Vangelo di Giovanni Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vangelo-di-giovanni/ Settimanale di informazione regionale Fri, 07 May 2021 16:27:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Vangelo di Giovanni Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/vangelo-di-giovanni/ 32 32 Rimanere nel Suo amore https://www.lavoce.it/rimanere-nel-suo-amore/ Fri, 07 May 2021 16:27:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60551

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>
Seguire, per vedere oltre https://www.lavoce.it/seguire-per-vedere-oltre/ Fri, 19 Mar 2021 14:48:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59622 logo reubrica commento al Vangelo

La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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Novità che dona speranza https://www.lavoce.it/novita-che-dona-speranza/ Fri, 12 Mar 2021 11:58:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59511 logo reubrica commento al Vangelo

Dal tempio di pietra distrutto al nuovo tempio, ricostruito in tre giorni (Gv 2,19), a partire dalla pietra rotolata via dal sepolcro (Gv 20,1). Questo passaggio tra la terza e la quarta domenica di Quaresima ci apre lo sguardo sulla Pasqua ormai vicina, come ricorda la “colletta” che introduce la celebrazione eucaristica: “O Dio, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”. Abbiamo bisogno proprio della speranza della Pasqua: essere consolati dalla tristezza per i nostri lutti e rianimati dalla fatica di vivere.

La vita più forte della morte

Per un attimo proviamo a immaginare la distruzione del tempio come le nostre città terremotate. Queste distruzioni sono simili alla morte che distrugge ogni speranza. Ma dalle macerie, dopo un po’, appaiono dei fili d’erba che sembrano rinascere proprio da quelle pietre fredde, avamposto della morte.

Un filo di vita distrugge la coltre di morte che sembrava aver sigillato ogni speranza, come la pietra rotolata su quella tomba a Gerusalemme nel 33 d. C., come i sassi dei nostri paesi terremotati, come questa pandemia che sembra non avere fine. Un alito di vita, come un dono che viene dall’alto, se trova il terreno delle fede, “macerato” dalla speranza, rimane fertile e questo consente ancora una volta, lo sbocciare di un germoglio. Dall’alto della croce viene il dono che salva, così come ci ricorda il Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14).

La fede in una persona viva, che è il Signore risorto, consente di non lasciare alla morte l’ultima parola, e non rende le morti del presente ‘carceriere’ della speranza del futuro. Questa fede è ben riposta, perché la gratuità della salvezza non dipende dalle nostre opere, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura : “Per grazia infatti siamo stati salvati mediante la fede” (Ef 2,8-9). La fede è l’unica speranza, capace di rimuovere quelle macerie; altro che atteggiamento passivo! È il motore che può sbloccare la nostra accidia pastorale e può aprire il nostro sguardo sul futuro delle nostre chiese e dell’umanità stessa.

La fede ci dona la vita

È la fede in Gesù Cristo che ci fa alzare lo sguardo su quella croce e intravedere oltre il sangue e la morte, l’amore appassionato del motivo di quella morte: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lui non ci salva solo dalla perdita definitiva perché si è scelto il rifiuto dell’amore. Credere in Lui significa non perdere l’opportunità di amare ogni giorno, di camminare ogni giorno nella speranza, di cambiare le situazioni di morte che assillano il nostro tempo.

La condizione del popolo d’Israele narrata in Cronache (prima lettura) può aiutarci al leggere anche il nostro tempo. L’esilio sembra essere la costante condizione causata dalla infedeltà (2Cr 36,14). Ma non è una questione morale, come certi “profeti di sventura” sembrano giustificare l’attuale situazione. Costoro si fanno interpreti della volontà di Dio decretando sentenze e invocando punizioni, costruendo confini morali e qualche volta geografici, sentendosi al sicuro a motivo delle loro certezze. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17), ci ricorda l’evangelista Giovanni.

Il testo della prima lettura può chiarire meglio anche il brano della purificazione del Tempio compiuta da Gesù, ascoltato domenica scorsa (Gv 2,15-16).

Cosa significa "infedeltà a Dio"

L’infedeltà a Dio è fossilizzare lo sguardo sulle modalità della sua rivelazione nel tempo; che invece hanno continuamente bisogno di essere purificate per far emergere la perenne novità della sua Persona. Lui si accompagna in modo sempre nuovo all’umanità di ogni tempo. La distruzione del Tempio è una punizione divina o una purificazione? Quale è la vera causa (2 Cr 36,19)? È perché Israele ha sbeffeggiato i messaggeri di Dio e schernito i suoi profeti (v. 16)?

Anche oggi è più comodo ascoltare i “profeti di sventura” che propinano le loro certezze. Anche oggi necessita una purificazione dei nostri “templi” di certezze granitiche; forse alcuni vanno abbattuti. Forse questo è il tempo dell’esilio che il Signore vuole trasformare in esodo di salvezza, per farci riscoprire la perenne novità della sua presenza. La fraternità riproposta da Papa Francesco è una profezia dell’umanità rinnovata che cammina verso la Gerusalemme celeste. Umanità a cui non si chiede il passaporto di provenienza, ma se si cammina verso la stessa “montagna”, dove costruire insieme la “tenda dell’incontro”.

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Dal tempio di pietra distrutto al nuovo tempio, ricostruito in tre giorni (Gv 2,19), a partire dalla pietra rotolata via dal sepolcro (Gv 20,1). Questo passaggio tra la terza e la quarta domenica di Quaresima ci apre lo sguardo sulla Pasqua ormai vicina, come ricorda la “colletta” che introduce la celebrazione eucaristica: “O Dio, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”. Abbiamo bisogno proprio della speranza della Pasqua: essere consolati dalla tristezza per i nostri lutti e rianimati dalla fatica di vivere.

La vita più forte della morte

Per un attimo proviamo a immaginare la distruzione del tempio come le nostre città terremotate. Queste distruzioni sono simili alla morte che distrugge ogni speranza. Ma dalle macerie, dopo un po’, appaiono dei fili d’erba che sembrano rinascere proprio da quelle pietre fredde, avamposto della morte.

Un filo di vita distrugge la coltre di morte che sembrava aver sigillato ogni speranza, come la pietra rotolata su quella tomba a Gerusalemme nel 33 d. C., come i sassi dei nostri paesi terremotati, come questa pandemia che sembra non avere fine. Un alito di vita, come un dono che viene dall’alto, se trova il terreno delle fede, “macerato” dalla speranza, rimane fertile e questo consente ancora una volta, lo sbocciare di un germoglio. Dall’alto della croce viene il dono che salva, così come ci ricorda il Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14).

La fede in una persona viva, che è il Signore risorto, consente di non lasciare alla morte l’ultima parola, e non rende le morti del presente ‘carceriere’ della speranza del futuro. Questa fede è ben riposta, perché la gratuità della salvezza non dipende dalle nostre opere, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura : “Per grazia infatti siamo stati salvati mediante la fede” (Ef 2,8-9). La fede è l’unica speranza, capace di rimuovere quelle macerie; altro che atteggiamento passivo! È il motore che può sbloccare la nostra accidia pastorale e può aprire il nostro sguardo sul futuro delle nostre chiese e dell’umanità stessa.

La fede ci dona la vita

È la fede in Gesù Cristo che ci fa alzare lo sguardo su quella croce e intravedere oltre il sangue e la morte, l’amore appassionato del motivo di quella morte: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lui non ci salva solo dalla perdita definitiva perché si è scelto il rifiuto dell’amore. Credere in Lui significa non perdere l’opportunità di amare ogni giorno, di camminare ogni giorno nella speranza, di cambiare le situazioni di morte che assillano il nostro tempo.

La condizione del popolo d’Israele narrata in Cronache (prima lettura) può aiutarci al leggere anche il nostro tempo. L’esilio sembra essere la costante condizione causata dalla infedeltà (2Cr 36,14). Ma non è una questione morale, come certi “profeti di sventura” sembrano giustificare l’attuale situazione. Costoro si fanno interpreti della volontà di Dio decretando sentenze e invocando punizioni, costruendo confini morali e qualche volta geografici, sentendosi al sicuro a motivo delle loro certezze. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17), ci ricorda l’evangelista Giovanni.

Il testo della prima lettura può chiarire meglio anche il brano della purificazione del Tempio compiuta da Gesù, ascoltato domenica scorsa (Gv 2,15-16).

Cosa significa "infedeltà a Dio"

L’infedeltà a Dio è fossilizzare lo sguardo sulle modalità della sua rivelazione nel tempo; che invece hanno continuamente bisogno di essere purificate per far emergere la perenne novità della sua Persona. Lui si accompagna in modo sempre nuovo all’umanità di ogni tempo. La distruzione del Tempio è una punizione divina o una purificazione? Quale è la vera causa (2 Cr 36,19)? È perché Israele ha sbeffeggiato i messaggeri di Dio e schernito i suoi profeti (v. 16)?

Anche oggi è più comodo ascoltare i “profeti di sventura” che propinano le loro certezze. Anche oggi necessita una purificazione dei nostri “templi” di certezze granitiche; forse alcuni vanno abbattuti. Forse questo è il tempo dell’esilio che il Signore vuole trasformare in esodo di salvezza, per farci riscoprire la perenne novità della sua presenza. La fraternità riproposta da Papa Francesco è una profezia dell’umanità rinnovata che cammina verso la Gerusalemme celeste. Umanità a cui non si chiede il passaporto di provenienza, ma se si cammina verso la stessa “montagna”, dove costruire insieme la “tenda dell’incontro”.

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La peggiore delle idolatrie https://www.lavoce.it/la-peggiore-delle-idolatrie/ Thu, 04 Mar 2021 10:42:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59449 logo reubrica commento al Vangelo

Le prime due domeniche di Quaresima, ogni anno, seppur con evangelisti diversi, ci presentano un passaggio obbligato per raggiungere la Pasqua: il brano delle tentazioni e il Vangelo della Trasfigurazione. Dalla terza domenica, ogni anno segue un suo percorso. Quest’anno ci viene proposta, dall’evangelista Giovanni, la prima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua (Gv 2,13-25). Questa prima Pasqua di Gesù, raccontata dal Vangelo di questa domenica, è identificata con la purificazione del Tempio.

Gesù caccia i mercanti del tempio

Fa un certo scalpore leggere e immaginare la scena in cui Gesù caccia i mercanti del tempio (Gv 2,15-16). Un fatto che troviamo narrato in tutti e quattro i Vangeli. Matteo, Marco e Luca collocano questa scena dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Giovanni nel contesto della prima Pasqua.

A segnare una certa continuità con il Vangelo di domenica scorsa è il rimando a dopo la Risurrezione, la comprensione di alcuni fatti e alcune affermazioni di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, Gesù chiede ai suoi di parlare di quanto hanno visto solo “dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9).

Nel brano di questa domenica i discepoli ricordano le parole di Gesù riguardo l’identificazione del suo corpo con il tempio, ma solo dopo che “fu risuscitato dai morti” (Gv 2,22). È evidente che l’evento della Risurrezione è la chiave di lettura e di comprensione della vita di Gesù. Ogni suo gesto, ogni sua parola escono dal buio della contingenza del presente per mezzo della luce che sconfigge le tenebre. Alla Sua luce vediamo la luce, ci ricorda il Salmo (36,10) e con essa possiamo leggere l’intera storia della salvezza.

Le profezie, la Legge preparano e anticipano la venuta del Messia e in lui trovano compimento. Abbiamo riscontrato nel racconto della Trasfigurazione, domenica scorsa, quanto appena enunciato: Gesù è trasfigurato e conversa con Mosè ed Elia (Mc 9,4).

Il Concilio Vaticano II stesso insegna nella Costituzione Dei Verbum che il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo, è nascosto nell’Antico Testamento e che quest’ultimo è svelato nel Nuovo (DV 16).

La legge, parte della Rivelazione

La Legge, che ci viene presentata nella prima lettura, è parte della Rivelazione. Dio parla al suo popolo tramite Mosè, lo libera dalla schiavitù dell’Egitto, gli ridona la libertà e gli fa dono della legge.

Le “dieci parole” (Decalogo) non sono privazione della libertà, ma custodia del dono che è la libertà, la quale si traduce nella possibilità di amare l’unico e vero Dio (Es 20,2-5). Infatti, lo sguardo del popolo d’Israele su questo dono è cantato nel Salmo: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore” (Sal 19,9).

I comandamenti superano la vendetta, seppur già regolata dall’antica legge dell’“occhio per occhio e dente per dente”. Anzi, la stessa legge rivelata nelle “dieci parole” è superata dalla legge dell’amore. Quest’ultima sintesi non è un nuovo testo, ma è la vita stessa di Gesù: lui è la parola definitiva, declinata nel Vangelo delle beatitudini. Gesù dirà di sé che non è venuto ad abolire la legge e i profeti, né ad abolire i comandamenti, ma a dare compimento (Mt 5,17).

Dai 10 comandamenti al comandamento dell'amore

Dai comandamenti si passa al comandamento dell’amore. E la via di accesso è la via crucis, come ci ricorda Paolo nella prima lettura : la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Gesù è uno scandalo per chi non si “sintonizza” sulla lunghezza d’onda del suo insegnamento, fatto di parole e di gesti rivelativi. È uno scandalo la sua azione purificatrice del tempio di Gersalemme narrato questa domenica, è uno scandalo la sua morte in croce, è un assurdo la sua risurrezione.

Paolo ad Atene, nell’aeropago, ha tentato di annunciare la resurrezione di Cristo ai sapienti, ma “quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: ‘Su questo ti sentiremo un’altra volta’” (At 17,32). La stoltezza dei pagani di Atene è in qualche modo meno grave dello scandalo degli ebrei, che immaginano ancora un Messia trionfante e di parte. Non lo comprendono nella logica di colui che prende le parti di deboli e poveri, non lo accettano perché sovverte il potere religioso, che tra l’altro si accompagna a quello politico e ne trova giovamento economico. Ecco il significato della purificazione del Tempio, divenuto un mercato. Gesù dirà: “Non fate della casa del Padre mio un mercato” (Gv 2,16), ed è questa la vera idolatria. Il Decalogo inizia proprio con questa parola: “Non avrai altri dèi di fronte a me, non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra”.

Non c’è peggior idolatria di quella “religiosa”, ossia divinizzare ciò che è transitorio. Vale per i nostri dogmi pastorali, vale per i nostri confini parrocchiali, vale anche, forse, per i confini diocesani della nostra Chiesa umbra.

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Le prime due domeniche di Quaresima, ogni anno, seppur con evangelisti diversi, ci presentano un passaggio obbligato per raggiungere la Pasqua: il brano delle tentazioni e il Vangelo della Trasfigurazione. Dalla terza domenica, ogni anno segue un suo percorso. Quest’anno ci viene proposta, dall’evangelista Giovanni, la prima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua (Gv 2,13-25). Questa prima Pasqua di Gesù, raccontata dal Vangelo di questa domenica, è identificata con la purificazione del Tempio.

Gesù caccia i mercanti del tempio

Fa un certo scalpore leggere e immaginare la scena in cui Gesù caccia i mercanti del tempio (Gv 2,15-16). Un fatto che troviamo narrato in tutti e quattro i Vangeli. Matteo, Marco e Luca collocano questa scena dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Giovanni nel contesto della prima Pasqua.

A segnare una certa continuità con il Vangelo di domenica scorsa è il rimando a dopo la Risurrezione, la comprensione di alcuni fatti e alcune affermazioni di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, Gesù chiede ai suoi di parlare di quanto hanno visto solo “dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9).

Nel brano di questa domenica i discepoli ricordano le parole di Gesù riguardo l’identificazione del suo corpo con il tempio, ma solo dopo che “fu risuscitato dai morti” (Gv 2,22). È evidente che l’evento della Risurrezione è la chiave di lettura e di comprensione della vita di Gesù. Ogni suo gesto, ogni sua parola escono dal buio della contingenza del presente per mezzo della luce che sconfigge le tenebre. Alla Sua luce vediamo la luce, ci ricorda il Salmo (36,10) e con essa possiamo leggere l’intera storia della salvezza.

Le profezie, la Legge preparano e anticipano la venuta del Messia e in lui trovano compimento. Abbiamo riscontrato nel racconto della Trasfigurazione, domenica scorsa, quanto appena enunciato: Gesù è trasfigurato e conversa con Mosè ed Elia (Mc 9,4).

Il Concilio Vaticano II stesso insegna nella Costituzione Dei Verbum che il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo, è nascosto nell’Antico Testamento e che quest’ultimo è svelato nel Nuovo (DV 16).

La legge, parte della Rivelazione

La Legge, che ci viene presentata nella prima lettura, è parte della Rivelazione. Dio parla al suo popolo tramite Mosè, lo libera dalla schiavitù dell’Egitto, gli ridona la libertà e gli fa dono della legge.

Le “dieci parole” (Decalogo) non sono privazione della libertà, ma custodia del dono che è la libertà, la quale si traduce nella possibilità di amare l’unico e vero Dio (Es 20,2-5). Infatti, lo sguardo del popolo d’Israele su questo dono è cantato nel Salmo: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore” (Sal 19,9).

I comandamenti superano la vendetta, seppur già regolata dall’antica legge dell’“occhio per occhio e dente per dente”. Anzi, la stessa legge rivelata nelle “dieci parole” è superata dalla legge dell’amore. Quest’ultima sintesi non è un nuovo testo, ma è la vita stessa di Gesù: lui è la parola definitiva, declinata nel Vangelo delle beatitudini. Gesù dirà di sé che non è venuto ad abolire la legge e i profeti, né ad abolire i comandamenti, ma a dare compimento (Mt 5,17).

Dai 10 comandamenti al comandamento dell'amore

Dai comandamenti si passa al comandamento dell’amore. E la via di accesso è la via crucis, come ci ricorda Paolo nella prima lettura : la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Gesù è uno scandalo per chi non si “sintonizza” sulla lunghezza d’onda del suo insegnamento, fatto di parole e di gesti rivelativi. È uno scandalo la sua azione purificatrice del tempio di Gersalemme narrato questa domenica, è uno scandalo la sua morte in croce, è un assurdo la sua risurrezione.

Paolo ad Atene, nell’aeropago, ha tentato di annunciare la resurrezione di Cristo ai sapienti, ma “quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: ‘Su questo ti sentiremo un’altra volta’” (At 17,32). La stoltezza dei pagani di Atene è in qualche modo meno grave dello scandalo degli ebrei, che immaginano ancora un Messia trionfante e di parte. Non lo comprendono nella logica di colui che prende le parti di deboli e poveri, non lo accettano perché sovverte il potere religioso, che tra l’altro si accompagna a quello politico e ne trova giovamento economico. Ecco il significato della purificazione del Tempio, divenuto un mercato. Gesù dirà: “Non fate della casa del Padre mio un mercato” (Gv 2,16), ed è questa la vera idolatria. Il Decalogo inizia proprio con questa parola: “Non avrai altri dèi di fronte a me, non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra”.

Non c’è peggior idolatria di quella “religiosa”, ossia divinizzare ciò che è transitorio. Vale per i nostri dogmi pastorali, vale per i nostri confini parrocchiali, vale anche, forse, per i confini diocesani della nostra Chiesa umbra.

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La vera discepola e apostola https://www.lavoce.it/vera-discepola-apostola/ Fri, 13 Mar 2020 15:23:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56474 logo reubrica commento al Vangelo

Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Il Servo della volontà di Dio https://www.lavoce.it/servo-volonta-dio/ Thu, 16 Jan 2020 17:18:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56040 logo reubrica commento al Vangelo

“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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Lo Spirito della verità https://www.lavoce.it/spirito-della-verita/ Fri, 14 Jun 2019 10:26:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54706 logo reubrica commento al Vangelo

“Sia benedetto Dio Padre e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”, recita l’Antifona d’ingresso della Domenica della Solennità della Santissima Trinità.

Prima lettura

La I Lettura coincide con un inno che esalta la Sapienza elegantemente presentata non tanto con fattezze umane e dagli impegni quotidiani come è in altri ambiti dello stesso libro dei Proverbi(es. Pr31), quanto piuttosto è descritta in relazione alla creazione e avente degli ‘effetti’ cosmici.

Si parla del suo ‘concepimento’ (“intessuta”) e del suo essere venuta alla luce (“partorita”) prima di qualsiasi altra opera della creazione affermando con ciò la superiorità cronologica della Sapienza sulla creazione. Questo permette di evincere che nel momento in cui venivano plasmati il cielo, la terra e il mare la Sapienza era accanto (letteralmente “ero con lui”) al Signore e che ha anche svolto un ruolo fondamentale come ‘ordinatrice’ cioè ha prodotto armonia tra le varie opere della creazione e ciò a vantaggio degli uomini.

Il Testo ci propone anche la singolare immagine della Sapienza che ‘gioca’ sul globo terrestre come a dire la sua gioia nel condividere la vicenda terrena manifestando predilezione tra tutte le opere per i “figli dell’uomo”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Proverbi 8,22-31

SALMO RESPONSORIALE Salmo 8

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai romani 5,1-5

VANGELO Vangelo di Giovanni 16,12-15

Salmo

In sintonia con questo messaggio rispondiamo alla I Lettura con il Salmo 8 che elogia l’‘opera’ risaltata tra due cornici: la prima cornice, che è anche l’ultima, è rappresentata dall’esaltazione del nome divino; la seconda cornice, che è anche la penultima, è rappresentata dalla creazione; al centro l’‘opera’ che è l’uomo!

Questo Salmo infonde “orgoglio umanistico” (Ravasi, I Salmi, I, 203) perché al centro vi è l’uomo e non Dio. Si presenta infatti come un triangolo al cui vertice c’è Dio poi il cosmo poi l’uomo che di fatto è centrale. “L’uomo, questa creatura di Dio, ancora più della luna misteriosa, al centro di questa impresa ci si rivela.

Ci si rivela gigante. Ci si rivela divino, non in sé, ma nel suo principio e nel suo destino. Onore all’uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito, alla sua vita” (Papa Paolo VI, 12.07.1969, ad Armstrong e a Aldrin circa il Salmo 8).

Seconda lettura

Anche nella II Lettura centrale è l’uomo e, relativamente alla solennità odierna, è presentato in qualità di credente in relazione alla fede trinitaria. La pagina è tratta dal cap 5 della Lettera ai Romani, capitolo importante perché inizia la parte (5-8) relativa al tema della ‘giustificazione’.

L’apostolo Paolo fa presente che, contrariamente a quanto avveniva nel popolo dell’AT per cui ‘giusto’ era colui che osservava la Legge, ora è la fede che fa dell’uomo un ‘giustificato’. Ma questo che potrebbe sembrare un insegnamento solo teorico, ha in realtà un riscontro concreto nella vita del credente.

Paolo è infatti a conoscenza delle difficoltà che vivono i credenti cui si rivolge e parla quindi di ‘tribolazioni’ cui sono sottoposti, eppure essi “sono in pace” sono “saldi nella speranza” e la “speranza non delude”, ovvero i credenti perseguitati sanno che il loro continuare ad aver fiducia non è riposto nel vuoto, ma nell’amore di Dio che è una realtà presente nella vita dei credenti perché “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

Vangelo

Il Vangelo di Giovanni che ci ha guidato in queste domeniche del Tempo pasquale ci consegna un passaggio della seconda parte dell’ultimo discorso di Gesù ai discepoli. Nello specifico parla dell’azione dello Spirito Santo sui discepoli nonché della sua relazione con il Padre e del riscontro di cui essi ne beneficiano.

Il contesto è drammatico, Gesù sta per essere ‘inspiegabilmente’ arrestato, umiliato e ucciso e vorrebbe dire loro ancora molte cose, ma proprio per la delicatezza del momento che stanno per vivere non sono “capaci di portarne il peso”. Ma assicura loro la venuta (“verrà”) dello Spirito della verità che assolverà quattro funzioni delle quali le prime tre riguarderanno i discepoli (“guiderà, parlerà e annuncerà”) e la quarta Gesù stesso (“glorificherà”).

E in questo brevissimo testo è riferito il più grande dei misteri, l’intima relazione tra le Persone trinitarie: lo Spirito glorifica il Figlio, tutto quello che il Padre possiede è del Figlio e lo Spirito prende da quel che è del Figlio e “lo annuncerà”. Quanto lo Spirito “annuncia” è del Padre e del Figlio e se lo comunica a noi, ‘guidandoci’ e ‘parlandoci’, vuol significare che anche noi siamo resi partecipi di questa comunione d’amore!

È affascinante riflettere sul mistero della Santissima Trinità e nello stesso tempo mette timore per l’incommensurabilità dei suoi ‘confini’. Adoriamola servendoci a proposito delle parole di sant’Ambrogio: “Ora in noi, o Spirito Santo, uno con il Padre e con il Figlio, sii sollecito ad entrare, riversandoti nei cuori.

Bocca, lingua, mente, sensi e ogni nostra forza dia eco alla tua lode: divampi il fuoco dell’amore, faccia ardere colui che ci sta accanto. Fa’ che attraverso te conosciamo il Padre e assieme a lui vediamo il Figlio, e che crediamo in ogni tempo che tu sei lo Spirito di entrambi. Amen”.

Giuseppina Bruscolotti

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“Sia benedetto Dio Padre e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”, recita l’Antifona d’ingresso della Domenica della Solennità della Santissima Trinità.

Prima lettura

La I Lettura coincide con un inno che esalta la Sapienza elegantemente presentata non tanto con fattezze umane e dagli impegni quotidiani come è in altri ambiti dello stesso libro dei Proverbi(es. Pr31), quanto piuttosto è descritta in relazione alla creazione e avente degli ‘effetti’ cosmici.

Si parla del suo ‘concepimento’ (“intessuta”) e del suo essere venuta alla luce (“partorita”) prima di qualsiasi altra opera della creazione affermando con ciò la superiorità cronologica della Sapienza sulla creazione. Questo permette di evincere che nel momento in cui venivano plasmati il cielo, la terra e il mare la Sapienza era accanto (letteralmente “ero con lui”) al Signore e che ha anche svolto un ruolo fondamentale come ‘ordinatrice’ cioè ha prodotto armonia tra le varie opere della creazione e ciò a vantaggio degli uomini.

Il Testo ci propone anche la singolare immagine della Sapienza che ‘gioca’ sul globo terrestre come a dire la sua gioia nel condividere la vicenda terrena manifestando predilezione tra tutte le opere per i “figli dell’uomo”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Proverbi 8,22-31

SALMO RESPONSORIALE Salmo 8

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai romani 5,1-5

VANGELO Vangelo di Giovanni 16,12-15

Salmo

In sintonia con questo messaggio rispondiamo alla I Lettura con il Salmo 8 che elogia l’‘opera’ risaltata tra due cornici: la prima cornice, che è anche l’ultima, è rappresentata dall’esaltazione del nome divino; la seconda cornice, che è anche la penultima, è rappresentata dalla creazione; al centro l’‘opera’ che è l’uomo!

Questo Salmo infonde “orgoglio umanistico” (Ravasi, I Salmi, I, 203) perché al centro vi è l’uomo e non Dio. Si presenta infatti come un triangolo al cui vertice c’è Dio poi il cosmo poi l’uomo che di fatto è centrale. “L’uomo, questa creatura di Dio, ancora più della luna misteriosa, al centro di questa impresa ci si rivela.

Ci si rivela gigante. Ci si rivela divino, non in sé, ma nel suo principio e nel suo destino. Onore all’uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito, alla sua vita” (Papa Paolo VI, 12.07.1969, ad Armstrong e a Aldrin circa il Salmo 8).

Seconda lettura

Anche nella II Lettura centrale è l’uomo e, relativamente alla solennità odierna, è presentato in qualità di credente in relazione alla fede trinitaria. La pagina è tratta dal cap 5 della Lettera ai Romani, capitolo importante perché inizia la parte (5-8) relativa al tema della ‘giustificazione’.

L’apostolo Paolo fa presente che, contrariamente a quanto avveniva nel popolo dell’AT per cui ‘giusto’ era colui che osservava la Legge, ora è la fede che fa dell’uomo un ‘giustificato’. Ma questo che potrebbe sembrare un insegnamento solo teorico, ha in realtà un riscontro concreto nella vita del credente.

Paolo è infatti a conoscenza delle difficoltà che vivono i credenti cui si rivolge e parla quindi di ‘tribolazioni’ cui sono sottoposti, eppure essi “sono in pace” sono “saldi nella speranza” e la “speranza non delude”, ovvero i credenti perseguitati sanno che il loro continuare ad aver fiducia non è riposto nel vuoto, ma nell’amore di Dio che è una realtà presente nella vita dei credenti perché “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

Vangelo

Il Vangelo di Giovanni che ci ha guidato in queste domeniche del Tempo pasquale ci consegna un passaggio della seconda parte dell’ultimo discorso di Gesù ai discepoli. Nello specifico parla dell’azione dello Spirito Santo sui discepoli nonché della sua relazione con il Padre e del riscontro di cui essi ne beneficiano.

Il contesto è drammatico, Gesù sta per essere ‘inspiegabilmente’ arrestato, umiliato e ucciso e vorrebbe dire loro ancora molte cose, ma proprio per la delicatezza del momento che stanno per vivere non sono “capaci di portarne il peso”. Ma assicura loro la venuta (“verrà”) dello Spirito della verità che assolverà quattro funzioni delle quali le prime tre riguarderanno i discepoli (“guiderà, parlerà e annuncerà”) e la quarta Gesù stesso (“glorificherà”).

E in questo brevissimo testo è riferito il più grande dei misteri, l’intima relazione tra le Persone trinitarie: lo Spirito glorifica il Figlio, tutto quello che il Padre possiede è del Figlio e lo Spirito prende da quel che è del Figlio e “lo annuncerà”. Quanto lo Spirito “annuncia” è del Padre e del Figlio e se lo comunica a noi, ‘guidandoci’ e ‘parlandoci’, vuol significare che anche noi siamo resi partecipi di questa comunione d’amore!

È affascinante riflettere sul mistero della Santissima Trinità e nello stesso tempo mette timore per l’incommensurabilità dei suoi ‘confini’. Adoriamola servendoci a proposito delle parole di sant’Ambrogio: “Ora in noi, o Spirito Santo, uno con il Padre e con il Figlio, sii sollecito ad entrare, riversandoti nei cuori.

Bocca, lingua, mente, sensi e ogni nostra forza dia eco alla tua lode: divampi il fuoco dell’amore, faccia ardere colui che ci sta accanto. Fa’ che attraverso te conosciamo il Padre e assieme a lui vediamo il Figlio, e che crediamo in ogni tempo che tu sei lo Spirito di entrambi. Amen”.

Giuseppina Bruscolotti

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L’amore per Gesù https://www.lavoce.it/amore-per-gesu/ Fri, 07 Jun 2019 09:43:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54653 logo reubrica commento al Vangelo

“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”, dice Gesù ai discepoli poco prima di essere arrestato, torturato ed ucciso.

Vangelo

Il brano del Vangelo secondo Giovanni nella domenica della Solennità della Pentecoste è infatti tratto dall’ultimo discorso che Gesù rivolge ai discepoli in privato nel contesto della Cena pasquale. Il passaggio che ci riguarda è ancora una volta il tema dell’amore. Gesù fa infatti presente che nella misura in cui lo amano, automaticamente osservano i suoi comandamenti. Vale a dire non c’è sforzo etico nell’applicare i suoi insegnamenti, ma la spontaneità di chi ama davvero e fa di conseguenza ciò che piace al suo amato.

Il binomio amore–osservanza (dei comandamenti) è del resto già riscontrabile nell’Antico Testamento (Es 20,6; Dt 5,10), ma in questa precisa occasione Gesù ha appena indicato (capitolo precedente) i parametri concreti dell’amore che sono quelli che scaturiscono nell’umile e reciproco servizio (lavanda dei piedi). L’amore per Gesù si traduce quindi nell’attenzione verso gli altri con cui si condivide la quotidianità.

Solo dopo aver elargito questo insegnamento sull’amore, promette il dono del Paraclito (‘chiamato accanto’) e in questa promessa indica due verità, la prima delle quali non è mai abbastanza ricordata: l’attività orante di Gesù continua anche dopo la sua vicenda terrena (“io pregherò il Padre”).

A Gesù sta a cuore ribadire che i discepoli non sono lasciati soli né da parte del Cielo né in terra dove lo Spirito ‘è’ (letteralmente gr.eimì ) con loro. Ma c’è anche un’altra finalità per cui viene donato il Paraclito che è quella di insegnare e ricordare tutto ciò che Gesù ha detto nel corso della sua missione terrena: è quanto sperimentano subito gli Apostoli nel giorno di Pentecoste.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 2,1-11

SALMO RESPONSORIALE Salmo 103

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 8,8-17

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 14,15-16.23b-26

Prima lettura

La pagina degli Atti degli Apostoli ci descrive con precisione la scena della Pentecoste: avviene “al piano superiore”, “sono le nove del mattino”, sono presenti gli Undici apostoli “insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui”, stanno pregando con perseveranza e concordia (1,13-14; 2,15) e il giorno di Pentecoste sta compiendosi (nel senso che i giorni della festività erano considerati come uno solo).

Ebbene, in questo giorno particolare, inizialmente celebrato come festa della mietitura (o delle Settimane, Es 34,22), poi trasformatosi nel giorno della rinnovazione dell’Alleanza che cadevacinquanta giorni dopo la Pasqua, si è realizzata la promessa di Gesù: la discesa dello Spirito santo su quanti erano presenti lì “al piano superiore” (identificato con il Cenacolo).

Poiché in altre due occasioni abbiamo avuto modo di sostare su questo testo, evidenziamo questa volta il parallelo tra il Vangelo e questa pagina: quanti sono nel Cenacolo sono “concordi”, vivono quindi il comandamento dell’amore che Gesù ha suggerito loro, sperimentano la presenza (“esserci”) del Paraclito e sono ricolmati dello Spirito di Sapienza (“insegnerà e ricorderà”) che permetterà a Pietro (“con gli Undici”) di parlare di Cristo risorto e in conseguenza di ciò “coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (2,41).

Il dono di annunciare Cristo risorto lo hanno sperimentato anche gli altri perché dopo l’elenco delle popolazioni presenti a Gerusalemme a quella festa (Parti, Medi, Elamiti, ...) c’è lo stupore degli uditori che constatano (parlando al plurale) l’ascolto dell’annuncio evangelico fatto in tutte le lingue dei pellegrini presenti.

Lo spazio geografico che comprende le popolazioni nominate va dai confini orientali dell’impero romano alla stessa città di Roma, quindi davvero una molteplicità di lingue e dialetti ha caratterizzato la ‘vivace’ solennità! In questa felice e feconda ricorrenza c’è quindi la premessa di quanto compiranno i discepoli di Gesù in seguito: l’evangelizzazione di tutti i popoli.

Salmo

A questo messaggio universale la Liturgia risponde con il Salmo 103 (104) che è un’esaltazione della Creazione. In esso vi è un’elencazione dettagliata degli elementi della natura con uno sguardo globale comprendente il cielo (sole, nubi, fulmini, ...), il mare (rettili, pesci, Leviatan, ...) e la terra (uomo, piante, animali, ...), tuttavia tutti questi elementi vivono in virtù dello Spirito del Signore che dona loro di venire all’esistenza (“Mandi il tuo spirito, sono creati”).

Seconda lettura

Anche nella Lettera ai Romani l’apostolo Paolo mette in risalto l’azione vivificante dello Spirito santo. Il brano è tratto dal cap. 8 della Lettera al punto in cui viene affrontata la condizione della vita del credente che ha rifiutato il dominio della carne ed ha accolto in sé lo Spirito di Dio che quindi “abita” in lui. In virtù di questo lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti, “darà la vita anche ai vostri corpi mortali”.

Lo Spirito santo, “un perfetto sconosciuto se non addirittura un prigioniero di lusso” (Papa Francesco, 09.05.2016), è l’Autore della vita, insegna, ricorda, dona forza e slancio missionario.

Lasciamoci attrarre dal motivo iconografico dell’ etimasìa (preparazione) e contempliamolo: un trono e su di esso il libro dei sette sigilli sul quale è posata la colomba dello Spirito santo.

Giuseppina Bruscolotti

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“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”, dice Gesù ai discepoli poco prima di essere arrestato, torturato ed ucciso.

Vangelo

Il brano del Vangelo secondo Giovanni nella domenica della Solennità della Pentecoste è infatti tratto dall’ultimo discorso che Gesù rivolge ai discepoli in privato nel contesto della Cena pasquale. Il passaggio che ci riguarda è ancora una volta il tema dell’amore. Gesù fa infatti presente che nella misura in cui lo amano, automaticamente osservano i suoi comandamenti. Vale a dire non c’è sforzo etico nell’applicare i suoi insegnamenti, ma la spontaneità di chi ama davvero e fa di conseguenza ciò che piace al suo amato.

Il binomio amore–osservanza (dei comandamenti) è del resto già riscontrabile nell’Antico Testamento (Es 20,6; Dt 5,10), ma in questa precisa occasione Gesù ha appena indicato (capitolo precedente) i parametri concreti dell’amore che sono quelli che scaturiscono nell’umile e reciproco servizio (lavanda dei piedi). L’amore per Gesù si traduce quindi nell’attenzione verso gli altri con cui si condivide la quotidianità.

Solo dopo aver elargito questo insegnamento sull’amore, promette il dono del Paraclito (‘chiamato accanto’) e in questa promessa indica due verità, la prima delle quali non è mai abbastanza ricordata: l’attività orante di Gesù continua anche dopo la sua vicenda terrena (“io pregherò il Padre”).

A Gesù sta a cuore ribadire che i discepoli non sono lasciati soli né da parte del Cielo né in terra dove lo Spirito ‘è’ (letteralmente gr.eimì ) con loro. Ma c’è anche un’altra finalità per cui viene donato il Paraclito che è quella di insegnare e ricordare tutto ciò che Gesù ha detto nel corso della sua missione terrena: è quanto sperimentano subito gli Apostoli nel giorno di Pentecoste.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 2,1-11

SALMO RESPONSORIALE Salmo 103

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 8,8-17

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 14,15-16.23b-26

Prima lettura

La pagina degli Atti degli Apostoli ci descrive con precisione la scena della Pentecoste: avviene “al piano superiore”, “sono le nove del mattino”, sono presenti gli Undici apostoli “insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui”, stanno pregando con perseveranza e concordia (1,13-14; 2,15) e il giorno di Pentecoste sta compiendosi (nel senso che i giorni della festività erano considerati come uno solo).

Ebbene, in questo giorno particolare, inizialmente celebrato come festa della mietitura (o delle Settimane, Es 34,22), poi trasformatosi nel giorno della rinnovazione dell’Alleanza che cadevacinquanta giorni dopo la Pasqua, si è realizzata la promessa di Gesù: la discesa dello Spirito santo su quanti erano presenti lì “al piano superiore” (identificato con il Cenacolo).

Poiché in altre due occasioni abbiamo avuto modo di sostare su questo testo, evidenziamo questa volta il parallelo tra il Vangelo e questa pagina: quanti sono nel Cenacolo sono “concordi”, vivono quindi il comandamento dell’amore che Gesù ha suggerito loro, sperimentano la presenza (“esserci”) del Paraclito e sono ricolmati dello Spirito di Sapienza (“insegnerà e ricorderà”) che permetterà a Pietro (“con gli Undici”) di parlare di Cristo risorto e in conseguenza di ciò “coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (2,41).

Il dono di annunciare Cristo risorto lo hanno sperimentato anche gli altri perché dopo l’elenco delle popolazioni presenti a Gerusalemme a quella festa (Parti, Medi, Elamiti, ...) c’è lo stupore degli uditori che constatano (parlando al plurale) l’ascolto dell’annuncio evangelico fatto in tutte le lingue dei pellegrini presenti.

Lo spazio geografico che comprende le popolazioni nominate va dai confini orientali dell’impero romano alla stessa città di Roma, quindi davvero una molteplicità di lingue e dialetti ha caratterizzato la ‘vivace’ solennità! In questa felice e feconda ricorrenza c’è quindi la premessa di quanto compiranno i discepoli di Gesù in seguito: l’evangelizzazione di tutti i popoli.

Salmo

A questo messaggio universale la Liturgia risponde con il Salmo 103 (104) che è un’esaltazione della Creazione. In esso vi è un’elencazione dettagliata degli elementi della natura con uno sguardo globale comprendente il cielo (sole, nubi, fulmini, ...), il mare (rettili, pesci, Leviatan, ...) e la terra (uomo, piante, animali, ...), tuttavia tutti questi elementi vivono in virtù dello Spirito del Signore che dona loro di venire all’esistenza (“Mandi il tuo spirito, sono creati”).

Seconda lettura

Anche nella Lettera ai Romani l’apostolo Paolo mette in risalto l’azione vivificante dello Spirito santo. Il brano è tratto dal cap. 8 della Lettera al punto in cui viene affrontata la condizione della vita del credente che ha rifiutato il dominio della carne ed ha accolto in sé lo Spirito di Dio che quindi “abita” in lui. In virtù di questo lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti, “darà la vita anche ai vostri corpi mortali”.

Lo Spirito santo, “un perfetto sconosciuto se non addirittura un prigioniero di lusso” (Papa Francesco, 09.05.2016), è l’Autore della vita, insegna, ricorda, dona forza e slancio missionario.

Lasciamoci attrarre dal motivo iconografico dell’ etimasìa (preparazione) e contempliamolo: un trono e su di esso il libro dei sette sigilli sul quale è posata la colomba dello Spirito santo.

Giuseppina Bruscolotti

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L’amore del Padre https://www.lavoce.it/amore-del-padre/ Fri, 24 May 2019 10:54:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54582 logo reubrica commento al Vangelo

“Con voce di giubilo date il grande annunzio, fatelo giungere ai confini del mondo”, recita l’Antifona d’ingresso della VI domenica di Pasqua anticipando il messaggio di apertura del Vangelo a tutti i popoli.

Prima lettura

Durante le celebrazioni liturgiche del tempo pasquale si è infatti conosciuta l’opera di evangelizzazione gradualmente rivolta ai pagani e questa domenica la Parola di Dio ci propone proprio l’ascolto del cap. 15 degli Atti degli Apostoli che riferisce le decisioni ufficiali prese dagli “apostoli” e dagli “anziani” nei riguardi dei pagani convertiti al Vangelo. Questo il contesto.

Arrivano ad Antiochia di Siria alcuni che confondono i ‘nuovi’ credenti in Cristo dicendo: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati”. Paolo e Barnaba dissentono animosamente e prendono la decisione di andare a Gerusalemme dove “sono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani”. Viene così indetto un autorevole consesso per risolvere la questione. I “farisei che erano diventati credenti” intervengono per primi esprimendo l’opinione secondo la quale i pagani convertiti debbano essere circoncisi e osservare la Legge di Mosè.

L’apostolo Pietro esprime l’opinione per cui non è necessaria la circoncisione intanto perché “già da molto tempo le nazioni ascoltano la parola del Vangelo” e poi perché ha già sperimentato che anche sui pagani è sceso lo Spirito santo e quindi Dio non fa nessuna discriminazione. È dunque inutile costringere a portare un giogo che non serve più perché nullificato dalla grazia di Gesù per la quale “siamo salvati noi, così come loro”. Paolo e Barnaba fanno presenti “quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le nazioni per mezzo loro”.

Giacomo riprendendo Pietro e citando la Sacra Scrittura (Am 9,11-12) propone un’importante soluzione che viene accolta ed ufficializzata con una lettera scritta ed inviata alle comunità in cui ribadisce il no alla circoncisione ma suggerisce l’osservanza di quelle prescrizioni che permettono ai giudeo-cristiani di frequentare i pagani convertiti senza contrarre l’impurità rituale: “astenersi dalla contaminazione con gli idoli”, cioè dalle carni degli animali sacrificati nei riti pagani, “dalle unioni illegittime”, (gr. porneia) cioè tutte le unioni sessuali irregolari elencate in Lv 18, “dagli animali soffocati”, ritualità pagana (cruenta), non confacente allo sgozzamento rituale, “e dal sangue”, principio della vita (e la vita appartiene solo a Dio!).

Salmo

Si avvia così in modo ufficiale l’annuncio della salvezza a tutte le genti allo stesso modo di come canta l’inno di lode del Salmo responsoriale.

È un Salmo che inizia con la consapevolezza della fragilità umana davanti alla maestà divina (“Dio abbia pietà di noi”) e continua con la richiesta della manifestazione della luce del volto del Signore non per il personale godimento del rapporto privilegiato con il Signore, ma piuttosto perché attraverso loro tutte le genti conoscano la salvezza del Signore.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 15, 1-22. 22-29

SALMO RESPONSORIALE Salmo 66

SECONDA LETTURA Dal Libro dell’Apocalisse 21,10-14. 22-23

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 14,23-29

Seconda lettura

Il libro dell’ Apocalisse prosegue con il messaggio universalistico perché esalta la “città santa, Gerusalemme, che viene dal cielo” e tutti possono usufruire della sua luce perché riflette “la gloria di Dio”.

Essa è descritta con parametri numerici che rimandano all’idea di perfezione perché viene ripetuto il numero 12 che è il numero che significa la totalità della comunità rappresentata dalle 12 “porte” sopra le quali sono riportati i nomi delle 12 tribù e dai 12 “basamenti” sui quali sono i nomi dei 12 apostoli. Tuttavia, la città santa non conserva più il Tempio perché la presenza divina non è più contenibile nelle mura, in quanto è incarnata nel Corpo crocifisso e risorto di Cristo.

Ed è Gesù stesso a garantire la verità della Sua presenza nell’ultimo discorso che tiene ai discepoli prima di essere arrestato, calunniato e condotto al patibolo, secondo quanto riporta l’ evangelista Giovanni. Il messaggio che trasmette è ancora quello dell’amore, ma lo presenta indicando aspettative nuove e più esigenti.

Quanto Gesù proferisce è in risposta a Giuda Taddeo che gli ha chiesto spiegazioni in merito al suo manifestarsi ai discepoli anziché al mondo. Con il suo discorso Gesù sembra deviare la richiesta di Giuda, ma il seguito ci fa comprendere il motivo per cui sono proprio loro i destinatari che poi si faranno portavoce e testimoni del Vangelo nel mondo.

L’obiettivo è alto perché Gesù non parla tanto di sé quanto del rapporto dei discepoli con il Padre: nella misura in cui amano Gesù ed osservano la sua Parola sono per questo amati dal Padre ed ammessi alla comunione con Lui. Tuttavia, Gesù non lascia soli i discepoli perché promette il “Paraclito” (lett. ‘chiamato accanto’) che verrà dopo un periodo di ‘vuoto’ al fine di insegnare e far ricordare -nel significato biblico di ‘rivivere’- le Parole di Gesù.

Inoltre, Gesù dona il più prezioso dei regali che è la “pace” che nella cultura semitica equivale ad uno stato personale di benessere fisico, spirituale e materiale. Ma la ‘pace’ così definita non coincide ancora con quella che elargisce Gesù (“non come la dà il mondo io la do”) che è ad un livello superiore perché consiste in uno stato di comunione d’amore con Lui. È proprio il caso di concludere con le parole dell’Alighieri: “En la sua voluntade è la nostra pace” (Paradiso III,85).

Giuseppina Bruscolotti

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“Con voce di giubilo date il grande annunzio, fatelo giungere ai confini del mondo”, recita l’Antifona d’ingresso della VI domenica di Pasqua anticipando il messaggio di apertura del Vangelo a tutti i popoli.

Prima lettura

Durante le celebrazioni liturgiche del tempo pasquale si è infatti conosciuta l’opera di evangelizzazione gradualmente rivolta ai pagani e questa domenica la Parola di Dio ci propone proprio l’ascolto del cap. 15 degli Atti degli Apostoli che riferisce le decisioni ufficiali prese dagli “apostoli” e dagli “anziani” nei riguardi dei pagani convertiti al Vangelo. Questo il contesto.

Arrivano ad Antiochia di Siria alcuni che confondono i ‘nuovi’ credenti in Cristo dicendo: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati”. Paolo e Barnaba dissentono animosamente e prendono la decisione di andare a Gerusalemme dove “sono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani”. Viene così indetto un autorevole consesso per risolvere la questione. I “farisei che erano diventati credenti” intervengono per primi esprimendo l’opinione secondo la quale i pagani convertiti debbano essere circoncisi e osservare la Legge di Mosè.

L’apostolo Pietro esprime l’opinione per cui non è necessaria la circoncisione intanto perché “già da molto tempo le nazioni ascoltano la parola del Vangelo” e poi perché ha già sperimentato che anche sui pagani è sceso lo Spirito santo e quindi Dio non fa nessuna discriminazione. È dunque inutile costringere a portare un giogo che non serve più perché nullificato dalla grazia di Gesù per la quale “siamo salvati noi, così come loro”. Paolo e Barnaba fanno presenti “quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le nazioni per mezzo loro”.

Giacomo riprendendo Pietro e citando la Sacra Scrittura (Am 9,11-12) propone un’importante soluzione che viene accolta ed ufficializzata con una lettera scritta ed inviata alle comunità in cui ribadisce il no alla circoncisione ma suggerisce l’osservanza di quelle prescrizioni che permettono ai giudeo-cristiani di frequentare i pagani convertiti senza contrarre l’impurità rituale: “astenersi dalla contaminazione con gli idoli”, cioè dalle carni degli animali sacrificati nei riti pagani, “dalle unioni illegittime”, (gr. porneia) cioè tutte le unioni sessuali irregolari elencate in Lv 18, “dagli animali soffocati”, ritualità pagana (cruenta), non confacente allo sgozzamento rituale, “e dal sangue”, principio della vita (e la vita appartiene solo a Dio!).

Salmo

Si avvia così in modo ufficiale l’annuncio della salvezza a tutte le genti allo stesso modo di come canta l’inno di lode del Salmo responsoriale.

È un Salmo che inizia con la consapevolezza della fragilità umana davanti alla maestà divina (“Dio abbia pietà di noi”) e continua con la richiesta della manifestazione della luce del volto del Signore non per il personale godimento del rapporto privilegiato con il Signore, ma piuttosto perché attraverso loro tutte le genti conoscano la salvezza del Signore.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 15, 1-22. 22-29

SALMO RESPONSORIALE Salmo 66

SECONDA LETTURA Dal Libro dell’Apocalisse 21,10-14. 22-23

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 14,23-29

Seconda lettura

Il libro dell’ Apocalisse prosegue con il messaggio universalistico perché esalta la “città santa, Gerusalemme, che viene dal cielo” e tutti possono usufruire della sua luce perché riflette “la gloria di Dio”.

Essa è descritta con parametri numerici che rimandano all’idea di perfezione perché viene ripetuto il numero 12 che è il numero che significa la totalità della comunità rappresentata dalle 12 “porte” sopra le quali sono riportati i nomi delle 12 tribù e dai 12 “basamenti” sui quali sono i nomi dei 12 apostoli. Tuttavia, la città santa non conserva più il Tempio perché la presenza divina non è più contenibile nelle mura, in quanto è incarnata nel Corpo crocifisso e risorto di Cristo.

Ed è Gesù stesso a garantire la verità della Sua presenza nell’ultimo discorso che tiene ai discepoli prima di essere arrestato, calunniato e condotto al patibolo, secondo quanto riporta l’ evangelista Giovanni. Il messaggio che trasmette è ancora quello dell’amore, ma lo presenta indicando aspettative nuove e più esigenti.

Quanto Gesù proferisce è in risposta a Giuda Taddeo che gli ha chiesto spiegazioni in merito al suo manifestarsi ai discepoli anziché al mondo. Con il suo discorso Gesù sembra deviare la richiesta di Giuda, ma il seguito ci fa comprendere il motivo per cui sono proprio loro i destinatari che poi si faranno portavoce e testimoni del Vangelo nel mondo.

L’obiettivo è alto perché Gesù non parla tanto di sé quanto del rapporto dei discepoli con il Padre: nella misura in cui amano Gesù ed osservano la sua Parola sono per questo amati dal Padre ed ammessi alla comunione con Lui. Tuttavia, Gesù non lascia soli i discepoli perché promette il “Paraclito” (lett. ‘chiamato accanto’) che verrà dopo un periodo di ‘vuoto’ al fine di insegnare e far ricordare -nel significato biblico di ‘rivivere’- le Parole di Gesù.

Inoltre, Gesù dona il più prezioso dei regali che è la “pace” che nella cultura semitica equivale ad uno stato personale di benessere fisico, spirituale e materiale. Ma la ‘pace’ così definita non coincide ancora con quella che elargisce Gesù (“non come la dà il mondo io la do”) che è ad un livello superiore perché consiste in uno stato di comunione d’amore con Lui. È proprio il caso di concludere con le parole dell’Alighieri: “En la sua voluntade è la nostra pace” (Paradiso III,85).

Giuseppina Bruscolotti

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Amatevi gli uni gli altri https://www.lavoce.it/amatevi-uni-altri/ Fri, 17 May 2019 11:25:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54532 logo reubrica commento al Vangelo

“Paolo e Barnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede”: è quanto leggiamo nella I Lettura della V domenica di Pasqua.

Prima lettura

Il brano è tratto dagli Atti degli Apostoli ed il contesto è quello della fase conclusiva del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba.

Nonostante le ostilità incontrate soprattutto da parte di alcuni giudei, i due apostoli hanno potuto annunciare la Parola di Dio e l’esito complessivo è stato decisamente fruttuoso. Allora si presenta la necessità di ‘ritornare’ presso le città evangelizzate per designare “alcuni anziani” che fungano da guide e maestri delle comunità dei credenti in Cristo.

In soli cinque versetti sono nominate ben sei città e due regioni (dell’attuale Turchia) che Paolo e Barnaba attraversano per evangelizzare e confermare nella fede, dopodiché anch’essi ‘ritornano’ nella città delle origini missionarie, Antiochia di Siria, per riferire l’entusiasmante notizia di come Dio “avesse aperto ai pagani la porta della fede” per mezzo loro. Questo dinamismo missionario ottiene quindi di realizzare l’invito di Gesù di “evangelizzare tutte le nazioni” (Mt 28,19) e questo respiro universalistico è già prospettato nel Salmo responsoriale con cui rispondiamo alla I Lettura.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 14,21b-27

SALMO RESPONSORIALE Salmo 144

SECONDA LETTURA Dal Libro dell’Apocalisse 21,1-5a

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 13,31-33a.34-35

Salmo

Il Salmo 144 (145) è infatti una lode al Signore ‘attribuita’ a David e scandita in forma alfabetica i cui versetti delle lettere centrali (Chet-Mem) sono quelli che ci riguardano ed insistono sulla totalità degli esseri viventi che il Signore vuole raggiungere: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature ... per far conoscere agli uomini le (sue) imprese”.

Seconda lettura

Il messaggio dell’universalità salvifica lo ascoltiamo anche dal Libro dell’Apocalisse. La pagina è tratta dal capitolo 21, il penultimo di tutta la Sacra Scrittura, ed è straordinariamente suggestivo perché, dopo la sconfitta definitiva del male che viene descritta nei capitoli immediatamente precedenti, ora è il momento della vittoria e della gloria definitive, l’incombere festoso della Gerusalemme celeste.

Essa è presentata con il ripetersi dell’aggettivo ‘nuovo’ proprio per sottolineare un legame rinnovato con il Signore e perciò in questa “città santa” non c’è più “il mare” considerato appunto nella mentalità giudaica la sede delle energie contrarie a Dio. Inoltre la relazione tra Gerusalemme e il Signore è presentata con il linguaggio amoroso ed intimo: la “sposa adorna per il suo sposo” ... “essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro”.

Il legame del Signore con Gerusalemme ed esteso a tutti i popoli è quindi basato sulla reciproca appartenenza e garantito dalla perennità della presenza divina (“la tenda di Dio con gli uomini”), nonché caratterizzato dall’assenza del dolore e del lutto. Ormai si tratta di una prospettiva mai prima vissuta: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni ci presenta l’ambito in cui Gesù consegna il comandamento ‘nuovo’ dell’amore. È il momento in cui Gesù si trova nel cenacolo e Giuda è appena uscito per andare a tradirlo, perciò quanto dice ora ai discepoli lo dice con la consapevolezza nel cuore e nella mente di aver iniziato la Sua Passione.

Nonostante questo, Egli parla della gloria del “Figlio dell’uomo”. Il Suo discorso inizia con l’avverbio di tempo ‘ora’, avverbio che pochi versetti prima (12,23.27) è stato usato per introdurre l’‘ora’ che Gesù vive in questa notte dopo l’Ultima Cena e che Gli donerà la ‘glorificazione’.

Non parla in prima persona, ma con il titolo di ‘Figlio dell’uomo’ secondo la profezia di Daniele che aveva additato il Messia proprio con questo titolo. La gloria che Lo distinguerà non è qualcosa di astratto come possiamo pensare nella odierna mentalità. Il termine greco (doxa) che qui è tradotto con ‘gloria’ non si rifà al significato classico (‘opinione’) ma al corrispondente ebraico dell’Antico Testamento (kabod) ed esprime il concetto di pesantezza, di spessore.

Insomma, la glorificazione del Figlio dell’uomo eserciterà una potenza tangibile che passerà attraverso la cruda Passione e l’orribile Morte. E, sempre parlando in terza persona, Gesù fa presente l’unità e la reciprocità che c’è con il Padre: “Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua”.

Premessa questa comunione d’amore tra Gesù e il Padre, il discorso si rivolge ai discepoli, discorso che è il“comandamento nuovo” e in un certo modo il testamento di Gesù: “che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. L’accento è da porre sul “come” (gr. kathos), ovvero si potrebbe dire nella misura in cui ... o dal momento che ...nonostante le fragilità umane (dubbi, rinnegamento, tradimento) Gesù ha amato i discepoli a tutti costi.

Così li avvisa anticipando che anche tra loro ci saranno incomprensioni, fraintendimenti, eccetera, eppure l’amore reciproco è il banco di prova e il motivo della stima e della riconoscenza da parte degli altri: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

Il comandamento dell’amore è quindi straordinariamente potente e incoraggiante: i cristiani possono anche essere perseguitati o subire attentati, ma se tra di loro c’è amore reciproco, l’adesione a Cristo e alla Sua Chiesa nessuno la può fermare.

Giuseppina Bruscolotti

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“Paolo e Barnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede”: è quanto leggiamo nella I Lettura della V domenica di Pasqua.

Prima lettura

Il brano è tratto dagli Atti degli Apostoli ed il contesto è quello della fase conclusiva del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba.

Nonostante le ostilità incontrate soprattutto da parte di alcuni giudei, i due apostoli hanno potuto annunciare la Parola di Dio e l’esito complessivo è stato decisamente fruttuoso. Allora si presenta la necessità di ‘ritornare’ presso le città evangelizzate per designare “alcuni anziani” che fungano da guide e maestri delle comunità dei credenti in Cristo.

In soli cinque versetti sono nominate ben sei città e due regioni (dell’attuale Turchia) che Paolo e Barnaba attraversano per evangelizzare e confermare nella fede, dopodiché anch’essi ‘ritornano’ nella città delle origini missionarie, Antiochia di Siria, per riferire l’entusiasmante notizia di come Dio “avesse aperto ai pagani la porta della fede” per mezzo loro. Questo dinamismo missionario ottiene quindi di realizzare l’invito di Gesù di “evangelizzare tutte le nazioni” (Mt 28,19) e questo respiro universalistico è già prospettato nel Salmo responsoriale con cui rispondiamo alla I Lettura.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 14,21b-27

SALMO RESPONSORIALE Salmo 144

SECONDA LETTURA Dal Libro dell’Apocalisse 21,1-5a

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 13,31-33a.34-35

Salmo

Il Salmo 144 (145) è infatti una lode al Signore ‘attribuita’ a David e scandita in forma alfabetica i cui versetti delle lettere centrali (Chet-Mem) sono quelli che ci riguardano ed insistono sulla totalità degli esseri viventi che il Signore vuole raggiungere: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature ... per far conoscere agli uomini le (sue) imprese”.

Seconda lettura

Il messaggio dell’universalità salvifica lo ascoltiamo anche dal Libro dell’Apocalisse. La pagina è tratta dal capitolo 21, il penultimo di tutta la Sacra Scrittura, ed è straordinariamente suggestivo perché, dopo la sconfitta definitiva del male che viene descritta nei capitoli immediatamente precedenti, ora è il momento della vittoria e della gloria definitive, l’incombere festoso della Gerusalemme celeste.

Essa è presentata con il ripetersi dell’aggettivo ‘nuovo’ proprio per sottolineare un legame rinnovato con il Signore e perciò in questa “città santa” non c’è più “il mare” considerato appunto nella mentalità giudaica la sede delle energie contrarie a Dio. Inoltre la relazione tra Gerusalemme e il Signore è presentata con il linguaggio amoroso ed intimo: la “sposa adorna per il suo sposo” ... “essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro”.

Il legame del Signore con Gerusalemme ed esteso a tutti i popoli è quindi basato sulla reciproca appartenenza e garantito dalla perennità della presenza divina (“la tenda di Dio con gli uomini”), nonché caratterizzato dall’assenza del dolore e del lutto. Ormai si tratta di una prospettiva mai prima vissuta: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni ci presenta l’ambito in cui Gesù consegna il comandamento ‘nuovo’ dell’amore. È il momento in cui Gesù si trova nel cenacolo e Giuda è appena uscito per andare a tradirlo, perciò quanto dice ora ai discepoli lo dice con la consapevolezza nel cuore e nella mente di aver iniziato la Sua Passione.

Nonostante questo, Egli parla della gloria del “Figlio dell’uomo”. Il Suo discorso inizia con l’avverbio di tempo ‘ora’, avverbio che pochi versetti prima (12,23.27) è stato usato per introdurre l’‘ora’ che Gesù vive in questa notte dopo l’Ultima Cena e che Gli donerà la ‘glorificazione’.

Non parla in prima persona, ma con il titolo di ‘Figlio dell’uomo’ secondo la profezia di Daniele che aveva additato il Messia proprio con questo titolo. La gloria che Lo distinguerà non è qualcosa di astratto come possiamo pensare nella odierna mentalità. Il termine greco (doxa) che qui è tradotto con ‘gloria’ non si rifà al significato classico (‘opinione’) ma al corrispondente ebraico dell’Antico Testamento (kabod) ed esprime il concetto di pesantezza, di spessore.

Insomma, la glorificazione del Figlio dell’uomo eserciterà una potenza tangibile che passerà attraverso la cruda Passione e l’orribile Morte. E, sempre parlando in terza persona, Gesù fa presente l’unità e la reciprocità che c’è con il Padre: “Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua”.

Premessa questa comunione d’amore tra Gesù e il Padre, il discorso si rivolge ai discepoli, discorso che è il“comandamento nuovo” e in un certo modo il testamento di Gesù: “che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. L’accento è da porre sul “come” (gr. kathos), ovvero si potrebbe dire nella misura in cui ... o dal momento che ...nonostante le fragilità umane (dubbi, rinnegamento, tradimento) Gesù ha amato i discepoli a tutti costi.

Così li avvisa anticipando che anche tra loro ci saranno incomprensioni, fraintendimenti, eccetera, eppure l’amore reciproco è il banco di prova e il motivo della stima e della riconoscenza da parte degli altri: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

Il comandamento dell’amore è quindi straordinariamente potente e incoraggiante: i cristiani possono anche essere perseguitati o subire attentati, ma se tra di loro c’è amore reciproco, l’adesione a Cristo e alla Sua Chiesa nessuno la può fermare.

Giuseppina Bruscolotti

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Il Pastore e le pecore https://www.lavoce.it/pastore-pecore/ Fri, 10 May 2019 08:00:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54482 logo reubrica commento al Vangelo

“ È risorto il buon Pastore, che ha dato la vita per le sue pecorelle, e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia”: è quanto recita l’Antifona di comunione della IV domenica di Pasqua, domenica che la liturgia dedica a Gesù Buon Pastore. Sul modello di Cristo, il vero pastore si riconosce quindi dalla sua disponibilità a dare la vita per quanti gli sono affidati, così come testimoniano i protagonisti delle Letture.

Prima lettura

La I lettura è tratta dal capitolo 13 degli Atti degli Apostoli ed il contesto è quello del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. I due apostoli giungono ad Antiochia di Pisidia (nell’attuale Turchia) ed entrati nella sinagoga nel giorno di sabato e, dopo aver ascoltato i brani della Legge e dei Profeti, Paolo tiene il suo primo discorso attraverso il quale ripercorre i passaggi fondamentali della storia della salvezza per arrivare ad additare Cristo, morto e risorto, quale Messia da sempre atteso da Israele.

Questa sua prima evangelizzazione ha un così grande successo che il sabato seguente “quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore”, ma ciò suscita la gelosia dei Giudei che cominciano a pronunciare ingiurie nei riguardi di Paolo e Barnaba. Il rifiuto da parte dei Giudei segna tuttavia una svolta missionaria: Paolo e Barnaba decidono di rivolgersi ai pagani che accolgono con gioia e da lì in poi “la parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”.

E nonostante questo, vengono nuovamente perseguitati e costretti a scappare, ma essi continuano a vedere negli ostacoli dei segni provvidenziali e, “pieni di gioia e di Spirito Santo”, si dirigono ad evangelizzare un’altra città: Iconio.

Salmo

Al messaggio gioioso della prima lettura rispondiamo con il Salmo 99 (100) che è un vero e proprio inno dossologico che veniva cantato all’entrata del santuario dove vi si recavano per l’espletamento dei sacrifici di comunione (Lv 7). Recita infatti: “presentatevi a lui con esultanza ... varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 13,14,43-52

SALMO RESPONSORIALE Salmo 99

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse 7,9.14b-17

VANGELO Vangelo di Giovanni 10,27-30

Seconda lettura

Mentre il Salmo ci introduce nel Tempio, luogo della presenza divina, il libro dell’ Apocalisse ci conduce alla mistica visione dei martiri che già godono della beatitudine eterna.

Interessante è la descrizione che l’autore Giovanni fa di coloro che sono stati uccisi per la causa di Cristo: è incalcolabile il loro numero, provengono da tutti i popoli della terra, indossano vesti bianche, tengono la palma nelle mani e, soprattutto, stanno “in piedi davanti al trono” sono cioè vincitori. Provengono dalla “grande tribolazione”, (probabile allusione alla persecuzione di Nerone) ed il motivo del candore delle loro vesti sta nell’aver lavato le stesse nel sangue di Cristo (!).

Inoltre sono investiti di speciali privilegi come quello di stare giorno e notte presso il trono di Dio, di essere sciolti dai limiti della natura umana, e di godere della consolazione dell’Agnello, “loro pastore”.

Vangelo

E del Pastore ‘Buono’ ci parla la pagina del Vangelo secondo Giovanni che, seppur limitata a soli quattro versetti, presenta un ‘fondante’ messaggio teologico. La circostanza è quella della Festa della Dedicazione, ovvero di una festa molto importante per il mondo giudaico che (ancora oggi) celebra per otto giorni il ricordo dell’impresa di Giuda Maccabeo che nel 164 a. C. liberò il tempio dalle profanazioni che vi aveva introdotte Antioco IV e dedicò di nuovo il luogo sacro al Signore, Dio di Israele.

Durante questa festa, Gesù si trova a camminare nel tempio dove viene interpellato dai Giudei cui dà delle risposte, tra le quali quelle che riguardano il nostro brano. Rifacendosi con molta probabilità al libro del profeta Ezechiele (che sembra venisse proclamato in quella festività liturgica) Gesù rivolge il Suo discorso in merito al Buon Pastore e, nello specifico, parla qui del Suo rapporto con le ‘pecore’. Del Pastore dice che ‘conosce’ le Sue pecore; delle pecore afferma che Lo ascoltano e Lo seguono.

Gesù parla in prima persona identificandosi con il Pastore e si riferisce anche alla relazione con quanti stanno di fronte a Lui: Lo interrogano sulla Sua identità (“Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”), ma non Lo ascoltano e non Lo seguono.

L’elemento che sta alla base è perciò la libertà: chi vuole ascoltare, consapevolmente decide di accogliere e di seguire il Pastore. E la tenerezza del Pastore fa sì che le ‘pecore’ siano al sicuro in eterno nelle Sue mani perché il Suo potere è assoluto e nessuno può portarle via. C’è poi un passaggio importante. Dopo aver reso noto il Suo rapporto con le ‘pecore’, Gesù fa convergere l’attenzione verso il Suo legame con il Padre.

È il Padre che dona al Figlio le ‘pecore’ e in sostanza sono Sue perché “nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Poi segue la conclusione del brano con un’affermazione che manda su tutte le furie i Giudei tanto che volevano lapidarLo (10,31-39): “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Gesù, Buon Pastore, è modello dei ‘pastori’, in definitiva di tutti noi. Confrontiamoci con Lui: quanta attenzione dimostriamo verso quanti ci riguardano?

Siamo consapevoli che non sono nostra proprietà ma appartengono al Signore?

Soprattutto, sappiamo essere ‘voci’ e ‘guide’ autorevoli? La cura del legame con il Signore ci fa essere in grado di dare agli altri molto più di quanto le nostre potenzialità da sole potrebbero fare.

Giuseppina Bruscolotti

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“ È risorto il buon Pastore, che ha dato la vita per le sue pecorelle, e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia”: è quanto recita l’Antifona di comunione della IV domenica di Pasqua, domenica che la liturgia dedica a Gesù Buon Pastore. Sul modello di Cristo, il vero pastore si riconosce quindi dalla sua disponibilità a dare la vita per quanti gli sono affidati, così come testimoniano i protagonisti delle Letture.

Prima lettura

La I lettura è tratta dal capitolo 13 degli Atti degli Apostoli ed il contesto è quello del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. I due apostoli giungono ad Antiochia di Pisidia (nell’attuale Turchia) ed entrati nella sinagoga nel giorno di sabato e, dopo aver ascoltato i brani della Legge e dei Profeti, Paolo tiene il suo primo discorso attraverso il quale ripercorre i passaggi fondamentali della storia della salvezza per arrivare ad additare Cristo, morto e risorto, quale Messia da sempre atteso da Israele.

Questa sua prima evangelizzazione ha un così grande successo che il sabato seguente “quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore”, ma ciò suscita la gelosia dei Giudei che cominciano a pronunciare ingiurie nei riguardi di Paolo e Barnaba. Il rifiuto da parte dei Giudei segna tuttavia una svolta missionaria: Paolo e Barnaba decidono di rivolgersi ai pagani che accolgono con gioia e da lì in poi “la parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”.

E nonostante questo, vengono nuovamente perseguitati e costretti a scappare, ma essi continuano a vedere negli ostacoli dei segni provvidenziali e, “pieni di gioia e di Spirito Santo”, si dirigono ad evangelizzare un’altra città: Iconio.

Salmo

Al messaggio gioioso della prima lettura rispondiamo con il Salmo 99 (100) che è un vero e proprio inno dossologico che veniva cantato all’entrata del santuario dove vi si recavano per l’espletamento dei sacrifici di comunione (Lv 7). Recita infatti: “presentatevi a lui con esultanza ... varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 13,14,43-52

SALMO RESPONSORIALE Salmo 99

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse 7,9.14b-17

VANGELO Vangelo di Giovanni 10,27-30

Seconda lettura

Mentre il Salmo ci introduce nel Tempio, luogo della presenza divina, il libro dell’ Apocalisse ci conduce alla mistica visione dei martiri che già godono della beatitudine eterna.

Interessante è la descrizione che l’autore Giovanni fa di coloro che sono stati uccisi per la causa di Cristo: è incalcolabile il loro numero, provengono da tutti i popoli della terra, indossano vesti bianche, tengono la palma nelle mani e, soprattutto, stanno “in piedi davanti al trono” sono cioè vincitori. Provengono dalla “grande tribolazione”, (probabile allusione alla persecuzione di Nerone) ed il motivo del candore delle loro vesti sta nell’aver lavato le stesse nel sangue di Cristo (!).

Inoltre sono investiti di speciali privilegi come quello di stare giorno e notte presso il trono di Dio, di essere sciolti dai limiti della natura umana, e di godere della consolazione dell’Agnello, “loro pastore”.

Vangelo

E del Pastore ‘Buono’ ci parla la pagina del Vangelo secondo Giovanni che, seppur limitata a soli quattro versetti, presenta un ‘fondante’ messaggio teologico. La circostanza è quella della Festa della Dedicazione, ovvero di una festa molto importante per il mondo giudaico che (ancora oggi) celebra per otto giorni il ricordo dell’impresa di Giuda Maccabeo che nel 164 a. C. liberò il tempio dalle profanazioni che vi aveva introdotte Antioco IV e dedicò di nuovo il luogo sacro al Signore, Dio di Israele.

Durante questa festa, Gesù si trova a camminare nel tempio dove viene interpellato dai Giudei cui dà delle risposte, tra le quali quelle che riguardano il nostro brano. Rifacendosi con molta probabilità al libro del profeta Ezechiele (che sembra venisse proclamato in quella festività liturgica) Gesù rivolge il Suo discorso in merito al Buon Pastore e, nello specifico, parla qui del Suo rapporto con le ‘pecore’. Del Pastore dice che ‘conosce’ le Sue pecore; delle pecore afferma che Lo ascoltano e Lo seguono.

Gesù parla in prima persona identificandosi con il Pastore e si riferisce anche alla relazione con quanti stanno di fronte a Lui: Lo interrogano sulla Sua identità (“Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”), ma non Lo ascoltano e non Lo seguono.

L’elemento che sta alla base è perciò la libertà: chi vuole ascoltare, consapevolmente decide di accogliere e di seguire il Pastore. E la tenerezza del Pastore fa sì che le ‘pecore’ siano al sicuro in eterno nelle Sue mani perché il Suo potere è assoluto e nessuno può portarle via. C’è poi un passaggio importante. Dopo aver reso noto il Suo rapporto con le ‘pecore’, Gesù fa convergere l’attenzione verso il Suo legame con il Padre.

È il Padre che dona al Figlio le ‘pecore’ e in sostanza sono Sue perché “nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Poi segue la conclusione del brano con un’affermazione che manda su tutte le furie i Giudei tanto che volevano lapidarLo (10,31-39): “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Gesù, Buon Pastore, è modello dei ‘pastori’, in definitiva di tutti noi. Confrontiamoci con Lui: quanta attenzione dimostriamo verso quanti ci riguardano?

Siamo consapevoli che non sono nostra proprietà ma appartengono al Signore?

Soprattutto, sappiamo essere ‘voci’ e ‘guide’ autorevoli? La cura del legame con il Signore ci fa essere in grado di dare agli altri molto più di quanto le nostre potenzialità da sole potrebbero fare.

Giuseppina Bruscolotti

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“Gettate la rete” https://www.lavoce.it/gettate-la-rete/ Fri, 03 May 2019 08:19:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54449 logo reubrica commento al Vangelo

“Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” risponde “Pietro insieme agli apostoli” al sommo sacerdote che li ha interrogati di fronte a tutto il sinedrio.

Prima lettura

È quanto ascoltiamo dalla I Lettura della III domenica di Pasqua tratta dal capitolo 5 degli Atti degli Apostoli. Questo il contesto. In seguito alla Pentecoste e intorno alla predicazione apostolica si verificano segni, prodigi, conversioni, guarigioni e liberazioni in numero così considerevole che ciò scatena la gelosia del sommo sacerdote e dei sadducei che fanno arrestare gli apostoli.

Nel corso della notte, essi vengono liberati da un angelo del Signore che li invita a recarsi al tempio per annunciare la Parola. È nel momento in cui essi predicano al popolo che vengono di nuovo presi e condotti innanzi al sinedrio per dare ragione della loro iniziativa.

Pietro approfitta così di annunciare e testimoniare Cristo, crocifisso, risorto e innalzato alla destra di Dio. L’episodio termina con la flagellazione cui vengono sottoposti gli apostoli che, anziché segnare una sconfitta, per essi è un onore perché “se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 5,27b-32.40b-41

SALMO RESPONSORIALE Salmo 29

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse 5,11-14

VANGELO Vangelo di Giovanni 21,1-19

Salmo

La liturgia ci propone per cui di rispondere a questo ‘gioioso’ martirio con le parole del Salmo 29 intitolato a Davide, il re che esalta il Signore per averlo scampato dalla furia omicida dei suoi rivali. Ringrazia infatti il Signore che non ha permesso ai suoi nemici di prevalere su di lui, lo ha preservato dalla discesa nella tomba, gli ha cambiato il lamento in danza e afferma che la Sua bontà è “per tutta la vita”.

Seconda lettura

La II Lettura tratta dal libro dell’Apocalisse ci presenta una parte dell’inno di lode rivolto all’Agnello.

L’Apocalisse si apre con le lettere destinate alle sette chiese d’Asia e continua con la suggestiva visione della maestà di Dio che consegna all’Agnello il libro che solo Lui può aprire. In questo contesto “i quattro esseri viventi e i ventiquattro anziani ... cantavano un canto nuovo” (Ez 1,5) la cui parte conclusiva è quella che ci riguarda.

L’autore Giovanni fa notare che gli angeli attorno al trono di Dio sono “miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”, dicitura questa con cui si definivano i comparti militari (la miriade coincideva con 10.000 unità), come a voler dire che tutto l’esercito del Signore era lì al Suo cospetto. Ebbene, tutta questa schiera incalcolabile canta all’Agnello immolato.

L’Agnello ha impressi in sé i segni del supplizio, ma sta in piedi, in atteggiamento trionfante e vincitore. Il Suo sacrificio è stato offerto a favore dell’intera umanità e l’Autore per esprimere la totalità assoluta dei credenti che inneggiano all’Agnello usa un’immagine onnicomprensiva: “tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano”, insomma tutti i viventi tributano all’Agnello “lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni presenta un aspetto in sintonia con la I lettura: il ruolo del tutto particolare che riveste Pietro. Dopo le due apparizioni ai discepoli “in casa”, l’evangelista riferisce l’incontro che si svolge presso il lago di Tiberiade tra Gesù e sette dei Suoi discepoli.

Anche in questo caso, a prendere l’iniziativa è Pietro che dice di dirigersi a pescare e così lo seguono gli altri, “ma quella notte non presero nulla”. Pur non riconoscendo Gesù, i discepoli accolgono l’invito a gettare la rete dalla parte destra della barca e “non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci”.

Gesù ha chiesto di mettere in atto una tecnica che sconvolge la metodologia lavorativa fin lì attuata, ma questa metodologia risulta assolutamente efficace e feconda. È interessante notare come a riconoscere Gesù sia Giovanni (“È il Signore!”), ma a cingersi la veste (notare la delicatezza di Pietro!) e a gettarsi in mare sia Pietro.

D’improvviso la scena si sposta sulla riva dove c’è già il fuoco, il pesce e il pane ma Gesù chiede del pesce anche al gruppo e pure qui è Pietro a recarsi a tirare da solo la rete piena di 153 grossi pesci (numero delle specie di pesci allora conosciute) e l’incontro si completa con le parole dell’Ultima Cena: “prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce”. Pietro ha dato il meglio di sé eppure non basta. Gesù gli chiede per due volte se Lo preferisce, cioè se il suo amore per Lui è superiore a quello che provano gli altri (gr. agapao).

Pietro ognuna delle due volte, forse per umiltà, risponde di voler bene a Gesù (gr. fileo).

Allora una terza volta Gesù interroga Pietro, ma questa volta con le sue stesse parole, e Pietro: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.

È la triplice dichiarazione d’amore e di fedeltà che riabilita Pietro e che, come è nella dialettica ebraica per cui la ripetizione esprime il superlativo assoluto, così Pietro definitivamente si compromette per Cristo anticipando la disponibilità a donare la vita per Lui e per la Chiesa ... così come fa ancora oggi!

Giuseppina Bruscolotti

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“Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” risponde “Pietro insieme agli apostoli” al sommo sacerdote che li ha interrogati di fronte a tutto il sinedrio.

Prima lettura

È quanto ascoltiamo dalla I Lettura della III domenica di Pasqua tratta dal capitolo 5 degli Atti degli Apostoli. Questo il contesto. In seguito alla Pentecoste e intorno alla predicazione apostolica si verificano segni, prodigi, conversioni, guarigioni e liberazioni in numero così considerevole che ciò scatena la gelosia del sommo sacerdote e dei sadducei che fanno arrestare gli apostoli.

Nel corso della notte, essi vengono liberati da un angelo del Signore che li invita a recarsi al tempio per annunciare la Parola. È nel momento in cui essi predicano al popolo che vengono di nuovo presi e condotti innanzi al sinedrio per dare ragione della loro iniziativa.

Pietro approfitta così di annunciare e testimoniare Cristo, crocifisso, risorto e innalzato alla destra di Dio. L’episodio termina con la flagellazione cui vengono sottoposti gli apostoli che, anziché segnare una sconfitta, per essi è un onore perché “se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 5,27b-32.40b-41

SALMO RESPONSORIALE Salmo 29

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse 5,11-14

VANGELO Vangelo di Giovanni 21,1-19

Salmo

La liturgia ci propone per cui di rispondere a questo ‘gioioso’ martirio con le parole del Salmo 29 intitolato a Davide, il re che esalta il Signore per averlo scampato dalla furia omicida dei suoi rivali. Ringrazia infatti il Signore che non ha permesso ai suoi nemici di prevalere su di lui, lo ha preservato dalla discesa nella tomba, gli ha cambiato il lamento in danza e afferma che la Sua bontà è “per tutta la vita”.

Seconda lettura

La II Lettura tratta dal libro dell’Apocalisse ci presenta una parte dell’inno di lode rivolto all’Agnello.

L’Apocalisse si apre con le lettere destinate alle sette chiese d’Asia e continua con la suggestiva visione della maestà di Dio che consegna all’Agnello il libro che solo Lui può aprire. In questo contesto “i quattro esseri viventi e i ventiquattro anziani ... cantavano un canto nuovo” (Ez 1,5) la cui parte conclusiva è quella che ci riguarda.

L’autore Giovanni fa notare che gli angeli attorno al trono di Dio sono “miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”, dicitura questa con cui si definivano i comparti militari (la miriade coincideva con 10.000 unità), come a voler dire che tutto l’esercito del Signore era lì al Suo cospetto. Ebbene, tutta questa schiera incalcolabile canta all’Agnello immolato.

L’Agnello ha impressi in sé i segni del supplizio, ma sta in piedi, in atteggiamento trionfante e vincitore. Il Suo sacrificio è stato offerto a favore dell’intera umanità e l’Autore per esprimere la totalità assoluta dei credenti che inneggiano all’Agnello usa un’immagine onnicomprensiva: “tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano”, insomma tutti i viventi tributano all’Agnello “lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni presenta un aspetto in sintonia con la I lettura: il ruolo del tutto particolare che riveste Pietro. Dopo le due apparizioni ai discepoli “in casa”, l’evangelista riferisce l’incontro che si svolge presso il lago di Tiberiade tra Gesù e sette dei Suoi discepoli.

Anche in questo caso, a prendere l’iniziativa è Pietro che dice di dirigersi a pescare e così lo seguono gli altri, “ma quella notte non presero nulla”. Pur non riconoscendo Gesù, i discepoli accolgono l’invito a gettare la rete dalla parte destra della barca e “non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci”.

Gesù ha chiesto di mettere in atto una tecnica che sconvolge la metodologia lavorativa fin lì attuata, ma questa metodologia risulta assolutamente efficace e feconda. È interessante notare come a riconoscere Gesù sia Giovanni (“È il Signore!”), ma a cingersi la veste (notare la delicatezza di Pietro!) e a gettarsi in mare sia Pietro.

D’improvviso la scena si sposta sulla riva dove c’è già il fuoco, il pesce e il pane ma Gesù chiede del pesce anche al gruppo e pure qui è Pietro a recarsi a tirare da solo la rete piena di 153 grossi pesci (numero delle specie di pesci allora conosciute) e l’incontro si completa con le parole dell’Ultima Cena: “prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce”. Pietro ha dato il meglio di sé eppure non basta. Gesù gli chiede per due volte se Lo preferisce, cioè se il suo amore per Lui è superiore a quello che provano gli altri (gr. agapao).

Pietro ognuna delle due volte, forse per umiltà, risponde di voler bene a Gesù (gr. fileo).

Allora una terza volta Gesù interroga Pietro, ma questa volta con le sue stesse parole, e Pietro: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.

È la triplice dichiarazione d’amore e di fedeltà che riabilita Pietro e che, come è nella dialettica ebraica per cui la ripetizione esprime il superlativo assoluto, così Pietro definitivamente si compromette per Cristo anticipando la disponibilità a donare la vita per Lui e per la Chiesa ... così come fa ancora oggi!

Giuseppina Bruscolotti

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“Non peccare più” https://www.lavoce.it/non-peccare-piu/ Fri, 05 Apr 2019 09:27:11 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54311 logo reubrica commento al Vangelo

“Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo”: sono le parole con cui l’evangelista Giovanni ritrae la scena che è l’inizio della nuova vita di una donna a cui è capitato di fare l’indimenticabile incontro con Gesù.

Prima lettura

E di vita nuova si parla già nella I Lettura di questa V domenica di Quaresima dove il profeta Isaia osa fino al punto di definire “cosa nuova” la storia che sta per iniziare. Il popolo si trova esiliato a Babilonia, ma ora il tempo della lontananza è terminato e sprona a credere possibili situazioni ritenute ormai spacciate.

Si rivolge infatti ai deportati e garantisce loro che, come si sono avverate le profezie di punizione, così si avvereranno anche gli annunci di liberazione dalla condizione di esiliati perché potranno ritornare in patria. E propone l’immagine del ‘germoglio’: come esso fiorisce all’improvviso pur essendo già in lui la vita, ma nascosta, non ancora aperta, così il profeta invita ad intravvedere come imminente la salvezza.

Salmo

A questo consolante e rincuorante messaggio, la liturgia propone di rispondere con il Salmo 125 (126) che è dominato da stati d’animo esaltanti: sogno, sorriso, gioia (2 v.), pienezza di gioia. È la conseguenza della ristabilita condizione di libertà dopo l’esilio babilonese, il tutto avvalorato dal simbolismo agricolo per cui chi semina lo fa con la tristezza e il timore di non riuscire a vedere i frutti, poi quando sopraggiunge il tempo della mietitura è traboccante di gioia per l’insperato e abbondante raccolto.

Seconda lettura

Dalla lettera ai Filippesi leggiamo il passaggio in cui l’apostolo Paolo istruisce i credenti in merito all’atteggiamento giusto da avere nei riguardi della Legge mosaica. Si sono infatti inseriti tra i Filippesi alcuni ‘maestri’ che avrebbero convinto i pagani convertiti al Vangelo ad assecondare la Legge giudaica e così farsi circoncidere per essere considerati dei veri discepoli di Cristo. Ma Paolo come è affermato nel versetto precedente al nostro brano - è “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino” eppure queste cose che lui riteneva “guadagni” ora “a motivo di Cristo” le considera una “perdita”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Libro di Isaia 43,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 125

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai filippesi 3,8-14

VANGELO Vangelo di Giovanni 8,1-11

L’incontro con Cristo gli ha provocato un’impostazione ‘nuova’ della vita, non più fondata sulla giustizia “derivante dalla Legge, ma (su) quella che viene dalla fede in Cristo”. L’Apostolo non si ritiene tuttavia ‘arrivato’ e con una metafora agonistica parla di se stesso come di un corridore che, per non perdere tempo, non guarda indietro al tragitto già percorso ma è continuamente proteso verso la mèta che è la comunione con Cristo.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni ci riporta un episodio relativo agli ultimi tempi della vita terrena di Gesù in quanto è nominato il ‘monte degli Ulivi’ e la sua costante attività di predicatore nel tempio, attività descritta in tutta la sua notorietà e solennità: “tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro”.

Al fine di screditare Gesù agli occhi del popolo che pendeva dalle sue labbra, gli scribi e i farisei conducono nel “mezzo” una donna adultera non perché interessati a lei, ma per trarre in inganno Gesù. Se Gesù l’avesse condannata, sarebbe fallito il suo insegnamento sul perdono, se l’avesse scusata si sarebbe dimostrato un profanatore della Legge di Mosè.

Effettivamente la Legge condannava severamente l’adulterio con la pena capitale dei due (Lv 20,10) o con la lapidazione alla “porta della città” di entrambi (Dt 22,24) e questo al fine di eliminare “di mezzo a te il male”.

“Scagliare la prima pietra” coincideva con il diritto che aveva il testimone oculare (Dt 17,7) di infiggere appunto il primo colpo perché poi avrebbe continuato “tutto il popolo” a colpire e ad eliminare i peccatori (Dt 13,10). Gesù a questa provocazione ‘risponde’ con un gesto cui si può dare una spiegazione solo con la Sacra Scrittura. Gesù “chinatosi, si mise a scrivere per terra”: il libro del profeta Geremia (17,13) afferma che “quanti si allontanano da te (dal tempio) saranno scritti nella polvere”. Sia prima della sua ‘sentenza’ che dopo, Gesù china il capo e scrive nella “polvere”, letteralmente nello sheol , nel luogo dei morti.

Con il capo chino Gesù assume un atteggiamento di chi non giudica ma attende e forse scrive i nomi di quanti potrebbero sprofondare nello sheol ma con la Sua risposta dà modo a tutti di scampare allo sheol: alla donna di pentirsi ed ai suoi accusatori di non macchiarsi anche del peccato di superbia e di omicidio.

Quindi, la donna che era posta “nel mezzo”, si trova sola con Gesù; anche il popolo sembra non essere più presente! Sono rimasti “la misera e la misericordia” (S. Agostino). La donna constata che “nessuno” l’ha condannata e ottiene anche il perdono di Gesù e il monito a “non peccare più”.

Gesù ha detto alla donna di vivere una ‘nuova’ vita: ora sta a lei decidere di continuare a vivere incatenata alle passioni o di camminare libera.

Queste domeniche di Quaresima ci stanno gradualmente ‘educando’: Dio ci concede del tempo (parabola del fico), si commuove per il nostro ritorno a Lui (Padre misericordioso), ci restituisce la libertà (adultera).

Giuseppina Bruscolotti

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“Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo”: sono le parole con cui l’evangelista Giovanni ritrae la scena che è l’inizio della nuova vita di una donna a cui è capitato di fare l’indimenticabile incontro con Gesù.

Prima lettura

E di vita nuova si parla già nella I Lettura di questa V domenica di Quaresima dove il profeta Isaia osa fino al punto di definire “cosa nuova” la storia che sta per iniziare. Il popolo si trova esiliato a Babilonia, ma ora il tempo della lontananza è terminato e sprona a credere possibili situazioni ritenute ormai spacciate.

Si rivolge infatti ai deportati e garantisce loro che, come si sono avverate le profezie di punizione, così si avvereranno anche gli annunci di liberazione dalla condizione di esiliati perché potranno ritornare in patria. E propone l’immagine del ‘germoglio’: come esso fiorisce all’improvviso pur essendo già in lui la vita, ma nascosta, non ancora aperta, così il profeta invita ad intravvedere come imminente la salvezza.

Salmo

A questo consolante e rincuorante messaggio, la liturgia propone di rispondere con il Salmo 125 (126) che è dominato da stati d’animo esaltanti: sogno, sorriso, gioia (2 v.), pienezza di gioia. È la conseguenza della ristabilita condizione di libertà dopo l’esilio babilonese, il tutto avvalorato dal simbolismo agricolo per cui chi semina lo fa con la tristezza e il timore di non riuscire a vedere i frutti, poi quando sopraggiunge il tempo della mietitura è traboccante di gioia per l’insperato e abbondante raccolto.

Seconda lettura

Dalla lettera ai Filippesi leggiamo il passaggio in cui l’apostolo Paolo istruisce i credenti in merito all’atteggiamento giusto da avere nei riguardi della Legge mosaica. Si sono infatti inseriti tra i Filippesi alcuni ‘maestri’ che avrebbero convinto i pagani convertiti al Vangelo ad assecondare la Legge giudaica e così farsi circoncidere per essere considerati dei veri discepoli di Cristo. Ma Paolo come è affermato nel versetto precedente al nostro brano - è “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino” eppure queste cose che lui riteneva “guadagni” ora “a motivo di Cristo” le considera una “perdita”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Libro di Isaia 43,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 125

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai filippesi 3,8-14

VANGELO Vangelo di Giovanni 8,1-11

L’incontro con Cristo gli ha provocato un’impostazione ‘nuova’ della vita, non più fondata sulla giustizia “derivante dalla Legge, ma (su) quella che viene dalla fede in Cristo”. L’Apostolo non si ritiene tuttavia ‘arrivato’ e con una metafora agonistica parla di se stesso come di un corridore che, per non perdere tempo, non guarda indietro al tragitto già percorso ma è continuamente proteso verso la mèta che è la comunione con Cristo.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Giovanni ci riporta un episodio relativo agli ultimi tempi della vita terrena di Gesù in quanto è nominato il ‘monte degli Ulivi’ e la sua costante attività di predicatore nel tempio, attività descritta in tutta la sua notorietà e solennità: “tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro”.

Al fine di screditare Gesù agli occhi del popolo che pendeva dalle sue labbra, gli scribi e i farisei conducono nel “mezzo” una donna adultera non perché interessati a lei, ma per trarre in inganno Gesù. Se Gesù l’avesse condannata, sarebbe fallito il suo insegnamento sul perdono, se l’avesse scusata si sarebbe dimostrato un profanatore della Legge di Mosè.

Effettivamente la Legge condannava severamente l’adulterio con la pena capitale dei due (Lv 20,10) o con la lapidazione alla “porta della città” di entrambi (Dt 22,24) e questo al fine di eliminare “di mezzo a te il male”.

“Scagliare la prima pietra” coincideva con il diritto che aveva il testimone oculare (Dt 17,7) di infiggere appunto il primo colpo perché poi avrebbe continuato “tutto il popolo” a colpire e ad eliminare i peccatori (Dt 13,10). Gesù a questa provocazione ‘risponde’ con un gesto cui si può dare una spiegazione solo con la Sacra Scrittura. Gesù “chinatosi, si mise a scrivere per terra”: il libro del profeta Geremia (17,13) afferma che “quanti si allontanano da te (dal tempio) saranno scritti nella polvere”. Sia prima della sua ‘sentenza’ che dopo, Gesù china il capo e scrive nella “polvere”, letteralmente nello sheol , nel luogo dei morti.

Con il capo chino Gesù assume un atteggiamento di chi non giudica ma attende e forse scrive i nomi di quanti potrebbero sprofondare nello sheol ma con la Sua risposta dà modo a tutti di scampare allo sheol: alla donna di pentirsi ed ai suoi accusatori di non macchiarsi anche del peccato di superbia e di omicidio.

Quindi, la donna che era posta “nel mezzo”, si trova sola con Gesù; anche il popolo sembra non essere più presente! Sono rimasti “la misera e la misericordia” (S. Agostino). La donna constata che “nessuno” l’ha condannata e ottiene anche il perdono di Gesù e il monito a “non peccare più”.

Gesù ha detto alla donna di vivere una ‘nuova’ vita: ora sta a lei decidere di continuare a vivere incatenata alle passioni o di camminare libera.

Queste domeniche di Quaresima ci stanno gradualmente ‘educando’: Dio ci concede del tempo (parabola del fico), si commuove per il nostro ritorno a Lui (Padre misericordioso), ci restituisce la libertà (adultera).

Giuseppina Bruscolotti

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Le nozze di Cana https://www.lavoce.it/nozze-cana/ Fri, 18 Jan 2019 08:00:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53808 logo reubrica commento al Vangelo

“Il tuo Dio gioirà per te”: sono le parole che ascoltiamo la seconda domenica del Tempo ordinario, parole con cui il profeta Isaia (I Lettura) descrive il motivo festoso delle nozze tra il Signore e la comunità di Gerusalemme.

Prima lettura

Il profeta è nel punto di accogliere la manifestazione del Signore ed è paragonato alla sentinella che attende l’aurora ed è fedele al suo ‘turno’ vigilando per vedere il sorgere della prima stella. E il chiarore mattutino allude all’arrivo del tempo della giustizia e dello splendore di Gerusalemme, città che sarà un faro per le “genti” e per i “re”. Questo tempo inaugurerà il “nome nuovo” che verrà dato a Gerusalemme, nome che non avrà più niente a che fare con quelli sterili del tempo dell’esilio (abbandonata, desolata), ma sarà caratterizzato dal linguaggio nuziale: “mia gioia”, “sposata”.

Inoltre in questo brano è contenuta una novità: in altri testi profetici, si parla di una nuzialità tradita e poi riconciliata (Osea), invece qui lo Sposo è un giovane che si sposa per la prima volta con una vergine (betulah) e, con discreta audacia, facendo allusione al rapporto d’amore, l’Autore presenta la verità di un’alleanza ‘unica’ caratterizzata dalla gioia “dello sposo per la sposa”.

Salmo

A questo messaggio così alto la Liturgia ci propone di rispondere con il Salmo 96, Salmo che rientra nel gruppo di quelli propri della Liturgia sinagogale sabbatica. Si tratta di una lode cosmica il cui “canto nuovo” si eleva a Dio da “tutta la terra” ed il coinvolgimento dei credenti è tale - e anche insolito - che gli stessi desiderano comunicare le opere del Signore agli altri popoli. Se infatti generalmente la volontà di raggiungere tutte le genti è frutto dell’iniziativa divina, qui è la comunità israelita a prendere le mosse per ‘evangelizzare’ tutti (“a tutte le nazioni dite i suoi prodigi”).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 62,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 95

SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo Corinzi 12,4-11

VANGELO Dal vangelo di Giovanni 2,1-11

 

Seconda lettura

Di un’evangelizzazione regolata, ben distribuita ed efficace è San Paolo a parlarne nella I Lettera ai CorinziL’apostolo scrive agli abitanti di Corinto, una comunità che abbondava dei doni della grazia, ma proprio per questa abbondanza c’era necessità di fare chiarezza, per non lasciarsi prendere dalla suggestività e soprattutto per organizzare le manifestazioni ‘carismatiche’ in modo tale che fossero servite per l’edificazione vicendevole.

Il nostro brano è relativo al passaggio in cui Paolo, ribadita l’unica origine dei carismi che è lo Spirito santo, distingue i doni chiamandoli rispettivamente “carismi”, “ministeri” e “attività” (letteralmente ‘capacità operative’). L’intento di Paolo è quello di chiarire che i doni ricevuti non possono essere motivo di vanto o di divisioni, di gelosie o di ambizioni, quanto piuttosto devono spronare alla docilità nei riguardi dello Spirito per la unanime tensione al bene e all’amore vicendevole.

Vangelo

Nella pagina del Vangelo di Giovanni, una delle più belle, ritroviamo il tema della festa nuziale. La circostanza è quella delle ‘nozze di Cana’ ove sono presenti Sua Madre e i discepoli. La celebrazione delle nozze al tempo di Gesù comprendeva due fasi: quella dell’atto matrimoniale (ketubah) che veniva scritto in casa della sposa e che, secondo la consuetudine ebraica, ufficializzava l’unione, e quella della celebrazione vera e propria del matrimonio (nyssu’in) con conseguente festa che poteva durare tra i tre e i sette giorni.

È in questa seconda fase che si svolge il primo dei ‘segni’ operato da Gesù. Il luogo è Cana, un modesto paese della Galilea a circa 13 km da Nazareth. La lettura attenta ci fa prendere consapevolezza che qui il personaggio più importante è Maria. È scritto infatti che “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù”. Poi, circa Gesù è scritto “fu invitato alle nozze anche (kai, con funzione di ‘anche’) Gesù con i suoi discepoli”. In seguito chi prende la parola per prima è proprio Maria: “Non hanno più vino”.

Sembra strano che nessuno si accorga del vino che sia venuto a mancare, ma così è, e Maria fa presente questa mancanza. Gesù risponde alla provocazione rivolgendosi a Sua Madre con il titolo di ‘donna’ superando così quello che è il legame strettamente familiare. Poche, ma chiare parole: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. E Gesù: “Riempite d’acqua le anfore”.

I servitori devono riempire delle idrias: con questo termine greco si indicano dei recipienti che, essendo di pietra, erano considerati idonei perché non rendevano impuro il contenuto e quindi venivano utilizzati per metterci l’acqua della purificazione rituale. Quindi l’acqua che viene trasformata in vino era acqua destinata ai riti purificatori. Le conseguenze sono che il maestro di tavola, ignaro della ‘trasformazione’, elogia gli sposi per la conservazione eccezionale del “vino buono”, e che i discepoli “credettero in lui”.

L’acqua purificatrice è sempre elemento di iniziazione ad una nuova vita, ma il vino? Perché proprio il vino ‘segna’ l’inizio della “manifestazione” di Gesù? Scegliamo sempre il metodo della contestualizzazione e pensiamo ai tanti significati positivi cui è metafora il vino nell’AT, nonché all’esegesi rabbinica che definisce il monte Sinai la ‘cantina della torah’ (Targum Cantico 2,4). Sul Sinai il Signore si è manifestato attraverso la consegna della Torah, ora a Cana -nel bel mezzo dei festeggiamenti nuziali - si manifesta definitivamente nel ‘segno’ di Gesù. Ma per il compimento del ‘segno’ è stata necessaria l’azione mediatrice di Maria.

Giuseppina Bruscolotti

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“Il tuo Dio gioirà per te”: sono le parole che ascoltiamo la seconda domenica del Tempo ordinario, parole con cui il profeta Isaia (I Lettura) descrive il motivo festoso delle nozze tra il Signore e la comunità di Gerusalemme.

Prima lettura

Il profeta è nel punto di accogliere la manifestazione del Signore ed è paragonato alla sentinella che attende l’aurora ed è fedele al suo ‘turno’ vigilando per vedere il sorgere della prima stella. E il chiarore mattutino allude all’arrivo del tempo della giustizia e dello splendore di Gerusalemme, città che sarà un faro per le “genti” e per i “re”. Questo tempo inaugurerà il “nome nuovo” che verrà dato a Gerusalemme, nome che non avrà più niente a che fare con quelli sterili del tempo dell’esilio (abbandonata, desolata), ma sarà caratterizzato dal linguaggio nuziale: “mia gioia”, “sposata”.

Inoltre in questo brano è contenuta una novità: in altri testi profetici, si parla di una nuzialità tradita e poi riconciliata (Osea), invece qui lo Sposo è un giovane che si sposa per la prima volta con una vergine (betulah) e, con discreta audacia, facendo allusione al rapporto d’amore, l’Autore presenta la verità di un’alleanza ‘unica’ caratterizzata dalla gioia “dello sposo per la sposa”.

Salmo

A questo messaggio così alto la Liturgia ci propone di rispondere con il Salmo 96, Salmo che rientra nel gruppo di quelli propri della Liturgia sinagogale sabbatica. Si tratta di una lode cosmica il cui “canto nuovo” si eleva a Dio da “tutta la terra” ed il coinvolgimento dei credenti è tale - e anche insolito - che gli stessi desiderano comunicare le opere del Signore agli altri popoli. Se infatti generalmente la volontà di raggiungere tutte le genti è frutto dell’iniziativa divina, qui è la comunità israelita a prendere le mosse per ‘evangelizzare’ tutti (“a tutte le nazioni dite i suoi prodigi”).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 62,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 95

SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo Corinzi 12,4-11

VANGELO Dal vangelo di Giovanni 2,1-11

 

Seconda lettura

Di un’evangelizzazione regolata, ben distribuita ed efficace è San Paolo a parlarne nella I Lettera ai CorinziL’apostolo scrive agli abitanti di Corinto, una comunità che abbondava dei doni della grazia, ma proprio per questa abbondanza c’era necessità di fare chiarezza, per non lasciarsi prendere dalla suggestività e soprattutto per organizzare le manifestazioni ‘carismatiche’ in modo tale che fossero servite per l’edificazione vicendevole.

Il nostro brano è relativo al passaggio in cui Paolo, ribadita l’unica origine dei carismi che è lo Spirito santo, distingue i doni chiamandoli rispettivamente “carismi”, “ministeri” e “attività” (letteralmente ‘capacità operative’). L’intento di Paolo è quello di chiarire che i doni ricevuti non possono essere motivo di vanto o di divisioni, di gelosie o di ambizioni, quanto piuttosto devono spronare alla docilità nei riguardi dello Spirito per la unanime tensione al bene e all’amore vicendevole.

Vangelo

Nella pagina del Vangelo di Giovanni, una delle più belle, ritroviamo il tema della festa nuziale. La circostanza è quella delle ‘nozze di Cana’ ove sono presenti Sua Madre e i discepoli. La celebrazione delle nozze al tempo di Gesù comprendeva due fasi: quella dell’atto matrimoniale (ketubah) che veniva scritto in casa della sposa e che, secondo la consuetudine ebraica, ufficializzava l’unione, e quella della celebrazione vera e propria del matrimonio (nyssu’in) con conseguente festa che poteva durare tra i tre e i sette giorni.

È in questa seconda fase che si svolge il primo dei ‘segni’ operato da Gesù. Il luogo è Cana, un modesto paese della Galilea a circa 13 km da Nazareth. La lettura attenta ci fa prendere consapevolezza che qui il personaggio più importante è Maria. È scritto infatti che “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù”. Poi, circa Gesù è scritto “fu invitato alle nozze anche (kai, con funzione di ‘anche’) Gesù con i suoi discepoli”. In seguito chi prende la parola per prima è proprio Maria: “Non hanno più vino”.

Sembra strano che nessuno si accorga del vino che sia venuto a mancare, ma così è, e Maria fa presente questa mancanza. Gesù risponde alla provocazione rivolgendosi a Sua Madre con il titolo di ‘donna’ superando così quello che è il legame strettamente familiare. Poche, ma chiare parole: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. E Gesù: “Riempite d’acqua le anfore”.

I servitori devono riempire delle idrias: con questo termine greco si indicano dei recipienti che, essendo di pietra, erano considerati idonei perché non rendevano impuro il contenuto e quindi venivano utilizzati per metterci l’acqua della purificazione rituale. Quindi l’acqua che viene trasformata in vino era acqua destinata ai riti purificatori. Le conseguenze sono che il maestro di tavola, ignaro della ‘trasformazione’, elogia gli sposi per la conservazione eccezionale del “vino buono”, e che i discepoli “credettero in lui”.

L’acqua purificatrice è sempre elemento di iniziazione ad una nuova vita, ma il vino? Perché proprio il vino ‘segna’ l’inizio della “manifestazione” di Gesù? Scegliamo sempre il metodo della contestualizzazione e pensiamo ai tanti significati positivi cui è metafora il vino nell’AT, nonché all’esegesi rabbinica che definisce il monte Sinai la ‘cantina della torah’ (Targum Cantico 2,4). Sul Sinai il Signore si è manifestato attraverso la consegna della Torah, ora a Cana -nel bel mezzo dei festeggiamenti nuziali - si manifesta definitivamente nel ‘segno’ di Gesù. Ma per il compimento del ‘segno’ è stata necessaria l’azione mediatrice di Maria.

Giuseppina Bruscolotti

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‘Sei tu il Re dei Giudei?’ https://www.lavoce.it/sei-tu-re-giudei/ Fri, 23 Nov 2018 08:05:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53434 logo reubrica commento al Vangelo

“Il Signore regna, si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza”. Con questo versetto il Salmista introduce l’inno tutto incentrato sull’esaltazione di uno degli aspetti che più frequentemente nell’AT descrivono il Signore, Dio d’Israele: il suo essere ‘re’.

Domenica 25 novembre è infatti l’ultima dell’Anno liturgico e la Chiesa celebra la Solennità di Cristo Re dell’Universo, Solennità istituita da Papa Pio XI nel 1925 ovvero in una fase della storia in cui, conclusa da poco la prima guerra mondiale e vicino il pericolo delle conseguenze dei regimi dittatoriali, l’immagine dell’amore estremo di un Re crocifisso doveva provocare, placare le rivalità e debellare i progetti omicidi.

Prima lettura

La prima Lettura è tratta - come la scorsa settimana - dal libro del profeta Daniele, libro che si caratterizza per il suo stile apocalittico e ‘visionario’ che è una strategia letteraria finalizzata a sostenere la fede di quei giudei sottoposti alle terribili prove inflitte dal re Antioco IV.

Il capitolo 7, che in parte ascoltiamo, inizia la sezione delle ‘quattro visioni’ che Daniele riferisce interpretandole come una sorta di future tappe della storia d’Israele che, nonostante il dominio che subirà da parte di popolazioni straniere, vedrà finalmente l’avvento glorioso del “Figlio d’uomo” che inaugurerà un regno universale ed eterno. Il “Figlio d’uomo” è infatti presentato dalle sembianze umane ma dalle conseguenze che sono proprie della divinità: “tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”.

Salmo

E il Salmo che abbiamo già citato e con cui rispondiamo alla prima Lettura ‘completa’ la maestosa lode marcando l’attenzione sul carattere sempiterno del ‘sovrano’: “stabile è il tuo trono da sempre, dall’eternità tu sei”. Questo tono suggestivo ed escatologico continua anche nel resto della Liturgia della Parola.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Daniele 7,13-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 92

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse di Giovanni 1,5-8

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 18,33b-37

Seconda lettura

Il breve brano del libro dell’Apocalisse è tratto dal primo capitolo, precisamente dall’introduzione che l’Autore fa indicando i destinatari del suo scritto: le sette Chiese dell’Asia (parte dell’attuale Turchia). ‘Giovanni’ scrive alle sette Chiese, da parte sua, da parte dei ‘sette Spiriti’ e da parte di Gesù Cristo. Gesù viene presentato come il ‘fedele’, cioè colui che ha mantenuto l’antica promessa, come il ‘primogenito dei morti’ in quanto è risorto e dopo di Lui tutti risorgeranno in Lui e come ‘sovrano dei re della terra’.

La regalità di Cristo si distingue infatti perché è caratterizzata dalla suggestività dell’entrata gloriosa sulla scena della storia (“con le nubi”), per essere il principio (“Alfa”) e il fine (“Omega”) della vita degli uomini.

Vangelo

Anche il Vangelo ci parla della regalità di Gesù, ma di una regalità non corrispondente a quella che in ‘apparenza’ è il motivo della condanna a morte di Gesù (INRI). Il contesto è quello in cui Gesù, essendo stato condotto dai giudei a Pilato, viene interrogato da quest’ultimo. “Sei tu il re dei Giudei?”.

“Re dei Giudei” ha più una connotazione politica che messianica. Se fosse stata messianica sarebbe dovuta essere “Re d’Israele”. Ciò per dire che la domanda con questa precisa dicitura doveva accertare il rischio o meno di essere detronizzato da quanti, come gli zeloti rivoluzionari, cospiravano contro le autorità pagane. Gesù, servendosi dello stesso metodo già usato con gli scribi e i farisei, risponde con una controdomanda: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?”.

A questo punto Pilato prende consapevolezza che quest’Uomo non costituisce pericolo per lui quanto piuttosto è motivo di divisione all’interno dei giudei (“La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”). Poi Gesù risponde a Pilato in merito alla Sua regalità descrivendola come una regalità che, seppur si eserciti sull’umanità, tuttavia “non è di questo mondo” e, confermando quanto già compreso dal Governatore, fa presente che se fosse stata “di questo mondo”, i suoi sudditi avrebbero combattuto perché non venisse consegnato ai romani.

La conversazione si evolve perché Pilato sembra riconoscere a Gesù il titolo di ‘re’ o comunque vuole capirci di più (“Dunque tu sei re?”), ma Gesù precisa subito senza equivoci che il suo essere re è finalizzato a “dare testimonianza alla verità” ad esercitare cioè il suo ‘potere’ a favore di “chiunque è dalla verità” e lo è perché “ascolta” la sua “voce”. Queste ultime espressioni sono state oggetto di grande riflessione.

Tenendo conto del significato che la parola ‘testimonianza’ ha nella lingua greca, qui si riferisce all’atto supremo della ‘verità’ che di lì a poco si svelerà: l’amore inchiodato sul trono che è la croce. Circa il verbo ‘ascoltare’ (akouoricordiamo che l’altro episodio in cui Giovanni lo utilizza è per indicare le pecore che ascoltano, seguono e appartengono al Pastore. Allora si evidenziano due condizioni: essere dalla parte della verità ed ascoltare.

Pilato comprende la verità (“non trovo nessuna colpa in quest’uomo”), ma non ‘ascolta’ la voce di Gesù. I giudei ‘ascoltano’, ma non riconoscono la testimonianza di Gesù (“i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”). Se il credente di oggi fosse interpellato da Pilato, si dimostrerebbe come un ‘suddito’ che in virtù dell’ascolto della Parola di Gesù, saprebbe riconosce la ‘verità’ nelle circostanze della vita difendendola fino al martirio?

Giuseppina Bruscolotti

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“Il Signore regna, si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza”. Con questo versetto il Salmista introduce l’inno tutto incentrato sull’esaltazione di uno degli aspetti che più frequentemente nell’AT descrivono il Signore, Dio d’Israele: il suo essere ‘re’.

Domenica 25 novembre è infatti l’ultima dell’Anno liturgico e la Chiesa celebra la Solennità di Cristo Re dell’Universo, Solennità istituita da Papa Pio XI nel 1925 ovvero in una fase della storia in cui, conclusa da poco la prima guerra mondiale e vicino il pericolo delle conseguenze dei regimi dittatoriali, l’immagine dell’amore estremo di un Re crocifisso doveva provocare, placare le rivalità e debellare i progetti omicidi.

Prima lettura

La prima Lettura è tratta - come la scorsa settimana - dal libro del profeta Daniele, libro che si caratterizza per il suo stile apocalittico e ‘visionario’ che è una strategia letteraria finalizzata a sostenere la fede di quei giudei sottoposti alle terribili prove inflitte dal re Antioco IV.

Il capitolo 7, che in parte ascoltiamo, inizia la sezione delle ‘quattro visioni’ che Daniele riferisce interpretandole come una sorta di future tappe della storia d’Israele che, nonostante il dominio che subirà da parte di popolazioni straniere, vedrà finalmente l’avvento glorioso del “Figlio d’uomo” che inaugurerà un regno universale ed eterno. Il “Figlio d’uomo” è infatti presentato dalle sembianze umane ma dalle conseguenze che sono proprie della divinità: “tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”.

Salmo

E il Salmo che abbiamo già citato e con cui rispondiamo alla prima Lettura ‘completa’ la maestosa lode marcando l’attenzione sul carattere sempiterno del ‘sovrano’: “stabile è il tuo trono da sempre, dall’eternità tu sei”. Questo tono suggestivo ed escatologico continua anche nel resto della Liturgia della Parola.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Daniele 7,13-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 92

SECONDA LETTURA Dall’Apocalisse di Giovanni 1,5-8

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 18,33b-37

Seconda lettura

Il breve brano del libro dell’Apocalisse è tratto dal primo capitolo, precisamente dall’introduzione che l’Autore fa indicando i destinatari del suo scritto: le sette Chiese dell’Asia (parte dell’attuale Turchia). ‘Giovanni’ scrive alle sette Chiese, da parte sua, da parte dei ‘sette Spiriti’ e da parte di Gesù Cristo. Gesù viene presentato come il ‘fedele’, cioè colui che ha mantenuto l’antica promessa, come il ‘primogenito dei morti’ in quanto è risorto e dopo di Lui tutti risorgeranno in Lui e come ‘sovrano dei re della terra’.

La regalità di Cristo si distingue infatti perché è caratterizzata dalla suggestività dell’entrata gloriosa sulla scena della storia (“con le nubi”), per essere il principio (“Alfa”) e il fine (“Omega”) della vita degli uomini.

Vangelo

Anche il Vangelo ci parla della regalità di Gesù, ma di una regalità non corrispondente a quella che in ‘apparenza’ è il motivo della condanna a morte di Gesù (INRI). Il contesto è quello in cui Gesù, essendo stato condotto dai giudei a Pilato, viene interrogato da quest’ultimo. “Sei tu il re dei Giudei?”.

“Re dei Giudei” ha più una connotazione politica che messianica. Se fosse stata messianica sarebbe dovuta essere “Re d’Israele”. Ciò per dire che la domanda con questa precisa dicitura doveva accertare il rischio o meno di essere detronizzato da quanti, come gli zeloti rivoluzionari, cospiravano contro le autorità pagane. Gesù, servendosi dello stesso metodo già usato con gli scribi e i farisei, risponde con una controdomanda: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?”.

A questo punto Pilato prende consapevolezza che quest’Uomo non costituisce pericolo per lui quanto piuttosto è motivo di divisione all’interno dei giudei (“La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”). Poi Gesù risponde a Pilato in merito alla Sua regalità descrivendola come una regalità che, seppur si eserciti sull’umanità, tuttavia “non è di questo mondo” e, confermando quanto già compreso dal Governatore, fa presente che se fosse stata “di questo mondo”, i suoi sudditi avrebbero combattuto perché non venisse consegnato ai romani.

La conversazione si evolve perché Pilato sembra riconoscere a Gesù il titolo di ‘re’ o comunque vuole capirci di più (“Dunque tu sei re?”), ma Gesù precisa subito senza equivoci che il suo essere re è finalizzato a “dare testimonianza alla verità” ad esercitare cioè il suo ‘potere’ a favore di “chiunque è dalla verità” e lo è perché “ascolta” la sua “voce”. Queste ultime espressioni sono state oggetto di grande riflessione.

Tenendo conto del significato che la parola ‘testimonianza’ ha nella lingua greca, qui si riferisce all’atto supremo della ‘verità’ che di lì a poco si svelerà: l’amore inchiodato sul trono che è la croce. Circa il verbo ‘ascoltare’ (akouoricordiamo che l’altro episodio in cui Giovanni lo utilizza è per indicare le pecore che ascoltano, seguono e appartengono al Pastore. Allora si evidenziano due condizioni: essere dalla parte della verità ed ascoltare.

Pilato comprende la verità (“non trovo nessuna colpa in quest’uomo”), ma non ‘ascolta’ la voce di Gesù. I giudei ‘ascoltano’, ma non riconoscono la testimonianza di Gesù (“i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”). Se il credente di oggi fosse interpellato da Pilato, si dimostrerebbe come un ‘suddito’ che in virtù dell’ascolto della Parola di Gesù, saprebbe riconosce la ‘verità’ nelle circostanze della vita difendendola fino al martirio?

Giuseppina Bruscolotti

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Il discorso del vero pane https://www.lavoce.it/vangelo-il-discorso-del-vero-pane/ Fri, 03 Aug 2018 08:00:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52648 logo reubrica commento al Vangelo

La fede del popolo biblico si fonda sugli interventi che il Signore ha operato per esso in modo concreto e puntuale, interventi che tuttavia non sono fine a se stessi, ma proiettano verso il raggiungimento di un’altra e più alta méta. È quanto ci propone l’ascolto della Liturgia della Parola di questa XVIII domenica del TO.

Il salmo

L’Autore del Salmo 77 ripercorre infatti le grandi tappe della storia della salvezza ed esprimendosi al plurale con “abbiamo udito e conosciuto” elenca i numerosi prodigi che in luoghi e momenti precisi il Signore ha operato per il popolo come quando lo ha saziato nel percorso nel deserto mandandogli dal cielo “il pane dei forti”.
LA PAROLA della Domenica PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 16, 2-4. 12-15 SALMO RESPONSORIALE Salmo 77 SECONDA LETTURA Lettera di Paolo agli Efesini 4, 17. 20-24 VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 6, 24-35

La prima lettura

È la risposta alla prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo, che narra il primo intervento del Signore a favore del popolo transitante nel deserto. L’episodio è relativo al cap. 16, ossia il capitolo che viene subito dopo la descrizione del glorioso passaggio del mare, del canto di vittoria e dell’arrivo a Elim luogo ideale per la presenza delle “dodici sorgenti d’acqua e settanta palme”. Ma il cammino deve procedere e, non appena giunti nel deserto di Sin, il popolo emette la prima delle mormorazioni contro Mosè e contro Aronne e, nel caso specifico, per la mancanza di cibo. Il Signore allora parla con Mosè annunciandogli che “ogni giorno” elargirà al popolo la “razione del giorno”. Poi il prodigio: sulla superficie del deserto comparve qualcosa di “fine, granuloso, minuto come la brina sulla terra” che il popolo non sapeva cosa fosse e Mosé lo istruì affermando: “È il pane che il Signore vi ha dato da mangiare”. Il prodigio ha avuto la necessità di essere interpretato perché il popolo vedesse ‘oltre’ l’aspetto materiale (che secondo Ravasi si dovrebbe trattare di un elemento resinoso  consolidato e commestibile) e fosse messo in grado di crescere nella consapevolezza del suo cammino di comunità con Dio.

La seconda lettura

Anche nella pagina della Lettera agli Efesini è richiesto ai destinatari un passaggio qualitativo. Gli Efesini hanno infatti accolto la predicazione apostolica e quindi ora non possono più essere come prima della conversione, non possono più cedere alle passioni ingannevoli, ma devono rivestirsi dell’“uomo nuovo” che per vocazione tende ad agire “nella giustizia e nella vera santità”. La svolta è indicata poi da Gesù nel Vangelo di Giovanni.

Il Vangelo

Gesù ha appena sfamato 5000 persone ed ha inviato i discepoli ad attraversare il lago dove li ha raggiunti di notte nel corso della traversata, camminando sulle acque. La destinazione è Cafarnao, città dove si dirige anche la folla perché, non avendo più visto Gesù, ha ipotizzato fosse andato lì nonostante non fosse salito sulla barca con i discepoli. È in questa città e circostanza che Gesù tiene il ‘discorso sul vero pane’ e lo fa rifacendosi al ‘segno’ della moltiplicazione dei pani, ‘segno’ che in ordine è il quarto, ovvero, dei sette ‘segni’ totali riportati dall’evangelista Giovanni è quello centrale! Gesù parla alla folla che interloquisce con Lui in modo appropriato e dimostrando di comprenderne il messaggio. Vediamone i passaggi. Intanto Gesù chiarisce subito che non si riferisce all’alimento farinaceo, ma a quello “che rimane per la vita eterna” e che può donare solo il “figlio dell’uomo”. A questo punto subentra una domanda da parte degli uditori che sembrerebbe voler deviare il discorso che Gesù sta tenendo, in quanto vogliono avere indicazioni “per fare le opere di Dio”. Ma questa richiesta ha la sua ragione di essere fatta in quanto Gesù sta parlando a gente che per lo più già osserva la Legge di Mosè e quindi concretamente vuole sapere le norme da applicare per poter essere gradita a Dio. Ma Gesù devia le aspettative rispondendo che non si tratta di avere ulteriori precetti da praticare, ma di “credere in colui che Dio ha mandato”. Quindi più che le opere derivanti dall’osservanza della Legge, è la fede nella persona di Gesù. Ma la gente ancora insiste sulle ‘opere’ e chiede ancora a  Gesù il “segno”, l’“opera” che Lo riguarda come aiuto alla loro fede perché, rifacendosi alla manna del deserto, sottintende la figura di Mosè e il prodigio che lui compì dando loro “un pane dal cielo”. Gesù allora intensifica il discorso e, attraverso la tecnica interlocutoria tipicamente giudaica del doppio “Amen” (che noi non notiamo perché tradotta con “In verità, in verità io vi dico”) e del procedimento del “non ... ma”, insegna che il datore del pane è il Padre e, come la Legge era discesa dal cielo, “il pane di Dio è colui che discende dal cielo” non più soltanto per i giudei ma per “la vita del mondo”. Gli astanti dimostrano di aver compreso questo insegnamento perché aderiscono ad esso chiamando Gesù “Signore” e ciò è di inaudita importanza perché nel titolo “Signore” c’è il nome del Dio dell’AT che corrisponde al verbo essere e Gesù così conferma e si rivela definitivamente proponendosi come il ‘compimento’ della manna ricevuta tramite Mosè e dicendo appunto di sé: “Io sono il pane della vita”. Forse solo dopo la Risurrezione comprenderanno a pieno che il “pane vero” è il Corpo di Cristo donato per amore di tutta l’umanità. Allora l’alta mèta di cui parlavamo riguarda tutti quanti noi che ci nutriamo del Pane eucaristico perché ci dona l’energia per imitare l’amore ‘concreto’ del Signore e far si che a nessuno manchi mai il cibo materiale e spirituale. Il beato Paolo VI, di cui ricorrono 40 anni dalla nascita al cielo, ha scritto in merito che il cristiano tende al “conseguimento del suo ottimo fine che è Dio e il prossimo che è il fratello da amare e da servire e liberare dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, come dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere”.

Giuseppina Bruscolotti

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La fede del popolo biblico si fonda sugli interventi che il Signore ha operato per esso in modo concreto e puntuale, interventi che tuttavia non sono fine a se stessi, ma proiettano verso il raggiungimento di un’altra e più alta méta. È quanto ci propone l’ascolto della Liturgia della Parola di questa XVIII domenica del TO.

Il salmo

L’Autore del Salmo 77 ripercorre infatti le grandi tappe della storia della salvezza ed esprimendosi al plurale con “abbiamo udito e conosciuto” elenca i numerosi prodigi che in luoghi e momenti precisi il Signore ha operato per il popolo come quando lo ha saziato nel percorso nel deserto mandandogli dal cielo “il pane dei forti”.
LA PAROLA della Domenica PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 16, 2-4. 12-15 SALMO RESPONSORIALE Salmo 77 SECONDA LETTURA Lettera di Paolo agli Efesini 4, 17. 20-24 VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 6, 24-35

La prima lettura

È la risposta alla prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo, che narra il primo intervento del Signore a favore del popolo transitante nel deserto. L’episodio è relativo al cap. 16, ossia il capitolo che viene subito dopo la descrizione del glorioso passaggio del mare, del canto di vittoria e dell’arrivo a Elim luogo ideale per la presenza delle “dodici sorgenti d’acqua e settanta palme”. Ma il cammino deve procedere e, non appena giunti nel deserto di Sin, il popolo emette la prima delle mormorazioni contro Mosè e contro Aronne e, nel caso specifico, per la mancanza di cibo. Il Signore allora parla con Mosè annunciandogli che “ogni giorno” elargirà al popolo la “razione del giorno”. Poi il prodigio: sulla superficie del deserto comparve qualcosa di “fine, granuloso, minuto come la brina sulla terra” che il popolo non sapeva cosa fosse e Mosé lo istruì affermando: “È il pane che il Signore vi ha dato da mangiare”. Il prodigio ha avuto la necessità di essere interpretato perché il popolo vedesse ‘oltre’ l’aspetto materiale (che secondo Ravasi si dovrebbe trattare di un elemento resinoso  consolidato e commestibile) e fosse messo in grado di crescere nella consapevolezza del suo cammino di comunità con Dio.

La seconda lettura

Anche nella pagina della Lettera agli Efesini è richiesto ai destinatari un passaggio qualitativo. Gli Efesini hanno infatti accolto la predicazione apostolica e quindi ora non possono più essere come prima della conversione, non possono più cedere alle passioni ingannevoli, ma devono rivestirsi dell’“uomo nuovo” che per vocazione tende ad agire “nella giustizia e nella vera santità”. La svolta è indicata poi da Gesù nel Vangelo di Giovanni.

Il Vangelo

Gesù ha appena sfamato 5000 persone ed ha inviato i discepoli ad attraversare il lago dove li ha raggiunti di notte nel corso della traversata, camminando sulle acque. La destinazione è Cafarnao, città dove si dirige anche la folla perché, non avendo più visto Gesù, ha ipotizzato fosse andato lì nonostante non fosse salito sulla barca con i discepoli. È in questa città e circostanza che Gesù tiene il ‘discorso sul vero pane’ e lo fa rifacendosi al ‘segno’ della moltiplicazione dei pani, ‘segno’ che in ordine è il quarto, ovvero, dei sette ‘segni’ totali riportati dall’evangelista Giovanni è quello centrale! Gesù parla alla folla che interloquisce con Lui in modo appropriato e dimostrando di comprenderne il messaggio. Vediamone i passaggi. Intanto Gesù chiarisce subito che non si riferisce all’alimento farinaceo, ma a quello “che rimane per la vita eterna” e che può donare solo il “figlio dell’uomo”. A questo punto subentra una domanda da parte degli uditori che sembrerebbe voler deviare il discorso che Gesù sta tenendo, in quanto vogliono avere indicazioni “per fare le opere di Dio”. Ma questa richiesta ha la sua ragione di essere fatta in quanto Gesù sta parlando a gente che per lo più già osserva la Legge di Mosè e quindi concretamente vuole sapere le norme da applicare per poter essere gradita a Dio. Ma Gesù devia le aspettative rispondendo che non si tratta di avere ulteriori precetti da praticare, ma di “credere in colui che Dio ha mandato”. Quindi più che le opere derivanti dall’osservanza della Legge, è la fede nella persona di Gesù. Ma la gente ancora insiste sulle ‘opere’ e chiede ancora a  Gesù il “segno”, l’“opera” che Lo riguarda come aiuto alla loro fede perché, rifacendosi alla manna del deserto, sottintende la figura di Mosè e il prodigio che lui compì dando loro “un pane dal cielo”. Gesù allora intensifica il discorso e, attraverso la tecnica interlocutoria tipicamente giudaica del doppio “Amen” (che noi non notiamo perché tradotta con “In verità, in verità io vi dico”) e del procedimento del “non ... ma”, insegna che il datore del pane è il Padre e, come la Legge era discesa dal cielo, “il pane di Dio è colui che discende dal cielo” non più soltanto per i giudei ma per “la vita del mondo”. Gli astanti dimostrano di aver compreso questo insegnamento perché aderiscono ad esso chiamando Gesù “Signore” e ciò è di inaudita importanza perché nel titolo “Signore” c’è il nome del Dio dell’AT che corrisponde al verbo essere e Gesù così conferma e si rivela definitivamente proponendosi come il ‘compimento’ della manna ricevuta tramite Mosè e dicendo appunto di sé: “Io sono il pane della vita”. Forse solo dopo la Risurrezione comprenderanno a pieno che il “pane vero” è il Corpo di Cristo donato per amore di tutta l’umanità. Allora l’alta mèta di cui parlavamo riguarda tutti quanti noi che ci nutriamo del Pane eucaristico perché ci dona l’energia per imitare l’amore ‘concreto’ del Signore e far si che a nessuno manchi mai il cibo materiale e spirituale. Il beato Paolo VI, di cui ricorrono 40 anni dalla nascita al cielo, ha scritto in merito che il cristiano tende al “conseguimento del suo ottimo fine che è Dio e il prossimo che è il fratello da amare e da servire e liberare dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, come dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere”.

Giuseppina Bruscolotti

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I cinque pani d’orzo e i due pesci https://www.lavoce.it/i-cinque-pani-dorzo-e-i-due-pesci/ Fri, 27 Jul 2018 08:00:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52549 logo reubrica commento al Vangelo

Il Signore è in mezzo al Suo popolo e provvede alle sue necessità; agli uomini spetta dunque di ricambiare tale generosità attraverso la condivisione dei beni e degli aiuti tra di loro. Questo è il messaggio che la Liturgia della Parola di domenica XVII del Tempo ordinario ci propone di accogliere. Il Salmo responsoriale è un acrostico che si serve di tutte le lettere dell’alfabeto ebraico per lodare il Signore che “sazia il desiderio di ogni vivente”, ascolta il grido di quanti si trovano in necessità e “dona loro il cibo a tempo opportuno”.

Prima lettura

Anche la prima Lettura tratta dal secondo Libro dei Re ci presenta a proposito un significativo episodio della vita del profeta Eliseo. Il profeta è di ritorno a Gàlgala, località a pochi chilometri da Gerico, i cui abitanti sono sconvolti da un terribile periodo di carestia. Si presenta ad Eliseo un uomo che, riconoscendo in lui un “uomo di Dio”, gli reca in dono “venti pani d’orzo e grano novello” per onorarlo. Ma Eliseo, anziché goderne personalmente, ordina al generoso uomo di distribuire i pani alla gente. L’uomo chiaramente esita perché un pane d’orzo poteva sfamare una persona soltanto e quindi 20 pani non erano sufficienti per sfamarne 100! Tuttavia, sulla parola di Eliseo, l’uomo esegue e tutti “mangiarono e ne fecero avanzare”.
LA PAROLA della Domenica PRIMA LETTURA Dal II Libro dei Re 4,42-44 SALMO RESPONSORIALE Salmo 144 SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli efesini 4,1-6 VANGELO Vangelo di Giovanni 6,1-15

Vangelo

La pagina del capitolo sei del Vangelo di Giovanni, descrive un evento simile a quello compiuto attraverso il profeta Eliseo, ma con proporzioni più importanti. Ci si trova nel momento in cui Gesù è già stato verbalmente ostacolato e i “Giudei cercavano ancor più di ucciderlo” (5,18) pertanto Egli se ne va “dall’altra parte del mare di Galilea” e, nonostante le incomprensioni di alcuni, “lo seguiva molta gente, perché vedeva i segni che faceva sui malati”. È in questo contesto che Gesù “vista molta gente venire a sé” provvede il nutrimento materiale, dopo aver già donato la guarigione e la Sua Parola. Ma la quantità di cibo disponibile è di “5 pani d’orzo e due pesci” e le persone sono circa 5000! Il divario è assai maggiore rispetto a quello del tempo di Eliseo! Poiché altre volte abbiamo sostato su questo episodio, soffermiamoci sul signizi ficato che proviene dai numeri che in questo brano sono riportati e che certamente non sono casuali. Sia la letteratura giudaica che patristica ha approfondito il messaggio “nascosto” nei valori numerici biblici, specie quelli che ritornano di frequente. Sant’Agostino ritiene che i numeri contenuti nella Sacra Scrittura siano un ulteriore elemento per meglio comprenderla (De Doctrina, 16.25s). Effettivamente i caratteri dell’ebraico antico esprimono anche valori numerici come anche significati ben precisi. Intanto i cinque pani alluderebbero alla Legge di Mosè, costituita appunto da cinque Rotoli, interpretazione questa avvalorata dal fatto che secondo la letteratura rabbinica la Legge mosaica è rappresentata con un “pane”. I due pesci rappresenterebbero rispettivamente le altre due raccolte bibliche dei Profeti e degli Scritti. Insieme, i cinque pani e i due pesci totalizzano il numero di sette che è simbolo di perfezione perché è il numero della settimana della Creazione che è una “cosa buona”. Come è anche il numero dei giorni della processione tenuta intorno alle mura di Gerico prima della sua conquista, e anche il numero delle Chiese dell’Apocalisse. Il numero delle 12 ceste degli avanzi rimanda al significato dell’ ‘elezione’: dodici le tribù d’Israele, dodici gli Apostoli, in fin dei conti è il numero che rappresenta il popolo di Dio nella sua interezza (Antico e Nuovo Testamento). Abbiamo infine il numero di cinquemila. Il cinque e i suoi multipli sono assai usati nella Bibbia. Gesù stesso usa il numero cinque nei Suoi insegnamenti: cinque passeri, cinque talenti, cinque vergini sagge, ... per cui l’importanza del cinque è indiscusso. Ma se come abbiamo affermato sopra il cinque è per antonomasia il “numero” della Legge, allora le cinquemila persone sfamate rappresentano quanti vivono nell’osservanza della Legge (Omelia 24,6). Ora questi cinquemila riconoscono che Gesù è “davvero il profeta, colui che viene nel mondo”. Allora questo linguaggio tecnico legato al valore simbolico dei numeri ci permette di considerare che il Signore guida la storia del popolo, prima attraverso il “cibo” della Torah, poi attraverso quello del Suo stesso Corpo donato e presente nel Pane eucaristico. Tuttavia, per nutrire la “molta folla”, Gesù non agisce se non dopo aver ricorso allo spirito di condivisione degli apostoli. Attraverso la provocazione che rivolge a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” e servendosi della disponibilità di un ragazzo che possedeva cinque pani d’orzo e due pesci, Gesù può “rendere grazie” (benedizione prima del pasto secondo la Mishnà) e far avere a tutti il cibo in abbondanza. Anche oggi il Signore continua a nutrire e nel corpo e nello spirito quanti sono bisognosi, ma attende da noi la disponibilità a collaborare. “Comportatevi in maniera della chiamata che avete ricevuto”, esorta l’Autore della Lettera agli Efesini, che continua affermando che siamo “un solo corpo e un solo spirito”. Non possiamo cioè rimanere indifferenti al fatto che i 5000 affamati contro i 5 pani ci danno lo specchio della situazione mondiale: troppi paesi nel mondo dove il cibo corporale e spirituale non è sufficiente e la malattia e la morte la fanno da padrone. Che qualcuno possa dire di noi al Signore: “C’è qui un ragazzo/uomo/donna che ha cinque pani ...”.

Giuseppina Bruscolotti

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Il Signore è in mezzo al Suo popolo e provvede alle sue necessità; agli uomini spetta dunque di ricambiare tale generosità attraverso la condivisione dei beni e degli aiuti tra di loro. Questo è il messaggio che la Liturgia della Parola di domenica XVII del Tempo ordinario ci propone di accogliere. Il Salmo responsoriale è un acrostico che si serve di tutte le lettere dell’alfabeto ebraico per lodare il Signore che “sazia il desiderio di ogni vivente”, ascolta il grido di quanti si trovano in necessità e “dona loro il cibo a tempo opportuno”.

Prima lettura

Anche la prima Lettura tratta dal secondo Libro dei Re ci presenta a proposito un significativo episodio della vita del profeta Eliseo. Il profeta è di ritorno a Gàlgala, località a pochi chilometri da Gerico, i cui abitanti sono sconvolti da un terribile periodo di carestia. Si presenta ad Eliseo un uomo che, riconoscendo in lui un “uomo di Dio”, gli reca in dono “venti pani d’orzo e grano novello” per onorarlo. Ma Eliseo, anziché goderne personalmente, ordina al generoso uomo di distribuire i pani alla gente. L’uomo chiaramente esita perché un pane d’orzo poteva sfamare una persona soltanto e quindi 20 pani non erano sufficienti per sfamarne 100! Tuttavia, sulla parola di Eliseo, l’uomo esegue e tutti “mangiarono e ne fecero avanzare”.
LA PAROLA della Domenica PRIMA LETTURA Dal II Libro dei Re 4,42-44 SALMO RESPONSORIALE Salmo 144 SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli efesini 4,1-6 VANGELO Vangelo di Giovanni 6,1-15

Vangelo

La pagina del capitolo sei del Vangelo di Giovanni, descrive un evento simile a quello compiuto attraverso il profeta Eliseo, ma con proporzioni più importanti. Ci si trova nel momento in cui Gesù è già stato verbalmente ostacolato e i “Giudei cercavano ancor più di ucciderlo” (5,18) pertanto Egli se ne va “dall’altra parte del mare di Galilea” e, nonostante le incomprensioni di alcuni, “lo seguiva molta gente, perché vedeva i segni che faceva sui malati”. È in questo contesto che Gesù “vista molta gente venire a sé” provvede il nutrimento materiale, dopo aver già donato la guarigione e la Sua Parola. Ma la quantità di cibo disponibile è di “5 pani d’orzo e due pesci” e le persone sono circa 5000! Il divario è assai maggiore rispetto a quello del tempo di Eliseo! Poiché altre volte abbiamo sostato su questo episodio, soffermiamoci sul signizi ficato che proviene dai numeri che in questo brano sono riportati e che certamente non sono casuali. Sia la letteratura giudaica che patristica ha approfondito il messaggio “nascosto” nei valori numerici biblici, specie quelli che ritornano di frequente. Sant’Agostino ritiene che i numeri contenuti nella Sacra Scrittura siano un ulteriore elemento per meglio comprenderla (De Doctrina, 16.25s). Effettivamente i caratteri dell’ebraico antico esprimono anche valori numerici come anche significati ben precisi. Intanto i cinque pani alluderebbero alla Legge di Mosè, costituita appunto da cinque Rotoli, interpretazione questa avvalorata dal fatto che secondo la letteratura rabbinica la Legge mosaica è rappresentata con un “pane”. I due pesci rappresenterebbero rispettivamente le altre due raccolte bibliche dei Profeti e degli Scritti. Insieme, i cinque pani e i due pesci totalizzano il numero di sette che è simbolo di perfezione perché è il numero della settimana della Creazione che è una “cosa buona”. Come è anche il numero dei giorni della processione tenuta intorno alle mura di Gerico prima della sua conquista, e anche il numero delle Chiese dell’Apocalisse. Il numero delle 12 ceste degli avanzi rimanda al significato dell’ ‘elezione’: dodici le tribù d’Israele, dodici gli Apostoli, in fin dei conti è il numero che rappresenta il popolo di Dio nella sua interezza (Antico e Nuovo Testamento). Abbiamo infine il numero di cinquemila. Il cinque e i suoi multipli sono assai usati nella Bibbia. Gesù stesso usa il numero cinque nei Suoi insegnamenti: cinque passeri, cinque talenti, cinque vergini sagge, ... per cui l’importanza del cinque è indiscusso. Ma se come abbiamo affermato sopra il cinque è per antonomasia il “numero” della Legge, allora le cinquemila persone sfamate rappresentano quanti vivono nell’osservanza della Legge (Omelia 24,6). Ora questi cinquemila riconoscono che Gesù è “davvero il profeta, colui che viene nel mondo”. Allora questo linguaggio tecnico legato al valore simbolico dei numeri ci permette di considerare che il Signore guida la storia del popolo, prima attraverso il “cibo” della Torah, poi attraverso quello del Suo stesso Corpo donato e presente nel Pane eucaristico. Tuttavia, per nutrire la “molta folla”, Gesù non agisce se non dopo aver ricorso allo spirito di condivisione degli apostoli. Attraverso la provocazione che rivolge a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” e servendosi della disponibilità di un ragazzo che possedeva cinque pani d’orzo e due pesci, Gesù può “rendere grazie” (benedizione prima del pasto secondo la Mishnà) e far avere a tutti il cibo in abbondanza. Anche oggi il Signore continua a nutrire e nel corpo e nello spirito quanti sono bisognosi, ma attende da noi la disponibilità a collaborare. “Comportatevi in maniera della chiamata che avete ricevuto”, esorta l’Autore della Lettera agli Efesini, che continua affermando che siamo “un solo corpo e un solo spirito”. Non possiamo cioè rimanere indifferenti al fatto che i 5000 affamati contro i 5 pani ci danno lo specchio della situazione mondiale: troppi paesi nel mondo dove il cibo corporale e spirituale non è sufficiente e la malattia e la morte la fanno da padrone. Che qualcuno possa dire di noi al Signore: “C’è qui un ragazzo/uomo/donna che ha cinque pani ...”.

Giuseppina Bruscolotti

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Evento che si rinnova https://www.lavoce.it/evento-si-rinnova/ Fri, 18 May 2018 10:34:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51904 logo reubrica commento al Vangelo

“Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra” rispondiamo con il Salmo al brano tratto dal cap. 2 degli Atti degli Apostoli che la Liturgia ci propone di ascoltare domenica, solennità della Pentecoste. È il capitolo che ci riporta la prima grande occasione pubblica di annuncio del messaggio evangelico da parte degli apostoli alle 12 tribù d’Israele convenute a Gerusalemme. Nella Città santa sono infatti presenti soprattutto Giudei provenienti dalle varie province per la festa della Pentecoste, la più grande festa dopo la Pasqua. San Luca, benché non si sa con certezza se abbia assistito di persona, dà molto risalto all’evento verificatosi in tale giorno di festa. “Pentecoste” (lett. “cinquantesimo giorno”) è un termine per indicare la “festività del raccolto”. In origine era la festa agricola del “giorno delle primizie” (Nm 28,26) e della “mietitura del frumento” (Es 34,22) poi intesa genericamente come “festa del raccolto”. Nell’Antico Testamento è scritto che si dovevano “contare sette settimane” (Dt 16,9) a partire dal “giorno dopo il sabato” (Lv 23,15-16) dopodiché, portandoli dai luoghi dove abitavano, dovevano offrire “con rito di elevazione” due pani (Es 23,15s). In quel giorno di festa si doveva “convocare una riunione sacra” e astenersi dal fare qualsiasi lavoro servile. Successivamente, i due aspetti della “festa del raccolto” e della “sacra convocazione” sono confluiti in un’unica festa dal significato davvero particolare. Ovvero, poiché a partire dalla Pasqua (Es 23,5) il calcolo dei 50 giorni andava a cadere al “terzo mese” (Siwan) e poiché anche nel “terzo mese” (Es 19,1) era avvenuta la sosta presso il Monte Sinai nel corso della quale il Signore aveva stretto l’Alleanza con Israele, si suppone che i due motivi siano combinati insieme dando origine alla festa del Rinnovo dell’Alleanza (2 Cr 15,10-12). Anche la letteratura extrabiblica, come il Libro dei Giubilei e alcuni testi di Qumran rendono noto che una parte dei Giudei celebrava la Festa delle Settimane a metà del “terzo mese” come rinnovo dell’Alleanza sinaitica. Giuseppe Flavio parla di Pentecoste come del “cinquantesimo giorno che i Giudei chiamano ‘asortha’”(asarta = assemblea solenne). Quindi era di certo un grande raduno ed effettivamente gli Atti (2,36) parlano di “tutta la casa d’Israele”. A confermare ulteriormente questo messaggio del rinnovo dell’Alleanza vi è il parallelismo tra i due testi dell’Esodo (19-20) e degli Atti (2). In entrambi si parla di elementi comuni: si assiste ad una manifestazione straordinaria del divino; vi è radunata la comunità (“erano insieme”), vengono uditi “suoni” che provengono dal “cielo”, vi è il “vento” pervasivo e il “fuoco”. Agli Apostoli viene donato altresì di “parlare in altre lingue” che secondo i testi patristici si tratta della xenologhia (parlare lingue straniere), prodigio che abilita gli Apostoli ad annunciare con successo il Vangelo che viene accolto dando così origine alla prima comunità dei credenti in Cristo. È un “dono fondante” che permette agli Apostoli di andare oltre i confini etnici e spaziali. Premesso a ciò è specificato che essi “erano colmati di Spirito santo” e “cominciarono a parlare ...”, pertanto lo Spirito santo è l’ispiratore di qualcosa di nuovo che fino ad allora non avevano mai fatto e la forza per “esprimersi”, (letteralmente) per parlare apertamente e con coraggio. A chi si sono rivolti gli Apostoli? Ad una folla che san Luca descrive in modo dettagliato e costituita da provenienze ben significative. Infatti elenca: i Parti, successori degli antichi persiani; i Medi, la cui regione rappresentava il territorio dove gli Assiri avevano deportato gli israeliti; gli Elamiti, popolo che era stato incorporato con i Parti; gli abitanti della Mesopotamia, all’incirca il territorio dove gli israeliti erano stati deportati dai babilonesi al tempo di Nabucodonosor; i Giudei, (forse della zona circostante Gerusalemme); la Cappadocia, una provincia romana; l’Asia, area conquistata da Alessandro Magno nel 334 poi divenuta provincia romana; la Frigia e la Panfilia, altre province romane; l’Egitto, la terra dei faraoni e la nazione più prestigiosa dell’impero romano; la Libia e la Cirenaica, altre province romane; Romani “residenti” o visitatori che da Roma erano giunti a Gerusalemme; Giudei (osservanti scrupolosi) e proseliti (forse uomini che avevano accettato di sottoporsi al rito della circoncisione); Cretesi e Arabi, cioè territori ad ovest e ad est. È quindi “dipinta” da san Luca la situazione storico-geografica dei popoli del tempo nonché l’universalità della ricezione del messaggio salvifico. L’esito di tutto ciò è infatti confermato dallo stupore degli uditori che asseriscono: “li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”. In quel giorno santo gli Apostoli hanno vissuto la profonda gioia di veder realizzate le parole che Gesù aveva rivolto loro prima della Passione Morte: “Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio”. Ricordiamoci tuttavia che “quella effusione, benché straordinaria, non è rimasta unica e limitata a quel momento, ma è un evento che si è rinnovato e si rinnova ancora” (Papa Francesco, 08.06.’14).
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 2,1-11 SALMO RESPONSORIALE Salmo 103 SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai gàlati 5,16-25 VANGELO Vangelo di Giovanni 15,26-27; 16,12-15]]>
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“Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra” rispondiamo con il Salmo al brano tratto dal cap. 2 degli Atti degli Apostoli che la Liturgia ci propone di ascoltare domenica, solennità della Pentecoste. È il capitolo che ci riporta la prima grande occasione pubblica di annuncio del messaggio evangelico da parte degli apostoli alle 12 tribù d’Israele convenute a Gerusalemme. Nella Città santa sono infatti presenti soprattutto Giudei provenienti dalle varie province per la festa della Pentecoste, la più grande festa dopo la Pasqua. San Luca, benché non si sa con certezza se abbia assistito di persona, dà molto risalto all’evento verificatosi in tale giorno di festa. “Pentecoste” (lett. “cinquantesimo giorno”) è un termine per indicare la “festività del raccolto”. In origine era la festa agricola del “giorno delle primizie” (Nm 28,26) e della “mietitura del frumento” (Es 34,22) poi intesa genericamente come “festa del raccolto”. Nell’Antico Testamento è scritto che si dovevano “contare sette settimane” (Dt 16,9) a partire dal “giorno dopo il sabato” (Lv 23,15-16) dopodiché, portandoli dai luoghi dove abitavano, dovevano offrire “con rito di elevazione” due pani (Es 23,15s). In quel giorno di festa si doveva “convocare una riunione sacra” e astenersi dal fare qualsiasi lavoro servile. Successivamente, i due aspetti della “festa del raccolto” e della “sacra convocazione” sono confluiti in un’unica festa dal significato davvero particolare. Ovvero, poiché a partire dalla Pasqua (Es 23,5) il calcolo dei 50 giorni andava a cadere al “terzo mese” (Siwan) e poiché anche nel “terzo mese” (Es 19,1) era avvenuta la sosta presso il Monte Sinai nel corso della quale il Signore aveva stretto l’Alleanza con Israele, si suppone che i due motivi siano combinati insieme dando origine alla festa del Rinnovo dell’Alleanza (2 Cr 15,10-12). Anche la letteratura extrabiblica, come il Libro dei Giubilei e alcuni testi di Qumran rendono noto che una parte dei Giudei celebrava la Festa delle Settimane a metà del “terzo mese” come rinnovo dell’Alleanza sinaitica. Giuseppe Flavio parla di Pentecoste come del “cinquantesimo giorno che i Giudei chiamano ‘asortha’”(asarta = assemblea solenne). Quindi era di certo un grande raduno ed effettivamente gli Atti (2,36) parlano di “tutta la casa d’Israele”. A confermare ulteriormente questo messaggio del rinnovo dell’Alleanza vi è il parallelismo tra i due testi dell’Esodo (19-20) e degli Atti (2). In entrambi si parla di elementi comuni: si assiste ad una manifestazione straordinaria del divino; vi è radunata la comunità (“erano insieme”), vengono uditi “suoni” che provengono dal “cielo”, vi è il “vento” pervasivo e il “fuoco”. Agli Apostoli viene donato altresì di “parlare in altre lingue” che secondo i testi patristici si tratta della xenologhia (parlare lingue straniere), prodigio che abilita gli Apostoli ad annunciare con successo il Vangelo che viene accolto dando così origine alla prima comunità dei credenti in Cristo. È un “dono fondante” che permette agli Apostoli di andare oltre i confini etnici e spaziali. Premesso a ciò è specificato che essi “erano colmati di Spirito santo” e “cominciarono a parlare ...”, pertanto lo Spirito santo è l’ispiratore di qualcosa di nuovo che fino ad allora non avevano mai fatto e la forza per “esprimersi”, (letteralmente) per parlare apertamente e con coraggio. A chi si sono rivolti gli Apostoli? Ad una folla che san Luca descrive in modo dettagliato e costituita da provenienze ben significative. Infatti elenca: i Parti, successori degli antichi persiani; i Medi, la cui regione rappresentava il territorio dove gli Assiri avevano deportato gli israeliti; gli Elamiti, popolo che era stato incorporato con i Parti; gli abitanti della Mesopotamia, all’incirca il territorio dove gli israeliti erano stati deportati dai babilonesi al tempo di Nabucodonosor; i Giudei, (forse della zona circostante Gerusalemme); la Cappadocia, una provincia romana; l’Asia, area conquistata da Alessandro Magno nel 334 poi divenuta provincia romana; la Frigia e la Panfilia, altre province romane; l’Egitto, la terra dei faraoni e la nazione più prestigiosa dell’impero romano; la Libia e la Cirenaica, altre province romane; Romani “residenti” o visitatori che da Roma erano giunti a Gerusalemme; Giudei (osservanti scrupolosi) e proseliti (forse uomini che avevano accettato di sottoporsi al rito della circoncisione); Cretesi e Arabi, cioè territori ad ovest e ad est. È quindi “dipinta” da san Luca la situazione storico-geografica dei popoli del tempo nonché l’universalità della ricezione del messaggio salvifico. L’esito di tutto ciò è infatti confermato dallo stupore degli uditori che asseriscono: “li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”. In quel giorno santo gli Apostoli hanno vissuto la profonda gioia di veder realizzate le parole che Gesù aveva rivolto loro prima della Passione Morte: “Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio”. Ricordiamoci tuttavia che “quella effusione, benché straordinaria, non è rimasta unica e limitata a quel momento, ma è un evento che si è rinnovato e si rinnova ancora” (Papa Francesco, 08.06.’14).
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 2,1-11 SALMO RESPONSORIALE Salmo 103 SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai gàlati 5,16-25 VANGELO Vangelo di Giovanni 15,26-27; 16,12-15]]>
Comunità degli amici https://www.lavoce.it/comunita-degli-amici/ Fri, 04 May 2018 08:30:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51817 logo reubrica commento al Vangelo

Gli Atti degli apostoli in questa sesta domenica del Tempo pasquale ci propongono di ascoltare ciò che è l’apice della missione apostolica dopo la risurrezione di Cristo: il battesimo amministrato ai pagani. Si tratta del momento in cui l’apostolo Pietro e il centurione Cornelio hanno rispettivamente una propria “visione” per cui da una parte Cornelio apprende che Pietro è l’uomo per mezzo del quale otterrà la salvezza per lui e per la sua famiglia, e dall’altra Pietro è sollecitato a non farsi scrupolo di accettare l’ospitalità da parte di un nongiudeo. Pietro matura così la consapevolezza che non solo era lecito frequentare i non-giudei, ma che essi potevano anche entrare a far parte della comunità dei credenti in Cristo benché non fossero stati precedentemente sottoposti alle prescrizioni della Torah di Mosè. Quindi, dopo aver annunciato Cristo a Cornelio e ai suoi familiari, “lo Spirito santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola” e Pietro “ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo”. Conosciamo poi il seguito e quanto questo episodio, avvenuto alla presenza dei “fedeli circoncisi”, influì sulle decisioni del “concilio” di Gerusalemme che aprì definitivamente la possibilità di donare il battesimo anche ai pagani senza farli passare per il rito della circoncisione. Ecco allora che la comunità cresce e si sviluppa nella convivenza tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dal paganesimo. E il Salmo responsoriale a proposito ci invita ad affermare che il Signore “si è ricordato della sua fedeltà alla casa d’Israele” e che “tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. La consapevolezza dell’universalità del messaggio evangelico cresce quindi e si va approfondendo nella Chiesa nascente come anche si va potenziando il fonda-mento che lega i credenti tra loro: l’amore di Dio. La Parola di Dio ci fa infatti riflettere su quello che è il cuore della letteratura giovannea (I Lettera e Vangelo) nonché il segno distintivo dei seguaci di Cristo: l’amore di Dio e l’amore dei credenti tra loro. La pagina del Vangelo di Giovanni ci presenta una parte dell’ultimo discorso tenuto da Gesù agli apostoli, la parte che ruota tutta intorno al verbo amare e al sostantivo amore. Tuttavia, subito precisiamo che l’amore, secondo l’autore in questione, non riguarda tanto l’aspetto emozionale, quanto piuttosto l’atteggiamento di vita. Un’analisi “tecnica” ci può chiarificare. Si parla di un “ingranaggio” espansivo dell’amore del Padre per il Figlio, dell’amore del Figlio per i discepoli e dell’amore dei discepoli tra di loro. Esaminando i tempi verbali scopriamo che l’amore del Padre per il Figlio è espresso al presente e indica la continuità dell’azione, l’amore del Figlio per i discepoli è all’aoristo ed evidenzia la puntualità dell’azione, e quello dei credenti tra di loro al congiuntivo presente e manifesta l’invito a che l’azione dell’amarsi reciprocamente duri per sempre (proposizione esortativa). Il riferimento all’azione “puntuale” dell’amore di Gesù per i discepoli è il sacrificio sulla croce, questo per dire che Gesù lascerà ai suoi il modello di una vita concretamente offerta per amore. Non c’è possibilità alcuna quindi di fraintendere il messaggio. Gesù si rivolge ai suoi chiamandoli “amici” - non secondo la concezione gnostica (come da alcuni è stato interpretato) per cui gli “amici” sarebbero gli “eletti” che deterrebbero delle rivelazioni particolari, ma “amici” biblicamente parlando. Ad esempio, Abramo e Mosè sono definiti “amici” del Signore e hanno avuto esperienze intense e “originali” con Lui, ma non tanto per una questione intellettuale e/o conoscitiva, quanto per una finalità missionaria. Non che essi non abbiano avuto “rivelazioni”, perché sappiamo che le hanno ricevute, ma l’“amicizia” con il Signore ha fatto sì che non conservassero per sé le “rivelazioni”, ma le riferissero per costruire sulla base di esse - con la comunità - la storia della salvezza. Questa amicizia con il Signore è stata sottoposta anche a prove e, come Abramo e Mosè, anche gli “amici” di Gesù sono coinvolti in un legame intimo con il Signore (“rimanete nel mio amore”), con le conseguenze che questo comporterà e che di lì a poco si espliciteranno nelle persecuzioni contro i cristiani. Come il loro “amico” Gesù, anche gli apostoli giungeranno al grado sommo, fino cioè a sperimentare a loro volta che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Nel Simposio Platone ha affermato che “solo quelli che amano desiderano morire per gli altri”, ma nel caso di Gesù il desiderio si è trasformato in realtà, una realtà che poi ha lasciato in eredità ai suoi amici. “Dare la vita” è un’espressione poco nota alla letteratura del tempo di Gesù, eppure san Giovanni la riporta come detta più volte dal Maestro. Anche se non alludendo solo alla vita fisica, nella tradizione biblica e rabbinica si trova un’espressione simile come “consegnare la vita” (masar nefes) o, leggendo con il libro dei Giudici (12,3), “rischiare la propria vita”. Del resto che cos’è l’amore, e l’amore cristiano, se non un esporsi, un rischiare la vita per il bene dell’altro? Allora “abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri” (Papa Francesco, Gaudete, n. 133).
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 10, 25-26. 34-35. 44-48 SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Giovanni 4, 7-10 VANGELO Vangelo di Giovanni 15, 9-17]]>
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Gli Atti degli apostoli in questa sesta domenica del Tempo pasquale ci propongono di ascoltare ciò che è l’apice della missione apostolica dopo la risurrezione di Cristo: il battesimo amministrato ai pagani. Si tratta del momento in cui l’apostolo Pietro e il centurione Cornelio hanno rispettivamente una propria “visione” per cui da una parte Cornelio apprende che Pietro è l’uomo per mezzo del quale otterrà la salvezza per lui e per la sua famiglia, e dall’altra Pietro è sollecitato a non farsi scrupolo di accettare l’ospitalità da parte di un nongiudeo. Pietro matura così la consapevolezza che non solo era lecito frequentare i non-giudei, ma che essi potevano anche entrare a far parte della comunità dei credenti in Cristo benché non fossero stati precedentemente sottoposti alle prescrizioni della Torah di Mosè. Quindi, dopo aver annunciato Cristo a Cornelio e ai suoi familiari, “lo Spirito santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola” e Pietro “ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo”. Conosciamo poi il seguito e quanto questo episodio, avvenuto alla presenza dei “fedeli circoncisi”, influì sulle decisioni del “concilio” di Gerusalemme che aprì definitivamente la possibilità di donare il battesimo anche ai pagani senza farli passare per il rito della circoncisione. Ecco allora che la comunità cresce e si sviluppa nella convivenza tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dal paganesimo. E il Salmo responsoriale a proposito ci invita ad affermare che il Signore “si è ricordato della sua fedeltà alla casa d’Israele” e che “tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. La consapevolezza dell’universalità del messaggio evangelico cresce quindi e si va approfondendo nella Chiesa nascente come anche si va potenziando il fonda-mento che lega i credenti tra loro: l’amore di Dio. La Parola di Dio ci fa infatti riflettere su quello che è il cuore della letteratura giovannea (I Lettera e Vangelo) nonché il segno distintivo dei seguaci di Cristo: l’amore di Dio e l’amore dei credenti tra loro. La pagina del Vangelo di Giovanni ci presenta una parte dell’ultimo discorso tenuto da Gesù agli apostoli, la parte che ruota tutta intorno al verbo amare e al sostantivo amore. Tuttavia, subito precisiamo che l’amore, secondo l’autore in questione, non riguarda tanto l’aspetto emozionale, quanto piuttosto l’atteggiamento di vita. Un’analisi “tecnica” ci può chiarificare. Si parla di un “ingranaggio” espansivo dell’amore del Padre per il Figlio, dell’amore del Figlio per i discepoli e dell’amore dei discepoli tra di loro. Esaminando i tempi verbali scopriamo che l’amore del Padre per il Figlio è espresso al presente e indica la continuità dell’azione, l’amore del Figlio per i discepoli è all’aoristo ed evidenzia la puntualità dell’azione, e quello dei credenti tra di loro al congiuntivo presente e manifesta l’invito a che l’azione dell’amarsi reciprocamente duri per sempre (proposizione esortativa). Il riferimento all’azione “puntuale” dell’amore di Gesù per i discepoli è il sacrificio sulla croce, questo per dire che Gesù lascerà ai suoi il modello di una vita concretamente offerta per amore. Non c’è possibilità alcuna quindi di fraintendere il messaggio. Gesù si rivolge ai suoi chiamandoli “amici” - non secondo la concezione gnostica (come da alcuni è stato interpretato) per cui gli “amici” sarebbero gli “eletti” che deterrebbero delle rivelazioni particolari, ma “amici” biblicamente parlando. Ad esempio, Abramo e Mosè sono definiti “amici” del Signore e hanno avuto esperienze intense e “originali” con Lui, ma non tanto per una questione intellettuale e/o conoscitiva, quanto per una finalità missionaria. Non che essi non abbiano avuto “rivelazioni”, perché sappiamo che le hanno ricevute, ma l’“amicizia” con il Signore ha fatto sì che non conservassero per sé le “rivelazioni”, ma le riferissero per costruire sulla base di esse - con la comunità - la storia della salvezza. Questa amicizia con il Signore è stata sottoposta anche a prove e, come Abramo e Mosè, anche gli “amici” di Gesù sono coinvolti in un legame intimo con il Signore (“rimanete nel mio amore”), con le conseguenze che questo comporterà e che di lì a poco si espliciteranno nelle persecuzioni contro i cristiani. Come il loro “amico” Gesù, anche gli apostoli giungeranno al grado sommo, fino cioè a sperimentare a loro volta che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Nel Simposio Platone ha affermato che “solo quelli che amano desiderano morire per gli altri”, ma nel caso di Gesù il desiderio si è trasformato in realtà, una realtà che poi ha lasciato in eredità ai suoi amici. “Dare la vita” è un’espressione poco nota alla letteratura del tempo di Gesù, eppure san Giovanni la riporta come detta più volte dal Maestro. Anche se non alludendo solo alla vita fisica, nella tradizione biblica e rabbinica si trova un’espressione simile come “consegnare la vita” (masar nefes) o, leggendo con il libro dei Giudici (12,3), “rischiare la propria vita”. Del resto che cos’è l’amore, e l’amore cristiano, se non un esporsi, un rischiare la vita per il bene dell’altro? Allora “abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri” (Papa Francesco, Gaudete, n. 133).
LA PAROLA della Domenica
PRIMA LETTURA Atti degli Apostoli 10, 25-26. 34-35. 44-48 SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Giovanni 4, 7-10 VANGELO Vangelo di Giovanni 15, 9-17]]>
Io sono la vite vera https://www.lavoce.it/la-vite-vera/ Fri, 27 Apr 2018 08:40:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51765 logo reubrica commento al Vangelo

“Davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”, preghiamo con il Salmo responsoriale Domenica V del Tempo pasquale, ricordando che alla realizzazione di questa profezia “universalistica” è stato preposto san Paolo con la sua instancabile attività missionaria. La I Lettura ci propone proprio la figura dell’“Apostolo delle genti”, ma in una circostanza particolare. Paolo ha infatti appena vissuto l’indimenticabile e determinante incontro con Gesù sulla via di Damasco e il suo desiderio è quello di unirsi alla comunità che ruota intorno agli apostoli, ma a causa del suo precedente “ruolo” di persecutore dei cristiani, viene decisamente rifiutato. Grazie alla mediazione di Barnaba, è poi riconosciuto come vero “convertito” ed ha modo di farsi accogliere, di stabilire la comunione con gli apostoli e con essi predicare “con coraggio nel nome del Signore”. Di nuovo però viene perseguitato perché, essendosi sviluppati due gruppi di credenti, l’uno costituito dai cristiani di lingua ebraica, l’altro di lingua greca, da quest’ultimo non è compreso a tal punto da dover fuggire per non essere ucciso. Paolo, che sicuramente intendeva stare a Gerusalemme dove aveva studiato e si era formato religiosamente e culturalmente, inizia la sua peregrinazione, prima a Tarso poi, attraverso i viaggi apostolici e quello della prigionia, giunge fino a Roma. Da una parte, Paolo avvia l’annuncio di Cristo ai pagani in quanto a ciò lo aveva incaricato Lui stesso sulla via verso Damasco, dall’altra la Chiesa, in Giudea, Galilea e Samaria, “si edificava e viveva nel timore del Signore e, consolata dallo Spirito santo, cresceva di numero”. E la I Lettera dell’autore Giovanni indica i pilastri su cui si fondava questa prima comunità dei credenti: la fede nel nome di Gesù e l’amore fraterno. Relativamente al primo, sappiamo quanto fosse importante nella società semitica il “nome” perché in esso è espressa tutta quanta la persona, la sua indole e la sua missione. Credere nel nome di Gesù significa quindi accogliere la Sua persona caratterizzata dalla passione per gli esseri umani per cui l’Autore scrive, invitando i credenti ad amarsi gli uni gli altri, secondo il precetto che Gesù ha dato. Possiamo allora ritenere che l’amore fraterno sia l’elemento imprescindibile per “portare frutto” ed essere significativi così come suggerisce il messaggio della pagina del Vangelo secondo Giovanni. Gesù comincia questo discorso (che fa parte dei discorsi di “addio” tenuti nel corso dell’Ultima Cena) con la formula “Io sono” (ego eimì), formula che l’evangelista Giovanni riporta come pronunciata da Gesù ben 33 volte di cui 23 - ed è il nostro caso - con un predicato espresso (pane, porta, vita, ...). Qui il termine di paragone è la “vite vera”. La vite, insieme all’ulivo e al fico, è una delle piante che caratterizza la vegetazione palestinese ed è frequentemente presente nella letteratura veterotestamentaria con tutta la sua enfasi simbolica. È infatti immagine di vita nuova in seguito al diluvio (Gen 9), è simbolo di prosperità della Terra in procinto di essere conquistata (Nm13), è metafora della sposa del Signore, cioè del popolo d’Israele (Ct, Sal, Gr, Os). Nella pagina giovannea, viene tuttavia cambiata la prospettiva perché la “vite” non è più la Comunità, ma Gesù che addita se stesso come “vite”. La vite è una sola pianta da cui diramano diversi tralci. Quindi pensiamo alla persona di Gesù, da cui promanano quanti accolgono la Sua Parola. E da qui in poi seguono nel testo verbi e sostantivi legati alla vita agricola, con la presenza del Padre, identificato con l’agricoltore, che garantisce la continuità tra la “vigna d’Israele” e la “vite” di Gesù. Le azioni attribuite all’Agricoltore sono relative alla prassi invernale, per cui vengono tagliati i tralci secchi, e a quella dello spuntare dei germogli in primavera estate, per cui si potano i tralci per non far disperdere la linfa vitale. Queste operazioni sono messe in atto al fine di “portar frutto”. Approfondendo il brano, notiamo che, mentre inizialmente la potatura è opera del Padre, ai versetti successivi avviene come conseguenza del non rimanere uniti a Gesù. E ancora, mentre al tralcio sta la scelta se rimanere o no unito alla vite, ai discepoli di Gesù l’essere uniti a Lui è condizione per “portare frutto”, essere cioè spiritualmente fecondi. L’espressione che segue è poi ancora più drastica: “senza di me non potete far nulla”. Tutte le fatiche e le strategie escogitate in ordine alla missione e alla salvezza risultano vane senza l’intimità con Gesù. Ciò che viene chiesto in definitiva ai discepoli non è solo di essere fedeli, ma di avere un saldo e perenne legame con la parola e la persona di Gesù, di amarLo davvero cosicché l’amore, fecondo per sua natura, “porta frutto” e sfocia nell’amore vicendevole tra i credenti. A questo punto “chiedete qualunque cosa” e (letteralmente) “vi sarà fatto”: “passivo divino” per dire che il Padre non può rifiutare nulla a quanti sono fedeli e uniti a Suo Figlio. Allora verifichiamoci in merito al nostro legame con il Signore e di conseguenza chiediamo...

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 9,26-31 SALMO RESPONSORIALE Salmo 21 SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Giovanni 3,18-24 VANGELO Vangelo di Giovanni 15,1-8  ]]>
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“Davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”, preghiamo con il Salmo responsoriale Domenica V del Tempo pasquale, ricordando che alla realizzazione di questa profezia “universalistica” è stato preposto san Paolo con la sua instancabile attività missionaria. La I Lettura ci propone proprio la figura dell’“Apostolo delle genti”, ma in una circostanza particolare. Paolo ha infatti appena vissuto l’indimenticabile e determinante incontro con Gesù sulla via di Damasco e il suo desiderio è quello di unirsi alla comunità che ruota intorno agli apostoli, ma a causa del suo precedente “ruolo” di persecutore dei cristiani, viene decisamente rifiutato. Grazie alla mediazione di Barnaba, è poi riconosciuto come vero “convertito” ed ha modo di farsi accogliere, di stabilire la comunione con gli apostoli e con essi predicare “con coraggio nel nome del Signore”. Di nuovo però viene perseguitato perché, essendosi sviluppati due gruppi di credenti, l’uno costituito dai cristiani di lingua ebraica, l’altro di lingua greca, da quest’ultimo non è compreso a tal punto da dover fuggire per non essere ucciso. Paolo, che sicuramente intendeva stare a Gerusalemme dove aveva studiato e si era formato religiosamente e culturalmente, inizia la sua peregrinazione, prima a Tarso poi, attraverso i viaggi apostolici e quello della prigionia, giunge fino a Roma. Da una parte, Paolo avvia l’annuncio di Cristo ai pagani in quanto a ciò lo aveva incaricato Lui stesso sulla via verso Damasco, dall’altra la Chiesa, in Giudea, Galilea e Samaria, “si edificava e viveva nel timore del Signore e, consolata dallo Spirito santo, cresceva di numero”. E la I Lettera dell’autore Giovanni indica i pilastri su cui si fondava questa prima comunità dei credenti: la fede nel nome di Gesù e l’amore fraterno. Relativamente al primo, sappiamo quanto fosse importante nella società semitica il “nome” perché in esso è espressa tutta quanta la persona, la sua indole e la sua missione. Credere nel nome di Gesù significa quindi accogliere la Sua persona caratterizzata dalla passione per gli esseri umani per cui l’Autore scrive, invitando i credenti ad amarsi gli uni gli altri, secondo il precetto che Gesù ha dato. Possiamo allora ritenere che l’amore fraterno sia l’elemento imprescindibile per “portare frutto” ed essere significativi così come suggerisce il messaggio della pagina del Vangelo secondo Giovanni. Gesù comincia questo discorso (che fa parte dei discorsi di “addio” tenuti nel corso dell’Ultima Cena) con la formula “Io sono” (ego eimì), formula che l’evangelista Giovanni riporta come pronunciata da Gesù ben 33 volte di cui 23 - ed è il nostro caso - con un predicato espresso (pane, porta, vita, ...). Qui il termine di paragone è la “vite vera”. La vite, insieme all’ulivo e al fico, è una delle piante che caratterizza la vegetazione palestinese ed è frequentemente presente nella letteratura veterotestamentaria con tutta la sua enfasi simbolica. È infatti immagine di vita nuova in seguito al diluvio (Gen 9), è simbolo di prosperità della Terra in procinto di essere conquistata (Nm13), è metafora della sposa del Signore, cioè del popolo d’Israele (Ct, Sal, Gr, Os). Nella pagina giovannea, viene tuttavia cambiata la prospettiva perché la “vite” non è più la Comunità, ma Gesù che addita se stesso come “vite”. La vite è una sola pianta da cui diramano diversi tralci. Quindi pensiamo alla persona di Gesù, da cui promanano quanti accolgono la Sua Parola. E da qui in poi seguono nel testo verbi e sostantivi legati alla vita agricola, con la presenza del Padre, identificato con l’agricoltore, che garantisce la continuità tra la “vigna d’Israele” e la “vite” di Gesù. Le azioni attribuite all’Agricoltore sono relative alla prassi invernale, per cui vengono tagliati i tralci secchi, e a quella dello spuntare dei germogli in primavera estate, per cui si potano i tralci per non far disperdere la linfa vitale. Queste operazioni sono messe in atto al fine di “portar frutto”. Approfondendo il brano, notiamo che, mentre inizialmente la potatura è opera del Padre, ai versetti successivi avviene come conseguenza del non rimanere uniti a Gesù. E ancora, mentre al tralcio sta la scelta se rimanere o no unito alla vite, ai discepoli di Gesù l’essere uniti a Lui è condizione per “portare frutto”, essere cioè spiritualmente fecondi. L’espressione che segue è poi ancora più drastica: “senza di me non potete far nulla”. Tutte le fatiche e le strategie escogitate in ordine alla missione e alla salvezza risultano vane senza l’intimità con Gesù. Ciò che viene chiesto in definitiva ai discepoli non è solo di essere fedeli, ma di avere un saldo e perenne legame con la parola e la persona di Gesù, di amarLo davvero cosicché l’amore, fecondo per sua natura, “porta frutto” e sfocia nell’amore vicendevole tra i credenti. A questo punto “chiedete qualunque cosa” e (letteralmente) “vi sarà fatto”: “passivo divino” per dire che il Padre non può rifiutare nulla a quanti sono fedeli e uniti a Suo Figlio. Allora verifichiamoci in merito al nostro legame con il Signore e di conseguenza chiediamo...

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Atti degli apostoli 9,26-31 SALMO RESPONSORIALE Salmo 21 SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Giovanni 3,18-24 VANGELO Vangelo di Giovanni 15,1-8  ]]>