Vangelo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vangelo/ Settimanale di informazione regionale Wed, 04 Oct 2023 16:20:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Vangelo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vangelo/ 32 32 Il Creato, l’Uomo, su tutto il Vangelo https://www.lavoce.it/creato-uomo-vangelo/ https://www.lavoce.it/creato-uomo-vangelo/#respond Wed, 04 Oct 2023 16:05:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73516

di mons. Felice Accrocca*

Il 29 novembre 1979 Giovanni Paolo II – con la lettera Inter sanctos – proclamava san Francesco d’Assisi patrono dei cultori dell’ecologia poiché spiccava tra i santi e gli altri grandi uomini che avevano “percepito gli elementi della natura come uno splendido dono di Dio agli uomini” e avevano contemplato “in modo singolare le opere del Creatore”.

Non sempre, però, tali aspetti sono stati tenuti in debita considerazione, al punto che per alcuni l’Assisiate è divenuto un ambientalista, per altri addirittura un vegetariano. Ma vegetariano non fu: chiamava sì “con il nome di fratello gli animali”, faceva un uso limitato della carne perché non era un cibo da poveri e come conseguenza di precise scelte e pratiche penitenziali, ma non escludeva di potersene nutrire. Resta vero invece che ricostruì un rapporto di sintonia profonda con tutta la creazione, soprattutto con il vertice dell’opera creatrice di Dio, che è l’uomo.

In effetti, la radice di ogni comportamento di Francesco sta nel rapporto che seppe ricostruire con Dio, quel Dio al quale non aveva prestato attenzione per buona parte della propria vita. Quando, dopo un travaglio durato anni, giunse infine a scelte definitive con la decisione di uscire “dal secolo” – vale a dire con l’abbandono dei valori perseguiti dal mondo (e che fino all’età di ventiquattro anni erano stati anche i suoi) per riscoprire la bontà e la paternità di Dio – tutto acquistò un senso diverso: i poveri gli manifestarono il volto di Cristo, i nemici divennero uomini da amare, gli animali furono i suoi fratelli più piccoli, il creato si rivelò ai suoi occhi come l’orma del Creatore.

Non solo gli esseri umani, per lui, erano chiamati alla lode di Dio, ma tutta intera la creazione. È solo in questo contesto che possiamo comprendere nella sua piena e vera luce il Cantico di frate sole, il più famoso tra i componimenti poetici di Francesco. Un testo che – contrariamente a quel che molti credono – nacque in circostanze umanamente tutt’altro che positive.

C’è però un punto forte nel suo discorso: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla sua lode, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, che ne è posto al vertice, poiché ogni cosa gli è stata data affinché se ne serva e la restituisca al Creatore. Il dramma è tutto qui: che le creature servono Dio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle. Concetti che Francesco esprime in modo efficace nella quinta delle sue Ammonizioni: “Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto il Signore Dio, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figlio diletto secondo il corpo e a similitudine di lui secondo lo spirito. E tutte le creature, che sono sotto il cielo, per parte loro servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te”.

Questa sua scelta radicale di Dio, la sua decisione di “vivere secondo la forma del santo Vangelo” è anche alla radice della costante modernità di san Francesco. Perché la sua persona sa suscitare consenso anche in un mondo come il nostro, ormai secolarizzato e distante dall’esperienza religiosa? Credo che la risposta sia una sola: la sua perenne attualità sta tutta nella perenne novità del Vangelo. Francesco risulta attuale proprio per il suo radicale evangelismo: nella sua esperienza – scrisse Yves Marie-Joseph Congar (1904-1995) – si riflette l’assoluto del Vangelo della cristianità. Per questo egli resta, per noi, ancor oggi un modello.

* Arcivescovo di Benevento

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di mons. Felice Accrocca*

Il 29 novembre 1979 Giovanni Paolo II – con la lettera Inter sanctos – proclamava san Francesco d’Assisi patrono dei cultori dell’ecologia poiché spiccava tra i santi e gli altri grandi uomini che avevano “percepito gli elementi della natura come uno splendido dono di Dio agli uomini” e avevano contemplato “in modo singolare le opere del Creatore”.

Non sempre, però, tali aspetti sono stati tenuti in debita considerazione, al punto che per alcuni l’Assisiate è divenuto un ambientalista, per altri addirittura un vegetariano. Ma vegetariano non fu: chiamava sì “con il nome di fratello gli animali”, faceva un uso limitato della carne perché non era un cibo da poveri e come conseguenza di precise scelte e pratiche penitenziali, ma non escludeva di potersene nutrire. Resta vero invece che ricostruì un rapporto di sintonia profonda con tutta la creazione, soprattutto con il vertice dell’opera creatrice di Dio, che è l’uomo.

In effetti, la radice di ogni comportamento di Francesco sta nel rapporto che seppe ricostruire con Dio, quel Dio al quale non aveva prestato attenzione per buona parte della propria vita. Quando, dopo un travaglio durato anni, giunse infine a scelte definitive con la decisione di uscire “dal secolo” – vale a dire con l’abbandono dei valori perseguiti dal mondo (e che fino all’età di ventiquattro anni erano stati anche i suoi) per riscoprire la bontà e la paternità di Dio – tutto acquistò un senso diverso: i poveri gli manifestarono il volto di Cristo, i nemici divennero uomini da amare, gli animali furono i suoi fratelli più piccoli, il creato si rivelò ai suoi occhi come l’orma del Creatore.

Non solo gli esseri umani, per lui, erano chiamati alla lode di Dio, ma tutta intera la creazione. È solo in questo contesto che possiamo comprendere nella sua piena e vera luce il Cantico di frate sole, il più famoso tra i componimenti poetici di Francesco. Un testo che – contrariamente a quel che molti credono – nacque in circostanze umanamente tutt’altro che positive.

C’è però un punto forte nel suo discorso: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla sua lode, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, che ne è posto al vertice, poiché ogni cosa gli è stata data affinché se ne serva e la restituisca al Creatore. Il dramma è tutto qui: che le creature servono Dio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle. Concetti che Francesco esprime in modo efficace nella quinta delle sue Ammonizioni: “Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto il Signore Dio, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figlio diletto secondo il corpo e a similitudine di lui secondo lo spirito. E tutte le creature, che sono sotto il cielo, per parte loro servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te”.

Questa sua scelta radicale di Dio, la sua decisione di “vivere secondo la forma del santo Vangelo” è anche alla radice della costante modernità di san Francesco. Perché la sua persona sa suscitare consenso anche in un mondo come il nostro, ormai secolarizzato e distante dall’esperienza religiosa? Credo che la risposta sia una sola: la sua perenne attualità sta tutta nella perenne novità del Vangelo. Francesco risulta attuale proprio per il suo radicale evangelismo: nella sua esperienza – scrisse Yves Marie-Joseph Congar (1904-1995) – si riflette l’assoluto del Vangelo della cristianità. Per questo egli resta, per noi, ancor oggi un modello.

* Arcivescovo di Benevento

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I criteri per scoprire il Re https://www.lavoce.it/i-criteri-per-scoprire-re/ Wed, 22 Dec 2021 17:34:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64200

“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11). È la domanda che soggiace a tutto il tempo di Avvento, seppur mai espressa nella liturgia. È la domanda che sale dalla disperazione di un popolo, rivolta a ogni profeta che annuncia una novità. Popolo stanco dell’oppressione che sta subendo, sfinito dall’attesa, che rischia di far spegnere la speranza. Aveva estrema necessità della notte di Natale quel popolo. Israele, segno di speranza per l’umanità intera, aveva estrema necessità di avere un segno tangibile delle promesse antiche. Non i segni simbolici: un bambino nuovo re apportatore di pace, la liberazione dalla schiavitù, il popolo riunito sotto un unico sovrano. Tutto ciò lasciava sempre un desiderio da colmare.

Il popolo aveva necessità della luce

Era necessario che “il popolo che abitava nelle tenebre” avesse visto finalmente la luce! Era necessario che il popolo abitante “in terra tenebrosa” avesse intravisto il sorgere di un nuovo giorno (Is 9,1). C’è stato un momento nella storia in cui questa notte, che sembrava una coltre impenetrabile, si è trasformata in un grembo che custodiva la luce. “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra contempliamo i tuoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo”. Con queste parole la liturgia della notte di Natale ci introduce all’ascolto della Parola di luce.

Al centro Maria, Giuseppe e il Bambino

Il testo evangelico descrive il fatto storico dell’attesa di un popolo, un fatto atteso dall’umanità intera. Il racconto dell’evangelista Luca indica le coordinate storico-geografiche del mistero dell’Incarnazione. Il censimento di Cesare Augusto, l’indicazione del potere temporale che governa la regione della Siria nella persona di Quirino, si intreccia con la vicenda umana di Maria e Giuseppe che attendono la nascita del loro bambino (Lc 2,1-3). Il Vangelo introduce una inversione di priorità: al centro Maria, Giuseppe e il Bambino, “profughi” dalla Galilea per rispondere a un comando del potere; e sullo sfondo, il potere, che non comprende ciò che sta accadendo. Nel racconto del Natale dell’evangelista Matteo scopriremo addirittura che il potere non sopporterà la prospettiva regale di questo bambino (Mt 2,3-4). L’evangelista Giovanni, nel brano del Prologo, collocherà la nascita di Gesù non solo al centro della storia conosciuta (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, Gv 1,14) ma nel cuore stesso di Dio, la cui storia non è delimitata dal tempo, ma ha il respiro dell’eternità: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale

La storia della salvezza rivela che Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale. Per Lui le figure preminenti sono i pastori, vere “sentinelle” della notte, pronti a lasciarsi sorprendere dalla novità di Dio (Lc 2,8-9); Maria, che si definisce la serva del Signore (Lc 1,18) e canta la sua umiltà, riconoscendo che è Dio l’artefice di tutto ciò che è accaduto in lei (Lc 1,46-49); Giuseppe, l’uomo giusto, che comprende il senso profondo della legge, da applicare in relazione al cuore stesso dei comandamenti: l’amore. Questo criterio gli consentirà di aprire il suo cuore alla comprensione del mistero di cui è fatto partecipe (Mt 1, 19-21). Queste figure danno un volto alle Beatitudini (Mt 5, 1-12). E accanto a esse scorrono i volti degli umili della terra, spesso umiliati dai potenti, ma che Dio ricompensa dando loro il “trono regale” del paradiso.

La fedeltà di Dio

Quella notte di duemila anni fa è stata necessaria anche per noi, perché ci parla della fedeltà indefettibile di Dio e ci ricorda che Lui è fedele per sempre. Questa notte che celebriamo ci è necessaria perché ci ricorda che, se sappiamo sostare nella notte, i nostri occhi rivelano una capacità inaudita, non compresa alla luce del giorno: sanno fendere l’oscurità e scorgere l’invisibile. Per questo san Francesco seppe vedere nel presepe di Greccio il bambino Gesù vivente.

Cosa cerchiamo nel Natale?

Noi oggi che cosa cerchiamo nel Natale? Il presepe vivente artificiosamente ricreato nelle nostre strade, con costumi del tempo, musiche e armonie che sollecitano i sentimenti e qualche lacrima? Ci sentiamo uomini e donne del Natale perché lo difendiamo da qualche poco intelligente proposta? Pensiamo di poterci fregiare della medaglia di araldi della fede per questo? C’è un pellegrinaggio fisico da compiere per il Natale: è il percorso che ci conduce davanti al presepe delle nostre comunità eucaristiche, dove il bambino Gesù è vivente nell’eucarestia. C’è un pellegrinaggio del cuore da compiere, quello che ci conduce presso l’umanità ridotta a scarto dagli Erode del nostro tempo, che ci conduce ai confini dei muri, costruiti dall’odio, che la giustizia prima o poi farà ricadere sugli ingegneri del male. Ma noi da quale parte del muro stiamo?]]>

“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11). È la domanda che soggiace a tutto il tempo di Avvento, seppur mai espressa nella liturgia. È la domanda che sale dalla disperazione di un popolo, rivolta a ogni profeta che annuncia una novità. Popolo stanco dell’oppressione che sta subendo, sfinito dall’attesa, che rischia di far spegnere la speranza. Aveva estrema necessità della notte di Natale quel popolo. Israele, segno di speranza per l’umanità intera, aveva estrema necessità di avere un segno tangibile delle promesse antiche. Non i segni simbolici: un bambino nuovo re apportatore di pace, la liberazione dalla schiavitù, il popolo riunito sotto un unico sovrano. Tutto ciò lasciava sempre un desiderio da colmare.

Il popolo aveva necessità della luce

Era necessario che “il popolo che abitava nelle tenebre” avesse visto finalmente la luce! Era necessario che il popolo abitante “in terra tenebrosa” avesse intravisto il sorgere di un nuovo giorno (Is 9,1). C’è stato un momento nella storia in cui questa notte, che sembrava una coltre impenetrabile, si è trasformata in un grembo che custodiva la luce. “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra contempliamo i tuoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo”. Con queste parole la liturgia della notte di Natale ci introduce all’ascolto della Parola di luce.

Al centro Maria, Giuseppe e il Bambino

Il testo evangelico descrive il fatto storico dell’attesa di un popolo, un fatto atteso dall’umanità intera. Il racconto dell’evangelista Luca indica le coordinate storico-geografiche del mistero dell’Incarnazione. Il censimento di Cesare Augusto, l’indicazione del potere temporale che governa la regione della Siria nella persona di Quirino, si intreccia con la vicenda umana di Maria e Giuseppe che attendono la nascita del loro bambino (Lc 2,1-3). Il Vangelo introduce una inversione di priorità: al centro Maria, Giuseppe e il Bambino, “profughi” dalla Galilea per rispondere a un comando del potere; e sullo sfondo, il potere, che non comprende ciò che sta accadendo. Nel racconto del Natale dell’evangelista Matteo scopriremo addirittura che il potere non sopporterà la prospettiva regale di questo bambino (Mt 2,3-4). L’evangelista Giovanni, nel brano del Prologo, collocherà la nascita di Gesù non solo al centro della storia conosciuta (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, Gv 1,14) ma nel cuore stesso di Dio, la cui storia non è delimitata dal tempo, ma ha il respiro dell’eternità: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale

La storia della salvezza rivela che Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale. Per Lui le figure preminenti sono i pastori, vere “sentinelle” della notte, pronti a lasciarsi sorprendere dalla novità di Dio (Lc 2,8-9); Maria, che si definisce la serva del Signore (Lc 1,18) e canta la sua umiltà, riconoscendo che è Dio l’artefice di tutto ciò che è accaduto in lei (Lc 1,46-49); Giuseppe, l’uomo giusto, che comprende il senso profondo della legge, da applicare in relazione al cuore stesso dei comandamenti: l’amore. Questo criterio gli consentirà di aprire il suo cuore alla comprensione del mistero di cui è fatto partecipe (Mt 1, 19-21). Queste figure danno un volto alle Beatitudini (Mt 5, 1-12). E accanto a esse scorrono i volti degli umili della terra, spesso umiliati dai potenti, ma che Dio ricompensa dando loro il “trono regale” del paradiso.

La fedeltà di Dio

Quella notte di duemila anni fa è stata necessaria anche per noi, perché ci parla della fedeltà indefettibile di Dio e ci ricorda che Lui è fedele per sempre. Questa notte che celebriamo ci è necessaria perché ci ricorda che, se sappiamo sostare nella notte, i nostri occhi rivelano una capacità inaudita, non compresa alla luce del giorno: sanno fendere l’oscurità e scorgere l’invisibile. Per questo san Francesco seppe vedere nel presepe di Greccio il bambino Gesù vivente.

Cosa cerchiamo nel Natale?

Noi oggi che cosa cerchiamo nel Natale? Il presepe vivente artificiosamente ricreato nelle nostre strade, con costumi del tempo, musiche e armonie che sollecitano i sentimenti e qualche lacrima? Ci sentiamo uomini e donne del Natale perché lo difendiamo da qualche poco intelligente proposta? Pensiamo di poterci fregiare della medaglia di araldi della fede per questo? C’è un pellegrinaggio fisico da compiere per il Natale: è il percorso che ci conduce davanti al presepe delle nostre comunità eucaristiche, dove il bambino Gesù è vivente nell’eucarestia. C’è un pellegrinaggio del cuore da compiere, quello che ci conduce presso l’umanità ridotta a scarto dagli Erode del nostro tempo, che ci conduce ai confini dei muri, costruiti dall’odio, che la giustizia prima o poi farà ricadere sugli ingegneri del male. Ma noi da quale parte del muro stiamo?]]>
Non perdiamo il vero bene! https://www.lavoce.it/non-perdiamo-il-vero-bene/ Thu, 07 Oct 2021 12:41:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62612

Gesù, sulla strada verso Gerusalemme, incontra un tale (Mc 10,17). Dal dialogo scaturisce un insegnamento per i discepoli: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (v. 23). Un termine, questo, che nel brano ritorna ben tre volte (Mc 10, 23-25) e due volte associato al termine “vita eterna” (vv. 17 e 30), riproponendo come centrale la prospettiva ultima della nostra vita. Gesù ci aveva ricordato nel Vangelo di domenica scorsa che il regno di Dio appartiene ai bambini e a chi ritorna come loro (Mc 10,14), sono loro i veri maestri della vita per comprendere il regno di Dio. “E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro” (Mc 9,36).

La vita eterna

Il tema della vita eterna è infatti l’argomento dell’uomo che incontra Gesù lungo la strada: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Quest’uomo, molto ricco, si approccia con il “vero tesoro” come se si parlasse di patrimonio da ereditare o da pretendere. Un atteggiamento simile lo ritroviamo nel brano del figlio che vuole andarsene dalla casa del padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15,12).

L'amore verso il prossimo

L’atteggiamento dell’uomo descritto nel Vangelo di oggi non ha certo la strafottenza del giovane figlio che vuole andarsene da casa: è pio, devoto, si prostra davanti a Gesù, lo riconosce come Dio, lo appella infatti “maestro buono” (Mc 10,17). Ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20). È Gesù che gli prospetta la seconda tavola delle Dieci parole: l’amore verso il prossimo (v. 19). Ma con quale atteggiamento vengono rispettate? Per amore? Per paura di perdere la faccia della persona educata? È il codice del buon cittadino di buona famiglia o quant’altro? “Queste cose le ho osservate” (v. 20), dirà di sé. C’è la consapevolezza che dietro queste parole ci sono le persone? Il “non uccidere” ha un nome implicito, quello del fratello; l’amore sponsale, da non tradire, ha dietro di sé una storia d’amore con una persona che ti ha dato la sua stessa vita; la verità non detta o negata può distruggere una persona; il furto, fatto di tante fattispecie, può far cadere nella disperazione quanti lo subiscono (v. 19).

Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”

In realtà quest’uomo sembra andare con difficoltà oltre il rispetto formale, come il fratello maggiore nel brano citato precedentemente: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (Lc 15,19). Emerge, in questo parallelo tra i due brani citati, la tristezza di entrambi. Il testo odierno ci presenta quest’uomo che se ne va triste di fronte alla proposta più radicale di Gesù: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21). Il testo di Luca presenta a sua volta il fratello maggiore che si rifiuta di far festa nella casa del padre... “Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morte ed è tornato in vita” (Lc 15,32).

“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!”

Entrambi hanno tutto ma rischiano di perdere il “vero tesoro”: la gioia eterna nella casa del Padre, la vera ricchezza. Se hai tutto ma non sei disposto a perderlo per l’eredità che non si consuma, possederai dei beni ma rischi di perdere il Bene. Il “vieni e seguimi” (v. 21) ha bisogno di leggerezza, necessita della semplicità dei bambini che lasciano il gioco di grande valore economico per l’insignificanza economica di un Lego, con cui costruire insieme a un altro bambino i sogni che portano nel cuore. Condividere un sogno ha un valore inestimabile, e quando il sogno è quello di Dio, realizzarlo è la nostra gioia. Non solo quella promessa nell’eternità, ma qui e ora, cento volte ciò che abbiamo lasciato. È la consapevole consolazione che Gesù vuole trasferire ai discepoli, preoccupati dalla sua affermazione di fronte al rifiuto di quell’uomo che voleva la formula per avere in eredità la vita eterna (Mc 10,17): “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (Mc 10,23).

L'uomo non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita.

Lo sguardo di amore di Gesù (v. 21) si tinge di delusione per l’occasione persa da quell’uomo di essere felice. L’uomo, che ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20), non è stato un buon mercante, non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita. Possiamo dire, con la prima lettura, che non ha chiesto la capacità di distinguere tra i beni che passano e quelli che restano per sempre. La sapienza e la prudenza sono da preferire a scettri e a troni (Sap 7,7-8). Non solo: l’autore considera queste virtù, infuse da Dio, di valore più alto di una gemma inestimabile (v. 9), fino ad amarle più della stessa vita (v. 10). Ma è sorprendente il fatto che, lasciando tutto per avere tali virtù, poi si può godere appieno di tutti gli altri beni.

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Gesù, sulla strada verso Gerusalemme, incontra un tale (Mc 10,17). Dal dialogo scaturisce un insegnamento per i discepoli: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (v. 23). Un termine, questo, che nel brano ritorna ben tre volte (Mc 10, 23-25) e due volte associato al termine “vita eterna” (vv. 17 e 30), riproponendo come centrale la prospettiva ultima della nostra vita. Gesù ci aveva ricordato nel Vangelo di domenica scorsa che il regno di Dio appartiene ai bambini e a chi ritorna come loro (Mc 10,14), sono loro i veri maestri della vita per comprendere il regno di Dio. “E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro” (Mc 9,36).

La vita eterna

Il tema della vita eterna è infatti l’argomento dell’uomo che incontra Gesù lungo la strada: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Quest’uomo, molto ricco, si approccia con il “vero tesoro” come se si parlasse di patrimonio da ereditare o da pretendere. Un atteggiamento simile lo ritroviamo nel brano del figlio che vuole andarsene dalla casa del padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15,12).

L'amore verso il prossimo

L’atteggiamento dell’uomo descritto nel Vangelo di oggi non ha certo la strafottenza del giovane figlio che vuole andarsene da casa: è pio, devoto, si prostra davanti a Gesù, lo riconosce come Dio, lo appella infatti “maestro buono” (Mc 10,17). Ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20). È Gesù che gli prospetta la seconda tavola delle Dieci parole: l’amore verso il prossimo (v. 19). Ma con quale atteggiamento vengono rispettate? Per amore? Per paura di perdere la faccia della persona educata? È il codice del buon cittadino di buona famiglia o quant’altro? “Queste cose le ho osservate” (v. 20), dirà di sé. C’è la consapevolezza che dietro queste parole ci sono le persone? Il “non uccidere” ha un nome implicito, quello del fratello; l’amore sponsale, da non tradire, ha dietro di sé una storia d’amore con una persona che ti ha dato la sua stessa vita; la verità non detta o negata può distruggere una persona; il furto, fatto di tante fattispecie, può far cadere nella disperazione quanti lo subiscono (v. 19).

Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”

In realtà quest’uomo sembra andare con difficoltà oltre il rispetto formale, come il fratello maggiore nel brano citato precedentemente: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (Lc 15,19). Emerge, in questo parallelo tra i due brani citati, la tristezza di entrambi. Il testo odierno ci presenta quest’uomo che se ne va triste di fronte alla proposta più radicale di Gesù: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21). Il testo di Luca presenta a sua volta il fratello maggiore che si rifiuta di far festa nella casa del padre... “Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morte ed è tornato in vita” (Lc 15,32).

“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!”

Entrambi hanno tutto ma rischiano di perdere il “vero tesoro”: la gioia eterna nella casa del Padre, la vera ricchezza. Se hai tutto ma non sei disposto a perderlo per l’eredità che non si consuma, possederai dei beni ma rischi di perdere il Bene. Il “vieni e seguimi” (v. 21) ha bisogno di leggerezza, necessita della semplicità dei bambini che lasciano il gioco di grande valore economico per l’insignificanza economica di un Lego, con cui costruire insieme a un altro bambino i sogni che portano nel cuore. Condividere un sogno ha un valore inestimabile, e quando il sogno è quello di Dio, realizzarlo è la nostra gioia. Non solo quella promessa nell’eternità, ma qui e ora, cento volte ciò che abbiamo lasciato. È la consapevole consolazione che Gesù vuole trasferire ai discepoli, preoccupati dalla sua affermazione di fronte al rifiuto di quell’uomo che voleva la formula per avere in eredità la vita eterna (Mc 10,17): “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (Mc 10,23).

L'uomo non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita.

Lo sguardo di amore di Gesù (v. 21) si tinge di delusione per l’occasione persa da quell’uomo di essere felice. L’uomo, che ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20), non è stato un buon mercante, non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita. Possiamo dire, con la prima lettura, che non ha chiesto la capacità di distinguere tra i beni che passano e quelli che restano per sempre. La sapienza e la prudenza sono da preferire a scettri e a troni (Sap 7,7-8). Non solo: l’autore considera queste virtù, infuse da Dio, di valore più alto di una gemma inestimabile (v. 9), fino ad amarle più della stessa vita (v. 10). Ma è sorprendente il fatto che, lasciando tutto per avere tali virtù, poi si può godere appieno di tutti gli altri beni.

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Due modi di vedere la Legge https://www.lavoce.it/due-modi-di-vedere-la-legge/ Sun, 03 Oct 2021 11:40:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62596

L’evangelista Marco, anche questa volta, introduce il racconto con una locuzione che indica il cambio di orizzonte geografico, non presente nel testo liturgico: “Partito di là, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano” (Mc 10,1). Ogni cambiamento geografico sembra essere anche un cambio tematico. Dalle periferie della “Galilea delle genti” al “cuore pulsante” della fede dei figli di Abramo. 

Gesù va verso Gerusalemme

Gesù ora procede decisamente verso Gerusalemme, nella regione della Giudea, la terra dove si rende visibile l’identità del popolo d’Israele. Il Tempio con le solenni liturgie del sacrificio, il rito annuale dell’accesso del Sommo Sacerdote nel luogo più inaccessibile, il Santo dei Santi. E ancora, la presenza delle scuole rabbiniche, dei farisei, dei sacerdoti e di tutto l’apparato liturgico cultuale, che rendeva “tempio” l’intera città di Gerusalemme.

Gesù si trova a dover rispondere ai farisei

Gesù, nei testi evangelici delle domeniche precedenti, aveva abbandonato la folla e aveva dedicato il suo insegnamento ai discepoli. Ora si trova davanti ancora una volta molta gente: “La folla accorse di nuovo” (10,1). Si ritrova costretto a rispondere ancora ai farisei, che con insistenza continuano a cercare un motivo per la sua condanna.  Il tentativo è quello di farlo “scivolare” su una eventuale contraddizione nei confronti della legge di Mosè. I farisei, ma anche altre categorie legate al tempio, avevano inviato emisdiani sari ad ascoltare i suoi insegnamenti quando era in Galilea: “Si riunirono intorno a lui i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1).  Si sa che ciò che si racconta di “seconda mano” non sempre è preciso. Ma, soprattutto quando si è prevenuti, ogni parola può essere usata per accusare: “Alcuni farisei si avvicinarono per metterlo alla prova” (cfr. Mc 10,2). Dopo la polemica con costoro, Gesù dedicherà del tempo ad approfondire il tema con i suoi discepoli: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (Mc 10,10).

E' lecito a un marito ripudiare la propria moglie?

A Gesù viene chiesto dai farisei se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie (v. 2). La questione è normata nel libro del Deuteronomio (dal greco: “seconda Legge”), un testo che riprende ed esplicita il Decalogo, già presentato in Esodo 20,117. I farisei non chiedono un approfondimento, ma vogliono metterlo alla prova (Mc 10,2). Approccio diverso da quello dei discepoli che, una volta entrati in casa, intendono approfondire l’insegnamento: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (v. 10).

Al posto della Legge Gesù mette al centro l'uomo

Non è la prima volta che i farisei “usano” Mosè per evidenziare l’“ereticità” di Gesù, altre volte lo accuseranno di essere contro la legge donata da Dio: le guarigioni di sabato, le spighe strappate di sabato, le discussioni sul digiuno (Mc 2- 3). Con le risposte alle obiezioni, Gesù mette al centro l’uomo, non la legge (Mc 2,27). Tutto ciò porterà al pretesto per la condanna di Gesù, espressa già all’inizio della sua missione: “E i farisei uscirono subito con gli ero- e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Il testo di riferimento usato dai farisei è Dt 24,1-4: norme relative al divorzio. La norma sembra non dare opzioni interpretative. Alla domanda diretta dei farisei, Gesù chiede quale era stato il pronunciamento di Mosè, e i medesimi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla” (Mc 10,35). I farisei immaginano di aver “incastrato” Gesù: o perde la faccia di fronte alla gente, rinnegando la sua misericordia verso chi sbaglia, oppure rinnega la Legge e quindi è reo di morte.

Per Gesù al centro di tutto c'è la creatura, immagine e somiglianza di Dio

Gli stretti orizzonti nel quale si muovono i nemici di Gesù sono ulteriormente ristretti dalla “malafede”... Nell’orizzonte di Gesù, invece, al centro di tutto c’è la creatura, immagine e somiglianza di Dio, nella sua dualità di uomo e donna (Gen 1,27), vertice di tutta la creazione. Nello stesso tempo Gesù conosce bene la funzione pedagogica della Legge, nei confronti della quale si mostra libero, ma indicando sempre una norma più radicale: “Per la durezza del vostro cuore, Mosè scrisse per voi questa norma” (Mc 10,5).

I due diventeranno una carne sola

Dopo l’obiezione, Gesù rimanda al principio fondante l’unione dell’uomo e della donna: “I due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne” (v. 8).  Questa non è una norma, ma è il codice genetico dell’amore, lo stesso Dna che struttura l’uomo, che è fatto di infinito e cammina con la logica del per sempre , vero anelito di felicità.  Il mondo è governato dal precario e dall’indefinito, costringendo alla regola del “tutto e subito”. La norma liberante dell’amore fa camminare la persona sui binari che conducono all’eternità, secondo la logica “un po’ alla volta, ma per sempre”.

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L’evangelista Marco, anche questa volta, introduce il racconto con una locuzione che indica il cambio di orizzonte geografico, non presente nel testo liturgico: “Partito di là, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano” (Mc 10,1). Ogni cambiamento geografico sembra essere anche un cambio tematico. Dalle periferie della “Galilea delle genti” al “cuore pulsante” della fede dei figli di Abramo. 

Gesù va verso Gerusalemme

Gesù ora procede decisamente verso Gerusalemme, nella regione della Giudea, la terra dove si rende visibile l’identità del popolo d’Israele. Il Tempio con le solenni liturgie del sacrificio, il rito annuale dell’accesso del Sommo Sacerdote nel luogo più inaccessibile, il Santo dei Santi. E ancora, la presenza delle scuole rabbiniche, dei farisei, dei sacerdoti e di tutto l’apparato liturgico cultuale, che rendeva “tempio” l’intera città di Gerusalemme.

Gesù si trova a dover rispondere ai farisei

Gesù, nei testi evangelici delle domeniche precedenti, aveva abbandonato la folla e aveva dedicato il suo insegnamento ai discepoli. Ora si trova davanti ancora una volta molta gente: “La folla accorse di nuovo” (10,1). Si ritrova costretto a rispondere ancora ai farisei, che con insistenza continuano a cercare un motivo per la sua condanna.  Il tentativo è quello di farlo “scivolare” su una eventuale contraddizione nei confronti della legge di Mosè. I farisei, ma anche altre categorie legate al tempio, avevano inviato emisdiani sari ad ascoltare i suoi insegnamenti quando era in Galilea: “Si riunirono intorno a lui i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1).  Si sa che ciò che si racconta di “seconda mano” non sempre è preciso. Ma, soprattutto quando si è prevenuti, ogni parola può essere usata per accusare: “Alcuni farisei si avvicinarono per metterlo alla prova” (cfr. Mc 10,2). Dopo la polemica con costoro, Gesù dedicherà del tempo ad approfondire il tema con i suoi discepoli: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (Mc 10,10).

E' lecito a un marito ripudiare la propria moglie?

A Gesù viene chiesto dai farisei se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie (v. 2). La questione è normata nel libro del Deuteronomio (dal greco: “seconda Legge”), un testo che riprende ed esplicita il Decalogo, già presentato in Esodo 20,117. I farisei non chiedono un approfondimento, ma vogliono metterlo alla prova (Mc 10,2). Approccio diverso da quello dei discepoli che, una volta entrati in casa, intendono approfondire l’insegnamento: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (v. 10).

Al posto della Legge Gesù mette al centro l'uomo

Non è la prima volta che i farisei “usano” Mosè per evidenziare l’“ereticità” di Gesù, altre volte lo accuseranno di essere contro la legge donata da Dio: le guarigioni di sabato, le spighe strappate di sabato, le discussioni sul digiuno (Mc 2- 3). Con le risposte alle obiezioni, Gesù mette al centro l’uomo, non la legge (Mc 2,27). Tutto ciò porterà al pretesto per la condanna di Gesù, espressa già all’inizio della sua missione: “E i farisei uscirono subito con gli ero- e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Il testo di riferimento usato dai farisei è Dt 24,1-4: norme relative al divorzio. La norma sembra non dare opzioni interpretative. Alla domanda diretta dei farisei, Gesù chiede quale era stato il pronunciamento di Mosè, e i medesimi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla” (Mc 10,35). I farisei immaginano di aver “incastrato” Gesù: o perde la faccia di fronte alla gente, rinnegando la sua misericordia verso chi sbaglia, oppure rinnega la Legge e quindi è reo di morte.

Per Gesù al centro di tutto c'è la creatura, immagine e somiglianza di Dio

Gli stretti orizzonti nel quale si muovono i nemici di Gesù sono ulteriormente ristretti dalla “malafede”... Nell’orizzonte di Gesù, invece, al centro di tutto c’è la creatura, immagine e somiglianza di Dio, nella sua dualità di uomo e donna (Gen 1,27), vertice di tutta la creazione. Nello stesso tempo Gesù conosce bene la funzione pedagogica della Legge, nei confronti della quale si mostra libero, ma indicando sempre una norma più radicale: “Per la durezza del vostro cuore, Mosè scrisse per voi questa norma” (Mc 10,5).

I due diventeranno una carne sola

Dopo l’obiezione, Gesù rimanda al principio fondante l’unione dell’uomo e della donna: “I due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne” (v. 8).  Questa non è una norma, ma è il codice genetico dell’amore, lo stesso Dna che struttura l’uomo, che è fatto di infinito e cammina con la logica del per sempre , vero anelito di felicità.  Il mondo è governato dal precario e dall’indefinito, costringendo alla regola del “tutto e subito”. La norma liberante dell’amore fa camminare la persona sui binari che conducono all’eternità, secondo la logica “un po’ alla volta, ma per sempre”.

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Confini umani, troppo umani https://www.lavoce.it/confini-umani-troppo-umani/ Fri, 24 Sep 2021 09:27:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62511

La frase conclusiva della seconda lettura di questa domenica sembra agganciarsi ad uno dei temi delle domeniche precedenti: “Avete condannato e ucciso il giusto, ed egli non vi ha opposto resistenza” (Gc 5,6). La prima lettura di domenica scorsa sottolineava l’intenzione malvagia degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni” (Sap 2,12).

Maltrattato si lasciò umiliare

Il secondo annuncio della Passione identificava Gesù come il giusto perseguitato e ucciso dagli empi: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9,31). A questa malvagità degli empi il giusto risponde con una giustizia che è di scandalo: “Maltrattato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte a suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). È lo scandalo di un Dio che sceglie la debolezza anziché usare le armi dell’onnipotenza di fronte all’ingiustizia umana.

Piccoli, nella consapevolezza della fede

Il testo evangelico di questa domenica usa questo termine, “scandalo”, esplicitamente quattro volte (Mc 9,42-45), riferito ad azioni che turbano “i piccoli” (v. 42). Questo termine non è un aggancio al termine “bambini” di cui si parlava domenica scorsa (Mc 9,36-37). Gesù con la parola “piccoli” intende piccoli nella consapevolezza della fede.

Nella liturgia odierna non è difficile scorgere un altro scandalo, non evidente, ma chiaro agli occhi dei discepoli, e che potremmo ri-dire così: “Maestro, uno che non è dei nostri si è arrogato il diritto di compiere delle opere in tuo nome, bisogna impedirglielo” (cfr. Mc 9,38). Qualcosa di simile è narrato nella prima lettura : “Alcuni che non erano nel luogo stabilito in cui si riceveva lo Spirito, ora stanno profetando: non possono farlo” (cfr. Nm 11, 26-28).

Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me

Gesù nella prima situazione, e Mosè nella seconda, danno una risposta perfettamente sovrapponibile: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (Mc 9,39). “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (Nm 11,29). Impedire che altri profetizzano, impedire che altri compiano opere in nome di Gesù! Gli “altri” e “noi”: una barriera posta da chi intende confinare Dio all’interno di una identità culturale, una nazione, un popolo, uno schema etico-morale, una religione.

Il nostro Dio, rivelato in Gesù Cristo, si è “confinato” nell’uomo non per “con-stringere”, ossia stringersi con lui nei limiti umani, ma per annunciargli che potrà finalmente liberarsi dai vincoli dell’egoismo ed essere veramente libero, ossia pienamente umano, a immagine e somiglianza realizzata di Dio. Il termine “scandalo” - che significa ostacolo, inciampo, insidia - nel dizionario Treccani viene così definito: turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o pa- (La definizione prosegue con connotazioni morali che qui non interessano).

L'azione di Dio a volte genera un turbamento della coscienza

L’azione di Dio alcune volte genera un vero turbamento della coscienza, perché sembra superare i confini della concezione “troppo umana” della fede, che la “costringe” a diventare regola di comportamento, impianto etico, identità geografica e/o culturale. È lo “scandalo necessario”, che costringe a rivedere la propria concezione di un Dio che si è fatto uomo.

La Sua incarnazione non ha come fine l’esilio dalla nostra umanità, ma di darle compimento. Ben diverso è lo scandalo procurato dall’uomo credente, dal cosiddetto fedele. Nel testo del Vangelo, Gesù si rivolge ai “suoi”, quelli che lo seguono; e l’immagine della menomazione fisica, preferibile allo scandalizzare i piccoli, è rivolta proprio a loro (Mc 9,42-47).

Lo scandalo di Dio purifica la fede del credente

La distinzione noi-loro, nella logica umana, identifica un confine; nella logica di Dio, una responsabilità per quanti si definiscono credenti. Lo scandalo dei credenti, come lo definisce Gesù, pone un serio ostacolo all’evangelizzazione. Lo scandalo di Dio, invece, purifica la fede del credente, e ne fa un’occasione di liberazione dalle incrostazioni umane che ostacolano, ancora oggi, l’annuncio del Vangelo.

Solo la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, come ci ricorda il Salmo di questa domenica (Sal 19,8.10.12-14). Ogni ri-traduzione umana, seppur necessaria, rappresenta sempre una frattura, che solo l’umile consapevolezza della distanza tra Dio e l’uomo rende sanabile. Il salmista stesso chiede di essere salvato dall’orgoglio di mettersi al posto di Dio. Chiediamolo anche noi, di poter superare i confini che abbiamo posto alle nostre identità, confondendoli con la difesa della fede.

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La frase conclusiva della seconda lettura di questa domenica sembra agganciarsi ad uno dei temi delle domeniche precedenti: “Avete condannato e ucciso il giusto, ed egli non vi ha opposto resistenza” (Gc 5,6). La prima lettura di domenica scorsa sottolineava l’intenzione malvagia degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni” (Sap 2,12).

Maltrattato si lasciò umiliare

Il secondo annuncio della Passione identificava Gesù come il giusto perseguitato e ucciso dagli empi: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9,31). A questa malvagità degli empi il giusto risponde con una giustizia che è di scandalo: “Maltrattato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte a suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). È lo scandalo di un Dio che sceglie la debolezza anziché usare le armi dell’onnipotenza di fronte all’ingiustizia umana.

Piccoli, nella consapevolezza della fede

Il testo evangelico di questa domenica usa questo termine, “scandalo”, esplicitamente quattro volte (Mc 9,42-45), riferito ad azioni che turbano “i piccoli” (v. 42). Questo termine non è un aggancio al termine “bambini” di cui si parlava domenica scorsa (Mc 9,36-37). Gesù con la parola “piccoli” intende piccoli nella consapevolezza della fede.

Nella liturgia odierna non è difficile scorgere un altro scandalo, non evidente, ma chiaro agli occhi dei discepoli, e che potremmo ri-dire così: “Maestro, uno che non è dei nostri si è arrogato il diritto di compiere delle opere in tuo nome, bisogna impedirglielo” (cfr. Mc 9,38). Qualcosa di simile è narrato nella prima lettura : “Alcuni che non erano nel luogo stabilito in cui si riceveva lo Spirito, ora stanno profetando: non possono farlo” (cfr. Nm 11, 26-28).

Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me

Gesù nella prima situazione, e Mosè nella seconda, danno una risposta perfettamente sovrapponibile: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (Mc 9,39). “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (Nm 11,29). Impedire che altri profetizzano, impedire che altri compiano opere in nome di Gesù! Gli “altri” e “noi”: una barriera posta da chi intende confinare Dio all’interno di una identità culturale, una nazione, un popolo, uno schema etico-morale, una religione.

Il nostro Dio, rivelato in Gesù Cristo, si è “confinato” nell’uomo non per “con-stringere”, ossia stringersi con lui nei limiti umani, ma per annunciargli che potrà finalmente liberarsi dai vincoli dell’egoismo ed essere veramente libero, ossia pienamente umano, a immagine e somiglianza realizzata di Dio. Il termine “scandalo” - che significa ostacolo, inciampo, insidia - nel dizionario Treccani viene così definito: turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o pa- (La definizione prosegue con connotazioni morali che qui non interessano).

L'azione di Dio a volte genera un turbamento della coscienza

L’azione di Dio alcune volte genera un vero turbamento della coscienza, perché sembra superare i confini della concezione “troppo umana” della fede, che la “costringe” a diventare regola di comportamento, impianto etico, identità geografica e/o culturale. È lo “scandalo necessario”, che costringe a rivedere la propria concezione di un Dio che si è fatto uomo.

La Sua incarnazione non ha come fine l’esilio dalla nostra umanità, ma di darle compimento. Ben diverso è lo scandalo procurato dall’uomo credente, dal cosiddetto fedele. Nel testo del Vangelo, Gesù si rivolge ai “suoi”, quelli che lo seguono; e l’immagine della menomazione fisica, preferibile allo scandalizzare i piccoli, è rivolta proprio a loro (Mc 9,42-47).

Lo scandalo di Dio purifica la fede del credente

La distinzione noi-loro, nella logica umana, identifica un confine; nella logica di Dio, una responsabilità per quanti si definiscono credenti. Lo scandalo dei credenti, come lo definisce Gesù, pone un serio ostacolo all’evangelizzazione. Lo scandalo di Dio, invece, purifica la fede del credente, e ne fa un’occasione di liberazione dalle incrostazioni umane che ostacolano, ancora oggi, l’annuncio del Vangelo.

Solo la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, come ci ricorda il Salmo di questa domenica (Sal 19,8.10.12-14). Ogni ri-traduzione umana, seppur necessaria, rappresenta sempre una frattura, che solo l’umile consapevolezza della distanza tra Dio e l’uomo rende sanabile. Il salmista stesso chiede di essere salvato dall’orgoglio di mettersi al posto di Dio. Chiediamolo anche noi, di poter superare i confini che abbiamo posto alle nostre identità, confondendoli con la difesa della fede.

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Tutta la forza degli umili https://www.lavoce.it/tutta-la-forza-degli-umili/ Sat, 18 Sep 2021 10:44:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62294

Prosegue l’istruzione dei discepoli da parte di Gesù, che alterna spiegazioni, eventi e insegnamenti. Dopo la professione di fede di Pietro (Mc 8,29), e l’appellativo di Gesù nei suoi confronti: Satana (v. 33), il Maestro ricorda la sorte di chi decide di seguirlo: “Prenda la sua croce e mi segua” (v. 34).

Il primo annuncio della Passione, domenica scorsa, è seguito dall’esperienza della trasfigurazione sul monte Tabor (Mc 9,2-8). Questo fatto sembra rincuorare i Dodici, ma Gesù prosegue ribadendo ciò che accadrà all’arrivo a Gerusalemme: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà” (Mc 9,31).

I Dodici non capivano cosa significasse risorgere dai morti

È il secondo annuncio della Passione a zittire i Dodici: “Avevano paura ad interrogarlo” (v. 32). Anche scendendo dal monte Tabor, dopo la Trasfigurazione, rimasero muti, non tanto per l’invito di Gesù, quanto per l’incapacità a comprendere il tema della resurrezione (Mc 9,9). Non capivano cosa significava risorgere dai morti, però non tacquero lungo la strada che li riportava a Cafarnao.

I Dodici discutono su chi fosse tra di loro il più grande

Gesù li interpella ancora una volta direttamente: “Di cosa stavate discutendo lungo la strada?” (Mc 9,33). Questa volta nessuno parla, un grande imbarazzo serpeggia tra i Dodici, gli argomenti trattati lungo la via sono lontani anni luce dalla logica di Gesù. Il silenzio imbarazzato nasconde un altro tradimento dell’insegnamento del Maestro. L’evangelista Marco annota che i Dodici “avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Sarà dura per gli apostoli comprendere in che senso Gesù è il Messia, in che senso lui, il Maestro, sarà il liberatore d’Israele. Il cammino di Gesù con i suoi verso Gerusalemme sarà ritmato dagli annunci della Passione, ben tre. Dopo questo brano di Vangelo, ancora un’altra volta Gesù dovrà ribadire quale sarà la sua sorte (Mc 11,32-34), e per l’ennesima volta i Dodici discuteranno con criteri avulsi dalla logica del Vangelo (Mc 11,35-45).

Per essere il primo devi metterti all'ultimo posto

A questo punto è il Maestro a prendere la parola. Tutti si siedono attorno a lui (Mc 9,35). Chi è il più grande? Gesù la declina in un altro modo: vuoi essere il primo? Bene, non è un’aspirazione sbagliata, ma per essere il primo devi metterti all’ultimo posto per essere servo di tutti (v. 35), così dirà Gesù. Poi, nella logica sacramentale per cui alle parole seguono i gesti, pone un bambino in mezzo a loro: quello è veramente l’ultimo nella cultura del tempo, proprietà dei genitori e senza diritti. Gesù lo fa essere persona abbracciandolo (v. 37) e diviene portatore dei diritti divini: accogliendolo, si accoglie Dio stesso.

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore”

Il bambino, ai margini della cultura del tempo, è posto al centro, il luogo proprio di chi insegna, ma senza la ridondanza di sentirsi al primo posto. È la mitezza e l’umiltà fatta persona. Gesù stesso dirà di sé: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il bambino, non avendo diritti, non solo è indifeso, ma non ha neanche le armi per difendersi. È la condizione che sceglierà Gesù nell’identificarsi con l’agnello immolato: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7), come ricorda questo brano proclamato nell’azione liturgica del Venerdì santo.

I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo

Eppure la mitezza e l’umiltà non hanno sempre come effetto la pacificazione dei cuori di chi gli sta davanti. Di fronte al volto di Gesù si scatena l’odio del mondo: gli empi, come ci ricorda la prima lettura (Sap 2,12.17-20), tendono insidie al giusto, perché con la sua condotta rinfaccia loro le trasgressioni (v. 12). I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo. Pur non avendo armi, sono un baluardo al bene; infatti mitezza e umiltà non sono sinonimi di debolezza e rassegnazione, ma esprimono la fortezza evangelica che non arretra di fronte alla violenza.

Il volto dei giusti è il volto di Dio

Il volto dei giusti è il volto dei Figli di Dio (Sap 2,18), che di fronte al sopruso diventa duro, spigoloso come il diamante, prezioso e capace di fendere il ventre molle della malvagità umana. È il volto che assume Gesù nel momento in cui decide di incamminarsi verso Gerusalemme, consapevole della sorte che lo attende. Il testo originale usa proprio il termine “rese duro il suo volto (Lc 9,51). Sulla scena di questo mondo, non sempre gli umili e gli indifesi trovano il sostegno solidale. Magari non si partecipa alla violenza contro di loro, ma si preferisce voltarsi dalla parte opposta. “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti” dirà Martin Luther King. Elie Wiesel, superstite dell’Olocausto, aggiungerà: “L’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza”.

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Prosegue l’istruzione dei discepoli da parte di Gesù, che alterna spiegazioni, eventi e insegnamenti. Dopo la professione di fede di Pietro (Mc 8,29), e l’appellativo di Gesù nei suoi confronti: Satana (v. 33), il Maestro ricorda la sorte di chi decide di seguirlo: “Prenda la sua croce e mi segua” (v. 34).

Il primo annuncio della Passione, domenica scorsa, è seguito dall’esperienza della trasfigurazione sul monte Tabor (Mc 9,2-8). Questo fatto sembra rincuorare i Dodici, ma Gesù prosegue ribadendo ciò che accadrà all’arrivo a Gerusalemme: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà” (Mc 9,31).

I Dodici non capivano cosa significasse risorgere dai morti

È il secondo annuncio della Passione a zittire i Dodici: “Avevano paura ad interrogarlo” (v. 32). Anche scendendo dal monte Tabor, dopo la Trasfigurazione, rimasero muti, non tanto per l’invito di Gesù, quanto per l’incapacità a comprendere il tema della resurrezione (Mc 9,9). Non capivano cosa significava risorgere dai morti, però non tacquero lungo la strada che li riportava a Cafarnao.

I Dodici discutono su chi fosse tra di loro il più grande

Gesù li interpella ancora una volta direttamente: “Di cosa stavate discutendo lungo la strada?” (Mc 9,33). Questa volta nessuno parla, un grande imbarazzo serpeggia tra i Dodici, gli argomenti trattati lungo la via sono lontani anni luce dalla logica di Gesù. Il silenzio imbarazzato nasconde un altro tradimento dell’insegnamento del Maestro. L’evangelista Marco annota che i Dodici “avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Sarà dura per gli apostoli comprendere in che senso Gesù è il Messia, in che senso lui, il Maestro, sarà il liberatore d’Israele. Il cammino di Gesù con i suoi verso Gerusalemme sarà ritmato dagli annunci della Passione, ben tre. Dopo questo brano di Vangelo, ancora un’altra volta Gesù dovrà ribadire quale sarà la sua sorte (Mc 11,32-34), e per l’ennesima volta i Dodici discuteranno con criteri avulsi dalla logica del Vangelo (Mc 11,35-45).

Per essere il primo devi metterti all'ultimo posto

A questo punto è il Maestro a prendere la parola. Tutti si siedono attorno a lui (Mc 9,35). Chi è il più grande? Gesù la declina in un altro modo: vuoi essere il primo? Bene, non è un’aspirazione sbagliata, ma per essere il primo devi metterti all’ultimo posto per essere servo di tutti (v. 35), così dirà Gesù. Poi, nella logica sacramentale per cui alle parole seguono i gesti, pone un bambino in mezzo a loro: quello è veramente l’ultimo nella cultura del tempo, proprietà dei genitori e senza diritti. Gesù lo fa essere persona abbracciandolo (v. 37) e diviene portatore dei diritti divini: accogliendolo, si accoglie Dio stesso.

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore”

Il bambino, ai margini della cultura del tempo, è posto al centro, il luogo proprio di chi insegna, ma senza la ridondanza di sentirsi al primo posto. È la mitezza e l’umiltà fatta persona. Gesù stesso dirà di sé: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il bambino, non avendo diritti, non solo è indifeso, ma non ha neanche le armi per difendersi. È la condizione che sceglierà Gesù nell’identificarsi con l’agnello immolato: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7), come ricorda questo brano proclamato nell’azione liturgica del Venerdì santo.

I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo

Eppure la mitezza e l’umiltà non hanno sempre come effetto la pacificazione dei cuori di chi gli sta davanti. Di fronte al volto di Gesù si scatena l’odio del mondo: gli empi, come ci ricorda la prima lettura (Sap 2,12.17-20), tendono insidie al giusto, perché con la sua condotta rinfaccia loro le trasgressioni (v. 12). I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo. Pur non avendo armi, sono un baluardo al bene; infatti mitezza e umiltà non sono sinonimi di debolezza e rassegnazione, ma esprimono la fortezza evangelica che non arretra di fronte alla violenza.

Il volto dei giusti è il volto di Dio

Il volto dei giusti è il volto dei Figli di Dio (Sap 2,18), che di fronte al sopruso diventa duro, spigoloso come il diamante, prezioso e capace di fendere il ventre molle della malvagità umana. È il volto che assume Gesù nel momento in cui decide di incamminarsi verso Gerusalemme, consapevole della sorte che lo attende. Il testo originale usa proprio il termine “rese duro il suo volto (Lc 9,51). Sulla scena di questo mondo, non sempre gli umili e gli indifesi trovano il sostegno solidale. Magari non si partecipa alla violenza contro di loro, ma si preferisce voltarsi dalla parte opposta. “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti” dirà Martin Luther King. Elie Wiesel, superstite dell’Olocausto, aggiungerà: “L’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza”.

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I racconti di Risurrezione non offrono facili soluzioni. Eppure donano una grande luce https://www.lavoce.it/i-racconti-di-risurrezione/ Thu, 09 Apr 2020 13:42:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56837 logo reubrica commento al Vangelo

“E vissero felici e contenti” non è il contenuto delle prime parole del Vangelo della Risurrezione, della mattina di Pasqua. Maria Maddalena ci introduce a quel mattino narrato nelle Letture del Giorno di Pasqua. “Il primo giorno della settimana” (Gv 20,1), si reca al sepolcro e negli occhi porta l’“imprinting” della croce a cui è appeso Gesù. L’estremo atto d’amore che, insieme all’altra Maria (Mt 27,61), compie nel comporre il corpo di Gesù nel sepolcro non colma il dolore lancinante. Eppure è un nuovo giorno, l’alba del giorno senza tramonto, il fondamento della nostra fede.

"Se siete risorti con Cristo"

Paolo nella seconda lettura introduce il “se” dubitativo: “Se siete risorti con Cristo” (Col 3,1), allora riuscite a pensare alle cose di lassù. Quale percorso saranno chiamati a compiere gli amici di Gesù dopo questo giorno! La Sequenza di Pasqua che avevamo anticipato domenica scorsa nella descrizione della lotta tra la morte e la vita, ora possiamo completarla: “Il Signore della vita era morto; ma ora vivo, trionfa… Sì, ne siamo certi, Cristo è davvero risorto”. Pietro nella prima lettura ripercorre il cammino compiuto da Gesù dal battesimo al fiume Giordano fino alla morte (At 10,37-39), per giungere a un “ma” che stravolge la narrazione: “Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno” e volle che si manifestasse a testimoni scelti” (v. 40), a quelli che con lui avevano condiviso tutto. Queste certezze acquisite successivamente, hanno bisogno di maturare nel cuore e nella mente dei discepoli e delle donne. In un certo modo, sono chiamati a compiere interiormente il percorso che Gesù ha fatto nel cuore e nella carne “in quei tre giorni”. Il Vangelo, che dovrebbe gettare luce sul mistero delle parole di Gesù, sembra non aiutarci, perché gli ultimi due versetti sembrano contraddirsi. Il versetto 8 attesta la fede dell’apostolo Giovanni. Egli entra nel sepolcro dopo Pietro e il testo annota che “vide e credette”. Subito dopo, versetto 9, il Vangelo sembra rimettere in discussione tutto: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”. Il giorno di Pasqua - che ha inizio con la Veglia nella notte - ci dà la possibilità di ascoltare tre versioni del racconto della Risurrezione, e la loro narrazione non ci apre a una comprensione piena. Se mettiamo insieme i quattro racconti della Passione, troviamo una linearità di percorso, con tantissimi punti in comune. Non è così per i quattro racconti della Risurrezione. Questo semplice confronto ci dice che l’evento della Risurrezione non è immediatamente comprensibile con le normali categorie, ma necessita anche una una disponibilità assolutamente nuova nel voler comprendere.

“Hanno portato via il Signore”

Il Vangelo di Giovanni, uno dei due proposti per la domenica di Pasqua (l’altro brano è Lc 24,13-35), mostra un notevole contrasto tra ciò che accade all’esterno e ciò che accade all’interno del Sepolcro. La corsa carica di angoscia della Maddalena, che raggiunge Pietro e Giovanni per annunciare, non la risurrezione, ma lo sconcerto di un furto: “Hanno portato via il Signore” (Gv 20,2). I due apostoli con altrettanto affanno corrono a motivo di ciò che la Maddalena ha detto loro. Nessuna traccia nella loro mente di quanto aveva detto loro Gesù: che dopo la sua morte, passati tre giorni, sarebbe risorto. Se, con lo sguardo di Pietro e Giovanni, oltrepassiamo l’ingresso del Sepolcro, troviamo un altro clima. Tutto è a posto, diversamente dal disordine interiore dei tre manifestatosi nel rincorrersi quasi ossessivo per cercare di capire. Non vedono il corpo di Gesù, come aveva detto la Maddalena, ma non c’è traccia di trafugamento: i teli erano a terra e il sudario piegato a parte. Un “involucro”, quello dei teli, che non contiene più nulla, diversamente da ciò che avevano visto quando Lazzaro era uscito dal sepolcro con i teli e le bende che lo avvolgevano e il sudario che copriva il capo (Gv 11,44). Da qui inizia il loro cammino. Altro che “vissero felici e contenti”! Una continua “macerazione” interiore, che avrà bisogno di più passaggi di mola, in cui tre ruote del dubbio, della fede e della certezza dovranno lungamente roteare. Il loro cammino sarà un percorso accidentato, la luce della Risurrezione; quel loro cammino, certamente gioioso, sarà però sempre soggetto al velo del Venerdì santo. Ma proprio perché hanno visto la vittoria della vita, dopo averla fatta propria, sopranno approdare al mattino di Pasqua. Questo renderà capaci gli apostoli di tenere duro davanti alle persecuzioni, e di introdursi sulla via della luce dopo aver percorso la via crucis. don Andrea Rossi]]>
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“E vissero felici e contenti” non è il contenuto delle prime parole del Vangelo della Risurrezione, della mattina di Pasqua. Maria Maddalena ci introduce a quel mattino narrato nelle Letture del Giorno di Pasqua. “Il primo giorno della settimana” (Gv 20,1), si reca al sepolcro e negli occhi porta l’“imprinting” della croce a cui è appeso Gesù. L’estremo atto d’amore che, insieme all’altra Maria (Mt 27,61), compie nel comporre il corpo di Gesù nel sepolcro non colma il dolore lancinante. Eppure è un nuovo giorno, l’alba del giorno senza tramonto, il fondamento della nostra fede.

"Se siete risorti con Cristo"

Paolo nella seconda lettura introduce il “se” dubitativo: “Se siete risorti con Cristo” (Col 3,1), allora riuscite a pensare alle cose di lassù. Quale percorso saranno chiamati a compiere gli amici di Gesù dopo questo giorno! La Sequenza di Pasqua che avevamo anticipato domenica scorsa nella descrizione della lotta tra la morte e la vita, ora possiamo completarla: “Il Signore della vita era morto; ma ora vivo, trionfa… Sì, ne siamo certi, Cristo è davvero risorto”. Pietro nella prima lettura ripercorre il cammino compiuto da Gesù dal battesimo al fiume Giordano fino alla morte (At 10,37-39), per giungere a un “ma” che stravolge la narrazione: “Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno” e volle che si manifestasse a testimoni scelti” (v. 40), a quelli che con lui avevano condiviso tutto. Queste certezze acquisite successivamente, hanno bisogno di maturare nel cuore e nella mente dei discepoli e delle donne. In un certo modo, sono chiamati a compiere interiormente il percorso che Gesù ha fatto nel cuore e nella carne “in quei tre giorni”. Il Vangelo, che dovrebbe gettare luce sul mistero delle parole di Gesù, sembra non aiutarci, perché gli ultimi due versetti sembrano contraddirsi. Il versetto 8 attesta la fede dell’apostolo Giovanni. Egli entra nel sepolcro dopo Pietro e il testo annota che “vide e credette”. Subito dopo, versetto 9, il Vangelo sembra rimettere in discussione tutto: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”. Il giorno di Pasqua - che ha inizio con la Veglia nella notte - ci dà la possibilità di ascoltare tre versioni del racconto della Risurrezione, e la loro narrazione non ci apre a una comprensione piena. Se mettiamo insieme i quattro racconti della Passione, troviamo una linearità di percorso, con tantissimi punti in comune. Non è così per i quattro racconti della Risurrezione. Questo semplice confronto ci dice che l’evento della Risurrezione non è immediatamente comprensibile con le normali categorie, ma necessita anche una una disponibilità assolutamente nuova nel voler comprendere.

“Hanno portato via il Signore”

Il Vangelo di Giovanni, uno dei due proposti per la domenica di Pasqua (l’altro brano è Lc 24,13-35), mostra un notevole contrasto tra ciò che accade all’esterno e ciò che accade all’interno del Sepolcro. La corsa carica di angoscia della Maddalena, che raggiunge Pietro e Giovanni per annunciare, non la risurrezione, ma lo sconcerto di un furto: “Hanno portato via il Signore” (Gv 20,2). I due apostoli con altrettanto affanno corrono a motivo di ciò che la Maddalena ha detto loro. Nessuna traccia nella loro mente di quanto aveva detto loro Gesù: che dopo la sua morte, passati tre giorni, sarebbe risorto. Se, con lo sguardo di Pietro e Giovanni, oltrepassiamo l’ingresso del Sepolcro, troviamo un altro clima. Tutto è a posto, diversamente dal disordine interiore dei tre manifestatosi nel rincorrersi quasi ossessivo per cercare di capire. Non vedono il corpo di Gesù, come aveva detto la Maddalena, ma non c’è traccia di trafugamento: i teli erano a terra e il sudario piegato a parte. Un “involucro”, quello dei teli, che non contiene più nulla, diversamente da ciò che avevano visto quando Lazzaro era uscito dal sepolcro con i teli e le bende che lo avvolgevano e il sudario che copriva il capo (Gv 11,44). Da qui inizia il loro cammino. Altro che “vissero felici e contenti”! Una continua “macerazione” interiore, che avrà bisogno di più passaggi di mola, in cui tre ruote del dubbio, della fede e della certezza dovranno lungamente roteare. Il loro cammino sarà un percorso accidentato, la luce della Risurrezione; quel loro cammino, certamente gioioso, sarà però sempre soggetto al velo del Venerdì santo. Ma proprio perché hanno visto la vittoria della vita, dopo averla fatta propria, sopranno approdare al mattino di Pasqua. Questo renderà capaci gli apostoli di tenere duro davanti alle persecuzioni, e di introdursi sulla via della luce dopo aver percorso la via crucis. don Andrea Rossi]]>
Gli annunciatori della Vita https://www.lavoce.it/gli-annunciatori-della-vita/ Fri, 27 Mar 2020 10:10:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56638 logo reubrica commento al Vangelo

La vita che si fa speranza di un’Altra Vita

“La nostra vita è pellegrinaggio, di cielo siamo fatti: ci soffermiamo un po’ qui e poi riprendiamo la nostra strada” (Loreto, 4 ottobre 1962). Questa frase fu pronunciata da Papa Giovanni nel suo pellegrinaggio a Loreto, per affidare a Maria la prossima apertura del Concilio, precedentemente era stato ad Assisi, presso la tomba di San Francesco con la medesima intenzione. Una frase che se accolta in profondità ci riconcilia con gli eventi della nostra vita. Di cielo siamo fatti e la nostra abituale dimora è l’eternità. Da quella “casa”, Lazzaro, l’amico di Gesù, è richiamato per un motivo ben preciso: “affinché voi crediate” (Gv 11,15). Il “segno” che Gesù compie, ossia la resurrezione dell’amico ha una efficacia immediata: “molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui” (v. 45). Lo leggiamo nelle letture di questa V Domenica di Quaresima – 29 marzo 2020. Sì, Gesù si serve di questo segno come annuncio della “salvezza integrale”, che si identifica con la sua persona: “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25). Ma il miracolo si compie per la fede già presente di qualcun altro, Marta, sorella di Lazzaro e Maria. Di fronte alla domanda ben precisa di Gesù, ella professa la sua fede riconoscendolo come il Messia: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v. 27). Lazzaro è richiamato in vita, all’amore dei cari, per la fede della sue sorelle, che “incrociando” la vita di Gesù lo accolgono nella loro casa. Betania sarà sempre una sosta di ristoro del cammino di Gesù, lì “poserà il capo” più volte, lì troverà ristoro e calore umano.  

I legami veri non generano mai possesso ma nella libertà spingono ad amare senza misura.

Per questa famiglia che custodisce l’intimità di Gesù, il segno del ritorno in vita di Lazzaro, indica la via privilegiata che attesta la possibilità dei legami che vanno oltre la morte. Lazzaro torna in vita, momentaneamente, sarebbe poca cosa la fede nel miracolo di Gesù, se essa non abbracciasse la fede nella vita senza fine. È questa fede che rende possibili anche quei segni terreni che hanno l’eco dell’eternità. La fede è il filo conduttore che tiene uniti i tre brani di queste tre domeniche, una fede che nasce dall’ascolto, che nel dialogo aperto senza preclusioni fa scoprire Gesù, il salvatore della tua vita e fa scaturire l’amore per lui che si fa annuncio gioioso.
  • La samaritana scopre che l’acqua viva, quella disseta in eterno è Gesù ed in lei diventa sorgente che zampilla.
  • Il cieco nato scopre che la vera luce è Gesù e alla sua luce vede la Luce. Possiamo immaginare che il nuovo “vedente”, illuminerà quanti ascolteranno la sua parola di “salvato”.
  • Lazzaro, richiamato in vita, è il segno della vita che non muore perché Gesù è la risurrezione e la vita.
Ma la nostra fede in Gesù ha le “stimmate” della fatica del credere, le ferite sanguinanti delle cadute lungo il nostro cammino. In questi brani così univoci sul tema della fede, in ognuno di essi è presente anche una frase oscura di Gesù, il quale attesta che c’è un’oltre da comprendere, oltre l’evidenza del miracolo.  

La vita quotidiana e la vita oltre questa vita

Cosa significa nel Vangelo della Samaritana: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete” (Gv 4,32), come risposta ai discepoli che gli danno mangiare? Cosa significa nel Vangelo del cieco nato: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire” (Gv 9,4), pronunciate da Gesù prima di compiere il miracolo? Cosa significa nella Vangelo della resurrezione di Lazzaro: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui" (Gv 11,9-10)? È certamente un linguaggio simbolico che tiene unite due realtà: la vita quotidiana e la vita oltre questa vita. Solo inserendo il “passepartout della fede” si accede alla stanza del “piano superiore”, la cui fede ci da la “chiave di lettura” per comprendere anche l’essenza di questa vita. Noi cittadini del cielo, abbiamo lì la residenza, qui su questa terra abbiamo solo il domicilio e per un tempo. La Lettera a Diogneto illumina questa condizione:
“i cristiani vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”.
Su questo crinale, da cristiani, la nostra vita scorre tra le vicende dolorose e la consolazione dello spirito e proprio perché consolati siamo abilitati al “ministero della consolazione. Non mancano infatti in questi giorni il dolore e a volte la disperazione, ma sono evidenti anche luci di speranza, che attestano un “oltre” non solo sperato, ma vivo ed attuale.  

Uomini e donne mettono in gioco la propria vita

Quanti uomini e donne di buona volontà, che insieme a coloro che si professano cristiani, mettono in gioco la propria vita.
  • Medici che si rimettono in gioco rischiando la vita e diventano l’ultima carezza umana per molti che si apprestano per l’ultimo viaggio e in quella carezza c’è la tenerezza del Padre buono che li attende
  • Sacerdoti che nel ministero condividono la malattia di quanti avevano bisogno di consolazione, anzi uno di loro sceglie di non farsi intubare per lasciare il respiratore ad una persona più giovane
  • Volontari che non fanno mancare il necessario a quanti attendono la loro visita, garantendo quel pane che serve per questa vita, ma che viene “consacrato” dal dono della vita messa in pericolo.
Questo decidere di scendere nella morte è il più sorprendente e luminoso annuncio della vita che non muore. È la vita che si fa speranza di un’Altra Vita. don Andrea Rossi]]>
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La vita che si fa speranza di un’Altra Vita

“La nostra vita è pellegrinaggio, di cielo siamo fatti: ci soffermiamo un po’ qui e poi riprendiamo la nostra strada” (Loreto, 4 ottobre 1962). Questa frase fu pronunciata da Papa Giovanni nel suo pellegrinaggio a Loreto, per affidare a Maria la prossima apertura del Concilio, precedentemente era stato ad Assisi, presso la tomba di San Francesco con la medesima intenzione. Una frase che se accolta in profondità ci riconcilia con gli eventi della nostra vita. Di cielo siamo fatti e la nostra abituale dimora è l’eternità. Da quella “casa”, Lazzaro, l’amico di Gesù, è richiamato per un motivo ben preciso: “affinché voi crediate” (Gv 11,15). Il “segno” che Gesù compie, ossia la resurrezione dell’amico ha una efficacia immediata: “molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui” (v. 45). Lo leggiamo nelle letture di questa V Domenica di Quaresima – 29 marzo 2020. Sì, Gesù si serve di questo segno come annuncio della “salvezza integrale”, che si identifica con la sua persona: “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25). Ma il miracolo si compie per la fede già presente di qualcun altro, Marta, sorella di Lazzaro e Maria. Di fronte alla domanda ben precisa di Gesù, ella professa la sua fede riconoscendolo come il Messia: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v. 27). Lazzaro è richiamato in vita, all’amore dei cari, per la fede della sue sorelle, che “incrociando” la vita di Gesù lo accolgono nella loro casa. Betania sarà sempre una sosta di ristoro del cammino di Gesù, lì “poserà il capo” più volte, lì troverà ristoro e calore umano.  

I legami veri non generano mai possesso ma nella libertà spingono ad amare senza misura.

Per questa famiglia che custodisce l’intimità di Gesù, il segno del ritorno in vita di Lazzaro, indica la via privilegiata che attesta la possibilità dei legami che vanno oltre la morte. Lazzaro torna in vita, momentaneamente, sarebbe poca cosa la fede nel miracolo di Gesù, se essa non abbracciasse la fede nella vita senza fine. È questa fede che rende possibili anche quei segni terreni che hanno l’eco dell’eternità. La fede è il filo conduttore che tiene uniti i tre brani di queste tre domeniche, una fede che nasce dall’ascolto, che nel dialogo aperto senza preclusioni fa scoprire Gesù, il salvatore della tua vita e fa scaturire l’amore per lui che si fa annuncio gioioso.
  • La samaritana scopre che l’acqua viva, quella disseta in eterno è Gesù ed in lei diventa sorgente che zampilla.
  • Il cieco nato scopre che la vera luce è Gesù e alla sua luce vede la Luce. Possiamo immaginare che il nuovo “vedente”, illuminerà quanti ascolteranno la sua parola di “salvato”.
  • Lazzaro, richiamato in vita, è il segno della vita che non muore perché Gesù è la risurrezione e la vita.
Ma la nostra fede in Gesù ha le “stimmate” della fatica del credere, le ferite sanguinanti delle cadute lungo il nostro cammino. In questi brani così univoci sul tema della fede, in ognuno di essi è presente anche una frase oscura di Gesù, il quale attesta che c’è un’oltre da comprendere, oltre l’evidenza del miracolo.  

La vita quotidiana e la vita oltre questa vita

Cosa significa nel Vangelo della Samaritana: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete” (Gv 4,32), come risposta ai discepoli che gli danno mangiare? Cosa significa nel Vangelo del cieco nato: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire” (Gv 9,4), pronunciate da Gesù prima di compiere il miracolo? Cosa significa nella Vangelo della resurrezione di Lazzaro: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui" (Gv 11,9-10)? È certamente un linguaggio simbolico che tiene unite due realtà: la vita quotidiana e la vita oltre questa vita. Solo inserendo il “passepartout della fede” si accede alla stanza del “piano superiore”, la cui fede ci da la “chiave di lettura” per comprendere anche l’essenza di questa vita. Noi cittadini del cielo, abbiamo lì la residenza, qui su questa terra abbiamo solo il domicilio e per un tempo. La Lettera a Diogneto illumina questa condizione:
“i cristiani vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”.
Su questo crinale, da cristiani, la nostra vita scorre tra le vicende dolorose e la consolazione dello spirito e proprio perché consolati siamo abilitati al “ministero della consolazione. Non mancano infatti in questi giorni il dolore e a volte la disperazione, ma sono evidenti anche luci di speranza, che attestano un “oltre” non solo sperato, ma vivo ed attuale.  

Uomini e donne mettono in gioco la propria vita

Quanti uomini e donne di buona volontà, che insieme a coloro che si professano cristiani, mettono in gioco la propria vita.
  • Medici che si rimettono in gioco rischiando la vita e diventano l’ultima carezza umana per molti che si apprestano per l’ultimo viaggio e in quella carezza c’è la tenerezza del Padre buono che li attende
  • Sacerdoti che nel ministero condividono la malattia di quanti avevano bisogno di consolazione, anzi uno di loro sceglie di non farsi intubare per lasciare il respiratore ad una persona più giovane
  • Volontari che non fanno mancare il necessario a quanti attendono la loro visita, garantendo quel pane che serve per questa vita, ma che viene “consacrato” dal dono della vita messa in pericolo.
Questo decidere di scendere nella morte è il più sorprendente e luminoso annuncio della vita che non muore. È la vita che si fa speranza di un’Altra Vita. don Andrea Rossi]]>
Il fermento del Vangelo https://www.lavoce.it/fermento-vangelo/ Thu, 14 Nov 2019 17:05:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55718

Nelle acque agitate dei nostri tempi ad ondate si ripresentano voci di cattolici che con slancio e con passione rilanciano il tema: possiamo ancora dare qualcosa a questo nostro Paese? Può il nostro patrimonio di fede essere il bacino a cui attingere per dare risposte ai problemi?

La domanda emerge con chiarezza quando si parla di politica, ma attraversa tutta l’esistenza: dalla vita professionale alla vita familiare, dalle relazioni amicali alla vita delle comunità ecclesiali e civili, dal mondo della cultura al mondo dello sport, dei media e così via.

È interessante sottolineare un fatto: è una domanda formulata alla prima persona plurale. Non “io” ma “noi” possiamo? Ed è in questo “noi” che sta la forza e la difficoltà. La lunga stagione di pluralismo ecclesiale aperta dopo il Concilio Vaticano II, con la ricchezza dei carismi dei diversi gruppi (anche parrocchiali) e movimenti ha portato per contro un impoverimento sul fronte della comunione intra-ecclesiale per una incapacità diffusa a superare il particolarismo.

Ora qualcosa sta cambiando e l’Assemblea delle Chiese umbre ha mostrato una consapevolezza diffusa dei limiti delle nostre comunità e un desiderio di superarli.

Ritrovarsi in tanti e diversi per storie e sensibilità, pur uniti dalla stessa fede, è stato il primo forte segnale di un cambiamento possibile. Come? Anzitutto incontrandosi, parlandosi, accettando il rischio e la fatica del confronto.Nessuno ha la soluzione in tasca, neppure i nostri vescovi. C’è da parte loro una disponibilità ad accompagnare, sostenere, guidare il popolo che gli è affidato senza sostituirsi ad esso.

Non è un caso che sempre più spesso accanto ai valori e ai principi viene richiamata l’attenzione sul “modo d’essere”, sullo “stile” dell’agire cristiano. Lo ha fatto il presidente della Ceu mons. Renato Boccardo parlando alla presentazione del Rapporto Caritas sulle povertà. “La carità – ha detto – è un modo di essere, un modo di pensare che genera un modo di agire”, e poi ha sottolineato che evangelizzare significa immettere nel tessuto sociale “il fermento del Vangelo”, ovvero “quegli anticorpi che devono aiutare i cristiani a discernere ciò che è secondo il Vangelo e ciò che non lo è”.

Lo ha fatto il cardinale Gualtiero Bassetti, in una intervista al quotidiano Avvenire il 9 novembre. “Faccio mie – ha detto il presidente della Cei – le parole di Papa Francesco: ‘È necessaria una nuova presenza di cattolici in politica. Una nuova presenza che non implica solo nuovi volti nelle campagne elettorali, ma principalmente nuovi metodi che permettano di forgiare alternative che contemporaneamente siano critiche e costruttive’.

L’Italia – prosegue il cardinale – ha più che mai bisogno di laici cattolici che abbiano un’identità salda e chiara, che sappiano dialogare con tutti, che non siano eterodiretti, che siano in grado di costruire reti di impegno e che si assumano la responsabilità di rispondere alle ‘attese della povera gente’, direbbe Giorgio La Pira”. Bassetti parla chiaramente di impegno politico ma il riferimento ai “laici cattolici” va oltre l’impegno politico e non esclude nessuno.

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La crisi della politica e il sano realismo della fede https://www.lavoce.it/la-crisi-della-politica-sano-realismo-della-fede/ Wed, 27 Jun 2018 15:34:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52180 di Paolo Giulietti

Lo slogan trumpiano America first e il nostrano “Prima gli italiani” vengono presentati dagli autori come strategie (“finalmente!”) libere da buonismo o faciloneria, e ispirate a un sano realismo. Ma è davvero così?

Perché, se è così, noi cristiani non abbiamo più nulla da dire a questa società e ai suoi problemi. Il Vangelo infatti – piaccia o meno – parla di altre logiche, ispirate a condivisione, fiducia, accoglienza, misericordia… in base alle quali il mondo dovrebbe funzionare al meglio (che poi è il succo del concetto di “regno di Dio”).

Se tutto ciò non è realista, cioè non traccia le coordinate di una realtà possibile, ma costituisce un’utopia buona al massimo per i conventi, per sollecitare qualche occasionale elemosina, si deve onestamente concludere che il cristianesimo non è più capace di offrire alcunché di significativo per ciò che attiene alle dinamiche economiche, politiche e sociali che rappresentano una bella fetta della vita delle persone, delle comunità e dei popoli.

Dovremmo quindi accontentarci di una religione tutta privata e spirituale, che si mantenga strettamente nei confini delle sagrestie, degli oratori o dei Centri d’ascolto delle Caritas.

Se però guardiamo dietro la cortina degli slogan, è facile accorgersi che il realismo non sta dove si vuol far credere che sia. È evidente, infatti, che l’irrinunciabile tenore di vita dei popoli “sviluppati” – americani in testa – è incompatibile con la salvaguardia del creato, cioè con la sopravvivenza della specie umana, soprattutto se pensiamo che qualche miliardo di individui desidera acquisirlo (e perché no?). È evidente che un’economia e una politica che non si occupino con decisione di ridurre le diseguaglianze si condannano a investire cifre sempre più rilevanti in armamenti (“sicurezza” la chiamano) e a fomentare incessantemente conflitti regionali, anche su larga scala.

È evidente che una pressione demografica come quella africana, in assenza di un serio progetto di sviluppo e in permanenza degli attuali meccanismi predatori delle risorse di quel Continente, non sarà arginabile a lungo senza esigere un pesantissimo tributo di vite umane. È evidente che la deriva individualista e nichilista delle nostre società – quella italiana in testa – condurrà l’Occidente all’estinzione demografica e alla marginalità economica e culturale. È evidente che le guerre commerciali, alla lunga, produrranno peggiori condizioni di vita generali, col rischio di degenerare in guerre guerreggiate. E l’elenco delle evidenze potrebbe continuare.

Noi cristiani, quindi, abbiamo ancora qualcosina da dire. È infatti più realistico tutto questo o l’invito evangelico a cercare prima “il regno di Dio e la sua giustizia”? Come insegna la dottrina sociale della Chiesa, la pace vera – non quella assai precaria “all’ombra delle baionette” – è l’esito di un giusto ordinamento del mondo, e la condivisione di decisioni e risorse costituisce l’unico modo per assicurare un futuro all’umanità e alla sua “casa comune”.

È più realistica la “globalizzazione dell’indifferenza” o la tensione squisitamente cristiana a riconoscere in ognuno un fratello e a ciascun essere umano un’inviolabile dignità, nella convinzione che le persone non siano un problema, bensì parte della soluzione? È più realistico proporre ai giovani di spendersi per una società come quella attuale, oppure crescerli coltivando in loro la fiducia che “il regno di Dio è vicino”, cioè che il mondo migliore sia a portata di mano di quanti desiderino realizzarlo? Senza illuderli che sia facile o rapido, ma con la certezza che sia una scelta ispirata a sano realismo.

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Epifania. I “magi” sapienti e umili trovano il bambino https://www.lavoce.it/epifania-i-magi-sapienti-e-umili-trovano-il-bambino/ Thu, 04 Jan 2018 19:32:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50961 logo reubrica commento al Vangelo

Nelle letture dell'Epifania leggiamo che “tutti verranno da Saba, portando oro e incenso”. “Tutti” cioè la totalità delle “genti” salirà a Gerusalemme “proclamando le glorie del Signore”, secondo quando profetizza Isaia in quello che è considerato il messaggio ‘consolatore’ rivolto alla comunità libera perché ormai ritornata dall’esilio. La prospettiva universalistica è dunque fortemente marcata perché nel brano di Isaia (60,1-6) che la Solennità dell’Epifania ci propone si fa riferimento ai popoli del mare (ovest), alle città dell’Arabia (sud), al deserto della Siria (nord) e ai tesori dell’oriente (est). La gloria del Signore non sarà quindi goduta solo dagli israeliti, ma da tutte le “genti” che riconosceranno il Signore, Dio d’Israele, come unico Dio. Anche il Salmista canta all’atteso Re-Messia e anticipa l’onore che Gli dovrà essere universalmente tributato: “Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti”. E il Re-Messia si è fatto uno di noi e Paolo, come in diverse occasioni ribadisce (At 22,21; 26,17; Gal 1,16), -benché i suoi sentimenti dimostrino che vorrebbe prodigarsi per il popolo giudaico- è stato chiamato ad annunciare Gesù Cristo ai pagani perché ha acquisito la consapevolezza “che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Già al momento della nascita i primi a visitare Gesù sono stati i ‘lontani’ e a narrare l’evento è la bellissima pagina del Vangelo secondo Matteo (e solo lui) che descrive l’arrivo di “alcuni Magi (che) vennero da oriente”. I ‘maghi’ (questo il significato letterale del greco màgoi) potrebbero essere ebrei della diaspora mai tornati da Babilonia oppure sapienti ‘stranieri’. Lo storico greco Erodoto parla dell’esistenza, nel VI secolo a. C. nella regione della Media, di sacerdoti-maghi confluiti poi -in conseguenza della dominazione persiana- nella religione zoroastriana e quindi ancora esistenti al suo tempo (430 a. C.). Anche nel Libro del profeta Daniele (II sec. a. C.) si parla della presenza alla corte di Nabucodonosor di maghi e astrologi (1,20; 2,2; 4,4; 5,7) e Daniele, che svela il significato del sogno di Nabucodonosor (2,48), è dal re stesso riconosciuto al di sopra di tutti i saggi (costituiti dall’insieme dei maghi, indovini e astrologi che facevano parte del suo seguito). Nel I secolo d. C. lo scrittore ebreo Giuseppe Flavio informa di un certo Atomos (cipriota) che eseguiva arti magiche in Palestina, e Filone d’Alessandria, filoso greco di origine e cultura ebraica, in una sua opera distingue i maghi ‘scienziati’ da quelli ciarlatani. Di certo i nostri ‘magi’, poiché si interessano del “sorgere di una stella” sono da considerare come quelli di cui parla il Libro di Daniele, ovvero saggi, astronomi, consiglieri dei re, rappresentanti dell'intellighenzia del tempo (tenendo conto oltretutto che la Bibbia rifiuta la pratica della magia). Secondo le ipotesi più attendibili possono provenire da Babilonia, o dalla Persia o dall’Arabia, comunque da “oriente” e dopo la visita al Bambino fanno “ritorno al loro paese”. Il “sorgere di una stella” può essere ricondotto alla profezia messianica secondo cui “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Nm 24,17) oppure all’evento che l’astronomo Keplero vide nel 1604 cioè la congiunzione dei pianeti Giove, Saturno e Marte che, secondo i calcoli, si sarebbe già verificata intorno al periodo in cui è collocata la nascita di Gesù. Come voleva il ‘protocollo’, i ‘magi’ portano doni al Bambino-Re, doni che la tradizione cristiana ha interpretato come omaggi all’Uomo-Re (l’oro), al Figlio di Dio (l’incenso) e al Redentore (la mirra era usata anche per la sepoltura). È interessante notare che sono gli stessi doni che avevano accompagnato il corteo nuziale di Salomone in procinto di sposarsi con la figlia del faraone (Ct 3,6). Con la loro visita, i ‘magi’ ripropongono quindi il corteo aggiungendo l’atteggiamento della prostrazione e riconoscendo così il vero Re, lo Sposo dell’umanità. Ma riflettiamo su una tappa del percorso dei ‘magi’. I ‘magi’ si avviano verso Gesù attraverso lo studio del fenomeno naturale della “stella”, ma hanno bisogno della Parola di Dio per completare la loro conoscenza. Infatti, solo dopo che Erode ha convocato i sacerdoti e gli scribi i quali hanno risposto citando il profeta Michea che a Betlemme sarebbe uscito “il pastore del mio popolo, Israele”, solo dopo ciò i ‘magi’ arrivano a Betlemme. Da un lato, gli ‘esperti’ della Sacra Scrittura sanno, ma non giungono a Gesù; dall’altro, gli ‘scienziati’ arrivano a Gesù, ma solo dopo aver accolto il messaggio della Sacra Scrittura attraverso la mediazione dei sacerdoti e degli scribi. I ‘magi’ sono sapienti, ma riconoscono una sapienza superiore che proviene dalla Parola di Dio; sono ‘lontani’ eppure si sottopongono al viaggio per l’incontro con ‘il’ Re. Questi sapienti insegnano che la natura, la scienza, la filosofia avvicinano a Dio, e quindi “tutti”, anche chi pensa di non aver fede può ‘scorgere’ Dio, ma il passo di qualità che fa ottenere la “grande gioia” dell’incontro con Cristo come hanno fatto i ‘magi’, solo con la Parola di Dio può essere completato. I ‘magi’ suscitano quindi ammirazione per la loro scienza e nello stesso momento stupiscono per la grande umiltà perché si sono aperti all’Ascolto a quel tipo di Ascolto che ha fatto loro muovere i passi dalla grande Gerusalemme dove erano giunti in virtù della loro ‘ricerca’, verso la modesta Betlemme dove hanno trovato Colui che desideravano vedere e Lo hanno poi contemplato e omaggiato generosamente. La pagina del Vangelo secondo Matteo invita dunque a “fare ciò che fecero loro stessi. In questo giorno Cristo ricevette dei doni: voi mettete la mano nelle vostre borse e tiratene fuori quel che torna gradito a Cristo, il quale ha voluto rendersi bisognoso nella persona dei suoi poveri” (Sant'Agostino, 204/A). Giuseppina Bruscolotti]]>
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Nelle letture dell'Epifania leggiamo che “tutti verranno da Saba, portando oro e incenso”. “Tutti” cioè la totalità delle “genti” salirà a Gerusalemme “proclamando le glorie del Signore”, secondo quando profetizza Isaia in quello che è considerato il messaggio ‘consolatore’ rivolto alla comunità libera perché ormai ritornata dall’esilio. La prospettiva universalistica è dunque fortemente marcata perché nel brano di Isaia (60,1-6) che la Solennità dell’Epifania ci propone si fa riferimento ai popoli del mare (ovest), alle città dell’Arabia (sud), al deserto della Siria (nord) e ai tesori dell’oriente (est). La gloria del Signore non sarà quindi goduta solo dagli israeliti, ma da tutte le “genti” che riconosceranno il Signore, Dio d’Israele, come unico Dio. Anche il Salmista canta all’atteso Re-Messia e anticipa l’onore che Gli dovrà essere universalmente tributato: “Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti”. E il Re-Messia si è fatto uno di noi e Paolo, come in diverse occasioni ribadisce (At 22,21; 26,17; Gal 1,16), -benché i suoi sentimenti dimostrino che vorrebbe prodigarsi per il popolo giudaico- è stato chiamato ad annunciare Gesù Cristo ai pagani perché ha acquisito la consapevolezza “che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Già al momento della nascita i primi a visitare Gesù sono stati i ‘lontani’ e a narrare l’evento è la bellissima pagina del Vangelo secondo Matteo (e solo lui) che descrive l’arrivo di “alcuni Magi (che) vennero da oriente”. I ‘maghi’ (questo il significato letterale del greco màgoi) potrebbero essere ebrei della diaspora mai tornati da Babilonia oppure sapienti ‘stranieri’. Lo storico greco Erodoto parla dell’esistenza, nel VI secolo a. C. nella regione della Media, di sacerdoti-maghi confluiti poi -in conseguenza della dominazione persiana- nella religione zoroastriana e quindi ancora esistenti al suo tempo (430 a. C.). Anche nel Libro del profeta Daniele (II sec. a. C.) si parla della presenza alla corte di Nabucodonosor di maghi e astrologi (1,20; 2,2; 4,4; 5,7) e Daniele, che svela il significato del sogno di Nabucodonosor (2,48), è dal re stesso riconosciuto al di sopra di tutti i saggi (costituiti dall’insieme dei maghi, indovini e astrologi che facevano parte del suo seguito). Nel I secolo d. C. lo scrittore ebreo Giuseppe Flavio informa di un certo Atomos (cipriota) che eseguiva arti magiche in Palestina, e Filone d’Alessandria, filoso greco di origine e cultura ebraica, in una sua opera distingue i maghi ‘scienziati’ da quelli ciarlatani. Di certo i nostri ‘magi’, poiché si interessano del “sorgere di una stella” sono da considerare come quelli di cui parla il Libro di Daniele, ovvero saggi, astronomi, consiglieri dei re, rappresentanti dell'intellighenzia del tempo (tenendo conto oltretutto che la Bibbia rifiuta la pratica della magia). Secondo le ipotesi più attendibili possono provenire da Babilonia, o dalla Persia o dall’Arabia, comunque da “oriente” e dopo la visita al Bambino fanno “ritorno al loro paese”. Il “sorgere di una stella” può essere ricondotto alla profezia messianica secondo cui “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Nm 24,17) oppure all’evento che l’astronomo Keplero vide nel 1604 cioè la congiunzione dei pianeti Giove, Saturno e Marte che, secondo i calcoli, si sarebbe già verificata intorno al periodo in cui è collocata la nascita di Gesù. Come voleva il ‘protocollo’, i ‘magi’ portano doni al Bambino-Re, doni che la tradizione cristiana ha interpretato come omaggi all’Uomo-Re (l’oro), al Figlio di Dio (l’incenso) e al Redentore (la mirra era usata anche per la sepoltura). È interessante notare che sono gli stessi doni che avevano accompagnato il corteo nuziale di Salomone in procinto di sposarsi con la figlia del faraone (Ct 3,6). Con la loro visita, i ‘magi’ ripropongono quindi il corteo aggiungendo l’atteggiamento della prostrazione e riconoscendo così il vero Re, lo Sposo dell’umanità. Ma riflettiamo su una tappa del percorso dei ‘magi’. I ‘magi’ si avviano verso Gesù attraverso lo studio del fenomeno naturale della “stella”, ma hanno bisogno della Parola di Dio per completare la loro conoscenza. Infatti, solo dopo che Erode ha convocato i sacerdoti e gli scribi i quali hanno risposto citando il profeta Michea che a Betlemme sarebbe uscito “il pastore del mio popolo, Israele”, solo dopo ciò i ‘magi’ arrivano a Betlemme. Da un lato, gli ‘esperti’ della Sacra Scrittura sanno, ma non giungono a Gesù; dall’altro, gli ‘scienziati’ arrivano a Gesù, ma solo dopo aver accolto il messaggio della Sacra Scrittura attraverso la mediazione dei sacerdoti e degli scribi. I ‘magi’ sono sapienti, ma riconoscono una sapienza superiore che proviene dalla Parola di Dio; sono ‘lontani’ eppure si sottopongono al viaggio per l’incontro con ‘il’ Re. Questi sapienti insegnano che la natura, la scienza, la filosofia avvicinano a Dio, e quindi “tutti”, anche chi pensa di non aver fede può ‘scorgere’ Dio, ma il passo di qualità che fa ottenere la “grande gioia” dell’incontro con Cristo come hanno fatto i ‘magi’, solo con la Parola di Dio può essere completato. I ‘magi’ suscitano quindi ammirazione per la loro scienza e nello stesso momento stupiscono per la grande umiltà perché si sono aperti all’Ascolto a quel tipo di Ascolto che ha fatto loro muovere i passi dalla grande Gerusalemme dove erano giunti in virtù della loro ‘ricerca’, verso la modesta Betlemme dove hanno trovato Colui che desideravano vedere e Lo hanno poi contemplato e omaggiato generosamente. La pagina del Vangelo secondo Matteo invita dunque a “fare ciò che fecero loro stessi. In questo giorno Cristo ricevette dei doni: voi mettete la mano nelle vostre borse e tiratene fuori quel che torna gradito a Cristo, il quale ha voluto rendersi bisognoso nella persona dei suoi poveri” (Sant'Agostino, 204/A). Giuseppina Bruscolotti]]>
Un dono per l’umanità https://www.lavoce.it/un-dono-lumanita/ Sat, 23 Dec 2017 10:07:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50876 logo reubrica commento al Vangelo

Alleluja! “Un bimbo ci è nato, un figlio ci è donato” grida il profeta Isaia nel secondo degli Oracoli sulla nascita del Messia. Nel primo Oracolo (8,21-23) canta la fine dell’oppressione da parte degli Assiri e nel secondo -che è quello che ascoltiamo la Notte di Natale- annuncia l’intronizzazione regale di colui grazie al quale è avvenuta la liberazione. Dapprima propone l’immagine di una visione notturna di una luce alludendo al pellegrinaggio che di notte gli israeliti facevano verso Gerusalemme che raggiungevano proprio al momento del sorgere del sole i cui primi raggi illuminavano la città santa. Poi si riferisce metaforicamente all’Assiria (cfr. 10,5.15.24) parlando di “giogo, sbarra e bastone”, ma soprattutto descrivendo i “calzari rimbombanti” che erano tipici dell’armatura dei soldati assiri accentuando così la loro prepotenza. Ma la liberazione da questa tirannia coincide con la nascita di un bambino-re discendente di David il cui regno il Signore stabilirà e confermerà “con il diritto e la giustizia da ora e sempre”. A questo bambino-re sono attribuiti titoli divini simili a quelli che venivano rivolti al faraone nel momento della sua solenne incoronazione. Ma mentre nel caso del faraone i titoli servivano per esaltare la sua figura, qui attendono piuttosto alle virtù che il re profonde a favore della comunità. La sapienza, la potenza e la paternità sono caratteristiche esercitate infatti a vantaggio della pace che dovrà caratterizzare per sempre il regno. Lo stesso titolo “Principe di pace” che è un ossimoro in quanto il sostantivo ‘principe’ (sar) in ebraico ha un significato legato al comando militare quindi non coniabile con ‘pace’, qui sta ad intendere invece lo sforzo disarmato (Gdc 7) per la vittoria della pace sulle insidie dell’odio e della divisione. Questo programma lo mette in atto il Signore che il Salmista invita a lodare con “un canto nuovo” perché è Lui che “regna” e rende “stabile il mondo e non potrà vacillare” per cui l’invito ad annunciare “di giorno in giorno la sua salvezza”. E di “salvezza” arrecata a tutti gli uomini è la Lettera a Tito a parlarcene nella liturgia della Notte e dell’Aurora del Natale, sì, perché è come se l’Autore per parlare della venuta nel mondo di Gesù avesse voluto scegliere un destinatario autorevole! Tito, definito da Paolo “fratello”, “compagno e collaboratore” (2Cor 2,13; 8,23) ha svolto infatti un ruolo fondamentale nelle relazioni con la comunità di Corinto cui ha fatto da mediatore nella risoluzione di alcuni problemi interni e per l’organizzazione di una colletta (2Cor 7; 8). Soprattutto la sua presenza era motivo di tranquillità per gli stati d’animo di Paolo e della comunità (2Cor 2,13; 7,6-7). Di origine pagana, probabilmente convertito da Paolo stesso (Tt 1,4), e suo compagno nel viaggio a Gerusalemme (Gal 2,1), ha dato la sua vita per l’evangelizzazione. La Lettera che ‘Paolo’ gli invia e che conferma la sua stima per Tito che chiama “mio vero figlio nella medesima fede” contiene una serie di paterni consigli in merito al governo della comunità di Creta e, nel brano di nostro interesse, interrompe questo stile pastorale per ricordare piuttosto il fondamento su cui tutto deve poggiare: Gesù Cristo. Parla infatti della ‘manifestazione’ della “grazia di Dio, apportatrice di salvezza a tutti gli uomini” e il verbo greco (epifainō) che esprime il ‘rendere visibile’, ‘manifestare’, ‘risplendere’ con riferimento a Cristo è usato nel NT solo in poche occasioni di cui una è proprio qui per alludere all’evento ‘Cristo’ il solo che “ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri del mondo, a vivere con sobrietà, giustizia, e vera religiosità nell’attesa della beata speranza”. Entriamo perciò nell’atmosfera del giorno e dell’ambiente in cui il Figlio di Dio si è ‘manifestato’ facendosi uno di noi. Siamo al tempo di Cesare Augusto, il primo vero ‘imperatore’ romano che ha governato per ben 44 anni fino alla morte avvenuta nel 14 d. C. e in questo contesto storico si parla del censimento “di tutta la terra”. A questo punto compaiono Giuseppe e Maria che è incinta e che ‘salgono’ (secondo l’AT sempre si ‘sale’ quando si va in Giudea) a Betlem, città natale del re David a 8 km da Gerusalemme. Durante (letteralmente) il “loro essere lì” Maria diede alla luce il “primogenito”, titolo che si attribuiva al primo figlio nato, sia esso poi rimasto unico o primo di altri figli (Es e Nm), comunque ‘primogenito’. Segue poi un’immagine che ci sembrerebbe scontata, cioè Maria che avvolge in “fasce” Gesù, ma in realtà -biblicamente parlando- questa è anche una metafora per intendere il prendersi molta cura di una persona particolare, come fu per il re Salomone, figlio del re David (invece per dire che non si considerava affatto qualcuno o qualcosa si dice che ‘non viene avvolto in fasce’, es. Ez 16,4). Poi l’Autore insiste sul luogo in cui viene collocato il neonato perché per ben 3 volte parla di “mangiatoia”e sono ospiti in un ‘alloggio’ o ‘casa’. Il sostantivo greco katalyma può essere tradotto con ‘albergo’, ‘alloggio’, ‘casa’, ma di certo dobbiamo escludere l’idea dell’albergo considerando il carattere sacro dell’ospitalità giudaica. Maria e Giuseppe erano senz’altro ospiti presso l’abitazione dei parenti di Giuseppe e, pensando alla mancanza di spazio (non c’era posto), ma anche alle leggi dell’‘impurità della puerpera’ (Lv 12,1-8) per cui Maria non poteva stare nella parte frequentata dagli altri, si può supporre che le fosse ‘riservata’ la stanza interna della rimessa degli animali. A questo punto entrano in scena i ‘pastori’ a cui viene annunciato l’Evento. I pastori, in virtù del loro peregrinare da una terra all’altra, entravano anche in territori non israeliti e quindi ‘impuri’ e non erano in grado quindi di osservare perfettamente la Torah. Eppure proprio ad essi si manifestano gli Angeli e con un annuncio non solo della Nascita di Gesù, ma anche con un messaggio salvifico che li riguarda nell’“oggi”. E tenendo conto dell’uso che dell’avverbio ‘oggi’ viene fatto nei Vangeli (Lc 4,21, 19,5.9) il significato più che il tempo cronologico è quello di ‘tempo favorevole’ (kairos). Questo è il tempo favorevole della Salvezza! Pensiamo il paradosso: Cesare Augusto era stato insignito del titolo di ‘salvatore’, infatti il suo impegno politico aveva ottenuto un periodo di assenza di guerre, ma Gesù che è colui che ‘salva’ (già nel significato del nome) viene a portare la pace che è molto di più dell’astensione dall’azione bellica: è pienezza e bellezza del vivere. Gli Angeli cantano la gloria a Dio. “Doxa” vuol dire ‘opinione’, ma qui sta per ‘gloria’, ‘fama’, perché è il sostantivo con cui la LXX traduce l’ebraico kabod e la storia biblica ci insegna che la gloria di Dio è usata a vantaggio dell’uomo nel momento della Creazione, dell’uscita dall’Egitto e nell’atto del ‘abitare’ il Tempio. Lasciamoci allora meravigliare e coinvolgere: con la nascita di Gesù la gloria di Dio diventa la gloria dell’uomo! “Vergine e Madre Maria, tu che, mossa dallo Spirito, hai accolto il Verbo della vita nella profondità della tua umile fede, totalmente donata all’Eterno, aiutaci a dire il nostro “sì” nell’urgenza, più imperiosa che mai, di far risuonare la Buona Notizia di Gesù” (Papa Francesco, EG).]]>
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Alleluja! “Un bimbo ci è nato, un figlio ci è donato” grida il profeta Isaia nel secondo degli Oracoli sulla nascita del Messia. Nel primo Oracolo (8,21-23) canta la fine dell’oppressione da parte degli Assiri e nel secondo -che è quello che ascoltiamo la Notte di Natale- annuncia l’intronizzazione regale di colui grazie al quale è avvenuta la liberazione. Dapprima propone l’immagine di una visione notturna di una luce alludendo al pellegrinaggio che di notte gli israeliti facevano verso Gerusalemme che raggiungevano proprio al momento del sorgere del sole i cui primi raggi illuminavano la città santa. Poi si riferisce metaforicamente all’Assiria (cfr. 10,5.15.24) parlando di “giogo, sbarra e bastone”, ma soprattutto descrivendo i “calzari rimbombanti” che erano tipici dell’armatura dei soldati assiri accentuando così la loro prepotenza. Ma la liberazione da questa tirannia coincide con la nascita di un bambino-re discendente di David il cui regno il Signore stabilirà e confermerà “con il diritto e la giustizia da ora e sempre”. A questo bambino-re sono attribuiti titoli divini simili a quelli che venivano rivolti al faraone nel momento della sua solenne incoronazione. Ma mentre nel caso del faraone i titoli servivano per esaltare la sua figura, qui attendono piuttosto alle virtù che il re profonde a favore della comunità. La sapienza, la potenza e la paternità sono caratteristiche esercitate infatti a vantaggio della pace che dovrà caratterizzare per sempre il regno. Lo stesso titolo “Principe di pace” che è un ossimoro in quanto il sostantivo ‘principe’ (sar) in ebraico ha un significato legato al comando militare quindi non coniabile con ‘pace’, qui sta ad intendere invece lo sforzo disarmato (Gdc 7) per la vittoria della pace sulle insidie dell’odio e della divisione. Questo programma lo mette in atto il Signore che il Salmista invita a lodare con “un canto nuovo” perché è Lui che “regna” e rende “stabile il mondo e non potrà vacillare” per cui l’invito ad annunciare “di giorno in giorno la sua salvezza”. E di “salvezza” arrecata a tutti gli uomini è la Lettera a Tito a parlarcene nella liturgia della Notte e dell’Aurora del Natale, sì, perché è come se l’Autore per parlare della venuta nel mondo di Gesù avesse voluto scegliere un destinatario autorevole! Tito, definito da Paolo “fratello”, “compagno e collaboratore” (2Cor 2,13; 8,23) ha svolto infatti un ruolo fondamentale nelle relazioni con la comunità di Corinto cui ha fatto da mediatore nella risoluzione di alcuni problemi interni e per l’organizzazione di una colletta (2Cor 7; 8). Soprattutto la sua presenza era motivo di tranquillità per gli stati d’animo di Paolo e della comunità (2Cor 2,13; 7,6-7). Di origine pagana, probabilmente convertito da Paolo stesso (Tt 1,4), e suo compagno nel viaggio a Gerusalemme (Gal 2,1), ha dato la sua vita per l’evangelizzazione. La Lettera che ‘Paolo’ gli invia e che conferma la sua stima per Tito che chiama “mio vero figlio nella medesima fede” contiene una serie di paterni consigli in merito al governo della comunità di Creta e, nel brano di nostro interesse, interrompe questo stile pastorale per ricordare piuttosto il fondamento su cui tutto deve poggiare: Gesù Cristo. Parla infatti della ‘manifestazione’ della “grazia di Dio, apportatrice di salvezza a tutti gli uomini” e il verbo greco (epifainō) che esprime il ‘rendere visibile’, ‘manifestare’, ‘risplendere’ con riferimento a Cristo è usato nel NT solo in poche occasioni di cui una è proprio qui per alludere all’evento ‘Cristo’ il solo che “ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri del mondo, a vivere con sobrietà, giustizia, e vera religiosità nell’attesa della beata speranza”. Entriamo perciò nell’atmosfera del giorno e dell’ambiente in cui il Figlio di Dio si è ‘manifestato’ facendosi uno di noi. Siamo al tempo di Cesare Augusto, il primo vero ‘imperatore’ romano che ha governato per ben 44 anni fino alla morte avvenuta nel 14 d. C. e in questo contesto storico si parla del censimento “di tutta la terra”. A questo punto compaiono Giuseppe e Maria che è incinta e che ‘salgono’ (secondo l’AT sempre si ‘sale’ quando si va in Giudea) a Betlem, città natale del re David a 8 km da Gerusalemme. Durante (letteralmente) il “loro essere lì” Maria diede alla luce il “primogenito”, titolo che si attribuiva al primo figlio nato, sia esso poi rimasto unico o primo di altri figli (Es e Nm), comunque ‘primogenito’. Segue poi un’immagine che ci sembrerebbe scontata, cioè Maria che avvolge in “fasce” Gesù, ma in realtà -biblicamente parlando- questa è anche una metafora per intendere il prendersi molta cura di una persona particolare, come fu per il re Salomone, figlio del re David (invece per dire che non si considerava affatto qualcuno o qualcosa si dice che ‘non viene avvolto in fasce’, es. Ez 16,4). Poi l’Autore insiste sul luogo in cui viene collocato il neonato perché per ben 3 volte parla di “mangiatoia”e sono ospiti in un ‘alloggio’ o ‘casa’. Il sostantivo greco katalyma può essere tradotto con ‘albergo’, ‘alloggio’, ‘casa’, ma di certo dobbiamo escludere l’idea dell’albergo considerando il carattere sacro dell’ospitalità giudaica. Maria e Giuseppe erano senz’altro ospiti presso l’abitazione dei parenti di Giuseppe e, pensando alla mancanza di spazio (non c’era posto), ma anche alle leggi dell’‘impurità della puerpera’ (Lv 12,1-8) per cui Maria non poteva stare nella parte frequentata dagli altri, si può supporre che le fosse ‘riservata’ la stanza interna della rimessa degli animali. A questo punto entrano in scena i ‘pastori’ a cui viene annunciato l’Evento. I pastori, in virtù del loro peregrinare da una terra all’altra, entravano anche in territori non israeliti e quindi ‘impuri’ e non erano in grado quindi di osservare perfettamente la Torah. Eppure proprio ad essi si manifestano gli Angeli e con un annuncio non solo della Nascita di Gesù, ma anche con un messaggio salvifico che li riguarda nell’“oggi”. E tenendo conto dell’uso che dell’avverbio ‘oggi’ viene fatto nei Vangeli (Lc 4,21, 19,5.9) il significato più che il tempo cronologico è quello di ‘tempo favorevole’ (kairos). Questo è il tempo favorevole della Salvezza! Pensiamo il paradosso: Cesare Augusto era stato insignito del titolo di ‘salvatore’, infatti il suo impegno politico aveva ottenuto un periodo di assenza di guerre, ma Gesù che è colui che ‘salva’ (già nel significato del nome) viene a portare la pace che è molto di più dell’astensione dall’azione bellica: è pienezza e bellezza del vivere. Gli Angeli cantano la gloria a Dio. “Doxa” vuol dire ‘opinione’, ma qui sta per ‘gloria’, ‘fama’, perché è il sostantivo con cui la LXX traduce l’ebraico kabod e la storia biblica ci insegna che la gloria di Dio è usata a vantaggio dell’uomo nel momento della Creazione, dell’uscita dall’Egitto e nell’atto del ‘abitare’ il Tempio. Lasciamoci allora meravigliare e coinvolgere: con la nascita di Gesù la gloria di Dio diventa la gloria dell’uomo! “Vergine e Madre Maria, tu che, mossa dallo Spirito, hai accolto il Verbo della vita nella profondità della tua umile fede, totalmente donata all’Eterno, aiutaci a dire il nostro “sì” nell’urgenza, più imperiosa che mai, di far risuonare la Buona Notizia di Gesù” (Papa Francesco, EG).]]>
La parabola dei talenti https://www.lavoce.it/la-parabola-dei-talenti/ Fri, 17 Nov 2017 08:00:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50569 logo reubrica commento al Vangelo

“Il mio bene è stare vicino a Dio” ascoltiamo nell’Antifona di comunione di questa 33ma Domenica esprimendo così la volontà di assecondare il messaggio della pagina evangelica e non finire “fuori nelle tenebre”. Il contesto è il seguito della parabola delle 10 vergini perché la parabola che ci riguarda inizia con “infatti” (gar) -nel testo in lingua originale-, perciò come conseguenza dell’insegnamento sulla necessità della “vigilanza”, Gesù espone questa nuova parabola detta dei ‘talenti’. Il protagonista è un uomo d’affari che intraprende un viaggio (di certo finalizzato all’investimento) e lascia i suoi “beni” a degli amministratori (servi). È significativo notare che nell’introduzione il protagonista è semplicemente un “uomo”, mentre al suo ritorno, al momento del regolamento dei conti, l’Autore gli attribuisce il titolo di “signore”. Diverso è anche il modo in cui è denominato il patrimonio del “signore”: si parla (letteralmente) di “proprietà”, ma, nel momento in cui viene consegnata ai servi, essa viene espressa in “talenti” distribuiti anch’essi ... in modo diverso! Con il termine “talento” si intendeva sia un’unità di misura di peso vigente nell’antica Grecia che corrispondeva a circa 26 kg, che una moneta di metallo prezioso equivalente a più di 20 kg d’argento quantificabile in circa 20 anni lavorativi di un operaio. Queste precisazioni ci permettono di individuare sia l’incalcolabile ricchezza del “signore”, sia la fiducia irrazionale che lui ripone nei servi assegnando loro l’amministrazione di un capitale che nemmeno nella totalità della vita avrebbero mai accumulato. E l’assurdo è che agli occhi del “signore” la quantità di “beni” che i servi hanno custodito e fatto fruttificare è “poco”. Quindi c’è una netta sproporzione tra la realtà dei fatti e la visione del “signore” che considera “poco” ciò che per un uomo non è raggiungibile in vita, eppure la fedeltà a quel “poco” gli causa di entrare a far “parte della gioia del suo signore”. Ma questo avviene al ritorno del “signore” cioè “dopo molto tempo”, dettaglio questo che ci conferma ulteriormente la continuità del messaggio della parabola delle 10 vergini con questa dei talenti. E come tra le vergini c’è un gruppo di sagge e uno di stolte, anche qui tra i tre servi, ce ne sono due intraprendenti e disponibili a rischiare e uno ostinatamente chiuso nelle sue opinioni non fruttifere. I due servi investitori, presentano il guadagno e tacciono perché le loro opere parlano. Il servo che non ha investito deve invece giustificarsi e nel farlo aggrava ancor più il suo stato di orgoglio perché, anziché attribuirsi la viltà del suo atteggiamento, incolpa il “signore” di essere “un uomo duro” evidenziando anche un’errata opinione del “signore” che, al contrario, ha dimostrato di essere buono e fieramente fiducioso dei suoi servi. Apparentemente il servo non ha fatto nulla di male perché restituisce il talento che aveva in custodia dal “signore”, ma così come è strutturato il racconto si evince che la confidenza non era solo riposta nell’onestà dei servi, ma anche sulle loro “capacità” perché la parabola inizia informando infatti che ne diede secondo “le capacità di ognuno”. A questo punto, come per le vergini, ci sono due conseguenze: chi è dentro e chi è fuori, “prender parte alla gioia del signore” o star “fuori nelle tenebre dove sarà pianto e stridore di denti”. La “gioia” e lo “stridore dei denti” rendono perfettamente l’idea: la “gioia”, nel greco neotestamentario, traduce l’equivalente ebraico (ghil) che è per lo più presente nei Salmi ed abbinato quindi alla lode. Di contro lo “stridore dei dent” indica l’impossibilità all’espressione della gioia e quindi alla lode di Dio. Inoltre, il sostantivo “gioia” (charà) ha la stessa radice di “grazia” (charis) , per cui comprende in sé lo stato della gioia di chi è in comunione con Dio, già qui in terra. E allora cominciamo a tracciare un resoconto. L’anno liturgico sta volgendo al termine, il Vangelo di Matteo sta per cedere il posto a quello di Marco che si ascolta nell’anno B, la parabola dei talenti è inserita nell’ultimo dei cinque “discorsi” di Gesù e prepara l’insegnamento sul “giudizio finale”. Noi siamo i “servi” e abbiamo tra le mani l’inestimabile e misterioso patrimonio che è la Parola, i Sacramenti e la Comunità. Dovremmo quanto mai emozionarci all’idea che il Signore ha fiducia nelle nostre capacità di saper custodire e far fruttificare questi Doni. Perciò, come san Paolo esorta i Tessalonicesi, “non dormiamo come gli altri” e ispirati dall’esempio della “donna” del libro dei Proverbi adoperiamoci (in qualità, non in efficientismo) perché anche per il frutto delle nostre mani gli altri lodino il Signore. Quindi non riponiamo nella buca che è “la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca ... questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle nostre relazioni ... il Signore ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi. Dio si fida di noi. Non deludiamolo!” (Papa Francesco 16.11.’14). PRIMA LETTURA Dal Libro dei Proverbi 31, 10-13. 19-20. 30-31 SALMO RESPONSORIALE Salmo 127 SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo ai tessalonicesi 5.1-6 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 14-30  ]]>
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“Il mio bene è stare vicino a Dio” ascoltiamo nell’Antifona di comunione di questa 33ma Domenica esprimendo così la volontà di assecondare il messaggio della pagina evangelica e non finire “fuori nelle tenebre”. Il contesto è il seguito della parabola delle 10 vergini perché la parabola che ci riguarda inizia con “infatti” (gar) -nel testo in lingua originale-, perciò come conseguenza dell’insegnamento sulla necessità della “vigilanza”, Gesù espone questa nuova parabola detta dei ‘talenti’. Il protagonista è un uomo d’affari che intraprende un viaggio (di certo finalizzato all’investimento) e lascia i suoi “beni” a degli amministratori (servi). È significativo notare che nell’introduzione il protagonista è semplicemente un “uomo”, mentre al suo ritorno, al momento del regolamento dei conti, l’Autore gli attribuisce il titolo di “signore”. Diverso è anche il modo in cui è denominato il patrimonio del “signore”: si parla (letteralmente) di “proprietà”, ma, nel momento in cui viene consegnata ai servi, essa viene espressa in “talenti” distribuiti anch’essi ... in modo diverso! Con il termine “talento” si intendeva sia un’unità di misura di peso vigente nell’antica Grecia che corrispondeva a circa 26 kg, che una moneta di metallo prezioso equivalente a più di 20 kg d’argento quantificabile in circa 20 anni lavorativi di un operaio. Queste precisazioni ci permettono di individuare sia l’incalcolabile ricchezza del “signore”, sia la fiducia irrazionale che lui ripone nei servi assegnando loro l’amministrazione di un capitale che nemmeno nella totalità della vita avrebbero mai accumulato. E l’assurdo è che agli occhi del “signore” la quantità di “beni” che i servi hanno custodito e fatto fruttificare è “poco”. Quindi c’è una netta sproporzione tra la realtà dei fatti e la visione del “signore” che considera “poco” ciò che per un uomo non è raggiungibile in vita, eppure la fedeltà a quel “poco” gli causa di entrare a far “parte della gioia del suo signore”. Ma questo avviene al ritorno del “signore” cioè “dopo molto tempo”, dettaglio questo che ci conferma ulteriormente la continuità del messaggio della parabola delle 10 vergini con questa dei talenti. E come tra le vergini c’è un gruppo di sagge e uno di stolte, anche qui tra i tre servi, ce ne sono due intraprendenti e disponibili a rischiare e uno ostinatamente chiuso nelle sue opinioni non fruttifere. I due servi investitori, presentano il guadagno e tacciono perché le loro opere parlano. Il servo che non ha investito deve invece giustificarsi e nel farlo aggrava ancor più il suo stato di orgoglio perché, anziché attribuirsi la viltà del suo atteggiamento, incolpa il “signore” di essere “un uomo duro” evidenziando anche un’errata opinione del “signore” che, al contrario, ha dimostrato di essere buono e fieramente fiducioso dei suoi servi. Apparentemente il servo non ha fatto nulla di male perché restituisce il talento che aveva in custodia dal “signore”, ma così come è strutturato il racconto si evince che la confidenza non era solo riposta nell’onestà dei servi, ma anche sulle loro “capacità” perché la parabola inizia informando infatti che ne diede secondo “le capacità di ognuno”. A questo punto, come per le vergini, ci sono due conseguenze: chi è dentro e chi è fuori, “prender parte alla gioia del signore” o star “fuori nelle tenebre dove sarà pianto e stridore di denti”. La “gioia” e lo “stridore dei denti” rendono perfettamente l’idea: la “gioia”, nel greco neotestamentario, traduce l’equivalente ebraico (ghil) che è per lo più presente nei Salmi ed abbinato quindi alla lode. Di contro lo “stridore dei dent” indica l’impossibilità all’espressione della gioia e quindi alla lode di Dio. Inoltre, il sostantivo “gioia” (charà) ha la stessa radice di “grazia” (charis) , per cui comprende in sé lo stato della gioia di chi è in comunione con Dio, già qui in terra. E allora cominciamo a tracciare un resoconto. L’anno liturgico sta volgendo al termine, il Vangelo di Matteo sta per cedere il posto a quello di Marco che si ascolta nell’anno B, la parabola dei talenti è inserita nell’ultimo dei cinque “discorsi” di Gesù e prepara l’insegnamento sul “giudizio finale”. Noi siamo i “servi” e abbiamo tra le mani l’inestimabile e misterioso patrimonio che è la Parola, i Sacramenti e la Comunità. Dovremmo quanto mai emozionarci all’idea che il Signore ha fiducia nelle nostre capacità di saper custodire e far fruttificare questi Doni. Perciò, come san Paolo esorta i Tessalonicesi, “non dormiamo come gli altri” e ispirati dall’esempio della “donna” del libro dei Proverbi adoperiamoci (in qualità, non in efficientismo) perché anche per il frutto delle nostre mani gli altri lodino il Signore. Quindi non riponiamo nella buca che è “la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca ... questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle nostre relazioni ... il Signore ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi. Dio si fida di noi. Non deludiamolo!” (Papa Francesco 16.11.’14). PRIMA LETTURA Dal Libro dei Proverbi 31, 10-13. 19-20. 30-31 SALMO RESPONSORIALE Salmo 127 SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo ai tessalonicesi 5.1-6 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 14-30  ]]>
Le dieci vergini https://www.lavoce.it/le-dieci-vergini/ Fri, 10 Nov 2017 08:00:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50479 domenica della parola

Vegliate e tenetevi pronti”: sono gli imperativi che ascoltiamo nel Canto al Vangelo di questa XXXII Domenica, imperativi che sono riportati nel capitolo 24 del Vangelo secondo Matteo e che alludono alla “venuta del Figlio dell’uomo” alla quale si attende con la vigilanza del cuore e della mente. A questo insegnamento segue infatti la parabola delle “10 vergini” che la Liturgia ci propone perché da essa apprendiamo cosa davvero è necessario per saper attendere e scorgere la “venuta del Figlio dell’uomo”: la sapienza. Intanto i soggetti: 10 vergini, le lampade e lo sposo. L’ambito è quello dell’imminenza delle nozze che, secondo la tradizione giudaica, voleva che ad accompagnare lo sposo - solitamente verso sera - fossero le giovani donne, e in effetti qui ce ne sono 10 ad attendere lo sposo per “uscirgli incontro” ed avviare così il corteo nuziale. Anche nell’Antico Testamento sono presenti le donne che “escono incontro” all’amato o all’eroe (1Sam 18,6), ne accolgo festose l’arrivo per esaltarne le gesta ed unirsi alla sua gloria. Pure di un’altra donna, seppur legata ad un altro elemento che è quello della “lampada”, leggiamo nell’AT. Si tratta della “donna virile” dei Proverbi che è realizzata, stimata e, per lasciar intendere che mai nessun momento da lei è trascurato, è detto che “non si spegne di notte la sua lampada”, ed è quindi sempre pronta per qualsiasi evenienza. Ci sono quindi motivi che accomunano queste categorie femminili, ma, a fare la differenza, è la “stoltezza” di 5 delle 10 vergini che non hanno provveduto l’olio per alimentare le lampade. Di tutte e 10 si dice che sono “vergini” e che “si addormentarono”. Nel contesto, il carattere della “verginità” esprime l“‘idoneità” al matrimonio e in seguito, nel cristianesimo nascente, anche la qualità di chi si dona interamente a Cristo (1Cor 7,25.32). In ogni caso, si riferisce ad una persona che ha il cuore trepidante in attesa dell’“oggetto” del suo appagamento sentimentale. (S. Faustina esclama: “O Dio di grande Maestà, o mio Sposo, Tu sai che nulla soddisfa il cuore di una vergine”). Relativamente al “sonno” a cui tutte cedono, non è da considerare negativamente perché la letteratura antico e neo testamentaria attribuisce al sonno uno dei “luoghi” privilegiati in cui Dio si manifesta. Solo per citare alcuni esempi, si pensi al sonno a cui è indotto Adamo da Dio stesso, alla vocazione di Samuele o alla misteriosa paternità di Giuseppe, lo sposo di Maria, svelata appunto nel sonno. Non è quindi il sonno a destare antipatia nei riguardi dei soggetti della parabola, quanto piuttosto la sprovvedutezza delle 5 che sono sfornite di olio. Cos’è allora quest’“olio”? L’olio sigilla la presenza di Dio (Gn 28,18), attribuisce un potere indelebile (Es 29,7; 1Sam 16,13), è l’ornamento della gioia e della ricchezza (Sal 92,11) ed è soprattutto l’alimentazione della “lampada” che “sta al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza” (Es 27, 20-21). All’interno della Testimonianza venivano conservati la manna, il bastone di Aronne e le Tavole della Torah. La “lampada” accesa significava dunque la presenza del Signore nella Torah e la fede viva e desta dei credenti (lampada che sempre arde nella sinagoga davanti all’Armadio che conserva i rotoli della Torah). Allora ecco che il numero delle vergini ci aiuta nella comprensione del messaggio: 5 + 5. Il 5 rimanda necessariamente alla Torah (5 Libri) e quindi 5 vergini assecondano la Torah e sono “sagge”, le altre 5 non la assecondano e perciò sono “stolte”. La parabola inizia proponendo l’immagine del “Regno dei Cieli”, e quindi “si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, a tutti assolutamente” (S. Agostino, Disc. 93) e sicuramente desideriamo identificarci con le vergini sapienti che entrano alle “nozze”. Ma la sapienza va conquistata. “Essa si lascia vedere da coloro che la amano ... chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà ... chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni”. C’è infatti un altro comune denominatore nella Parola di questa domenica: la vigilanza con cui vanno vissute le ore notturne e mattutine e la prontezza che deve condizionare la quotidianità. Il Salmista ricerca il suo Dio sin “dall’aurora” e san Paolo parla della “voce dell’arcangelo e del suono della tromba di Dio” che irrompono a un “ordine”. La tradizione rabbinica afferma che “l’adulto deve occuparsi con lo studio della Torah ogni ora del giorno” (Berakot 9) e che “chiunque impara la Torah di notte viene ricompensato con una grazia durante il giorno” (Avodah Zarah 3). Al di là del fatto che determinate ore ben si confanno all’apprendimento, tuttavia non è solo all’attività mentale che si allude, perché è l’uomo nella sua interezza che deve tendere alla sapienza. E la “sapienza” è Gesù e consiste nel “saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù” (Papa Francesco, 24.04.’13). PRIMA LETTURA Dal libro della Sapienza 6, 12-16 SALMO RESPONSORIALE Salmo 62 SECONDA LETTURA Dalla I lettera ai Tessalonicesi 4, 13-18 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 1-13]]>
domenica della parola

Vegliate e tenetevi pronti”: sono gli imperativi che ascoltiamo nel Canto al Vangelo di questa XXXII Domenica, imperativi che sono riportati nel capitolo 24 del Vangelo secondo Matteo e che alludono alla “venuta del Figlio dell’uomo” alla quale si attende con la vigilanza del cuore e della mente. A questo insegnamento segue infatti la parabola delle “10 vergini” che la Liturgia ci propone perché da essa apprendiamo cosa davvero è necessario per saper attendere e scorgere la “venuta del Figlio dell’uomo”: la sapienza. Intanto i soggetti: 10 vergini, le lampade e lo sposo. L’ambito è quello dell’imminenza delle nozze che, secondo la tradizione giudaica, voleva che ad accompagnare lo sposo - solitamente verso sera - fossero le giovani donne, e in effetti qui ce ne sono 10 ad attendere lo sposo per “uscirgli incontro” ed avviare così il corteo nuziale. Anche nell’Antico Testamento sono presenti le donne che “escono incontro” all’amato o all’eroe (1Sam 18,6), ne accolgo festose l’arrivo per esaltarne le gesta ed unirsi alla sua gloria. Pure di un’altra donna, seppur legata ad un altro elemento che è quello della “lampada”, leggiamo nell’AT. Si tratta della “donna virile” dei Proverbi che è realizzata, stimata e, per lasciar intendere che mai nessun momento da lei è trascurato, è detto che “non si spegne di notte la sua lampada”, ed è quindi sempre pronta per qualsiasi evenienza. Ci sono quindi motivi che accomunano queste categorie femminili, ma, a fare la differenza, è la “stoltezza” di 5 delle 10 vergini che non hanno provveduto l’olio per alimentare le lampade. Di tutte e 10 si dice che sono “vergini” e che “si addormentarono”. Nel contesto, il carattere della “verginità” esprime l“‘idoneità” al matrimonio e in seguito, nel cristianesimo nascente, anche la qualità di chi si dona interamente a Cristo (1Cor 7,25.32). In ogni caso, si riferisce ad una persona che ha il cuore trepidante in attesa dell’“oggetto” del suo appagamento sentimentale. (S. Faustina esclama: “O Dio di grande Maestà, o mio Sposo, Tu sai che nulla soddisfa il cuore di una vergine”). Relativamente al “sonno” a cui tutte cedono, non è da considerare negativamente perché la letteratura antico e neo testamentaria attribuisce al sonno uno dei “luoghi” privilegiati in cui Dio si manifesta. Solo per citare alcuni esempi, si pensi al sonno a cui è indotto Adamo da Dio stesso, alla vocazione di Samuele o alla misteriosa paternità di Giuseppe, lo sposo di Maria, svelata appunto nel sonno. Non è quindi il sonno a destare antipatia nei riguardi dei soggetti della parabola, quanto piuttosto la sprovvedutezza delle 5 che sono sfornite di olio. Cos’è allora quest’“olio”? L’olio sigilla la presenza di Dio (Gn 28,18), attribuisce un potere indelebile (Es 29,7; 1Sam 16,13), è l’ornamento della gioia e della ricchezza (Sal 92,11) ed è soprattutto l’alimentazione della “lampada” che “sta al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza” (Es 27, 20-21). All’interno della Testimonianza venivano conservati la manna, il bastone di Aronne e le Tavole della Torah. La “lampada” accesa significava dunque la presenza del Signore nella Torah e la fede viva e desta dei credenti (lampada che sempre arde nella sinagoga davanti all’Armadio che conserva i rotoli della Torah). Allora ecco che il numero delle vergini ci aiuta nella comprensione del messaggio: 5 + 5. Il 5 rimanda necessariamente alla Torah (5 Libri) e quindi 5 vergini assecondano la Torah e sono “sagge”, le altre 5 non la assecondano e perciò sono “stolte”. La parabola inizia proponendo l’immagine del “Regno dei Cieli”, e quindi “si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, a tutti assolutamente” (S. Agostino, Disc. 93) e sicuramente desideriamo identificarci con le vergini sapienti che entrano alle “nozze”. Ma la sapienza va conquistata. “Essa si lascia vedere da coloro che la amano ... chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà ... chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni”. C’è infatti un altro comune denominatore nella Parola di questa domenica: la vigilanza con cui vanno vissute le ore notturne e mattutine e la prontezza che deve condizionare la quotidianità. Il Salmista ricerca il suo Dio sin “dall’aurora” e san Paolo parla della “voce dell’arcangelo e del suono della tromba di Dio” che irrompono a un “ordine”. La tradizione rabbinica afferma che “l’adulto deve occuparsi con lo studio della Torah ogni ora del giorno” (Berakot 9) e che “chiunque impara la Torah di notte viene ricompensato con una grazia durante il giorno” (Avodah Zarah 3). Al di là del fatto che determinate ore ben si confanno all’apprendimento, tuttavia non è solo all’attività mentale che si allude, perché è l’uomo nella sua interezza che deve tendere alla sapienza. E la “sapienza” è Gesù e consiste nel “saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù” (Papa Francesco, 24.04.’13). PRIMA LETTURA Dal libro della Sapienza 6, 12-16 SALMO RESPONSORIALE Salmo 62 SECONDA LETTURA Dalla I lettera ai Tessalonicesi 4, 13-18 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 1-13]]>
Uno solo è il Padre https://www.lavoce.it/uno-solo-padre/ Thu, 02 Nov 2017 17:46:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50420 domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
Un amore concreto https://www.lavoce.it/un-amore-concreto/ Sun, 29 Oct 2017 08:00:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50358 domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>
domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>
La parabola della vigna https://www.lavoce.it/la-parabola-della-vigna/ Thu, 05 Oct 2017 16:08:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50088 domenica della parola

“Tu hai fatto tutte le cose, il cielo e la terra e tutte le meraviglie che vi sono racchiuse; tu sei il Signore di tutto l’universo” (Est 4,17b) professa Mardocheo nella preghiera che ascoltiamo nell’antifona d’ingresso, preghiera che lui e la regina Ester rivolgono al Signore perché il loro popolo Israele, la “vigna del Signore”, sta per essere annientato e solo Lui può salvarlo. E la preoccupazione per la comunità è il motivo che ritorna nel “canto della vigna” del profeta Isaia dove il Proprietario presta una cura premurosa per la sua vigna, ne attende i frutti e poi, a causa del fatto che i frutti non vengono prodotti, si trova costretto a prendere la drastica decisione e la vigna “non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”. Il tema della “vigna” è ripreso dalla pagina evangelica che questa 27ma Domenica del Tempo ordinario conclude il trittico delle “parabole della vigna”, anche se più che la vigna, i veri protagonisti sono i vignaioli che si atteggiano come fossero i veri proprietari della vigna. Gli elementi che descrivono la vigna (siepe, torchio, torre, …) rimandano indiscutibilmente alla pericope di Isaia e, come in essa, anche nella parabola matteana il finale è drammatico e nello specifico anticipa la condanna a morte di Gesù. Come nelle precedenti due parabole, anche qui il messaggio è diretto ai capi del popolo (vigna) perché è introdotta dall’invito ad ascoltare “un’altra parabola”. Il Proprietario pianta una vigna con tutti i migliori accorgimenti e ne affida la gestione a dei contadini. È precisato che al “tempo di raccogliere i frutti” il Proprietario invia dei servi, ma questi vengono uno bastonato, un’altro ucciso e un altro ancora lapidato. Fin qui non c’è nulla di nuovo rispetto all’Antico Testamento perché in numerosi passi dei Libri storici e profetici è ribadita l’attenzione del Signore per la Sua vigna per la quale ha inviato più volte i Suoi servi, i Profeti, ma non sono stati accolti, anzi, in alcuni casi sono stati anche perseguitati. L’elemento nuovo è piuttosto l’inserimento del “figlio” del Proprietario che altrettanto non viene accolto ed è specificato che i contadini lo hanno condotto “fuori dalla vigna” e lo hanno ucciso. A questo punto, alla domanda di Gesù: “cosa farà il proprietario della vigna a quei contadini”, i Suoi uditori rispondono con la legge della “retribuzione”: hanno ucciso, perciò “li farà morire miseramente”. E allora subentra un altro passaggio “nuovo” che va cioè oltre il pensiero dei 1uoi contemporanei perché il “figlio ucciso fuori dalla vigna” è un indiscutibile riferimento a Cristo stesso perché “fuori dalla vigna”, ovvero fuori dalle mura di Gerusalemme, veniva infatti mandato via e quindi sacrificato una volta l’anno un capro che doveva prendere su di sé le colpe commesse dagli israeliti (Lv 16,21-21) e così una volta per tutte “Gesù ha subito la passione fuori della porta della città” (Eb 13,12). A confermare ciò è la citazione del Salmo 118,22-23, citazione che leggiamo anche in altri due brani neotestamentari (At 4,11 e 1Pt 2,7) e che anticipa e sigilla allo stesso tempo il rifiuto di Cristo da parte dei “capi” (la pietra scartata dai costruttori), ma anche il fondamento (pietra angolare) che Cristo sarà della futura comunità cristiana, la “nazione” non da intendere in contrasto, ma in continuità con il popolo dell’antica Alleanza. La storia del popolo biblico è del resto caratterizzata da “pietre scartate”: si pensi a Giuseppe, scartato dai fratelli, ma in terra straniera è stato motivo di salvezza e di sopravvivenza dei suoi familiari. Ricordiamo Davide, non preso in considerazione da Iesse al momento di essere unto da Samuele, poi mandato a chiamare mentre era a pascolare il gregge, per divenire il re secondo il cuore di Dio. Pensiamo ad Ester che per la sua situazione familiare è stata donata al re di un popolo non israelita e che è poi diventata causa di scampato sterminio dei suoi connazionali. Così Cristo, rifiutato, oltraggiato, perseguitato e ucciso brutalmente “fuori” Gerusalemme diviene per quanti lo riconoscono Figlio di Dio centro, fondamento e motivo di vita. La Parola di Dio ci trasmette certamente l’ardua realtà che la “vigna” del Signore necessita di “sacrificio”: Giuseppe, David, Ester ed altri ancora, hanno sofferto la solitudine fuori dalla “vigna”. Cristo ha immolato tutto se stesso pagando anche Lui oltre che con gli oltraggi, con il vuoto interiore del rifiuto e dell’abbandono. Questo accade anche agli uomini di questo mondo che in virtù di una verità combattono contro l’incomprensione. La novità è che con Cristo non esiste rancore o, peggio ancora odio, perché solo “ciò che è virtù e merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 6,8). Inoltre il cristiano è animato dalla consapevolezza che solo Lui sa trasformare gli “scarti” in “pietre angolari”. Ma il messaggio è anche di stare attenti a non scartare mai nessuno: “vorrei che prendessimo tutti il serio impegno di contrastare la cultura dello scarto ... per promuovere una cultura della solidarietà e dell’incontro” (Papa Francesco, 05.06.’13.).   PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 5,1-7 SALMO RESPONSORIALE Salmo 79 SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo ai Filippesi 4,6-9 Commento al Vangelo della XXVII Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 21,33-43    ]]>
domenica della parola

“Tu hai fatto tutte le cose, il cielo e la terra e tutte le meraviglie che vi sono racchiuse; tu sei il Signore di tutto l’universo” (Est 4,17b) professa Mardocheo nella preghiera che ascoltiamo nell’antifona d’ingresso, preghiera che lui e la regina Ester rivolgono al Signore perché il loro popolo Israele, la “vigna del Signore”, sta per essere annientato e solo Lui può salvarlo. E la preoccupazione per la comunità è il motivo che ritorna nel “canto della vigna” del profeta Isaia dove il Proprietario presta una cura premurosa per la sua vigna, ne attende i frutti e poi, a causa del fatto che i frutti non vengono prodotti, si trova costretto a prendere la drastica decisione e la vigna “non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”. Il tema della “vigna” è ripreso dalla pagina evangelica che questa 27ma Domenica del Tempo ordinario conclude il trittico delle “parabole della vigna”, anche se più che la vigna, i veri protagonisti sono i vignaioli che si atteggiano come fossero i veri proprietari della vigna. Gli elementi che descrivono la vigna (siepe, torchio, torre, …) rimandano indiscutibilmente alla pericope di Isaia e, come in essa, anche nella parabola matteana il finale è drammatico e nello specifico anticipa la condanna a morte di Gesù. Come nelle precedenti due parabole, anche qui il messaggio è diretto ai capi del popolo (vigna) perché è introdotta dall’invito ad ascoltare “un’altra parabola”. Il Proprietario pianta una vigna con tutti i migliori accorgimenti e ne affida la gestione a dei contadini. È precisato che al “tempo di raccogliere i frutti” il Proprietario invia dei servi, ma questi vengono uno bastonato, un’altro ucciso e un altro ancora lapidato. Fin qui non c’è nulla di nuovo rispetto all’Antico Testamento perché in numerosi passi dei Libri storici e profetici è ribadita l’attenzione del Signore per la Sua vigna per la quale ha inviato più volte i Suoi servi, i Profeti, ma non sono stati accolti, anzi, in alcuni casi sono stati anche perseguitati. L’elemento nuovo è piuttosto l’inserimento del “figlio” del Proprietario che altrettanto non viene accolto ed è specificato che i contadini lo hanno condotto “fuori dalla vigna” e lo hanno ucciso. A questo punto, alla domanda di Gesù: “cosa farà il proprietario della vigna a quei contadini”, i Suoi uditori rispondono con la legge della “retribuzione”: hanno ucciso, perciò “li farà morire miseramente”. E allora subentra un altro passaggio “nuovo” che va cioè oltre il pensiero dei 1uoi contemporanei perché il “figlio ucciso fuori dalla vigna” è un indiscutibile riferimento a Cristo stesso perché “fuori dalla vigna”, ovvero fuori dalle mura di Gerusalemme, veniva infatti mandato via e quindi sacrificato una volta l’anno un capro che doveva prendere su di sé le colpe commesse dagli israeliti (Lv 16,21-21) e così una volta per tutte “Gesù ha subito la passione fuori della porta della città” (Eb 13,12). A confermare ciò è la citazione del Salmo 118,22-23, citazione che leggiamo anche in altri due brani neotestamentari (At 4,11 e 1Pt 2,7) e che anticipa e sigilla allo stesso tempo il rifiuto di Cristo da parte dei “capi” (la pietra scartata dai costruttori), ma anche il fondamento (pietra angolare) che Cristo sarà della futura comunità cristiana, la “nazione” non da intendere in contrasto, ma in continuità con il popolo dell’antica Alleanza. La storia del popolo biblico è del resto caratterizzata da “pietre scartate”: si pensi a Giuseppe, scartato dai fratelli, ma in terra straniera è stato motivo di salvezza e di sopravvivenza dei suoi familiari. Ricordiamo Davide, non preso in considerazione da Iesse al momento di essere unto da Samuele, poi mandato a chiamare mentre era a pascolare il gregge, per divenire il re secondo il cuore di Dio. Pensiamo ad Ester che per la sua situazione familiare è stata donata al re di un popolo non israelita e che è poi diventata causa di scampato sterminio dei suoi connazionali. Così Cristo, rifiutato, oltraggiato, perseguitato e ucciso brutalmente “fuori” Gerusalemme diviene per quanti lo riconoscono Figlio di Dio centro, fondamento e motivo di vita. La Parola di Dio ci trasmette certamente l’ardua realtà che la “vigna” del Signore necessita di “sacrificio”: Giuseppe, David, Ester ed altri ancora, hanno sofferto la solitudine fuori dalla “vigna”. Cristo ha immolato tutto se stesso pagando anche Lui oltre che con gli oltraggi, con il vuoto interiore del rifiuto e dell’abbandono. Questo accade anche agli uomini di questo mondo che in virtù di una verità combattono contro l’incomprensione. La novità è che con Cristo non esiste rancore o, peggio ancora odio, perché solo “ciò che è virtù e merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 6,8). Inoltre il cristiano è animato dalla consapevolezza che solo Lui sa trasformare gli “scarti” in “pietre angolari”. Ma il messaggio è anche di stare attenti a non scartare mai nessuno: “vorrei che prendessimo tutti il serio impegno di contrastare la cultura dello scarto ... per promuovere una cultura della solidarietà e dell’incontro” (Papa Francesco, 05.06.’13.).   PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 5,1-7 SALMO RESPONSORIALE Salmo 79 SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo ai Filippesi 4,6-9 Commento al Vangelo della XXVII Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 21,33-43    ]]>
L’interesse per la sacra Scrittura https://www.lavoce.it/linteresse-per-la-sacra-scrittura/ Wed, 30 Nov 2016 09:00:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=47964 giuseppina-bruscolotti-cmykCon l’inizio di un nuovo anno liturgico si conclude la bella esperienza del commento del Vangelo fatto dalle famiglie, durato tre anni, che ringraziamo per il servizio reso. Per questo nuovo anno abbiamo chiesto la collaborazione a Giuseppina Bruscolotti, biblista, consacrata nell’Ordo Virginum.
Nata a Massa Martana, dove risiede, ci racconta come è stata fondamentale per la sua maturazione, e di conseguenza per la sua scelta di vita, una Confessione (Sacramento) fatta all’età di 12 anni nella chiesa parrocchiale di San Felice. “Quella confessione – ricorda – ha segnato la mia vita tanto da orientare tutto il resto della mia vita. Infatti, divenuta maggiorenne sono entrata a far parte dell’Ordine francescano secolare e concluse le scuole superiori ho iniziato a frequentare l’Istituto Teologico dove ho maturato a poco a poco la mia vocazione che ha avuto la sua conferma in occasione di un pellegrinaggio parrocchiale a Fatima. Lì è avvenuta la decisione definitiva: sì a Cristo.
Delle varie forme di Consacrazione che mi attiravano ve ne era una di cui avevo sentito parlare a lezione di Diritto canonico dal prof. don Vittorio Peri: consacrazione contemplata dal canone 604 Ordo Virginum. Consacrazione che è avvenuta il 19 novembre 2006 per le mani del vescovo mons. Giovanni Scanavino nel duomo di Orvieto. Parallelamente è maturata sempre più l’importanza della preparazione in ambito biblico. Infatti, dopo essermi laureata in Lettere (prima avevo fatto l’Ita per insegnare religione) ho ripreso gli studi teologici ed ho conseguito la Licenza in Teologia biblica e poi il dottorato in Teologia biblica”.
“L’interesse per la Sacra Scrittura – prosegue – che coinvolge gran parte delle giornate in conseguenza dell’insegnamento e della ricerca, è sempre stato affiancato da quello per il mondo giovanile. Come catechista e insegnante di Religione l’altra parte di me si occupa di formare i giovani ai quali dedico del tempo extrascolastico per iniziative liturgiche (animazione Eucaristia) o di volontariato (mensa Caritas). Tengo lectio bibliche in varie parrocchie di diverse parti d’Italia ed ho pubblicato un libro (Lo straniero ci soccorre) e articoli su Convivium assisiense e altre riviste. È prossima la pubblicazione del libro Figli di Iefte. Attualmente insegno Sacra Scrittura presso l’Istituto Teologico di Assisi e l’Istituto superiore di Scienze religiose, presso la Scuola diocesana di Terni e in alcune parrocchie romane. E religione presso il Liceo scientifico Nomentano.

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La Parola della domenica. L’amore non muore mai https://www.lavoce.it/la-parola-della-domenica-lamore-non-muore-mai/ Thu, 03 Nov 2016 17:34:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=47848 MESSALE metti piccola in commento al vangeloLa liturgia di questa domenica ci parla della vita dopo la morte. Del resto l’anno liturgico volge al termine, e la Chiesa ci richiama a porre l’attenzione sulle verità ultime. La splendida testimonianza che ci offrono i fratelli Maccabei nella prima lettura è l’anticipazione della nostra idea di risurrezione dai morti. Il Vangelo si apre con la figura dei sadducei, rappresentanti del gruppo religioso e politico della casta sacerdotale; negavano la vita eterna e limitavano la Bibbia ai primi cinque libri di Mosè, la Torah.

Per mettere in ridicolo i farisei, loro avversari, chiedono a Gesù di pronunciarsi sulla risurrezione, evidenziandone l’incompatibilità con la legge mosaica e le contraddizioni che sgorgano da tale fede. Per questo si appellano alla legge del levirato (da levir, che significa cognato), per cui bisogna che il parente prossimo sposi la donna rimasta vedova se è senza figli, in modo da assicurare una discendenza al defunto (cfr. Dt 25,5). La legge del levirato prevede solo la discendenza come possibilità di sopravvivenza oltre la morte. Gesù ribalta le evidenze dei sadducei. In risposta alla domanda a trabocchetto dei sadducei sulla sorte della donna che ha avuto in terra sette mariti, Gesù riafferma anzitutto il fatto della risurrezione, correggendo nello stesso tempo la rappresentazione materialistica e caricaturale che ne fanno i sadducei. La beatitudine eterna non è semplicemente un potenziamento e prolungamento delle gioie terrene, con piaceri della carne e della tavola a sazietà. L’altra vita è davvero un’altra vita, una vita di qualità diversa. È, sì, il compimento di tutte le attese che l’uomo ha in terra, e anzi infinitamente di più, ma su un piano diverso. “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli”.

Nella parte finale del Vangelo, Gesù spiega il motivo perché ci deve essere vita dopo la morte: Dio è “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. Dove sta in ciò la prova che i morti risorgono? Se Egli stesso si definisce “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” ed è un Dio dei vivi, non dei morti, allora vuol dire che Abramo, Isacco e Giacobbe vivono da qualche parte, anche se, al momento in cui Dio parla a Mosè, sono già morti da secoli.

Interpretando in modo errato la risposta che Gesú dà ai sadducei, alcuni hanno sostenuto che il matrimonio non ha alcun seguito in cielo. Ma con quella frase Gesù rigetta l’idea caricaturale che i sadducei presentano dell’aldilà, come fosse un semplice proseguimento dei rapporti terreni tra coniugi; non esclude che essi possano ritrovare, in Dio, il vincolo li ha uniti sulla terra. “È possibile che due sposi, dopo una vita che li ha associati a Dio nel miracolo della creazione, nella vita eterna non abbiamo più niente in comune, come se tutto fosse dimenticato, perduto? Non sarebbe questo in contrasto con la parola di Cristo, che non si deve dividere ciò che Dio ha unito? Se Dio li ha uniti sulla terra, come potrebbe dividerli in cielo? Può tutta una vita insieme finire nel nulla senza che si smentisca il senso stesso della vita di quaggiù, che è di preparare l’avvento del Regno, i cieli nuovi e la terra nuova?” (padre Raniero Cantalamessa).

È la Scrittura stessa, non solo il naturale desiderio degli sposi, ad appoggiare questa speranza. Il matrimonio, dice la Scrittura, è “un grande sacramento” perché simboleggia l’unione tra Cristo e la Chiesa (Ef 5,32). Possibile dunque che sia cancellato proprio nella Gerusalemme celeste, dove si celebra l’eterno banchetto nuziale tra Cristo e la Chiesa, di cui esso è immagine? Secondo questa visione, il matrimonio non finisce del tutto con la morte, ma viene trasfigurato, spiritualizzato, sottratto a tutti quei limiti che segnano la vita sulla terra, come, del resto, non sono dimenticati i vincoli esistenti tra genitori e figli o tra amici.

Nel prefazio della Messa dei defunti la liturgia dice che con la morte vita mutatur, non tollitur (la vita è mutata, non è tolta); lo stesso si deve dire del matrimonio che è parte integrante della vita.

Ma cosa dire a quelli che hanno avuto un’esperienza negativa, di incomprensione e di sofferenza, nel matrimonio terreno? Non sarebbe motivo di spavento, anziché di consolazione, l’idea che il legame non si rompa neppure con la morte? No, perché nel passaggio dal tempo all’eternità il bene resta, il male cade. L’amore che li ha uniti, fosse pure per breve tempo, rimane; i difetti, le incomprensioni, le sofferenze che si sono inflitte reciprocamente cadono. Moltissimi coniugi sperimenteranno solo quando saranno riuniti “in Dio” l’amore vero tra di loro e, con esso, la gioia e la pienezza dell’unione che non hanno goduto in terra. È anche la conclusione di Goethe sull’amore tra Faust e Margherita: “Solo in cielo l’irraggiungibile [cioè l’unione piena e pacifica tra due creature che si amano] diventerà realtà”. In Dio tutto si capirà, tutto si scuserà, tutto ci si perdonerà.

E che dire di quelli che sono stati legittimamente sposati a diverse persone, come i vedovi e le vedove risposati? (Fu il caso presentato a Gesù dei sette fratelli che avevano avuto, successivamente, in moglie la stessa donna). Anche per loro dobbiamo ripetere la stessa cosa: quello che c’è stato di amore e donazione veri con ognuno dei mariti o delle mogli avuti, essendo obiettivamente un “bene” e venendo da Dio, non sarà annullato. Lassù non ci sarà più rivalità in amore o gelosia. Queste cose non appartengono all’amore vero, ma al limite intrinseco della creatura.

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Il Vangelo? Per gli italiani è uno sconosciuto https://www.lavoce.it/il-vangelo-per-gli-italiani-e-uno-sconosciuto/ Fri, 28 Oct 2016 16:21:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=47770 Leggere-vangelo“Devota incompetenza”: è la formula coniata dal Censis per sintetizzare il rapporto degli italiani con il Vangelo, in genere ridotto ad un libro in bella mostra sugli scaffali di casa ma quasi mai degno di essere sfogliato. “Il Vangelo secondo gli italiani”, come recita il titolo del rapporto-ricerca presentato oggi a Roma, è un libro, insomma, da “comò”, la cui conoscenza si riduce a spigolature e reminiscenze catechistiche sulla vita di Cristo, anche per chi frequenta abitualmente i circuiti ecclesiali. Unica sorpresa in controtendenza: l’interesse suscitato tra i giovani.

“Circa l’80% degli italiani non ha dimestichezza col Vangelo”.  Così il curatore, Giulio De Rita, ha sintetizzato i risultati del rapporto, presentato presso la sede del Censis contestualmente all’opera “Vangeli nella cultura e nell’arte”, un’edizione di pregio a tiratura limitata dei Vangeli, realizzata dalla casa editrice Utet Grandi Opere. “Quasi il 70% degli italiani possiede una copia del Vangelo – tutti ce l’abbiamo nello scaffale di casa – ma di questi il 51% non lo apre mai”. Se si somma questa percentuale al 30% degli italiani che non possiede una copia del Vangelo, si arriva al dato dell’80%: ciò significa che il 20% degli italiani non legge mai il Vangelo, e di questi il 33% frequenta la Chiesa. Circa un terzo di coloro che vanno a Messa, insomma, non lo conosce.

Solo il 21% degli italiani, tuttavia, si mostra distaccato nei confronti del Vangelo: il 48% lo considera un testo fondamentale del nostro patrimonio culturale, il 31% se ne dice “toccato nell’animo”, ma poi il 44% non sa quanti sono gli evangelisti e l’11% non sa citarne a memoria il nome di almeno uno. In compenso, il 78% degli italiani dimostra di sapere che l’Ave Maria non è contenuta del Vangelo. Più che parole, il Vangelo evoca immagini: solo il 20% degli italiani è in grado infatti di citarne un versetto, ma il 66% ne ha in mente un’immagine, come quella dell’Ultima Cena o del Presepe.

La buona notizia, però, è che torna l’interesse dei giovani per il libro sacro: dal rapporto Censis risulta infatti che i giovani hanno più confidenza con il Vangelo delle persone di mezza età: il 70% ne possiede una copia, contro il 65% della generazione di mezzo. Si tratta, in particolare, di un interesse molto polarizzato, che va dalla “indifferenza informata” alla “attenzione informata”: la metà dei giovani che ne possiedono una copia ammettono di leggerlo, anche se non spesso, contro il 43% dei 30-50enni

“Far uscire il Vangelo fuori dagli scaffali e dai circuiti più scontati, per cercare di tramandarlo nei contesti in cui è più sorprendente, e quindi restituirlo come annuncio vivo, nuovo e sorprendente”. È il suggerimento di Marco Damilano, vicedirettore de L’Espresso, secondo il quale sul fronte cattolico occorre chiedersi “che frutti porta l’albero della formazione, dell’educazione che parte dalla catechesi, passa per l’ora di religione – il cui rifiuto di avvelarsene a scuola è cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni, passando dal 6 al 12% – e interessa poi la formazione dei giovani adulti, le associazioni, i movimenti, i gruppi spirituali, tutti quelli che fanno informazione a vario titolo nel mondo cattolico, chi fa cultura, chi fa televisione…”. “Se lasciamo il Vangelo in un ghetto”, ha proseguito Damilano, la responsabilità è anche della “cultura laica”, “del mondo culturale in senso ampio”, che “ha perso dimestichezza con queste pagine e con quelle immagini”.

“Oggi viviamo in un mondo Occidentale che si sente fortemente minacciato”. È l’analisi di monsignor Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e autore del volume “I Vangeli nella cultura e nell’arte”. “Anche le persone che vorrebbero relegare il Vangelo al passato – la tesi dell’esperto – cominciano a capire che, di fronte a nemici che ritengono di avere un’identità radicata in testi sacri letti in un certo modo, anche l’Occidente deve riscoprire non generiche radici, ma le radici di un umanesimo cristiano: un umanesimo di cui tutti siamo eredi, ma che ha bisogno di essere rimesso nelle sue giuste prospettive, come lampada e luce nel nostro cammino”. “A differenza degli ebrei e dei musulmani, noi non siamo una religione del libro”.

La provocazione è giunta da Giuseppe De Rita, presidente del Censis. “Se non partiamo da una cultura del libro, come fanno gli ebrei e i musulmani, noi cristiani andiamo in regressione”, la tesi del sociologo, secondo il quale “in una cultura politeista il Vangelo come libro è il riferimento della nostra identità non solo religiosa, ma culturale”. “All’interno di una cultura che ci bombarda di messaggi, perché non arrivano i messaggi evangelici?”, il secondo interrogativo posto dal relatore: “Oggi i messaggi che arrivano sono troppi, si sovrappongono, e il modo in cui un tweet mette in circuito un messaggio non è lo stesso con cui lo metteva in circuito un’ edicola”. Altro problema, la mediazione: “Prima la svolgeva un élite, oggi chi fa mediazione deve rincorrere disperatamente la notizia”. Cosa resta, allora? “La devozione”, ha spiegato il sociologo.

“Oggi in Italia c’è un astensionismo culturale”. Ne è convinto Fabio Lazzari, presidente Utet Grandi Opere. “Il 40% delle persone non legge neanche un libro l’anno – ha fatto notare l’esperto – e di questi il 27% sono astensionisti totali, che non hanno nessun rapporto con la cultura: non leggono libri, non vanno al teatro, al cinema, in un museo…”. “I cattolici mostrano un così grande rispetto nei confronti delle Sacre Scritture che se ne stanno il più lontano possibile”, ha chiosato Lazzari citando Claudel.

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