempo di preiscrizioni. Anche le scuole cattoliche si presentano alle famiglie. Incluse le scuole materne, che nella nostra regione non solo rappresentano un terzo del servizio ma spesso sono presenti anche nei piccoli paesi dove il Comune non potrebbe garantire, da solo, alcun servizio. Ne parliamo con Stefano Quadraroli, presidente regionale Fism Umbria.

Cosa offre la scuola cattolica in Umbria?
“Il Ministero ha recentemente fissato il termine per le iscrizioni al prossimo anno scolastico (2016-2017) per il 22 febbraio prossimo, anche se per la scuola dell’infanzia il termine è indicativo in quanto, non essendo scuola dell’obbligo, le famiglie non hanno questa scadenza come tassativa. In quasi tutti i Comuni dell’Umbria, come nel resto del territorio nazionale, le famiglie hanno una possibilità di scelta che comprende anche le scuole paritarie: scuole pubbliche a tutti gli effetti, gestite tuttavia da enti privati. Perlopiù sono scuole di tradizione cattolica o di ispirazione cristiana gestite da parrocchie, congregazioni religiose di suore o da laici, impegnati in questo importante compito educativo”.

Cosa hanno di specifico le scuole cattoliche, e cosa in comune con la scuola pubblica?
“Da una parte, come scuole paritarie, le nostre realtà devono rispettare alcuni standard qualitativi e organizzativi che la legge impone, vincoli spesso più stringenti delle scuole gestite dai Comuni o direttamente dallo Stato. Dall’altra parte, le nostre scuole hanno una maggiore autonomia che permette di poter sperimentare nuovi percorsi e creare un’offerta formativa e organizzativa più consona alle esigenze delle famiglie: tempo prolungato, maggiore flessibilità nel servizio, progetti innovativi della didattica, mensa interna, ecc. A tutto questo si aggiunge la tradizione che ogni nostra realtà porta con sé: rispettando la liberta della famiglia e sempre disponibili a un rapporto costante di collaborazione, le nostre scuole non rinunciano a una proposta chiara e forte, con cui i genitori possono confrontarsi per scegliere e iniziare questo percorso scolastico per i loro figli”.

Perché la Fism non accetta che si parli di scuola “privata”?
“Non accettiamo questo termine per l’uso sbagliato che nel sentire collettivo e nell’opinione pubblica se ne fa: spesso il termine ‘privato’ si contrappone a ‘pubblico’ come se un servizio offerto alla collettività potesse essere erogato esclusivamente dallo Stato, unico garante di qualità ed efficienza. Ognuno di noi sa dalla sua esperienza che spesso non è così”.

Si dice che la “scuola privata” costa. Come si sostengono le scuole aderenti alla Fism?
“Ovviamente anche la scuola privata ha un costo, che oltretutto, per chi la sceglie, si aggiunge alle tasse che ogni anno si pagano per sostenere anche il servizio pubblico statale. In questi ultimi anni, poi, in quasi tutte le scuole è venuto meno il personale religioso che prestava gratuitamente il suo servizio: questo ha comportato l’assunzione di personale laico che, se da un lato ha portato un ricambio generazionale necessario, dall’altro ha fatto lievitare i costi. È chiaro che, in un momento di crisi come quello attuale, le famiglie sono sempre attente a dove impiegare le poche risorse a loro disposizione. Questo da un lato rende più forte e consapevole la scelta educativa che si fa per i propri figli, dall’altra sprona e responsabilizza noi a offrire un servizio sempre più di qualità”.

Quale è la domanda che più spesso i genitori fanno quando si rivolgono alla scuola cattolica?
“Al di là di una sempre crescente richiesta di flessibilità e offerta prolungata del servizio, la domanda è sempre la stessa: cercano un interlocutore, un soggetto autorevole a cui affidare i propri figli, che si affianchi e sostenga, ma non sostituisca il genitore in questo importante compito che è quello di educare le future generazioni. Ogni bambino è unico e irripetibile: compito della scuola è valorizzare il singolo dentro una proposta e un percorso educativo chiaro e condiviso con la famiglia”.

 

Le paritarie in Umbria

La Federazione italiana delle scuole materne (Fism) è l’associazione che unisce quasi 9.000 enti gestori di scuole dell’infanzia non statali di ispirazione cattolica presenti in Italia. In Umbria la Fism rappresenta quasi il 30% della popolazione scolastica, con circa 90 scuole dell’infanzia non statali (di cui oltre 50 a Perugia, il resto a Terni), cui sono iscritti oltre 4.300 bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni. Rispetto ad altre regioni italiane, l’Umbria si caratterizza per il fatto che gli enti che gestiscono queste scuole sono perlopiù congregazioni religiose femminili. Nell’ultimo decennio è sempre più aumentato il numero delle scuole, parrocchiali e altre, gestite da laici che continuano l’impegno educativo, cercando di non perdere il carisma originario. La forza lavoro impiegata nelle strutture Fism è di circa 230 insegnanti, spesso assistiti da personale religioso volontario. Tutti i docenti, scelti liberamente da chi dirige la scuola, devono comunque essere abilitati all’insegnamento.

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