unione europea Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/unione-europea/ Settimanale di informazione regionale Fri, 23 Aug 2024 16:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg unione europea Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/unione-europea/ 32 32 L’Agenda strategica per cambiare l’Unione europea https://www.lavoce.it/lagenda-strategica-per-cambiare-lunione-europea/ https://www.lavoce.it/lagenda-strategica-per-cambiare-lunione-europea/#respond Thu, 04 Jul 2024 14:01:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76918

Una “Agenda strategica” per il 2024-2029 che intende “rendere l’Ue più forte e accrescere la sovranità europea”, affrontando “le questioni centrali connesse alle sue priorità politiche, nonché alla sua capacità di agire di fronte alla nuova realtà geopolitica e a sfide sempre più complesse”. Elaborata nel corso dei mesi, l’agenda che guarda al futuro dell’integrazione europea è stata approvata durante il Consiglio europeo del 27 giugno. Un documento di una decina di pagine, varato non senza obiezioni e malumori di alcuni Paesi membri, che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere sviluppato e concretizzato nel prossimo quinquennio parallelamente alle riforme istituzionali suggerite dalla Conferenza sul futuro dell’Europa (maggio 2021-maggio 2022) e al processo di allargamento che guarda a Balcani, Ucraina, Moldova e Georgia. La premessa al documento ricorda alcuni punti fermi dell’Ue fra cui pace, sicurezza, cooperazione economica, lotta al cambiamento climatico, ruolo costruttivo nella “rivoluzione digitale”.

“Un’Europa libera e democratica” è il primo capitolo. Democrazia e partecipazione dei cittadini sono intesi come un elemento fondamentale, assieme alla promozione della diversità culturale e del patrimonio culturale. L’Unione europea deve “continuare a essere la più accesa sostenitrice dell’ordinamento giuridico internazionale, difendendo strenuamente le Nazioni Unite e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite”.

Segue il capitolo denominato “Un’Europa forte e sicura”. Qui si nota come soprattutto la guerra in Ucraina abbia imposto il tema della sicurezza e della difesa. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina è anche un attacco contro un’Europa libera e democratica. L’Unione europea rimarrà al fianco dell’Ucraina nella sua lotta per mantenere l’indipendenza e la sovranità e riconquistare l’integrità territoriale entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale. Sosterremo inoltre la sua ricostruzione e il perseguimento di una pace giusta. L’Europa – aggiungono – deve essere un luogo in cui le persone siano e si sentano libere e sicure”. Ma per accrescere la sicurezza “serve una solida base economica”.

Infine “Un’Europa prospera e competitiva”. I Capi di Stato e di governo si dicono “determinati a rafforzare la base della nostra competitività a lungo termine e a migliorare il benessere economico e sociale dei cittadini”. Appare l’impegno a rafforzare il potere d’acquisto dei cittadini, a “creare buoni posti di lavoro e assicurare la qualità dei beni e dei servizi in Europa”. Quindi un ulteriore impegno, tante volte risuonato in passato e rimasto perlopiù sulla carta: “Colmeremo i nostri divari in termini di crescita, produttività e innovazione con i partner internazionali e i principali concorrenti”.

All’interno del mercato unico si vuole agire in diversi settori: energia, finanza, telecomunicazioni, commercio estero, spazio, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, semiconduttori, 5G/6G, sanità, biotecnologie, tecnologie a zero emissioni nette, mobilità, prodotti farmaceutici. Non ultima, la promessa: “Portare a buon fine le transizioni verde e digitale”. Per affermare, infine, che “la crescita economica deve andare a vantaggio di tutti i cittadini”, dove finalmente si parla di protezione sociale, formazione e istruzione, opportunità per i giovani. L’Agenda strategica è approvata. Ora il difficile, ma non impossibile compito, di andare oltre le parole.

Gianni Borsa
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Una “Agenda strategica” per il 2024-2029 che intende “rendere l’Ue più forte e accrescere la sovranità europea”, affrontando “le questioni centrali connesse alle sue priorità politiche, nonché alla sua capacità di agire di fronte alla nuova realtà geopolitica e a sfide sempre più complesse”. Elaborata nel corso dei mesi, l’agenda che guarda al futuro dell’integrazione europea è stata approvata durante il Consiglio europeo del 27 giugno. Un documento di una decina di pagine, varato non senza obiezioni e malumori di alcuni Paesi membri, che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere sviluppato e concretizzato nel prossimo quinquennio parallelamente alle riforme istituzionali suggerite dalla Conferenza sul futuro dell’Europa (maggio 2021-maggio 2022) e al processo di allargamento che guarda a Balcani, Ucraina, Moldova e Georgia. La premessa al documento ricorda alcuni punti fermi dell’Ue fra cui pace, sicurezza, cooperazione economica, lotta al cambiamento climatico, ruolo costruttivo nella “rivoluzione digitale”.

“Un’Europa libera e democratica” è il primo capitolo. Democrazia e partecipazione dei cittadini sono intesi come un elemento fondamentale, assieme alla promozione della diversità culturale e del patrimonio culturale. L’Unione europea deve “continuare a essere la più accesa sostenitrice dell’ordinamento giuridico internazionale, difendendo strenuamente le Nazioni Unite e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite”.

Segue il capitolo denominato “Un’Europa forte e sicura”. Qui si nota come soprattutto la guerra in Ucraina abbia imposto il tema della sicurezza e della difesa. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina è anche un attacco contro un’Europa libera e democratica. L’Unione europea rimarrà al fianco dell’Ucraina nella sua lotta per mantenere l’indipendenza e la sovranità e riconquistare l’integrità territoriale entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale. Sosterremo inoltre la sua ricostruzione e il perseguimento di una pace giusta. L’Europa – aggiungono – deve essere un luogo in cui le persone siano e si sentano libere e sicure”. Ma per accrescere la sicurezza “serve una solida base economica”.

Infine “Un’Europa prospera e competitiva”. I Capi di Stato e di governo si dicono “determinati a rafforzare la base della nostra competitività a lungo termine e a migliorare il benessere economico e sociale dei cittadini”. Appare l’impegno a rafforzare il potere d’acquisto dei cittadini, a “creare buoni posti di lavoro e assicurare la qualità dei beni e dei servizi in Europa”. Quindi un ulteriore impegno, tante volte risuonato in passato e rimasto perlopiù sulla carta: “Colmeremo i nostri divari in termini di crescita, produttività e innovazione con i partner internazionali e i principali concorrenti”.

All’interno del mercato unico si vuole agire in diversi settori: energia, finanza, telecomunicazioni, commercio estero, spazio, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, semiconduttori, 5G/6G, sanità, biotecnologie, tecnologie a zero emissioni nette, mobilità, prodotti farmaceutici. Non ultima, la promessa: “Portare a buon fine le transizioni verde e digitale”. Per affermare, infine, che “la crescita economica deve andare a vantaggio di tutti i cittadini”, dove finalmente si parla di protezione sociale, formazione e istruzione, opportunità per i giovani. L’Agenda strategica è approvata. Ora il difficile, ma non impossibile compito, di andare oltre le parole.

Gianni Borsa
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Elezioni. Chi ha davvero vinto nell’Unione Europea https://www.lavoce.it/elezioni-chi-ha-davvero-vinto-nellunione-europea/ https://www.lavoce.it/elezioni-chi-ha-davvero-vinto-nellunione-europea/#respond Wed, 19 Jun 2024 15:57:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76661

Dopo ogni consultazione elettorale, c’è il rischio di rimanere “storditi” dalle dichiarazioni dei vari schieramenti su chi abbia vinto, chi perso e su quali siano le reali proporzioni dei risultati. Ecco perché in Umbria, ormai da anni, analisti politici e comuni cittadini attendono le stime dei flussi elettorali delineate dall’Università di Perugia, in collaborazione con il Consiglio regionale dell’Umbria e il Comitato regionale per le comunicazioni. In particolare, stavolta sono stati analizzati i risultati delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno scorsi, in relazione alle elezioni politiche e ai dati dei voti per la Camera dei deputati del 2022.

Il primo elemento di interesse è la questione su chi abbia vinto davvero. “Come da lunga tradizione delle elezioni europee - afferma il documento -, anche in questa occasione ha ‘vinto’ soprattutto l’astensione dal voto che, comprese le schede bianche e nulle, rispetto alle Politiche del 2022 in Umbria è aumentata di quasi 65 mila unità, raggiungendo la percentuale record del 42.6%, mentre nella media del Paese ha raggiunto il 53% (e al Sud il 61%)”.

L’analisi realizzata dai docenti Bruno Bracalente e Antonio Forcina e da Nicola Falocci spiega che - nonostante questa crescita dell’astensionismo - ad aumentare di più i voti è stato il Partito democratico, che sembra aver invertito la prolungata tendenza al declino iniziata con le Politiche del 2013, riportandosi oltre quota 100 mila voti e al 26.4% (+5.5% rispetto alle ultime Politiche). “Significativo - continua il documento è stato anche l’incremento di voti della Sinistra (Avs e liste minori della sinistra radicale): quasi 2 mila voti in più (+1.4%). Sul fronte del centro destra soltanto Forza Italia (con Noi moderati) ha aumentato sia i voti (+1200) che la percentuale (+1.2%), mentre Fratelli d’Italia ha aumentato la percentuale di quasi altri 2 punti, portandosi al 32.6%, nonostante la diminuzione di circa 6 mila voti assoluti”.

Ecco, dunque, che ne consegue il risultato di chi è andato peggio e quindi ha perso, cioè tutte le altre liste, che hanno diminuito sia i voti assoluti che le percentuali. “Più di tutti ha perso l’ex Terzo polo sostengono Bracalente, Forcina e Falocci - , che rispetto alle politiche del 2022 ha più che dimezzato i voti (-23 mila) e ha ridotto la percentuale di quasi 5 punti, portandosi al 5.6%. Segue il M5S, che ha perso più di 20 mila voti e il 3.8%, portandosi all’8.4% (stessa percentuale della sinistra radicale). Infine ha perso la Lega, che dopo il tracollo delle ultime Politiche ha perso altri 7 mila voti e un altro punto percentuale, portandosi al 6.8%”.

Come alcuni analisti commentavano già all’indomani del voto, le stime sui flussi confermano che, “a confronto con tutte le precedenti tornate elettorali degli ultimi dieci anni, a partire dalle Politiche del 2013, quello delle ultime Europee nel complesso è stato un voto più nel segno della stabilità che del cambiamento”. Il 39% degli elettori umbri ha cambiato scelta rispetto a due anni fa, anche passando dal voto all’astensione e viceversa, mentre il restante 61% dei votanti è rimasto fedele al proprio partito o movimento confermando le scelte del 2022, anche se con rilevanti differenze tra le liste.

In particolare, il Pd è riuscito a conservare alle Europee il voto del 78% dei propri elettori del 2022, seguito da Sinistra e Fratelli d’Italia con, rispettivamente, il 76% e il 68% di fedeltà. “Specularmente - aggiunge l’analisi sul voto umbro - , la scarsa capacità di mantenere il consenso delle precedenti Politiche ha quasi sempre determinato l’insuccesso dei restanti partiti e movimenti: l’ex Terzo polo e la Lega (con Adx), entrambi con il 44% di fedeltà; poi il M5S con il 58%. Fa eccezione Forza Italia che ha aumentato i consensi anche potendo contare su una modesta fedeltà dei propri elettori del 2022 (57%), grazie a un notevole afflusso di nuovi voti”.

Ma torniamo all’astensionismo perché proprio questa disaffezione al voto è il fenomeno più evidente nel determinare le differenze fra Politiche 2022 ed Europee 2024. “Complessivamente spiega il documento sui flussi - , il fenomeno ha riguardato poco meno di 60 mila elettori: circa 120 mila nuovi astenuti meno 63 mila ex astenuti tornati al voto”. Tra le liste che più hanno contribuito alla crescita dell’astensionismo ci sono la Lega, che ha lasciato al non voto circa il 40% dei propri elettori del 2022, il M5S il 28%, l’ex Terzo polo il 27%, FI e FdI che hanno ceduto all’astensione rispettivamente il 31% e il 28% dei propri elettori delle Politiche. Meglio hanno invece fatto, anche da questo punto di vista, Sinistra e Pd i cui elettori hanno mostrato la minore propensione a farsi attrarre dal non voto alle Europee, rispettivamente il 15% e il 19%.

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Dopo ogni consultazione elettorale, c’è il rischio di rimanere “storditi” dalle dichiarazioni dei vari schieramenti su chi abbia vinto, chi perso e su quali siano le reali proporzioni dei risultati. Ecco perché in Umbria, ormai da anni, analisti politici e comuni cittadini attendono le stime dei flussi elettorali delineate dall’Università di Perugia, in collaborazione con il Consiglio regionale dell’Umbria e il Comitato regionale per le comunicazioni. In particolare, stavolta sono stati analizzati i risultati delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno scorsi, in relazione alle elezioni politiche e ai dati dei voti per la Camera dei deputati del 2022.

Il primo elemento di interesse è la questione su chi abbia vinto davvero. “Come da lunga tradizione delle elezioni europee - afferma il documento -, anche in questa occasione ha ‘vinto’ soprattutto l’astensione dal voto che, comprese le schede bianche e nulle, rispetto alle Politiche del 2022 in Umbria è aumentata di quasi 65 mila unità, raggiungendo la percentuale record del 42.6%, mentre nella media del Paese ha raggiunto il 53% (e al Sud il 61%)”.

L’analisi realizzata dai docenti Bruno Bracalente e Antonio Forcina e da Nicola Falocci spiega che - nonostante questa crescita dell’astensionismo - ad aumentare di più i voti è stato il Partito democratico, che sembra aver invertito la prolungata tendenza al declino iniziata con le Politiche del 2013, riportandosi oltre quota 100 mila voti e al 26.4% (+5.5% rispetto alle ultime Politiche). “Significativo - continua il documento è stato anche l’incremento di voti della Sinistra (Avs e liste minori della sinistra radicale): quasi 2 mila voti in più (+1.4%). Sul fronte del centro destra soltanto Forza Italia (con Noi moderati) ha aumentato sia i voti (+1200) che la percentuale (+1.2%), mentre Fratelli d’Italia ha aumentato la percentuale di quasi altri 2 punti, portandosi al 32.6%, nonostante la diminuzione di circa 6 mila voti assoluti”.

Ecco, dunque, che ne consegue il risultato di chi è andato peggio e quindi ha perso, cioè tutte le altre liste, che hanno diminuito sia i voti assoluti che le percentuali. “Più di tutti ha perso l’ex Terzo polo sostengono Bracalente, Forcina e Falocci - , che rispetto alle politiche del 2022 ha più che dimezzato i voti (-23 mila) e ha ridotto la percentuale di quasi 5 punti, portandosi al 5.6%. Segue il M5S, che ha perso più di 20 mila voti e il 3.8%, portandosi all’8.4% (stessa percentuale della sinistra radicale). Infine ha perso la Lega, che dopo il tracollo delle ultime Politiche ha perso altri 7 mila voti e un altro punto percentuale, portandosi al 6.8%”.

Come alcuni analisti commentavano già all’indomani del voto, le stime sui flussi confermano che, “a confronto con tutte le precedenti tornate elettorali degli ultimi dieci anni, a partire dalle Politiche del 2013, quello delle ultime Europee nel complesso è stato un voto più nel segno della stabilità che del cambiamento”. Il 39% degli elettori umbri ha cambiato scelta rispetto a due anni fa, anche passando dal voto all’astensione e viceversa, mentre il restante 61% dei votanti è rimasto fedele al proprio partito o movimento confermando le scelte del 2022, anche se con rilevanti differenze tra le liste.

In particolare, il Pd è riuscito a conservare alle Europee il voto del 78% dei propri elettori del 2022, seguito da Sinistra e Fratelli d’Italia con, rispettivamente, il 76% e il 68% di fedeltà. “Specularmente - aggiunge l’analisi sul voto umbro - , la scarsa capacità di mantenere il consenso delle precedenti Politiche ha quasi sempre determinato l’insuccesso dei restanti partiti e movimenti: l’ex Terzo polo e la Lega (con Adx), entrambi con il 44% di fedeltà; poi il M5S con il 58%. Fa eccezione Forza Italia che ha aumentato i consensi anche potendo contare su una modesta fedeltà dei propri elettori del 2022 (57%), grazie a un notevole afflusso di nuovi voti”.

Ma torniamo all’astensionismo perché proprio questa disaffezione al voto è il fenomeno più evidente nel determinare le differenze fra Politiche 2022 ed Europee 2024. “Complessivamente spiega il documento sui flussi - , il fenomeno ha riguardato poco meno di 60 mila elettori: circa 120 mila nuovi astenuti meno 63 mila ex astenuti tornati al voto”. Tra le liste che più hanno contribuito alla crescita dell’astensionismo ci sono la Lega, che ha lasciato al non voto circa il 40% dei propri elettori del 2022, il M5S il 28%, l’ex Terzo polo il 27%, FI e FdI che hanno ceduto all’astensione rispettivamente il 31% e il 28% dei propri elettori delle Politiche. Meglio hanno invece fatto, anche da questo punto di vista, Sinistra e Pd i cui elettori hanno mostrato la minore propensione a farsi attrarre dal non voto alle Europee, rispettivamente il 15% e il 19%.

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Senza l’Unione Europea, il diluvio https://www.lavoce.it/senza-lunione-europea-il-diluvio/ https://www.lavoce.it/senza-lunione-europea-il-diluvio/#respond Wed, 05 Jun 2024 16:25:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76489

In un saggio celebre tra gli studiosi dei fenomeni politici, pubblicato a Londra subito dopo le prime elezioni europee del 1979, Karlheinz Reif e Hermann Schmitt attribuirono a questo voto il carattere di second-order. Il significato sostanziale di questa espressione dovrebbe risultare chiaro anche a chi non conosce l’inglese. Ma perché le elezioni europee sarebbero – diciamo così – di secondo piano, rispetto ovviamente a quelle politiche nazionali? Essenzialmente perché in esse la posta in gioco è inferiore, o almeno in questi termini viene percepita dall’opinione pubblica. Questo aspetto, tra l’altro, sarebbe anche alla base della minore partecipazione al voto. Tale percezione era inadeguata anche in passato, ma poteva essere comprensibile allo stato degli atti. Oggi, però, è veramente insostenibile. Pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nella sua prima relazione annuale, ha affermato che “l’avanzamento dell’integrazione europea è la risposta ai mutati equilibri geopolitici e al rischio di irrilevanza cui i singoli Stati membri sarebbero altrimenti condannati dalla cruda aritmetica dei numeri”. Sono parole nettissime, pronunciate da una personalità di grande autorevolezza, con una specifica esperienza da membro del direttorio della Banca centrale europea, e la cui nomina è avvenuta nella stagione dell’attuale maggioranza, in cui pure le venature euroscettiche non mancano. Del resto, solo un pregiudizio ideologico potrebbe impedire di vedere quel che Panetta ha sottolineato con estrema lucidità. Da banchiere centrale, per giunta, egli è ben consapevole che la quasi totalità della nostra crescita economica è legata all’attuazione del Pnrr e quindi ai fondi europei. Altro che di secondo piano! Oggi la posta in gioco nelle elezioni europee è d’importanza cruciale. E per una volta le ragioni ideali e quelle economiche spingono nella stessa direzione. Quando il card. Zuppi, presidente della Cei, formula l’auspicio che “l’Europa si ricordi delle sue radici” e che “la scelta sia per un futuro maggiore, e non minore, dell’Europa”, muove da presupposti chiaramente diversi da quelli pragmatici del governatore della Banca d’Italia, ma indica una prospettiva che tende a convergere. Del resto è una pericolosa illusione quella di chi immagina di poter fare a meno dell’Europa o comunque di ridimensionarne il ruolo. La nostra collettività, ha scritto il Capo dello Stato nel messaggio ai prefetti per il 2 giugno, è “inserita oggi nella più ampia comunità dell’Unione europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri popoli liberi del Continente e di cui consacreremo, tra pochi giorni, con l’elezione del Parlamento Europeo, la sovranità”. Una sovranità che è l’esatto contrario di quei sovranismi che alimentano venti di guerra anche lì dove sembrava impossibile che fosse rimessa in discussione la pace. E che invece è in piena sintonia con le piccole sovranità dei nostri territori in cui “viene rinsaldata l’unità dell’edificio democratico, valorizzando il principio di autonomia nell’orizzonte della solidarietà”, per citare ancora il messaggio di Mattarella. La coincidenza del voto europeo con quello in 3.700 Comuni ci ricorda che, statistiche alla mano, la partecipazione alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo è maggiore in quelle località in cui i seggi si aprono anche per le amministrative. Un effetto-traino sul piano pratico, certo, ma anche la conferma che la democrazia si costruisce dal basso. Stefano De Martis]]>

In un saggio celebre tra gli studiosi dei fenomeni politici, pubblicato a Londra subito dopo le prime elezioni europee del 1979, Karlheinz Reif e Hermann Schmitt attribuirono a questo voto il carattere di second-order. Il significato sostanziale di questa espressione dovrebbe risultare chiaro anche a chi non conosce l’inglese. Ma perché le elezioni europee sarebbero – diciamo così – di secondo piano, rispetto ovviamente a quelle politiche nazionali? Essenzialmente perché in esse la posta in gioco è inferiore, o almeno in questi termini viene percepita dall’opinione pubblica. Questo aspetto, tra l’altro, sarebbe anche alla base della minore partecipazione al voto. Tale percezione era inadeguata anche in passato, ma poteva essere comprensibile allo stato degli atti. Oggi, però, è veramente insostenibile. Pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nella sua prima relazione annuale, ha affermato che “l’avanzamento dell’integrazione europea è la risposta ai mutati equilibri geopolitici e al rischio di irrilevanza cui i singoli Stati membri sarebbero altrimenti condannati dalla cruda aritmetica dei numeri”. Sono parole nettissime, pronunciate da una personalità di grande autorevolezza, con una specifica esperienza da membro del direttorio della Banca centrale europea, e la cui nomina è avvenuta nella stagione dell’attuale maggioranza, in cui pure le venature euroscettiche non mancano. Del resto, solo un pregiudizio ideologico potrebbe impedire di vedere quel che Panetta ha sottolineato con estrema lucidità. Da banchiere centrale, per giunta, egli è ben consapevole che la quasi totalità della nostra crescita economica è legata all’attuazione del Pnrr e quindi ai fondi europei. Altro che di secondo piano! Oggi la posta in gioco nelle elezioni europee è d’importanza cruciale. E per una volta le ragioni ideali e quelle economiche spingono nella stessa direzione. Quando il card. Zuppi, presidente della Cei, formula l’auspicio che “l’Europa si ricordi delle sue radici” e che “la scelta sia per un futuro maggiore, e non minore, dell’Europa”, muove da presupposti chiaramente diversi da quelli pragmatici del governatore della Banca d’Italia, ma indica una prospettiva che tende a convergere. Del resto è una pericolosa illusione quella di chi immagina di poter fare a meno dell’Europa o comunque di ridimensionarne il ruolo. La nostra collettività, ha scritto il Capo dello Stato nel messaggio ai prefetti per il 2 giugno, è “inserita oggi nella più ampia comunità dell’Unione europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri popoli liberi del Continente e di cui consacreremo, tra pochi giorni, con l’elezione del Parlamento Europeo, la sovranità”. Una sovranità che è l’esatto contrario di quei sovranismi che alimentano venti di guerra anche lì dove sembrava impossibile che fosse rimessa in discussione la pace. E che invece è in piena sintonia con le piccole sovranità dei nostri territori in cui “viene rinsaldata l’unità dell’edificio democratico, valorizzando il principio di autonomia nell’orizzonte della solidarietà”, per citare ancora il messaggio di Mattarella. La coincidenza del voto europeo con quello in 3.700 Comuni ci ricorda che, statistiche alla mano, la partecipazione alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo è maggiore in quelle località in cui i seggi si aprono anche per le amministrative. Un effetto-traino sul piano pratico, certo, ma anche la conferma che la democrazia si costruisce dal basso. Stefano De Martis]]>
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Ma quali poteri ha l’Unione europea? https://www.lavoce.it/ma-quali-poteri-ha-lunione-europea/ https://www.lavoce.it/ma-quali-poteri-ha-lunione-europea/#respond Wed, 15 May 2024 14:12:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76194

Il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale dal 1979 ma, forse, è ancora piuttosto sconosciuto agli elettori. L’avvicinarsi delle elezioni di giugno per il rinnovo dell’Assemblea Ue pone legittime domande ai cittadini: quali poteri ha in effetti il Parlamento europeo, con sedi a Strasburgo e Bruxelles, composto da 720 eurodeputati eletti in 27 Paesi che rimarranno in carica per cinque anni?

Occorre riconoscere che dal Trattato di Lisbona (2009) in poi, l’Assemblea ha assunto compiti e visibilità assai superiori rispetto al passato e attualmente detiene poteri legislativi, di bilancio e di “controllo democratico”. Ha il potere di approvare e modificare la legislazione, decide in merito al bilancio annuale dell’Ue – come chiarisce il Trattato – su un piano di parità con il Consiglio (dove sono rappresentati gli Stati membri). Inoltre fa in modo che la Commissione e altre istituzioni e organi dell’Ue rendano conto del proprio operato.

L’Europarlamento detiene dunque anzitutto il potere legislativo. La grande maggioranza delle leggi comunitarie è approvata mediante la procedura legislativa ordinaria (denominata anche procedura “di codecisione”). Il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini, e il Consiglio, rappresentante degli Stati, insieme definiscono regolamenti e direttive europee che diventano leggi per i 440 milioni di cittadini europei. Leggi che riguardano l’economia e il commercio, il mercato unico, trasporti e infrastrutture, la protezione dei consumatori, la protezione dell’ambiente, l’energia, alcuni aspetti della tutela della salute, la sicurezza, le comunicazioni, fino – una delle ultime normative Ue – l’intelligenza artificiale.

Vi sono poi altre procedure legislative nelle quali il Parlamento europeo interviene per “approvazione” (ad es. l’approvazione di adesioni di nuovi Stati membri; l’approvazione collegio dei commissari) o per “consultazione” (procedura applicata in ambiti particolari come l’imposizione fiscale, il diritto in materia di concorrenza, la politica estera e di sicurezza comune).

Il Parlamento europeo stabilisce inoltre il bilancio annuale dell’Unione insieme al Consiglio, nel rispetto del “quadro finanziario pluriennale” (bilancio per sette anni), e controlla la spesa del bilancio stesso attraverso la “procedura di discarico” annuale. Quando si sente parlare di “fondi europei” e di finanziamenti a programmi Ue si chiama dunque in causa scelte assunte anche dall’Europarlamento.

Tra gli altri compiti principali del Parlamento vi è la nomina del presidente della Commissione: questo sarà uno dei primi compiti dopo le elezioni di giugno. “Gli Stati membri nominano un candidato per l’incarico, ma devono tenere conto dei risultati delle elezioni europee”. Sarà poi il Parlamento a eleggere il nuovo presidente della Commissione a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

“Se il candidato non ottiene i voti necessari, gli Stati membri devono proporne un altro entro un mese” mediante una riunione del Consiglio europeo. Dopodiché gli Stati membri indicheranno i loro candidati a far parte del collegio dei commissari: questi dovranno superare le “audizioni”, ovvero un severo esame dinanzi agli eurodeputati. Infine l’intera Commissione sarà sottoposta al voto di approvazione del Parlamento europeo.

“Usa il tuo”: questo lo slogan adottato dall’Ue per richiamare i cittadini a far sentire la loro voce a giugno. Anche per evitare che siano altri a decidere per sé.

Gianni Borsa e Marco Calvarese
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Il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale dal 1979 ma, forse, è ancora piuttosto sconosciuto agli elettori. L’avvicinarsi delle elezioni di giugno per il rinnovo dell’Assemblea Ue pone legittime domande ai cittadini: quali poteri ha in effetti il Parlamento europeo, con sedi a Strasburgo e Bruxelles, composto da 720 eurodeputati eletti in 27 Paesi che rimarranno in carica per cinque anni?

Occorre riconoscere che dal Trattato di Lisbona (2009) in poi, l’Assemblea ha assunto compiti e visibilità assai superiori rispetto al passato e attualmente detiene poteri legislativi, di bilancio e di “controllo democratico”. Ha il potere di approvare e modificare la legislazione, decide in merito al bilancio annuale dell’Ue – come chiarisce il Trattato – su un piano di parità con il Consiglio (dove sono rappresentati gli Stati membri). Inoltre fa in modo che la Commissione e altre istituzioni e organi dell’Ue rendano conto del proprio operato.

L’Europarlamento detiene dunque anzitutto il potere legislativo. La grande maggioranza delle leggi comunitarie è approvata mediante la procedura legislativa ordinaria (denominata anche procedura “di codecisione”). Il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini, e il Consiglio, rappresentante degli Stati, insieme definiscono regolamenti e direttive europee che diventano leggi per i 440 milioni di cittadini europei. Leggi che riguardano l’economia e il commercio, il mercato unico, trasporti e infrastrutture, la protezione dei consumatori, la protezione dell’ambiente, l’energia, alcuni aspetti della tutela della salute, la sicurezza, le comunicazioni, fino – una delle ultime normative Ue – l’intelligenza artificiale.

Vi sono poi altre procedure legislative nelle quali il Parlamento europeo interviene per “approvazione” (ad es. l’approvazione di adesioni di nuovi Stati membri; l’approvazione collegio dei commissari) o per “consultazione” (procedura applicata in ambiti particolari come l’imposizione fiscale, il diritto in materia di concorrenza, la politica estera e di sicurezza comune).

Il Parlamento europeo stabilisce inoltre il bilancio annuale dell’Unione insieme al Consiglio, nel rispetto del “quadro finanziario pluriennale” (bilancio per sette anni), e controlla la spesa del bilancio stesso attraverso la “procedura di discarico” annuale. Quando si sente parlare di “fondi europei” e di finanziamenti a programmi Ue si chiama dunque in causa scelte assunte anche dall’Europarlamento.

Tra gli altri compiti principali del Parlamento vi è la nomina del presidente della Commissione: questo sarà uno dei primi compiti dopo le elezioni di giugno. “Gli Stati membri nominano un candidato per l’incarico, ma devono tenere conto dei risultati delle elezioni europee”. Sarà poi il Parlamento a eleggere il nuovo presidente della Commissione a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

“Se il candidato non ottiene i voti necessari, gli Stati membri devono proporne un altro entro un mese” mediante una riunione del Consiglio europeo. Dopodiché gli Stati membri indicheranno i loro candidati a far parte del collegio dei commissari: questi dovranno superare le “audizioni”, ovvero un severo esame dinanzi agli eurodeputati. Infine l’intera Commissione sarà sottoposta al voto di approvazione del Parlamento europeo.

“Usa il tuo”: questo lo slogan adottato dall’Ue per richiamare i cittadini a far sentire la loro voce a giugno. Anche per evitare che siano altri a decidere per sé.

Gianni Borsa e Marco Calvarese
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Cara Unione europea, tu sei la nostra prima casa comune https://www.lavoce.it/cara-unione-europe-sei-nostra-prima-casa-comune/ https://www.lavoce.it/cara-unione-europe-sei-nostra-prima-casa-comune/#respond Thu, 09 May 2024 15:34:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76077

Pubblichiamo la Lettera all’Unione europea del card. Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, e di mons. Mariano Crociata, presidente della Comece, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 e in vista delle prossime elezioni europee. Cara Unione europea, darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il Covid lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi. La Comunità europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette. Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: “Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?” (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023). In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero! Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: “L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”. Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli? Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi. Ha detto Papa Francesco: “In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea” (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023). Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica. “Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno” (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti. Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate. Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e la nomina della Commissione europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce. Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione europea. L’augurio che ti facciamo, cara Unione europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: “Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, ‘un costante cammino di umanizzazione’, cui servono ‘memoria, coraggio, sana e umana utopia'” (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).]]>

Pubblichiamo la Lettera all’Unione europea del card. Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, e di mons. Mariano Crociata, presidente della Comece, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 e in vista delle prossime elezioni europee. Cara Unione europea, darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il Covid lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi. La Comunità europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette. Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: “Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?” (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023). In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero! Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: “L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”. Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli? Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi. Ha detto Papa Francesco: “In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea” (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023). Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica. “Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno” (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti. Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate. Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e la nomina della Commissione europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce. Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione europea. L’augurio che ti facciamo, cara Unione europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: “Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, ‘un costante cammino di umanizzazione’, cui servono ‘memoria, coraggio, sana e umana utopia'” (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).]]>
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Non rassegnarsi alle armi https://www.lavoce.it/non-rassegnarsi-alle-armi/ https://www.lavoce.it/non-rassegnarsi-alle-armi/#respond Wed, 20 Mar 2024 15:26:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75387 L'esterno del Parlamento europeo a Bruxelles

C’è un rischio: impossibile non vederlo. Il summit dei Capi di Stato e di governo Ue, convocato per il 21 e 22 marzo a Bruxelles, rischia di trasformarsi in un “Consiglio di guerra”. L’aggressione russa all’Ucraina sta segnando da oltre due anni la storia continentale, che si era abituata alla pace.

Il risultato delle “elezioni” (le virgolette sono d’obbligo) in Russia rafforza il minaccioso autocrate Putin, il quale ormai si occupa solo di guerra. Sul campo avverso c’è l’aggredita Ucraina, con un leader – Zelensky – cui non resta che invocare aiuti militari nella disperata impresa di salvare il proprio Paese dalla distruzione totale. Il terzo co-protagonista è l’Unione europea, schierata al fianco di Kiev con soldi e armamenti; ma anche qui il peso del conflitto comincia a segnare “diserzioni” (Ungheria), passi indietro e divisioni (diventare cobelligeranti? Inviare truppe di terra? Entrare in campo assieme alla Nato?).

Una cosa è certa: diversi leader europei (Macron, Tusk…) e qualche responsabile di istituzioni Ue hanno imboccato la strada del conflitto aperto, con una parola d’ordine: sostenere militarmente l’Ucraina, sconfiggere la Russia. Atteggiamento comprensibile secondo il diritto internazionale. Purché non si rinunci, al contempo, a tenere testardamente aperta la strada della mediazione, della soluzione politica e diplomatica. In questo senso, un peccato di omissione non sarebbe giustificabile, perché nel frattempo le armi uccidono e distruggono.

Tornando al Consiglio europeo di primavera, l’ordine del giorno parla chiaro: “I leader dell’Ue discuteranno del proseguimento del sostegno all’Ucraina e alla sua popolazione in risposta all’aggressione militare della Russia. L’Ue continuerà a fornire un sostegno politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico per tutto il tempo necessario”.

Finora l’Unione europea e i suoi Stati membri hanno fornito all’Ucraina oltre 138 miliardi di euro, e tante, tante armi e munizioni. Ora si parla di missili. Sempre nell’agenda dei leader figura al secondo punto il tema della difesa: se Putin attacca, occorre difendersi, è il ragionamento. Così i Ventisette discuteranno della “necessità per l’Europa di aumentare la sua prontezza in materia di difesa”, di come “rendere l’industria della difesa più resiliente e competitiva” e di un “programma europeo di investimenti nel settore della difesa”. La quale dovrà essere appunto “competitiva” nel produrre armi per i propri eserciti (e continuare a commerciare aerei, carri armati, bombe, fucili con numerosi Paesi del mondo). Gli arsenali vanno riempiti per essere poi svuotati.

I venti di guerra – in Ucraina, così pure in Medio Oriente e in altre aree del pianeta – segnano profondamente il cammino dell’Unione, e dell’umanità. Con un timore sottaciuto: un’escalation regionale dei conflitti. Con esiti imprevedibili.

Risuonano, come un monito, le parole espresse il 18 marzo dal cardinale Matteo Zuppi al Consiglio permanente della Cei: “Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace”.

Gianni Borsa

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L'esterno del Parlamento europeo a Bruxelles

C’è un rischio: impossibile non vederlo. Il summit dei Capi di Stato e di governo Ue, convocato per il 21 e 22 marzo a Bruxelles, rischia di trasformarsi in un “Consiglio di guerra”. L’aggressione russa all’Ucraina sta segnando da oltre due anni la storia continentale, che si era abituata alla pace.

Il risultato delle “elezioni” (le virgolette sono d’obbligo) in Russia rafforza il minaccioso autocrate Putin, il quale ormai si occupa solo di guerra. Sul campo avverso c’è l’aggredita Ucraina, con un leader – Zelensky – cui non resta che invocare aiuti militari nella disperata impresa di salvare il proprio Paese dalla distruzione totale. Il terzo co-protagonista è l’Unione europea, schierata al fianco di Kiev con soldi e armamenti; ma anche qui il peso del conflitto comincia a segnare “diserzioni” (Ungheria), passi indietro e divisioni (diventare cobelligeranti? Inviare truppe di terra? Entrare in campo assieme alla Nato?).

Una cosa è certa: diversi leader europei (Macron, Tusk…) e qualche responsabile di istituzioni Ue hanno imboccato la strada del conflitto aperto, con una parola d’ordine: sostenere militarmente l’Ucraina, sconfiggere la Russia. Atteggiamento comprensibile secondo il diritto internazionale. Purché non si rinunci, al contempo, a tenere testardamente aperta la strada della mediazione, della soluzione politica e diplomatica. In questo senso, un peccato di omissione non sarebbe giustificabile, perché nel frattempo le armi uccidono e distruggono.

Tornando al Consiglio europeo di primavera, l’ordine del giorno parla chiaro: “I leader dell’Ue discuteranno del proseguimento del sostegno all’Ucraina e alla sua popolazione in risposta all’aggressione militare della Russia. L’Ue continuerà a fornire un sostegno politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico per tutto il tempo necessario”.

Finora l’Unione europea e i suoi Stati membri hanno fornito all’Ucraina oltre 138 miliardi di euro, e tante, tante armi e munizioni. Ora si parla di missili. Sempre nell’agenda dei leader figura al secondo punto il tema della difesa: se Putin attacca, occorre difendersi, è il ragionamento. Così i Ventisette discuteranno della “necessità per l’Europa di aumentare la sua prontezza in materia di difesa”, di come “rendere l’industria della difesa più resiliente e competitiva” e di un “programma europeo di investimenti nel settore della difesa”. La quale dovrà essere appunto “competitiva” nel produrre armi per i propri eserciti (e continuare a commerciare aerei, carri armati, bombe, fucili con numerosi Paesi del mondo). Gli arsenali vanno riempiti per essere poi svuotati.

I venti di guerra – in Ucraina, così pure in Medio Oriente e in altre aree del pianeta – segnano profondamente il cammino dell’Unione, e dell’umanità. Con un timore sottaciuto: un’escalation regionale dei conflitti. Con esiti imprevedibili.

Risuonano, come un monito, le parole espresse il 18 marzo dal cardinale Matteo Zuppi al Consiglio permanente della Cei: “Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace”.

Gianni Borsa

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Agricoltura chiama Unione europea https://www.lavoce.it/agricoltura-chiama-unione-europea/ https://www.lavoce.it/agricoltura-chiama-unione-europea/#respond Fri, 09 Feb 2024 16:08:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74879 Un trattore in primo piano davanti al parlamento europeo di Strasburgo

Uniti contro l’Europa, ma divisi al proprio interno: a guardare le cronache delle proteste agricole di questi giorni, parrebbe così. Gli agricoltori di buona parte dei Paesi dell’Ue hanno mosso i trattori verso Bruxelles spinti da un sentimento: “Questa non è l’Europa che vogliamo, questa non è la politica agricola che vogliamo”.

In realtà, le motivazioni dietro le proteste appaiono diversificate a seconda delle agricolture e quindi degli Stati. Uno solo il denominatore comune: una magma incandescente che non solo rischia di travolgere alcuni pilastri della Politica agricola comune (Pac), ma che, in alcuni casi, vorrebbe mettere in discussione il sistema stesso della rappresentanza agricola.

In Italia, da nord a sud, nuclei di trattori hanno bloccato alcuni caselli autostradali e altri svincoli cruciali, tra cui Orvieto. Gruppi estemporanei di coltivatori riuniti in sigle comparse recentemente come quella dei “ Comitati riuniti agricoli” che in alcuni casi si sono definiti “agricoltori traditi”. Obiettivo dichiarato: arrivare fino a Roma, sotto palazzo Chigi.

Più caute le organizzazioni strutturate che, come Coldiretti, rivendicano già qualche risultato. Ettore Prandini, a capo dell’organizzazione dei coltivatori diretti, ha dichiarato: “Continueremo finché l’Europa non darà le risposte che il mondo agricolo merita. Ci servono più fondi, non tagli”. In un’altra occasione ha dichiarato: “Chiediamo alle future istituzioni Ue di iniziare fin da subito a riflettere su come adattare la futura Pac alle rinnovate esigenze di redditività e competitività delle imprese agricole nel nuovo scenario internazionale”. Qualcosa, in effetti, è già stato ottenuto. La Commissione Ue ha fatto sapere che si sta lavorando a un pacchetto di proposte con l’obiettivo di alleggerire il carico burocratico sulle imprese.

La stessa Commissione ha però in un certo modo scaricato il dovere anche sui Governi nazionali: nella nuova politica agricola, da qui al 2027 ai singoli Stati è infatti affidato il compito di “disegnare schemi e programmi che funzionino per i nostri agricoltori, per la nostra sicurezza alimentare, per gli obiettivi climatici e di sostenibilità”. Oltre alle grandi strategie, d’altra parte, la Commissione ha già proposto una deroga al blocco delle coltivazioni dei terreni, che era uno dei motivi che aveva scatenato la rivolta.

Dal canto suo, il Governo italiano ha ricordato di essere stato molto attento alle esigenze del settore, portando le risorse Pnrr dedicate ai campi da 5 a 8 miliardi di euro. Situazioni composite, invece, in altri Paesi Ue, in cui tra concessioni e proroghe, comunque, qualcosa per allentare la tensione è stato fatto. Sulla lista della spesa degli agricoltori ci sono temi come l’attenzione ai giovani, la correzione del cosiddetto Green Deal, la questione delle etichette e della protezione dalle imitazioni. Per non parlare del grande tema della protezione nei confronti dei prodotti extra-Ue che, proprio nelle ore della protesta a Bruxelles, ha fatto segnare un punto a favore dei produttori agricoli: il blocco dell’intesa tra Ue e area Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay). Un fermo che però, probabilmente, sarà solo temporaneo, visti i grandi interessi in gioco sull’accordo.

Cosa accadrà a questo punto? Difficile fare previsioni; più facile prevedere che l’Europa arriverà a un compromesso ampio, che possa far superare le proteste, contemperando esigenze dei produttori con quelli di bilancio, senza dimenticare la necessità degli equilibri internazionali e di quelli ambientali.

Andrea Zaghi
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Un trattore in primo piano davanti al parlamento europeo di Strasburgo

Uniti contro l’Europa, ma divisi al proprio interno: a guardare le cronache delle proteste agricole di questi giorni, parrebbe così. Gli agricoltori di buona parte dei Paesi dell’Ue hanno mosso i trattori verso Bruxelles spinti da un sentimento: “Questa non è l’Europa che vogliamo, questa non è la politica agricola che vogliamo”.

In realtà, le motivazioni dietro le proteste appaiono diversificate a seconda delle agricolture e quindi degli Stati. Uno solo il denominatore comune: una magma incandescente che non solo rischia di travolgere alcuni pilastri della Politica agricola comune (Pac), ma che, in alcuni casi, vorrebbe mettere in discussione il sistema stesso della rappresentanza agricola.

In Italia, da nord a sud, nuclei di trattori hanno bloccato alcuni caselli autostradali e altri svincoli cruciali, tra cui Orvieto. Gruppi estemporanei di coltivatori riuniti in sigle comparse recentemente come quella dei “ Comitati riuniti agricoli” che in alcuni casi si sono definiti “agricoltori traditi”. Obiettivo dichiarato: arrivare fino a Roma, sotto palazzo Chigi.

Più caute le organizzazioni strutturate che, come Coldiretti, rivendicano già qualche risultato. Ettore Prandini, a capo dell’organizzazione dei coltivatori diretti, ha dichiarato: “Continueremo finché l’Europa non darà le risposte che il mondo agricolo merita. Ci servono più fondi, non tagli”. In un’altra occasione ha dichiarato: “Chiediamo alle future istituzioni Ue di iniziare fin da subito a riflettere su come adattare la futura Pac alle rinnovate esigenze di redditività e competitività delle imprese agricole nel nuovo scenario internazionale”. Qualcosa, in effetti, è già stato ottenuto. La Commissione Ue ha fatto sapere che si sta lavorando a un pacchetto di proposte con l’obiettivo di alleggerire il carico burocratico sulle imprese.

La stessa Commissione ha però in un certo modo scaricato il dovere anche sui Governi nazionali: nella nuova politica agricola, da qui al 2027 ai singoli Stati è infatti affidato il compito di “disegnare schemi e programmi che funzionino per i nostri agricoltori, per la nostra sicurezza alimentare, per gli obiettivi climatici e di sostenibilità”. Oltre alle grandi strategie, d’altra parte, la Commissione ha già proposto una deroga al blocco delle coltivazioni dei terreni, che era uno dei motivi che aveva scatenato la rivolta.

Dal canto suo, il Governo italiano ha ricordato di essere stato molto attento alle esigenze del settore, portando le risorse Pnrr dedicate ai campi da 5 a 8 miliardi di euro. Situazioni composite, invece, in altri Paesi Ue, in cui tra concessioni e proroghe, comunque, qualcosa per allentare la tensione è stato fatto. Sulla lista della spesa degli agricoltori ci sono temi come l’attenzione ai giovani, la correzione del cosiddetto Green Deal, la questione delle etichette e della protezione dalle imitazioni. Per non parlare del grande tema della protezione nei confronti dei prodotti extra-Ue che, proprio nelle ore della protesta a Bruxelles, ha fatto segnare un punto a favore dei produttori agricoli: il blocco dell’intesa tra Ue e area Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay). Un fermo che però, probabilmente, sarà solo temporaneo, visti i grandi interessi in gioco sull’accordo.

Cosa accadrà a questo punto? Difficile fare previsioni; più facile prevedere che l’Europa arriverà a un compromesso ampio, che possa far superare le proteste, contemperando esigenze dei produttori con quelli di bilancio, senza dimenticare la necessità degli equilibri internazionali e di quelli ambientali.

Andrea Zaghi
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Falso diritto. Vere domande https://www.lavoce.it/falso-diritto-vere-domande/ Wed, 13 Jul 2022 09:33:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=67662

Una inutile, anzi, dannosa reazione “di pancia”, l’ultima risoluzione del Parlamento europeo contro la decisione della Corte suprema Usa di cancellare la sentenza “Roe vs. Wade” che ha garantito il diritto all’aborto per cinquant’anni. Inutile perché non è vincolante, ma soprattutto non ha realistiche possibilità di essere concretizzata.

Per inserire il “diritto all’aborto sicuro e legale” nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, infatti, è necessaria l’unanimità degli Stati membri, i quali hanno posizioni assai diverse, ma in comune hanno l’assenza di tale “diritto” nelle leggi che pure consentono l’interruzione volontaria di gravidanza. Non è quindi pensabile che l’Ue possa perorare “la sua inclusione nella Dichiarazione universale dei diritti umani - altra richiesta del testo - e tanto meno ci si può illudere che il Congresso Usa “approvi una legge che protegga l’aborto a livello federale” solo perché lo chiede l’Ue.

L’obiettivo pienamente raggiunto è invece quello di radicalizzare ancora di più lo scontro sull’aborto, e in questo senso la risoluzione è dannosa: la conta del Parlamento ha prodotto due schieramenti contrapposti, per usare tale falso “diritto” strumentalmente come bandiera politica e segno di riconoscimento, evitando di affrontare i veri problemi.

Falso diritto, perché non può esserci un diritto a sopprimere vite altrui, di qualcuno che – tra l’altro – non può essere chiamato a dire la sua. Neppure i movimenti per la libertà di abortire, pur battendosi per avere leggi che lo consentissero, rivendicavano l’aborto come un diritto. Ricordiamo ad esempio che, quando Giuliano Ferrara lanciò la sua lista no-aborto, Ida Dominijanni rispose sul Manifesto con un lungo articolo, in cui tra l’altro spiegava...

La traduzione del problema dell’aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei radicali (per conquistarlo) negli anni ’70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant’altri a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all’aborto come diritto.

Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l’aborto è da sempre, nel vocabolario femminista, un’eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti. Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente, il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza dell’aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso si intitolava un famoso documento del ’75 che spostava il fuoco dalla richiesta di una legge all’analisi della sessualità e del desiderio (o non desiderio) di maternità, sostenendo fra l’altro: “L’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza ulteriormente il corpo della donna”.

“Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini” scriveva un altro testo del ’73.

E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del 1971: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?”. Come mai questa storia e questa elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo “diritto all’aborto sì / diritto all’aborto no”, è questione da interrogare. (fine della citazione)

Parafrasando le parole di Carla Lonzi, potremmo chiederci: “Per l’interesse di chi stiamo parlando di diritto all’aborto?”. Sicuramente non delle donne, innanzitutto. Adesso vediamo la nostra negazione quotidiana perfino nel lessico, che non ci vuole neppure nominare - “persone che mestruano”, una delle alternative più popolari - e c’è addirittura difficoltà a rispondere alla domanda “cosa è una donna?”, come mostra il surreale documentario dell’americano Matt Walsh.

Diciamo quindi basta alle contrapposizioni ideologiche, utili solamente in pessime e scontate campagne elettorali, quelle che allontanano dalla politica. Cerchiamo invece di ripartire dai fondamentali, ad esempio: quale significato e quale valore ha essere donne, essere madri al nostro tempo?

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Una inutile, anzi, dannosa reazione “di pancia”, l’ultima risoluzione del Parlamento europeo contro la decisione della Corte suprema Usa di cancellare la sentenza “Roe vs. Wade” che ha garantito il diritto all’aborto per cinquant’anni. Inutile perché non è vincolante, ma soprattutto non ha realistiche possibilità di essere concretizzata.

Per inserire il “diritto all’aborto sicuro e legale” nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, infatti, è necessaria l’unanimità degli Stati membri, i quali hanno posizioni assai diverse, ma in comune hanno l’assenza di tale “diritto” nelle leggi che pure consentono l’interruzione volontaria di gravidanza. Non è quindi pensabile che l’Ue possa perorare “la sua inclusione nella Dichiarazione universale dei diritti umani - altra richiesta del testo - e tanto meno ci si può illudere che il Congresso Usa “approvi una legge che protegga l’aborto a livello federale” solo perché lo chiede l’Ue.

L’obiettivo pienamente raggiunto è invece quello di radicalizzare ancora di più lo scontro sull’aborto, e in questo senso la risoluzione è dannosa: la conta del Parlamento ha prodotto due schieramenti contrapposti, per usare tale falso “diritto” strumentalmente come bandiera politica e segno di riconoscimento, evitando di affrontare i veri problemi.

Falso diritto, perché non può esserci un diritto a sopprimere vite altrui, di qualcuno che – tra l’altro – non può essere chiamato a dire la sua. Neppure i movimenti per la libertà di abortire, pur battendosi per avere leggi che lo consentissero, rivendicavano l’aborto come un diritto. Ricordiamo ad esempio che, quando Giuliano Ferrara lanciò la sua lista no-aborto, Ida Dominijanni rispose sul Manifesto con un lungo articolo, in cui tra l’altro spiegava...

La traduzione del problema dell’aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei radicali (per conquistarlo) negli anni ’70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant’altri a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all’aborto come diritto.

Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l’aborto è da sempre, nel vocabolario femminista, un’eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti. Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente, il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza dell’aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso si intitolava un famoso documento del ’75 che spostava il fuoco dalla richiesta di una legge all’analisi della sessualità e del desiderio (o non desiderio) di maternità, sostenendo fra l’altro: “L’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza ulteriormente il corpo della donna”.

“Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini” scriveva un altro testo del ’73.

E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del 1971: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?”. Come mai questa storia e questa elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo “diritto all’aborto sì / diritto all’aborto no”, è questione da interrogare. (fine della citazione)

Parafrasando le parole di Carla Lonzi, potremmo chiederci: “Per l’interesse di chi stiamo parlando di diritto all’aborto?”. Sicuramente non delle donne, innanzitutto. Adesso vediamo la nostra negazione quotidiana perfino nel lessico, che non ci vuole neppure nominare - “persone che mestruano”, una delle alternative più popolari - e c’è addirittura difficoltà a rispondere alla domanda “cosa è una donna?”, come mostra il surreale documentario dell’americano Matt Walsh.

Diciamo quindi basta alle contrapposizioni ideologiche, utili solamente in pessime e scontate campagne elettorali, quelle che allontanano dalla politica. Cerchiamo invece di ripartire dai fondamentali, ad esempio: quale significato e quale valore ha essere donne, essere madri al nostro tempo?

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Difficile fare la “squadra” Ue https://www.lavoce.it/difficile-fare-la-squadra-ue/ Sat, 14 May 2022 13:28:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=66740 Logo rubrica Il punto

La crisi ucraina produce molti effetti diretti e indiretti, e fra questi anche la consapevolezza che i Paesi dell’Unione europea, se vogliono contare qualcosa sul piano della politica internazionale, devono come si dice - fare squadra: avere una politica estera comune, una politica di difesa comune. Ci si è accorti, fra l’altro, che se le forze militari fossero meglio coordinate e dotate di strutture comuni, sarebbero più efficienti e costerebbero molto di meno; e per di più si sarebbe più autonomi rispetto agli alleati americani. Ma a questo punto ci si scontra con una difficoltà: ogni innovazione in questo senso, anche piccola, richiede l’unanimità dei ventisette Stati che oggi compongono l’Ue. Condizione difficile da raggiungere su temi così gelosi. Qualcuno dice: bene, aboliamo la regola dell’unanimità. L’idea sarebbe brillante, ma per cambiare la regola dell’unanimità ci vuole, appunto, l’unanimità.

Vi sembra una stravaganza, un’assurdità? È solo una logica conseguenza del principio di sovranità degli Stati, che regge tutto il diritto internazionale e assicura quel poco o quel tanto di convivenza pacifica che abbiamo. Ed è il punto di arrivo di millenni di storia, attraverso i quali si sono formati gli Stati esistenti (circa 200; difficile essere più precisi perché non tutti sono riconosciuti da tutti gli altri) combattendo lunghe guerre per liberarsi dal dominio altrui o, all’opposto, per sottometterne altri. Cosa che, per inciso, accade anche in questo momento.

La nostra Costituzione all’articolo 11 dice che l’Italia “consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”; e perlopiù anche gli altri Paesi seguono lo stesso principio. Ma esso sottintende che la rinuncia a una parte della sovranità per cederla a un organismo sovranazionale - deve essere libera, spontanea, reciproca. Altrimenti, invece che progredire, si torna indietro, a un’epoca in cui esistevano nazioni dominanti e altre subordinate. Un’epoca che consideriamo passata, ma non è ancora finita. E proprio la crisi ucraina ce ne dà la terribile prova.

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La crisi ucraina produce molti effetti diretti e indiretti, e fra questi anche la consapevolezza che i Paesi dell’Unione europea, se vogliono contare qualcosa sul piano della politica internazionale, devono come si dice - fare squadra: avere una politica estera comune, una politica di difesa comune. Ci si è accorti, fra l’altro, che se le forze militari fossero meglio coordinate e dotate di strutture comuni, sarebbero più efficienti e costerebbero molto di meno; e per di più si sarebbe più autonomi rispetto agli alleati americani. Ma a questo punto ci si scontra con una difficoltà: ogni innovazione in questo senso, anche piccola, richiede l’unanimità dei ventisette Stati che oggi compongono l’Ue. Condizione difficile da raggiungere su temi così gelosi. Qualcuno dice: bene, aboliamo la regola dell’unanimità. L’idea sarebbe brillante, ma per cambiare la regola dell’unanimità ci vuole, appunto, l’unanimità.

Vi sembra una stravaganza, un’assurdità? È solo una logica conseguenza del principio di sovranità degli Stati, che regge tutto il diritto internazionale e assicura quel poco o quel tanto di convivenza pacifica che abbiamo. Ed è il punto di arrivo di millenni di storia, attraverso i quali si sono formati gli Stati esistenti (circa 200; difficile essere più precisi perché non tutti sono riconosciuti da tutti gli altri) combattendo lunghe guerre per liberarsi dal dominio altrui o, all’opposto, per sottometterne altri. Cosa che, per inciso, accade anche in questo momento.

La nostra Costituzione all’articolo 11 dice che l’Italia “consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”; e perlopiù anche gli altri Paesi seguono lo stesso principio. Ma esso sottintende che la rinuncia a una parte della sovranità per cederla a un organismo sovranazionale - deve essere libera, spontanea, reciproca. Altrimenti, invece che progredire, si torna indietro, a un’epoca in cui esistevano nazioni dominanti e altre subordinate. Un’epoca che consideriamo passata, ma non è ancora finita. E proprio la crisi ucraina ce ne dà la terribile prova.

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L’Ue “ordina” solo quando… https://www.lavoce.it/ue-ordina-solo-quando/ Thu, 25 Feb 2021 20:42:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59360 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Nel suo discorso alla Camera per annunciare, a nome del suo partito, il voto contrario al governo Draghi, Giorgia Meloni ha riconosciuto quanto sia importante per l’Italia far parte dell’Unione europea.

Però ha specificato che l’Unione europea la vorrebbe diversa, senza poteri sovranazionali, un po’ come un condominio (il paragone è mio) che amministra i beni comuni, ma per tutto il resto lascia ciascuno padrone in casa sua. Insomma, quello che non piace ai sovranisti è che la Ue abbia il potere di sovrapporre la sua politica a quelle dei Governi nazionali.

Ma attualmente la Ue fa questo? Bisogna fare un po’ di chiarezza. L’autorità più alta della Ue non è il Parlamento, che ha un ruolo più che altro simbolico; e neppure la Commissione, che certo conta moltissimo, ma ha solo funzioni esecutive. La sede vera del potere, dove si fanno le scelte di fondo per la politica e per l’economia europea, è il Consiglio, che è il tavolo intorno al quale si riuniscono periodicamente i capi dei Governi dei 27 Stati membri o, a seconda dei casi, i rispettivi ministri competenti per materia. E lì, nel Consiglio, le decisioni devono essere approvate all’unanimità, cioè basta il voto contrario di uno per far saltare tutto. Riguardo a molte decisioni, poi, è necessario anche un voto di ratifica da parte di ciascuno dei 27 Parlamenti nazionali. Solo dopo questi passaggi una regola diventa vincolante; e a questo punto entra in gioco la Commissione (quella presieduta da Ursula von der Leyen), che ha il compito di mettere in pratica le decisioni del Consiglio e di sorvegliare che lo facciano anche i Governi nazionali.

Quindi, quando sentiamo dire che la Commissione ordina all’Italia di fare questo e quello, non è un dispetto, ma ci sta semplicemente ricordando qualche obbligo che abbiamo liberamente sottoscritto. Il tutto va visto nell’ottica di un mondo che è sempre più stretto, dove ci sono opportunità di sviluppo e benessere quali l’umanità non ha mai visto, ma per usufruirne bisogna organizzarsi e coordinarsi su scala planetaria. I sovranisti se ne facciano una ragione.

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di Pier Giorgio Lignani

Nel suo discorso alla Camera per annunciare, a nome del suo partito, il voto contrario al governo Draghi, Giorgia Meloni ha riconosciuto quanto sia importante per l’Italia far parte dell’Unione europea.

Però ha specificato che l’Unione europea la vorrebbe diversa, senza poteri sovranazionali, un po’ come un condominio (il paragone è mio) che amministra i beni comuni, ma per tutto il resto lascia ciascuno padrone in casa sua. Insomma, quello che non piace ai sovranisti è che la Ue abbia il potere di sovrapporre la sua politica a quelle dei Governi nazionali.

Ma attualmente la Ue fa questo? Bisogna fare un po’ di chiarezza. L’autorità più alta della Ue non è il Parlamento, che ha un ruolo più che altro simbolico; e neppure la Commissione, che certo conta moltissimo, ma ha solo funzioni esecutive. La sede vera del potere, dove si fanno le scelte di fondo per la politica e per l’economia europea, è il Consiglio, che è il tavolo intorno al quale si riuniscono periodicamente i capi dei Governi dei 27 Stati membri o, a seconda dei casi, i rispettivi ministri competenti per materia. E lì, nel Consiglio, le decisioni devono essere approvate all’unanimità, cioè basta il voto contrario di uno per far saltare tutto. Riguardo a molte decisioni, poi, è necessario anche un voto di ratifica da parte di ciascuno dei 27 Parlamenti nazionali. Solo dopo questi passaggi una regola diventa vincolante; e a questo punto entra in gioco la Commissione (quella presieduta da Ursula von der Leyen), che ha il compito di mettere in pratica le decisioni del Consiglio e di sorvegliare che lo facciano anche i Governi nazionali.

Quindi, quando sentiamo dire che la Commissione ordina all’Italia di fare questo e quello, non è un dispetto, ma ci sta semplicemente ricordando qualche obbligo che abbiamo liberamente sottoscritto. Il tutto va visto nell’ottica di un mondo che è sempre più stretto, dove ci sono opportunità di sviluppo e benessere quali l’umanità non ha mai visto, ma per usufruirne bisogna organizzarsi e coordinarsi su scala planetaria. I sovranisti se ne facciano una ragione.

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I soldi non mancano. Il problema adesso è: chi li spenderà e come https://www.lavoce.it/i-soldi-non-mancano-il-problema-adesso-e-chi-li-spendera-e-come/ Thu, 30 Jul 2020 16:27:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57607

Temeva, Giuseppe Conte, di non poter essere lui a gestire e spendere l’inaspettato afflusso di risorse provenienti dall’Europa, per i giochi e i giochini politici - veri o presunti - che si stavano realizzando nel dietro le quinte di una politica italiana dalla trama debole, improvvisata e provvisoria.

“Ora i soldi muovono la politica”

Poi però sono arrivati gli applausi e la stima - anche quella, vera o presunta - per un premier che nella trattativa di Bruxelles, dove ognuno ha cercato di tirare più acqua possibile al proprio mulino (a cominciare dal rappresentante del Paese per eccellenza dei mulini, a vento), con il determinante ausilio di alcuni ministri, tutti Pd, del suo Governo, ha saputo tenere botta, riuscendo a far assegnare all’Italia tanti di quei soldi (207 miliardi di euro, 81 dei quali a fondo perduto) che ora il problema sarà come spenderli. Insomma, la politica a Bruxelles ha mosso i soldi. Ora i soldi muovono la politica. Finito di applaudire Conte, la questione è diventata chi e come debba gestire i fondi europei per far ripartire l’economia massacrata dal coronavirus. Anche perché si sa che in politica poter contare sul denaro equivale alla possibilità di creare consenso. E allargare il proprio potere. Escluso fin da subito che si possa affidare la gestione delle risorse all’ennesima commissione di super-esperti, si sta facendo strada una via intermedia, con Conte (e soprattutto il ministero dell’Economia e i suoi tecnici) a dettare e redigere progetti e obiettivi (il ‘Piano nazionale delle riforme’ da presentare in Ue dev’essere pronto per ottobre). Ma con il Parlamento, il bistrattato e ormai quasi istituzionalmente impalpabile Parlamento italiano, a dire la sua tramite due commissioni, una della Camera e una del Senato. In cui coinvolgere anche le forze di opposizione, a partire dalla ‘dialogante’ Forza Italia. Se questo schema operativo (Giuliano Amato lo ha ‘benedetto’, dicendo che alla responsabilità del Governo si deve affiancare necessariamente quella delle Camere) sarà rispondente alle direttive europee ed efficace nel direzionare dal 2021 nella maniera più incisiva tutti i fondi teoricamente a disposizione, lo sapremo in autunno.

Mattarella:si faccia “concreto ed efficace programma di interventi”

Nel frattempo, uno dei pochi, veri saggi del nostro tempo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche parole ha saputo condensare quanto successo a Bruxelles e quello che dovrà accadere nelle prossime settimane in Italia. Per Mattarella, l’esito della trattativa Ue “contribuisce alla creazione di condizioni proficue perché l’Italia possa predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi”. Un commento le cui parole chiave sono nel testo (“concreto ed efficace programma di interventi”) ma anche fuori dal testo. Perché il Capo dello Stato si è guardato bene dall’usare il termine ‘riforme’, che in Italia da decenni vuol dire tutto e niente. Inutile, dunque, elencare nuovamente i settori da cui ripartire per modernizzare il Paese (sanità, scuola, pensioni, pubblica amministrazione, lavoro): un Paese che ha bisogno, senza tanti giri di parole, di più sviluppo e maggiore equità sociale.

Dove intervenire si sa. Meno il come.

Come arrivarci, lo devono decidere le forze politiche di un panorama italiano in cui sembrano regnare non l’ancoraggio a valori e ideali definiti ma improvvisazione, opportunismo e ricorso a furbizie e stratagemmi. E in cui le differenze di approccio tra le diverse forze politiche si stanno progressivamente minimizzando, a partire dal linguaggio, con “una sorta di involontaria omologazione del ceto politico”, come ha scritto Marco Follini. Dunque, non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che la generazione politica tutta, attualmente al comando in Italia riuscirà nell’intento di usare al meglio i tanti soldi europei per evitare il baratro e rigenerare la spenta vitalità di un Paese dove è dimostrato - come ha fatto notare lo stesso Giuliano Amato - che “sappiamo spendere soprattutto per distribuire sussidi”. In questa decisiva partita, non basterà lanciare soldi dall’alto con l’elicottero. Per fare le riforme servirebbero veri e convinti riformisti. Daris Giancarlini]]>

Temeva, Giuseppe Conte, di non poter essere lui a gestire e spendere l’inaspettato afflusso di risorse provenienti dall’Europa, per i giochi e i giochini politici - veri o presunti - che si stavano realizzando nel dietro le quinte di una politica italiana dalla trama debole, improvvisata e provvisoria.

“Ora i soldi muovono la politica”

Poi però sono arrivati gli applausi e la stima - anche quella, vera o presunta - per un premier che nella trattativa di Bruxelles, dove ognuno ha cercato di tirare più acqua possibile al proprio mulino (a cominciare dal rappresentante del Paese per eccellenza dei mulini, a vento), con il determinante ausilio di alcuni ministri, tutti Pd, del suo Governo, ha saputo tenere botta, riuscendo a far assegnare all’Italia tanti di quei soldi (207 miliardi di euro, 81 dei quali a fondo perduto) che ora il problema sarà come spenderli. Insomma, la politica a Bruxelles ha mosso i soldi. Ora i soldi muovono la politica. Finito di applaudire Conte, la questione è diventata chi e come debba gestire i fondi europei per far ripartire l’economia massacrata dal coronavirus. Anche perché si sa che in politica poter contare sul denaro equivale alla possibilità di creare consenso. E allargare il proprio potere. Escluso fin da subito che si possa affidare la gestione delle risorse all’ennesima commissione di super-esperti, si sta facendo strada una via intermedia, con Conte (e soprattutto il ministero dell’Economia e i suoi tecnici) a dettare e redigere progetti e obiettivi (il ‘Piano nazionale delle riforme’ da presentare in Ue dev’essere pronto per ottobre). Ma con il Parlamento, il bistrattato e ormai quasi istituzionalmente impalpabile Parlamento italiano, a dire la sua tramite due commissioni, una della Camera e una del Senato. In cui coinvolgere anche le forze di opposizione, a partire dalla ‘dialogante’ Forza Italia. Se questo schema operativo (Giuliano Amato lo ha ‘benedetto’, dicendo che alla responsabilità del Governo si deve affiancare necessariamente quella delle Camere) sarà rispondente alle direttive europee ed efficace nel direzionare dal 2021 nella maniera più incisiva tutti i fondi teoricamente a disposizione, lo sapremo in autunno.

Mattarella:si faccia “concreto ed efficace programma di interventi”

Nel frattempo, uno dei pochi, veri saggi del nostro tempo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche parole ha saputo condensare quanto successo a Bruxelles e quello che dovrà accadere nelle prossime settimane in Italia. Per Mattarella, l’esito della trattativa Ue “contribuisce alla creazione di condizioni proficue perché l’Italia possa predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi”. Un commento le cui parole chiave sono nel testo (“concreto ed efficace programma di interventi”) ma anche fuori dal testo. Perché il Capo dello Stato si è guardato bene dall’usare il termine ‘riforme’, che in Italia da decenni vuol dire tutto e niente. Inutile, dunque, elencare nuovamente i settori da cui ripartire per modernizzare il Paese (sanità, scuola, pensioni, pubblica amministrazione, lavoro): un Paese che ha bisogno, senza tanti giri di parole, di più sviluppo e maggiore equità sociale.

Dove intervenire si sa. Meno il come.

Come arrivarci, lo devono decidere le forze politiche di un panorama italiano in cui sembrano regnare non l’ancoraggio a valori e ideali definiti ma improvvisazione, opportunismo e ricorso a furbizie e stratagemmi. E in cui le differenze di approccio tra le diverse forze politiche si stanno progressivamente minimizzando, a partire dal linguaggio, con “una sorta di involontaria omologazione del ceto politico”, come ha scritto Marco Follini. Dunque, non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che la generazione politica tutta, attualmente al comando in Italia riuscirà nell’intento di usare al meglio i tanti soldi europei per evitare il baratro e rigenerare la spenta vitalità di un Paese dove è dimostrato - come ha fatto notare lo stesso Giuliano Amato - che “sappiamo spendere soprattutto per distribuire sussidi”. In questa decisiva partita, non basterà lanciare soldi dall’alto con l’elicottero. Per fare le riforme servirebbero veri e convinti riformisti. Daris Giancarlini]]>
Economia. Davvero la soluzione alla crisi è stampare soldi? https://www.lavoce.it/economia-soluzione-stampare-moneta/ https://www.lavoce.it/economia-soluzione-stampare-moneta/#comments Sun, 05 Apr 2020 14:39:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56744 Logo rubrica Il punto

Di giorno in giorno il Governo è costretto a varare nuovi finanziamenti, per diecine o centinaia di miliardi di euro: per la sanità, per le imprese, per le famiglie rimaste senza reddito. In una rincorsa senza fine, se il Governo promette 100, le opposizioni chiedono 200; se il Governo promette 200, chiedono 300... tanto, mica tocca a loro trovare i soldi. Salvini, poi, ha trovato la soluzione: se i soldi mancano, stampateli! Che idea geniale, perché non ci ha pensato nessuno? In verità, perfino la Banca centrale europea lo fa già. Il famoso whatever it takes, “tutto quello che ci vuole”, di Draghi significa proprio questo: creare liquidità da girare agli Stati in difficoltà sotto forma di acquisto dei loro buoni del Tesoro (titoli di debito). Fino a che lo Stato italiano aveva il governo della propria moneta, ha stampato denaro massicciamente. Purtroppo è una pratica che va fatta con molto giudizio, perché stampare denaro (tecnicamente: mettere in circolazione nuova liquidità cui non corrisponde un incremento della ricchezza collettiva in termini reali) produce inflazione e svalutazione. E cioè, circola più denaro, ma vale di meno. In particolare si svalutano i risparmi, le pensioni e gli stipendi dei lavoratori a reddito fisso. In Italia abbiamo vissuto queste esperienze per decenni, quando la lira si svalutava del 10 per cento all’anno e anche più. E se non si sta attenti, il meccanismo sfugge di mano e va avanti a valanga, da solo. Nella storia c’è un caso famoso ma non unico: quello della Germania fra il 1919 e il 1923. Cominciarono a stampare moneta per rimborsare i titoli che avevano emesso per finanziare la guerra (perduta). Andò a finire che nel 1923, per comprare quello che nel 1919 costava un marco, ce ne volevano mille miliardi (non scherzo!). Poiché non esistevano carte di credito o altri ritrovati del genere, le persone andavano a fare la spesa con una carriola piena di banconote, e cercavano di spenderle subito, perché già il giorno dopo il loro valore sarebbe svanito. Questo succede con la politica della spesa troppo facile. In economia, i demagoghi sono una piaga. Pier Giorgio Lignani]]>
Logo rubrica Il punto

Di giorno in giorno il Governo è costretto a varare nuovi finanziamenti, per diecine o centinaia di miliardi di euro: per la sanità, per le imprese, per le famiglie rimaste senza reddito. In una rincorsa senza fine, se il Governo promette 100, le opposizioni chiedono 200; se il Governo promette 200, chiedono 300... tanto, mica tocca a loro trovare i soldi. Salvini, poi, ha trovato la soluzione: se i soldi mancano, stampateli! Che idea geniale, perché non ci ha pensato nessuno? In verità, perfino la Banca centrale europea lo fa già. Il famoso whatever it takes, “tutto quello che ci vuole”, di Draghi significa proprio questo: creare liquidità da girare agli Stati in difficoltà sotto forma di acquisto dei loro buoni del Tesoro (titoli di debito). Fino a che lo Stato italiano aveva il governo della propria moneta, ha stampato denaro massicciamente. Purtroppo è una pratica che va fatta con molto giudizio, perché stampare denaro (tecnicamente: mettere in circolazione nuova liquidità cui non corrisponde un incremento della ricchezza collettiva in termini reali) produce inflazione e svalutazione. E cioè, circola più denaro, ma vale di meno. In particolare si svalutano i risparmi, le pensioni e gli stipendi dei lavoratori a reddito fisso. In Italia abbiamo vissuto queste esperienze per decenni, quando la lira si svalutava del 10 per cento all’anno e anche più. E se non si sta attenti, il meccanismo sfugge di mano e va avanti a valanga, da solo. Nella storia c’è un caso famoso ma non unico: quello della Germania fra il 1919 e il 1923. Cominciarono a stampare moneta per rimborsare i titoli che avevano emesso per finanziare la guerra (perduta). Andò a finire che nel 1923, per comprare quello che nel 1919 costava un marco, ce ne volevano mille miliardi (non scherzo!). Poiché non esistevano carte di credito o altri ritrovati del genere, le persone andavano a fare la spesa con una carriola piena di banconote, e cercavano di spenderle subito, perché già il giorno dopo il loro valore sarebbe svanito. Questo succede con la politica della spesa troppo facile. In economia, i demagoghi sono una piaga. Pier Giorgio Lignani]]>
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CORONAVIRUS. Dopo il nobile gesto dell’Albania https://www.lavoce.it/coronavirus-gesto-albania/ Thu, 02 Apr 2020 11:00:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56725

Gli albanesi non dimenticano. I tedeschi, a quanto pare, sì.

Non si tratta di fare classifiche di ‘buoni’ e ‘cattivi’, ma di valutare comportamenti per programmare meglio, e con maggiore acume, il futuro. L’attuale leader dell’Albania, che invia in Italia 30 tra medici e infermieri sulla “linea del fuoco” dell’ospedale di Brescia, spiega la sua decisione. Il suo è un Paese “povero, ma che non dimentica” quanto fatto dall’Italia all’inizio degli anni Novanta, con l’operazione ‘Pellicano’, per aiutare un Paese che usciva povero e lacerato da una lunga e devastante dittatura di stampo comunista. Il discorso fatto dal leader Edi Rama, nella breve cerimonia che ha accompagnato la partenza del personale sanitario albanese, condiviso da tutte le forze politiche italiane. Che magari potrebbero trarre spunto non soltanto per la scelta della parole, davvero calibrate e incisive, ma anche e soprattutto per la passione che dovrebbe guidare l’operato di chi ha in mano le sorti dell’opinione pubblica. Qui risulta quanto meno superfluo distinguere tra maggioranza e opposizione.

L'emergenza non ha confini

Se si continuasse a ragionare con il criterio della contrapposizione aprioristica, si commetterebbe lo stesso errore che sta ispirando le nazioni del Nord come Olanda, Austria e Finlandia, con in testa la Germania di Angela Merkel. Non sono infatti bastati i richiami di personalità come lo stesso Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per far comprendere che la pandemia deve spingerci, tutti, a cambiare le chiavi di lettura e di comportamento. Perché è, nel contempo, emergenza sanitaria ed economica; che non conosce frontiere e confini. E purtroppo colpirà in modo indiscriminato in ogni zona del pianeta. “Nessuno si salva da solo” hanno ripetuto il Pontefice e il Capo dello Stato. Questo vale sia per la salute sia per la produzione, il lavoro, la tenuta sociale. Pare che questi autorevoli richiami a fare fronte comune non siano stati ben compresi da chi, in un primo tempo a livello europeo, ha tentato di trattare l’epidemia in Italia come un caso isolato. Un segnale di consapevolezza, in verità, dopo le prime titubanze, lo ha mandato la Banca centrale europea. La Banca ha stanziato un cifra consistente per assorbire il necessario debito che l’Italia. Dovrà impegnarsi ad affrontare per resistere ai colpi devastanti del virus sul tessuto economico. Ma su un’assunzione di responsabilità collettiva, sul piano finanziario, degli oneri di quella che dovrà essere una vera ricostruzione, con tratti post-bellici, delle singole economie, la Germania e gli altri suoi accoliti nordici hanno preso tempo. Molto per l’atavica loro prevenzione verso l’approccio - a loro dire - da ‘cicale’ dei Paesi mediterranei sull’equilibrio finanziario interno. Molto anche per una connaturata loro inclinazione ad anteporre le ragioni del portafoglio a quelle del cuore.

Il "Non italiano"

Non sembra aver fatto breccia neanche l’intervento di quel Mario Draghi che, da presidente della Bce, salvò la moneta unica europea acquistando per anni titoli di credito dei singoli Stati membri dell’Unione. Draghi colui che gli americani definivano Unitalian, il ‘Non italiano’, per il suo approccio poco passionale ma molto diretto ai problemi economici. Draghi non ha usato giri di parole: “Bisogna agire subito, perché questa è una guerra. Va data liquidità nel sistema, senza preoccuparsi del debito pubblico. Perché la recessione post-pandemia sarà profonda e rischia di essere la tomba dell’Europa”. Una responsabilità, quella di far affondare il progetto di Unione europea, che peserà tutta sulle spalle di chi, sottraendosi a una solidarietà probabilmente fuori dalle sue corde etiche, dimostra di non possedere la preveggenza necessaria per progettare un futuro in cui nessuno - non soltanto l’Italia - potrà salvarsi da solo. Eppure la Germania si dovrebbe ricordare del 1953. Ben 20 creditori stranieri (tra cui la Grecia) per aiutarla a uscire dalle macerie della guerra le cancellarono il 46% del debito pre-bellico e il 52 di quello post-bellico. “La Storia non ha nascondigli, la Storia non passa la mano” recita un verso di una canzone di De Gregori. Viene il tempo, sempre, in cui per le proprie scelte si devono fare i conti con la Storia. Per ora, i conti vanno fatti con il contagio. Daris Giancarlini]]>

Gli albanesi non dimenticano. I tedeschi, a quanto pare, sì.

Non si tratta di fare classifiche di ‘buoni’ e ‘cattivi’, ma di valutare comportamenti per programmare meglio, e con maggiore acume, il futuro. L’attuale leader dell’Albania, che invia in Italia 30 tra medici e infermieri sulla “linea del fuoco” dell’ospedale di Brescia, spiega la sua decisione. Il suo è un Paese “povero, ma che non dimentica” quanto fatto dall’Italia all’inizio degli anni Novanta, con l’operazione ‘Pellicano’, per aiutare un Paese che usciva povero e lacerato da una lunga e devastante dittatura di stampo comunista. Il discorso fatto dal leader Edi Rama, nella breve cerimonia che ha accompagnato la partenza del personale sanitario albanese, condiviso da tutte le forze politiche italiane. Che magari potrebbero trarre spunto non soltanto per la scelta della parole, davvero calibrate e incisive, ma anche e soprattutto per la passione che dovrebbe guidare l’operato di chi ha in mano le sorti dell’opinione pubblica. Qui risulta quanto meno superfluo distinguere tra maggioranza e opposizione.

L'emergenza non ha confini

Se si continuasse a ragionare con il criterio della contrapposizione aprioristica, si commetterebbe lo stesso errore che sta ispirando le nazioni del Nord come Olanda, Austria e Finlandia, con in testa la Germania di Angela Merkel. Non sono infatti bastati i richiami di personalità come lo stesso Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per far comprendere che la pandemia deve spingerci, tutti, a cambiare le chiavi di lettura e di comportamento. Perché è, nel contempo, emergenza sanitaria ed economica; che non conosce frontiere e confini. E purtroppo colpirà in modo indiscriminato in ogni zona del pianeta. “Nessuno si salva da solo” hanno ripetuto il Pontefice e il Capo dello Stato. Questo vale sia per la salute sia per la produzione, il lavoro, la tenuta sociale. Pare che questi autorevoli richiami a fare fronte comune non siano stati ben compresi da chi, in un primo tempo a livello europeo, ha tentato di trattare l’epidemia in Italia come un caso isolato. Un segnale di consapevolezza, in verità, dopo le prime titubanze, lo ha mandato la Banca centrale europea. La Banca ha stanziato un cifra consistente per assorbire il necessario debito che l’Italia. Dovrà impegnarsi ad affrontare per resistere ai colpi devastanti del virus sul tessuto economico. Ma su un’assunzione di responsabilità collettiva, sul piano finanziario, degli oneri di quella che dovrà essere una vera ricostruzione, con tratti post-bellici, delle singole economie, la Germania e gli altri suoi accoliti nordici hanno preso tempo. Molto per l’atavica loro prevenzione verso l’approccio - a loro dire - da ‘cicale’ dei Paesi mediterranei sull’equilibrio finanziario interno. Molto anche per una connaturata loro inclinazione ad anteporre le ragioni del portafoglio a quelle del cuore.

Il "Non italiano"

Non sembra aver fatto breccia neanche l’intervento di quel Mario Draghi che, da presidente della Bce, salvò la moneta unica europea acquistando per anni titoli di credito dei singoli Stati membri dell’Unione. Draghi colui che gli americani definivano Unitalian, il ‘Non italiano’, per il suo approccio poco passionale ma molto diretto ai problemi economici. Draghi non ha usato giri di parole: “Bisogna agire subito, perché questa è una guerra. Va data liquidità nel sistema, senza preoccuparsi del debito pubblico. Perché la recessione post-pandemia sarà profonda e rischia di essere la tomba dell’Europa”. Una responsabilità, quella di far affondare il progetto di Unione europea, che peserà tutta sulle spalle di chi, sottraendosi a una solidarietà probabilmente fuori dalle sue corde etiche, dimostra di non possedere la preveggenza necessaria per progettare un futuro in cui nessuno - non soltanto l’Italia - potrà salvarsi da solo. Eppure la Germania si dovrebbe ricordare del 1953. Ben 20 creditori stranieri (tra cui la Grecia) per aiutarla a uscire dalle macerie della guerra le cancellarono il 46% del debito pre-bellico e il 52 di quello post-bellico. “La Storia non ha nascondigli, la Storia non passa la mano” recita un verso di una canzone di De Gregori. Viene il tempo, sempre, in cui per le proprie scelte si devono fare i conti con la Storia. Per ora, i conti vanno fatti con il contagio. Daris Giancarlini]]>
CORONAVIRUS. Il presente e il futuro https://www.lavoce.it/coronavirus-il-presente-e-il-futuro/ Fri, 20 Mar 2020 16:34:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56536 Dopo virus: Due giovani donne asiatiche con la mascherina, per le strade di Roma

Viviamo un tempo sospeso, condizionato dal virus. E in “mondo provvisorio” - come avrebbe detto Edmondo Berselli - dove a prevalere è l’intento di sopravvivere. Pensando, però, che bisogna continuare a vivere. Il politologo Ilvo Diamanti definisce quella delle ultime settimane una “società senza tempo”, deprivata di quei concetti di ‘prima’ e ‘dopo’ indispensabili per darci una prospettiva, perché non sappiamo quando sarà veramente finita. Ma se pensare al ‘prima’ ci può essere di sostegno per aggrapparci a certezze consolidate e legami consolatori, il termine ‘dopo’ ci consente di sostenere il peso di un presente di cui fatichiamo a comprendere la possibile evoluzione. In questo tempo sospeso, ciò che ci può dare conforto è la possibilità di guardarci dentro. E rimettere al giusto posto le nostre priorità di vita. Ma per ripartire nella maniera giusta, per rigenerarsi, occorre capire fino in fondo il momento attuale. Restando umani, usando testa e cuore. E consapevoli che nessun tempo è veramente sprecato, essendo comunque parte della nostra vita. “Ne usciremo a seconda dello stile di vita che adotteremo” ha suggerito l’arcivescovo Mario Delpini, capo della Chiesa di quella Milano che è diventata la prima trincea italiana della lotta al contagio. Il presule meneghino, sul ‘dopo’, non sparge ottimismo a buon mercato: “Il mio timore è che si possa ricominciare come prima. Il rischio è che si pensi di correre ancora di più perché siamo rimasti indietro. E questo non sarebbe un cambiamento reale”. Già, perché, se nel dopo-pandemia non ci saranno cambiamenti reali, nelle nostre singole vite e a livello collettivo, planetario, tanti sacrifici e rinunce, tante ansie e spaesamenti saranno stati inutili. Se, per esempio, non rafforzeremo i nostri legami sociali in base a un solido senso di responsabilità reciproca, ma ci limiteremo a dare sfogo a rabbia e aggressività nei confronti del prossimo, vorrà dire che non avremo imparato nulla dalle attuali difficoltà. Per fortuna, in queste giornate così pesanti e drammatiche, tante iniziative a sfondo solidale sono un segnale tangibile che il senso di umanità ancora vince su una visione del prossimo come ostacolo e inciampo.

Il “dopo virus” anno zero?

Per l’economia il dopo virus sarà un ‘anno zero’. Come per la politica. L’Europa delle istituzioni, comunitarie e nazionali, ha prima guardato alla Cina come ‘untore’ da cui prendere le distanze. Poi l’ha fatto con l’Italia. Ora anche i più riottosi, come Francia e Germania, stanno ‘copiando’ le misure italiane anti-contagio. Resta il fatto che la Germania ha chiuso le frontiere in maniera unilaterale. E che la Francia ha comunque mandato a votare i cittadini, in una domenica che doveva essere la prima di coprifuoco. Un caso ancora più particolare, e deprimente, è quello degli Stati Uniti, il cui Presidente avrebbe promesso un miliardo di dollari a un’azienda chimica tedesca per avere il vaccino. A un condizione: che fosse solo per gli Usa. America First (“Prima l’America”) è stato lo slogan con cui Trump ha vinto le elezioni, e vorrebbe continuare a usarlo per essere rieletto. A qualsiasi costo, a quanto pare. Quello che sembra, al di qua e al di là dell’Oceano, è che combattere una pandemia ognuno per conto suo non sia la maniera giusta per sperare di vincere.

Il senso di colpa della politica?

Si evidenzia un’emergenza rispetto alla quale l’approccio ordinario non può dare risposte. Altrimenti non sarebbero mancate le mascherine nei nostri ospedali. Certo, un’Italia interamente ‘zona rossa’ non è cosa di tutti i giorni. Ma forse questo passaggio dovrà servire, ‘dopo’, a calibrare le scelte politiche in materia di sanità sulla base di eventi straordinari, e non sull’ordinarietà delle patologie da curare. “Non si potrà mai più tagliare in sanità, ma solo investire” ha promesso il ministro Francesco Boccia. Quasi a evidenziare, per l’intera classe politica, una sorta di senso di colpa per un passato in cui la sanità è stata troppo spesso coinvolta in manovre e giochi politici che nulla avevano a che fare con la cura delle persone. Quella ‘cura’ che invece un gruppo di maestre umbre sembra continuare ad avere per i propri alunni; ai quali ha proposto, tra le cose da fare a casa in queste settimane di permanenza lontano dai banchi di scuola, di piantare un seme. La piantina che nascerà, i ragazzi la porteranno a scuola, quando riaprirà, per piantarla in giardino insieme ai compagni. Insieme. Dopo.

Daris Giancarlini

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Dopo virus: Due giovani donne asiatiche con la mascherina, per le strade di Roma

Viviamo un tempo sospeso, condizionato dal virus. E in “mondo provvisorio” - come avrebbe detto Edmondo Berselli - dove a prevalere è l’intento di sopravvivere. Pensando, però, che bisogna continuare a vivere. Il politologo Ilvo Diamanti definisce quella delle ultime settimane una “società senza tempo”, deprivata di quei concetti di ‘prima’ e ‘dopo’ indispensabili per darci una prospettiva, perché non sappiamo quando sarà veramente finita. Ma se pensare al ‘prima’ ci può essere di sostegno per aggrapparci a certezze consolidate e legami consolatori, il termine ‘dopo’ ci consente di sostenere il peso di un presente di cui fatichiamo a comprendere la possibile evoluzione. In questo tempo sospeso, ciò che ci può dare conforto è la possibilità di guardarci dentro. E rimettere al giusto posto le nostre priorità di vita. Ma per ripartire nella maniera giusta, per rigenerarsi, occorre capire fino in fondo il momento attuale. Restando umani, usando testa e cuore. E consapevoli che nessun tempo è veramente sprecato, essendo comunque parte della nostra vita. “Ne usciremo a seconda dello stile di vita che adotteremo” ha suggerito l’arcivescovo Mario Delpini, capo della Chiesa di quella Milano che è diventata la prima trincea italiana della lotta al contagio. Il presule meneghino, sul ‘dopo’, non sparge ottimismo a buon mercato: “Il mio timore è che si possa ricominciare come prima. Il rischio è che si pensi di correre ancora di più perché siamo rimasti indietro. E questo non sarebbe un cambiamento reale”. Già, perché, se nel dopo-pandemia non ci saranno cambiamenti reali, nelle nostre singole vite e a livello collettivo, planetario, tanti sacrifici e rinunce, tante ansie e spaesamenti saranno stati inutili. Se, per esempio, non rafforzeremo i nostri legami sociali in base a un solido senso di responsabilità reciproca, ma ci limiteremo a dare sfogo a rabbia e aggressività nei confronti del prossimo, vorrà dire che non avremo imparato nulla dalle attuali difficoltà. Per fortuna, in queste giornate così pesanti e drammatiche, tante iniziative a sfondo solidale sono un segnale tangibile che il senso di umanità ancora vince su una visione del prossimo come ostacolo e inciampo.

Il “dopo virus” anno zero?

Per l’economia il dopo virus sarà un ‘anno zero’. Come per la politica. L’Europa delle istituzioni, comunitarie e nazionali, ha prima guardato alla Cina come ‘untore’ da cui prendere le distanze. Poi l’ha fatto con l’Italia. Ora anche i più riottosi, come Francia e Germania, stanno ‘copiando’ le misure italiane anti-contagio. Resta il fatto che la Germania ha chiuso le frontiere in maniera unilaterale. E che la Francia ha comunque mandato a votare i cittadini, in una domenica che doveva essere la prima di coprifuoco. Un caso ancora più particolare, e deprimente, è quello degli Stati Uniti, il cui Presidente avrebbe promesso un miliardo di dollari a un’azienda chimica tedesca per avere il vaccino. A un condizione: che fosse solo per gli Usa. America First (“Prima l’America”) è stato lo slogan con cui Trump ha vinto le elezioni, e vorrebbe continuare a usarlo per essere rieletto. A qualsiasi costo, a quanto pare. Quello che sembra, al di qua e al di là dell’Oceano, è che combattere una pandemia ognuno per conto suo non sia la maniera giusta per sperare di vincere.

Il senso di colpa della politica?

Si evidenzia un’emergenza rispetto alla quale l’approccio ordinario non può dare risposte. Altrimenti non sarebbero mancate le mascherine nei nostri ospedali. Certo, un’Italia interamente ‘zona rossa’ non è cosa di tutti i giorni. Ma forse questo passaggio dovrà servire, ‘dopo’, a calibrare le scelte politiche in materia di sanità sulla base di eventi straordinari, e non sull’ordinarietà delle patologie da curare. “Non si potrà mai più tagliare in sanità, ma solo investire” ha promesso il ministro Francesco Boccia. Quasi a evidenziare, per l’intera classe politica, una sorta di senso di colpa per un passato in cui la sanità è stata troppo spesso coinvolta in manovre e giochi politici che nulla avevano a che fare con la cura delle persone. Quella ‘cura’ che invece un gruppo di maestre umbre sembra continuare ad avere per i propri alunni; ai quali ha proposto, tra le cose da fare a casa in queste settimane di permanenza lontano dai banchi di scuola, di piantare un seme. La piantina che nascerà, i ragazzi la porteranno a scuola, quando riaprirà, per piantarla in giardino insieme ai compagni. Insieme. Dopo.

Daris Giancarlini

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Contro i profughi non è indifferenza, è violenza https://www.lavoce.it/contro-i-profughi-non-e-indifferenza-e-violenza/ Sun, 08 Mar 2020 20:35:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56418

Soltanto una scorza dura-dura che non lascia scampo ai sentimenti e al pianto può mostrarsi così indifferente di fronte al dramma dei profughi siriani. Le notizie e le immagini che in questi giorni ci raggiungono sulla sorte dei sopravvissuti alla guerra in quell’angolo del pianeta superano perfino quella “cultura dell’indifferenza” più volte denunciata da Papa Francesco. Infatti non si tratta più nemmeno di voltarsi dall’altra parte, ma addirittura di accanirsi, perfino con violenza, contro persone che hanno l’unica ‘colpa’ di scappare dalla violenza della guerra e dalla morte certa sotto le bombe. Le notizie di padri e madri che si vedono morire i bambini di freddo tra le braccia, quelli sui quali si arriva addirittura a sparare o che si cerca di affondare mentre in mare cercano un approdo o un salvataggio, quelli che devono difendersi dai lacrimogeni e dai manganelli dei militari greci, quelli usati come arma di ricatto dal Governo turco... Sembra essere in atto una vera e propria involuzione antropologica, una dinamica disumanizzante che genera violenza e indifferenza. Se non fosse così, le nostre coscienze si rivolterebbero, alzerebbero la voce, farebbero qualcosa... Ma non è umanamente tollerabile che chi scappa dalla violenza, superando pericoli e disagi d’ogni genere e rischiando la vita per mettersi al sicuro, possa essere accolto in un Lager e respinto, nel modo che sappiamo, se solo tenta di superare i confini. Lo chiediamo con forza all’Unione europea, all’Onu, a tutti gii organismi sovranazionali e ai Governi dei Paesi direttamente coinvolti: ascoltate la vostra coscienza! Questo, occhi di bambini imploranti, corpi immobilizzati da armi chimiche e madri disperate, lo chiedono da anni nei campi di battaglia siriani. Davvero era così impossibile sedersi a un tavolo dei negoziati per pretendere la fine di quello scempio? Ci si chiede se una forza di polizia internazionale non avrebbe dovuto già da tempo schierarsi nelle aree interessate al conflitto, e oggi nella regione di Idlib, a difesa degli inermi. Se Russia, Stati Uniti, Turchia non debbano rendere conto a un Consiglio di sicurezza che è chiamato a essere fedele al suo stesso nome, prima ancora che al suo mandato. Quelle Nazioni Unite che nascevano proprio per “preservare le future generazioni dal flagello della guerra”. In Africa abbiamo imparato un triste proverbio: “Quando due pachidermi si fanno guerra, non si sa mai chi vincerà, ma una cosa è certa: l’erba ci rimette sempre”. Basterebbe poco per smentirlo, e schierarsi decisamente a difesa dell’erba.]]>

Soltanto una scorza dura-dura che non lascia scampo ai sentimenti e al pianto può mostrarsi così indifferente di fronte al dramma dei profughi siriani. Le notizie e le immagini che in questi giorni ci raggiungono sulla sorte dei sopravvissuti alla guerra in quell’angolo del pianeta superano perfino quella “cultura dell’indifferenza” più volte denunciata da Papa Francesco. Infatti non si tratta più nemmeno di voltarsi dall’altra parte, ma addirittura di accanirsi, perfino con violenza, contro persone che hanno l’unica ‘colpa’ di scappare dalla violenza della guerra e dalla morte certa sotto le bombe. Le notizie di padri e madri che si vedono morire i bambini di freddo tra le braccia, quelli sui quali si arriva addirittura a sparare o che si cerca di affondare mentre in mare cercano un approdo o un salvataggio, quelli che devono difendersi dai lacrimogeni e dai manganelli dei militari greci, quelli usati come arma di ricatto dal Governo turco... Sembra essere in atto una vera e propria involuzione antropologica, una dinamica disumanizzante che genera violenza e indifferenza. Se non fosse così, le nostre coscienze si rivolterebbero, alzerebbero la voce, farebbero qualcosa... Ma non è umanamente tollerabile che chi scappa dalla violenza, superando pericoli e disagi d’ogni genere e rischiando la vita per mettersi al sicuro, possa essere accolto in un Lager e respinto, nel modo che sappiamo, se solo tenta di superare i confini. Lo chiediamo con forza all’Unione europea, all’Onu, a tutti gii organismi sovranazionali e ai Governi dei Paesi direttamente coinvolti: ascoltate la vostra coscienza! Questo, occhi di bambini imploranti, corpi immobilizzati da armi chimiche e madri disperate, lo chiedono da anni nei campi di battaglia siriani. Davvero era così impossibile sedersi a un tavolo dei negoziati per pretendere la fine di quello scempio? Ci si chiede se una forza di polizia internazionale non avrebbe dovuto già da tempo schierarsi nelle aree interessate al conflitto, e oggi nella regione di Idlib, a difesa degli inermi. Se Russia, Stati Uniti, Turchia non debbano rendere conto a un Consiglio di sicurezza che è chiamato a essere fedele al suo stesso nome, prima ancora che al suo mandato. Quelle Nazioni Unite che nascevano proprio per “preservare le future generazioni dal flagello della guerra”. In Africa abbiamo imparato un triste proverbio: “Quando due pachidermi si fanno guerra, non si sa mai chi vincerà, ma una cosa è certa: l’erba ci rimette sempre”. Basterebbe poco per smentirlo, e schierarsi decisamente a difesa dell’erba.]]>
Coronavirus e profughi siriani. Dove sta l’UE? https://www.lavoce.it/coronavirus-e-profughi-siriani-dove-sta-lue/ Sun, 08 Mar 2020 20:00:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56415

L’Europa assediata da virus e migrazioni rischia di sbriciolarsi sotto la pressione di interessi che, anche di fronte a un contagio che non conosce confini o frontiere, faticano a trovare un punto d’incontro che permetta di arginare e minimizzare i danni - sanitari prima di tutto, ma anche economici e sociali - che il diffondersi dell’epidemia sta già producendo. La dimensione del Continente europeo - 513 milioni di abitanti - e soprattutto la sua organizzazione politica e monetaria dovrebbero di per sé consentire di approcciare problemi inattesi (come il Covid-19, che ha innescato la peggiore crisi sanitaria del secondo dopoguerra) o stranoti (come quello dei profughi che fuggono dalle guerre e dalle carestie) con qualcosa di più e di meglio dell’approccio incerto e tardivo che i vari organismi comunitari - a partire dalla nuova Commissione a guida Ursula von der Leyen - hanno messo in atto nelle ultime, convulse settimane. Ora si parla di una forza d’intervento per affrontare a livello comunitario il problema sanitario e quello economico (altrettanto rilevante) a esso collegato. “Il livello di rischio è salito da moderato ad alto”, ha riconosciuto la Presidente della Commissione Ue: verrebbe da dire - rischiando di essere tacciati di antieuropeismo - che il rischio legato al coronavirus è stato sottovalutato finché i casi hanno riguardato soltanto l’Italia. A fronte delle cui richieste di sostegni economici, e non solo, i Paesi del Nord europa hanno opposto il solito, scontato rifiuto, ritenendolo come ennesimo stratagemma levantino e furbesco per aumentare il deficit e sforare i parametri di spesa. Il commissario europeo all’economia, l’italiano Paolo Gentiloni, almeno lui ha avuto parole di comprensione: “In casi eccezionali - ha ribadito - come quello in atto, la flessibilità è prevista e regolata”. Quello che serve in realtà, ora che i casi di contagio sono oltre 2.100 in 18 Paesi dell’Unione, è quella che lo stesso Gentiloni ha definito “una risposta coordinata a livello europeo”. Che finora è mancata, prima di tutto a livello sanitario. È noto che la materia sanitaria è titolarità esclusiva dei singoli Stati, ma nel caso di un’epidemia come quella in corso la comunità scientifica e medica ha il dovere di muoversi in modo coordinato a livello sovranazionale. Non è successo: Francia e Germania avevano isolato il ceppo di coronavirus qualche settimana prima dello “Spallanzani” di Roma. Ma non lo avevano comunicato. Adesso però che alla parola ‘contagio’ si associa il termine ‘recessione’, anche i freddi Paesi nordici sembrano cedere di fronte alla necessità di attivare un grande piano europeo di sostegno all’economia. Anche perché in una settimana le Borse hanno perso più del 10 per cento, e solo quella italiana ha bruciato 20 miliardi in quattro sedute. E mentre si cerca una risposta comune per la tutela della salute del Continente e la difesa dell’economia, quello che risulta evidente è che le risposte che i singoli Stati hanno dato sinora non sono bastate e non basteranno. L’altro banco di prova per la tenuta dell’Unione è il vero e proprio ricatto messo in atto nelle ultime settimane dalla Turchia con la riapertura dei flussi dei profughi siriani verso la rotta balcanica. Quei flussi che l’Europa, su spinta quasi esclusivamente tedesca, aveva bloccato ‘regalando’ alla Turchia e al suo presidente, Recep Tayip Erdogan, ben 6 miliardi di euro. Ora da quel Paese che fa da cerniera tra l’Europa, la Russia, il Medio Oriente e l’Asia arriva la richiesta di altri fondi per fermare i migranti, ora confinati nelle isole greche. “Una questione ben più drammatica del coronavirus” osserva il missionario comboniano e direttore di Nigrizia padre Ganapini, mentre Emma Bonino, esperta di questioni internazionali, rimarca “l’incapacità di governare da europei” il problema del Medio Oriente in costante ebollizione. Una carenza, questa, che danneggia anche e soprattutto l’Italia. La quale, in questa fase, non ha altra possibilità che quella di scommettere, nonostante tutto, sull’Europa. A condizione che l’Unione riesca a parlare, politicamente, con una voce sola. Daris Giancarlini]]>

L’Europa assediata da virus e migrazioni rischia di sbriciolarsi sotto la pressione di interessi che, anche di fronte a un contagio che non conosce confini o frontiere, faticano a trovare un punto d’incontro che permetta di arginare e minimizzare i danni - sanitari prima di tutto, ma anche economici e sociali - che il diffondersi dell’epidemia sta già producendo. La dimensione del Continente europeo - 513 milioni di abitanti - e soprattutto la sua organizzazione politica e monetaria dovrebbero di per sé consentire di approcciare problemi inattesi (come il Covid-19, che ha innescato la peggiore crisi sanitaria del secondo dopoguerra) o stranoti (come quello dei profughi che fuggono dalle guerre e dalle carestie) con qualcosa di più e di meglio dell’approccio incerto e tardivo che i vari organismi comunitari - a partire dalla nuova Commissione a guida Ursula von der Leyen - hanno messo in atto nelle ultime, convulse settimane. Ora si parla di una forza d’intervento per affrontare a livello comunitario il problema sanitario e quello economico (altrettanto rilevante) a esso collegato. “Il livello di rischio è salito da moderato ad alto”, ha riconosciuto la Presidente della Commissione Ue: verrebbe da dire - rischiando di essere tacciati di antieuropeismo - che il rischio legato al coronavirus è stato sottovalutato finché i casi hanno riguardato soltanto l’Italia. A fronte delle cui richieste di sostegni economici, e non solo, i Paesi del Nord europa hanno opposto il solito, scontato rifiuto, ritenendolo come ennesimo stratagemma levantino e furbesco per aumentare il deficit e sforare i parametri di spesa. Il commissario europeo all’economia, l’italiano Paolo Gentiloni, almeno lui ha avuto parole di comprensione: “In casi eccezionali - ha ribadito - come quello in atto, la flessibilità è prevista e regolata”. Quello che serve in realtà, ora che i casi di contagio sono oltre 2.100 in 18 Paesi dell’Unione, è quella che lo stesso Gentiloni ha definito “una risposta coordinata a livello europeo”. Che finora è mancata, prima di tutto a livello sanitario. È noto che la materia sanitaria è titolarità esclusiva dei singoli Stati, ma nel caso di un’epidemia come quella in corso la comunità scientifica e medica ha il dovere di muoversi in modo coordinato a livello sovranazionale. Non è successo: Francia e Germania avevano isolato il ceppo di coronavirus qualche settimana prima dello “Spallanzani” di Roma. Ma non lo avevano comunicato. Adesso però che alla parola ‘contagio’ si associa il termine ‘recessione’, anche i freddi Paesi nordici sembrano cedere di fronte alla necessità di attivare un grande piano europeo di sostegno all’economia. Anche perché in una settimana le Borse hanno perso più del 10 per cento, e solo quella italiana ha bruciato 20 miliardi in quattro sedute. E mentre si cerca una risposta comune per la tutela della salute del Continente e la difesa dell’economia, quello che risulta evidente è che le risposte che i singoli Stati hanno dato sinora non sono bastate e non basteranno. L’altro banco di prova per la tenuta dell’Unione è il vero e proprio ricatto messo in atto nelle ultime settimane dalla Turchia con la riapertura dei flussi dei profughi siriani verso la rotta balcanica. Quei flussi che l’Europa, su spinta quasi esclusivamente tedesca, aveva bloccato ‘regalando’ alla Turchia e al suo presidente, Recep Tayip Erdogan, ben 6 miliardi di euro. Ora da quel Paese che fa da cerniera tra l’Europa, la Russia, il Medio Oriente e l’Asia arriva la richiesta di altri fondi per fermare i migranti, ora confinati nelle isole greche. “Una questione ben più drammatica del coronavirus” osserva il missionario comboniano e direttore di Nigrizia padre Ganapini, mentre Emma Bonino, esperta di questioni internazionali, rimarca “l’incapacità di governare da europei” il problema del Medio Oriente in costante ebollizione. Una carenza, questa, che danneggia anche e soprattutto l’Italia. La quale, in questa fase, non ha altra possibilità che quella di scommettere, nonostante tutto, sull’Europa. A condizione che l’Unione riesca a parlare, politicamente, con una voce sola. Daris Giancarlini]]>
L’Ue resta sempre necessaria, anche dopo il ribaltone https://www.lavoce.it/ue-resta-necessaria/ Wed, 29 May 2019 17:13:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54615 necessaria

L’interminabile (e chissà se terminata) campagna elettorale alla fine ha prodotto due punti in meno di partecipazione al voto, al 56,09%. Che proiettano comunque l’Italia ancora tra i Paesi dell’Unione con più alto tasso di partecipazione. I risultati sono molto chiari.

Si ribaltano i rapporti di forza tra i contraenti il contratto di governo. La Lega schizza oltre il 34 e i cinquestelle non raggiungono la metà di un risultato che è di assoluto rilievo per il partito di Salvini. Il Partito democratico supera il partito fondato da Grillo recuperando consensi trasversalmente. Gli altri dell’(ex) centro-destra mantengono consensi, ma Forza Italia ad una sola cifra.

Per considerazioni più approfondite sull’evoluzione complessiva del sistema bisognerà attendere i ballottaggi per le città capoluogo di provincia chiamate alle urne insieme ad oltre tremila Comuni, ma almeno tre punti possono fin d’ora essere sottolineati. Il Movimento, che dimezza la percentuale dei voti al livello nazionale,sfiora comunque il 30% nella circoscrizione Sud e in quella delle isole.

Di qui l’interrogativo se si tratti di un dato residuale in una china di rapido declino, oppure un dato da cui ripartire: ma come? Il secondo e fondamentale punto è che ad ogni elezioni ormai, di qualsiasi livello, si produce un significativo spostamento di milioni elettori, non solo dal voto all’astensione o viceversa, ma anche tra partiti.

È la conferma di un dato che avvicina sempre più la politica al marketing, e comunque dice di elettori insofferenti e insoddisfatti. Esiste una questione sociale europea, che interagisce con una questioni sociale “globale”, che probabilmente non ha ancora trovato composizione e soprattutto una interpretazione politica precisa. Questa “questione sociale” di nuovo tipo, che non interessa solo i margini di povertà, ma il corpo centrale della società, attraversa tutti i Paesi e ovviamente interessa anche l’Italia.

Di qui i due interrogativi che, dal punto di vista italiano, il risultato consegna. Il primo è di carattere “domestico”.

Come dimostrano i precedenti di Berlinguer 1984, Berlusconi 1994, Renzi 2014, vincere le elezioni europee non significa poi vincere le politiche successive. Per cui bisogna chiedersi come il vincitore del 26 maggio, ovvero Matteo Salvini, capitalizzerà il suo successo. Dopo un lungo sonno e violenti alterchi il Governo dovrà necessariamente cominciare a dare risposte alle questioni sul tappeto e sulle prospettive a medio termine.

Il secondo interrogativo è sull’assetto europeo. Il dimagrimento dei due principali gruppi, la frammentazione, rilanciano la sfida, per tutti, sulla nuova questione sociale. Che è anche questione sugli obiettivi e sul rilancio del disegno europeo. Una Unione assolutamente necessaria, che questo esemplare esercizio di democrazia ha confermato come uno spazio straordinario di sviluppo, ma che giustamente tutti dicono deve cambiare passo.

E per questo servono anche riferimenti morali, ideali e culturali. Di cui riappropriarsi molto, molto presto.

Francesco Bonini

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necessaria

L’interminabile (e chissà se terminata) campagna elettorale alla fine ha prodotto due punti in meno di partecipazione al voto, al 56,09%. Che proiettano comunque l’Italia ancora tra i Paesi dell’Unione con più alto tasso di partecipazione. I risultati sono molto chiari.

Si ribaltano i rapporti di forza tra i contraenti il contratto di governo. La Lega schizza oltre il 34 e i cinquestelle non raggiungono la metà di un risultato che è di assoluto rilievo per il partito di Salvini. Il Partito democratico supera il partito fondato da Grillo recuperando consensi trasversalmente. Gli altri dell’(ex) centro-destra mantengono consensi, ma Forza Italia ad una sola cifra.

Per considerazioni più approfondite sull’evoluzione complessiva del sistema bisognerà attendere i ballottaggi per le città capoluogo di provincia chiamate alle urne insieme ad oltre tremila Comuni, ma almeno tre punti possono fin d’ora essere sottolineati. Il Movimento, che dimezza la percentuale dei voti al livello nazionale,sfiora comunque il 30% nella circoscrizione Sud e in quella delle isole.

Di qui l’interrogativo se si tratti di un dato residuale in una china di rapido declino, oppure un dato da cui ripartire: ma come? Il secondo e fondamentale punto è che ad ogni elezioni ormai, di qualsiasi livello, si produce un significativo spostamento di milioni elettori, non solo dal voto all’astensione o viceversa, ma anche tra partiti.

È la conferma di un dato che avvicina sempre più la politica al marketing, e comunque dice di elettori insofferenti e insoddisfatti. Esiste una questione sociale europea, che interagisce con una questioni sociale “globale”, che probabilmente non ha ancora trovato composizione e soprattutto una interpretazione politica precisa. Questa “questione sociale” di nuovo tipo, che non interessa solo i margini di povertà, ma il corpo centrale della società, attraversa tutti i Paesi e ovviamente interessa anche l’Italia.

Di qui i due interrogativi che, dal punto di vista italiano, il risultato consegna. Il primo è di carattere “domestico”.

Come dimostrano i precedenti di Berlinguer 1984, Berlusconi 1994, Renzi 2014, vincere le elezioni europee non significa poi vincere le politiche successive. Per cui bisogna chiedersi come il vincitore del 26 maggio, ovvero Matteo Salvini, capitalizzerà il suo successo. Dopo un lungo sonno e violenti alterchi il Governo dovrà necessariamente cominciare a dare risposte alle questioni sul tappeto e sulle prospettive a medio termine.

Il secondo interrogativo è sull’assetto europeo. Il dimagrimento dei due principali gruppi, la frammentazione, rilanciano la sfida, per tutti, sulla nuova questione sociale. Che è anche questione sugli obiettivi e sul rilancio del disegno europeo. Una Unione assolutamente necessaria, che questo esemplare esercizio di democrazia ha confermato come uno spazio straordinario di sviluppo, ma che giustamente tutti dicono deve cambiare passo.

E per questo servono anche riferimenti morali, ideali e culturali. Di cui riappropriarsi molto, molto presto.

Francesco Bonini

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Europa. “Andare a votare” anche per “dare un segnale al governo” https://www.lavoce.it/europa-votare-segnale/ Sun, 19 May 2019 10:27:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54547 segnale

L’Europa sta attraversando un momento molto delicato della sua storia, e il voto del 26 maggio è un tornante decisivo. A segnalarlo, cercando di delineare il volto dell’Europa come “comunità”, sono stati Giuseppina Paterniti, direttrice del Tg3Rai, Giuseppe Tognon, professore ordinario alla Lumsa, e Paolo Pombeni, professore emerito all’Università di Bologna, protagonisti della prima serata del Convegno Cei #ComunitàConvergenti, tenutosi ad Assisi nei giorni scorsi.

L'appello di Paterniti

“Molta gente in Italia non ha intenzione di andare a votare, perché sente lontana l’Europa”, il grido d’allarme di Paterniti, che ha fatto notare come “l’aver fatto passare quella dell’Europa come una questione di burocrati che decidono al posto nostro ha fatto comodo a tutti: portano a casa un risultato, senza interessarsi a quello che avviene”. Dei quattro players mondiali – gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’Europa – “che fanno in modo di eliminarsi per far sì che resti una sola voce”, l’Europa “è il player più grande del mondo, ha la moneta più forte del mondo, eppure non riesce a parlare con una sola voce, perché non abbiamo completato il cammino di unificazione politica”. “L’Unione europea ha fragilità e parcellizzazioni che rendono molto delicato il prossimo voto, perché manca la consapevolezza che siamo davanti davvero a un bivio”, la tesi della relatrice. L’immigrazione, inoltre, “è diventato il problema centrale dell’Europa, che però fa i conti con problemi più grandi, prima di tutto il lavoro. Si tratta, come dice il Papa, non di un’epoca di cambiamento ma di un cambiamento d’epoca: avremo a che fare ancora con molta povertà,  perché i vecchi lavori si stanno esaurendo e i nuovi non si sono ancora affermati”. Il nostro, infine, è un continente vecchio, “e gli anziani non scommettono sul futuro. Davanti a noi rischiamo di non avere orizzonte: i valori fondamentali rischiano di essere intaccati, se non abbiamo chiaro i valori di fondo a cui ispirarci”. “Serve il coraggio di un progetto, il coraggio di muoversi, di mettere in fila i valori, e a livello ecclesiale si può fare moltissimo”, l’appello di Paterniti, anche grazie alla capacità di “fare memoria del passato di un continente che ci ha regalato un orizzonte di pace perché veniva da secoli di guerra”. “L’84% dei giovani italiani è europeista”, ha concluso la direttrice del Tg3Rai: “Gli anticorpi per guardare avanti con fiducia ci sono, bisogna avere il coraggio di coltivarli e di farli crescere. Prendendoci cura uno dell’altro, perché da soli non possiamo fare niente”.

L'intervento di Tognon

“La mentalità dell’azzardo si è impadronita di tutte le nostre vite”. Ne è convinto Tognon. “Alla base di ogni convivenza c’è un tasso profondo di violenza, e noi abbiamo perso ogni intelligenza sulla violenza, cioè ogni capacità di regolarla, mitigarla, viverla in un certo modo”, la tesi del relatore, che ha citato il mito di Europa, alla base del quale c’è appunto il ricordo di una violenza. La soluzione, si è chiesto Tognon, è quella proposta da Rod Dreher in “The Benedikt option”, e cioè che l’unica strategia per i cristiani, in una nazione post-cristiana, è quella di “tornare all’opzione Benedetto, via da Roma, per costruire comunità lontane e ripartire per un nuovo umanesimo?”. “Non ce la possiamo permettere”, la risposta: “Siamo tanti, ricchi, angosciati, non si raddrizza l’Europa con questa opzione”. Come scrive Dietrich Bonhoeffer ne “La vita comune”, “solo nella comunità che è profondamente delusa per cose spiacevoli la vita comune incomincia ad essere ciò che deve essere davanti a Dio”. “Questo, allora, è un buon momento”, ha commentato Tognon: “È quando ci si trova delusi che si può cominciare a superare la violenza di cui siamo noi stessi portatori. La vita comune è per i cristiani una cosa altamente spirituale, non semplicemente conveniente”.

Importanza del voto per Pombeni

“Raramente abbiamo avuto una scadenza elettorale così importane come quella del 26 maggio, di  cui la gente non si rende assolutamente conto”. A sottolinearlo è stato Pombeni, ricordando che “il contesto in cui siamo inseriti è quello dell’Unione europea, se fallisce saremo travolti da questo fallimento”. “L’Europa sta cambiando”, ha fatto notare il relatore a proposito dello “scenario completamente cambiato” dopo “il sogno degli Stati Uniti d’Europa”, realizzatosi negli Anni Cinquanta: “una scommessa vinta, il meraviglioso sviluppo è arrivato, l’Europa è stata un’esplosione del benessere, e il suo mito attrattivo ha attratto i Paesi dell’Est nella speranza di sedersi a questa tavola imbandita”. “Questo tipo di Europa non c’è più e non potrà più esserci, perché è finita l’età dell’abbondanza ed è arrivata una grande transizione storica”, la tesi di Pombeni, che ha paragonato la rivoluzione digitale alla rivoluzione della stampa: “Quello che c’è prima sembra non valere più. Stanno cambiando i centri di potere e di sviluppo nell’Europa: negli Anni Cinquanta nessuno pensava che Cina e India sarebbero stati quello che sono adesso. Questo cambiamento generale presuppone che l’Europa si attrezzi”. E l’Italia cosa farà? “Dobbiamo lavorare per contare nel Consiglio europeo, dei Capi di Stato, perché è lì che si decidono le cose”, ha proposto l’esperto: “Il 26 maggio votiamo non soltanto per il Parlamento europeo, ma anche per mandare un segnale preciso al governo italiano, quale che sia. Dobbiamo avere molta credibilità, e punire tutti quelli che la credibilità non sanno dove sta di casa: per questo occorre motivare le persone ad andare a votare”.

M. Michela Nicolais

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segnale

L’Europa sta attraversando un momento molto delicato della sua storia, e il voto del 26 maggio è un tornante decisivo. A segnalarlo, cercando di delineare il volto dell’Europa come “comunità”, sono stati Giuseppina Paterniti, direttrice del Tg3Rai, Giuseppe Tognon, professore ordinario alla Lumsa, e Paolo Pombeni, professore emerito all’Università di Bologna, protagonisti della prima serata del Convegno Cei #ComunitàConvergenti, tenutosi ad Assisi nei giorni scorsi.

L'appello di Paterniti

“Molta gente in Italia non ha intenzione di andare a votare, perché sente lontana l’Europa”, il grido d’allarme di Paterniti, che ha fatto notare come “l’aver fatto passare quella dell’Europa come una questione di burocrati che decidono al posto nostro ha fatto comodo a tutti: portano a casa un risultato, senza interessarsi a quello che avviene”. Dei quattro players mondiali – gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’Europa – “che fanno in modo di eliminarsi per far sì che resti una sola voce”, l’Europa “è il player più grande del mondo, ha la moneta più forte del mondo, eppure non riesce a parlare con una sola voce, perché non abbiamo completato il cammino di unificazione politica”. “L’Unione europea ha fragilità e parcellizzazioni che rendono molto delicato il prossimo voto, perché manca la consapevolezza che siamo davanti davvero a un bivio”, la tesi della relatrice. L’immigrazione, inoltre, “è diventato il problema centrale dell’Europa, che però fa i conti con problemi più grandi, prima di tutto il lavoro. Si tratta, come dice il Papa, non di un’epoca di cambiamento ma di un cambiamento d’epoca: avremo a che fare ancora con molta povertà,  perché i vecchi lavori si stanno esaurendo e i nuovi non si sono ancora affermati”. Il nostro, infine, è un continente vecchio, “e gli anziani non scommettono sul futuro. Davanti a noi rischiamo di non avere orizzonte: i valori fondamentali rischiano di essere intaccati, se non abbiamo chiaro i valori di fondo a cui ispirarci”. “Serve il coraggio di un progetto, il coraggio di muoversi, di mettere in fila i valori, e a livello ecclesiale si può fare moltissimo”, l’appello di Paterniti, anche grazie alla capacità di “fare memoria del passato di un continente che ci ha regalato un orizzonte di pace perché veniva da secoli di guerra”. “L’84% dei giovani italiani è europeista”, ha concluso la direttrice del Tg3Rai: “Gli anticorpi per guardare avanti con fiducia ci sono, bisogna avere il coraggio di coltivarli e di farli crescere. Prendendoci cura uno dell’altro, perché da soli non possiamo fare niente”.

L'intervento di Tognon

“La mentalità dell’azzardo si è impadronita di tutte le nostre vite”. Ne è convinto Tognon. “Alla base di ogni convivenza c’è un tasso profondo di violenza, e noi abbiamo perso ogni intelligenza sulla violenza, cioè ogni capacità di regolarla, mitigarla, viverla in un certo modo”, la tesi del relatore, che ha citato il mito di Europa, alla base del quale c’è appunto il ricordo di una violenza. La soluzione, si è chiesto Tognon, è quella proposta da Rod Dreher in “The Benedikt option”, e cioè che l’unica strategia per i cristiani, in una nazione post-cristiana, è quella di “tornare all’opzione Benedetto, via da Roma, per costruire comunità lontane e ripartire per un nuovo umanesimo?”. “Non ce la possiamo permettere”, la risposta: “Siamo tanti, ricchi, angosciati, non si raddrizza l’Europa con questa opzione”. Come scrive Dietrich Bonhoeffer ne “La vita comune”, “solo nella comunità che è profondamente delusa per cose spiacevoli la vita comune incomincia ad essere ciò che deve essere davanti a Dio”. “Questo, allora, è un buon momento”, ha commentato Tognon: “È quando ci si trova delusi che si può cominciare a superare la violenza di cui siamo noi stessi portatori. La vita comune è per i cristiani una cosa altamente spirituale, non semplicemente conveniente”.

Importanza del voto per Pombeni

“Raramente abbiamo avuto una scadenza elettorale così importane come quella del 26 maggio, di  cui la gente non si rende assolutamente conto”. A sottolinearlo è stato Pombeni, ricordando che “il contesto in cui siamo inseriti è quello dell’Unione europea, se fallisce saremo travolti da questo fallimento”. “L’Europa sta cambiando”, ha fatto notare il relatore a proposito dello “scenario completamente cambiato” dopo “il sogno degli Stati Uniti d’Europa”, realizzatosi negli Anni Cinquanta: “una scommessa vinta, il meraviglioso sviluppo è arrivato, l’Europa è stata un’esplosione del benessere, e il suo mito attrattivo ha attratto i Paesi dell’Est nella speranza di sedersi a questa tavola imbandita”. “Questo tipo di Europa non c’è più e non potrà più esserci, perché è finita l’età dell’abbondanza ed è arrivata una grande transizione storica”, la tesi di Pombeni, che ha paragonato la rivoluzione digitale alla rivoluzione della stampa: “Quello che c’è prima sembra non valere più. Stanno cambiando i centri di potere e di sviluppo nell’Europa: negli Anni Cinquanta nessuno pensava che Cina e India sarebbero stati quello che sono adesso. Questo cambiamento generale presuppone che l’Europa si attrezzi”. E l’Italia cosa farà? “Dobbiamo lavorare per contare nel Consiglio europeo, dei Capi di Stato, perché è lì che si decidono le cose”, ha proposto l’esperto: “Il 26 maggio votiamo non soltanto per il Parlamento europeo, ma anche per mandare un segnale preciso al governo italiano, quale che sia. Dobbiamo avere molta credibilità, e punire tutti quelli che la credibilità non sanno dove sta di casa: per questo occorre motivare le persone ad andare a votare”.

M. Michela Nicolais

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Parlamento Ue: cos’è. E cosa no https://www.lavoce.it/parlamento-ue/ Fri, 10 May 2019 11:28:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54484 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Tra due settimane precisamente il 26 maggio - si voterà per le elezioni “europee”. Non è nostro compito dare suggerimenti per il voto.

Possiamo invece aiutare i lettori ad avere idee più chiare su quale sia la posta in gioco. Come spesso succede in Italia (vedi il referendum voluto da Renzi), le forze politiche riversano sugli elettori argomenti tanto più gridati quanto sono meno pertinenti alla finalità specifica del voto. Adesso si tratta di eleggere i rappresentanti italiani in quello che si chiama “Parlamento europeo”, e già questo è un elemento di confusione, perché si chiama così ma non è un Parlamento nel senso pieno del termine.

Gli assomiglia perché è composto da deputati eletti come espressione delle varie aree territoriali e caratterizzati dalle loro rispettive appartenenze politiche. Ma se per Parlamento si intende la sede più alta, quella che traduce la volontà popolare in indirizzi politici vincolanti per il Governo, e li trasferisce nelle leggi, ebbene, il Parlamento europeo non è questo.

L’autorità suprema dell’Unione europea è il Consiglio, che è il tavolo intorno al quale si riuniscono i capi dei Governi degli Stati membri (o, per le questioni di minore importanza, i rispettivi ministri competenti per materia) e dove vale la regola dell’unanimità. Vuol dire che se su una certa decisione sono tutti d’accordo e solo uno è contrario, vince quello contrario e non se ne fa nulla.

Quindi i molti risentimenti che girano contro l’Europa perché, di tanti problemi che ci sono, la maggior parte non li risolve, anzi neppure se ne occupa, sono male indirizzati: non dovrebbero essere rivolti contro “l’Europa” ma contro gli Stati che la frenano. Tutto sommato, sono più onesti i britannici che hanno scelto formalmente di uscirne, invece di continuare a remare contro. Quindi come strumento per migliorare l’Europa (qualunque cosa s’intenda per miglioramento) la votazione per il Parlamento europeo conta poco o nulla.

Conterebbero invece le elezioni per i Parlamenti nazionali, se i candidati dicessero chiaramente quali politiche intendono mettere in atto su scala europea. In genere, parlano d’altro.

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Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Tra due settimane precisamente il 26 maggio - si voterà per le elezioni “europee”. Non è nostro compito dare suggerimenti per il voto.

Possiamo invece aiutare i lettori ad avere idee più chiare su quale sia la posta in gioco. Come spesso succede in Italia (vedi il referendum voluto da Renzi), le forze politiche riversano sugli elettori argomenti tanto più gridati quanto sono meno pertinenti alla finalità specifica del voto. Adesso si tratta di eleggere i rappresentanti italiani in quello che si chiama “Parlamento europeo”, e già questo è un elemento di confusione, perché si chiama così ma non è un Parlamento nel senso pieno del termine.

Gli assomiglia perché è composto da deputati eletti come espressione delle varie aree territoriali e caratterizzati dalle loro rispettive appartenenze politiche. Ma se per Parlamento si intende la sede più alta, quella che traduce la volontà popolare in indirizzi politici vincolanti per il Governo, e li trasferisce nelle leggi, ebbene, il Parlamento europeo non è questo.

L’autorità suprema dell’Unione europea è il Consiglio, che è il tavolo intorno al quale si riuniscono i capi dei Governi degli Stati membri (o, per le questioni di minore importanza, i rispettivi ministri competenti per materia) e dove vale la regola dell’unanimità. Vuol dire che se su una certa decisione sono tutti d’accordo e solo uno è contrario, vince quello contrario e non se ne fa nulla.

Quindi i molti risentimenti che girano contro l’Europa perché, di tanti problemi che ci sono, la maggior parte non li risolve, anzi neppure se ne occupa, sono male indirizzati: non dovrebbero essere rivolti contro “l’Europa” ma contro gli Stati che la frenano. Tutto sommato, sono più onesti i britannici che hanno scelto formalmente di uscirne, invece di continuare a remare contro. Quindi come strumento per migliorare l’Europa (qualunque cosa s’intenda per miglioramento) la votazione per il Parlamento europeo conta poco o nulla.

Conterebbero invece le elezioni per i Parlamenti nazionali, se i candidati dicessero chiaramente quali politiche intendono mettere in atto su scala europea. In genere, parlano d’altro.

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Consiglio d’Europa, paladino dei diritti umani https://www.lavoce.it/consiglio-europa-diritti-umani/ Thu, 09 May 2019 09:59:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54474 umani

Il Consiglio d’Europa, a settant’anni dalla sua fondazione, è la più importante organizzazione del nostro continente per la difesa dei diritti umani. 47 Stati membri si sono riuniti per concordare norme comuni in materia di diritti umani, democrazia e Stato di diritto. Tutte le persone che vivono in questo spazio giuridico comune, 830 milioni, hanno il diritto fondamentale di presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo rappresenta un fatto senza precedenti nella storia europea, un traguardo che dovremmo festeggiare. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta sociale europea sono le radici vitali che permettono alla nostra Organizzazione di crescere. Nel corso degli anni il Consiglio d’Europa si è avvalso di questi diritti, applicandoli a casi specifici e offrendo un’ulteriore protezione alle persone. Ciò ha comportato l’elaborazione di nuovi strumenti giuridici sulla base delle norme concordate in comune. Abbiamo così agito per proteggere le minoranze nazionali e le lingue regionali e minoritarie, nonché per combattere lo sfruttamento sessuale, gli abusi sui minori, la violenza contro le donne e la violenza domestica. Abbiamo adottato misure per prevenire atti di tortura e pene o trattamenti disumani e degradanti, per combattere la tratta di esseri umani e il traffico di organi e per porre fine alle violazioni di dati personali e alla cibercriminalità. Abbiamo anche svolto un ruolo attivo nel garantire la sicurezza e l’integrità dello sport, l’accessibilità della cultura europea e un’educazione che promuova la parità, l’integrazione e la cittadinanza democratica. Il mondo moderno si trova ad affrontare sfide sempre nuove. Oggi queste includono la gestione della rivoluzione avviata dall’intelligenza artificiale, il flagello della schiavitù moderna e una crescente disuguaglianza in molte delle nostre società. Nei prossimi anni, inoltre, emergeranno problemi ora inimmaginabili. Un Consiglio d’Europa forte, con il suo Comitato dei ministri e l’Assemblea parlamentare, saprà sfruttare il sistema delle Convenzioni – e la volontà degli Stati membri – per fornire soluzioni multilaterali a vantaggio dei cittadini di tutto il continente. Naturalmente vi sono anche sfide maggiori. Rigurgiti di nazionalismo estremo e populismo costituiscono una minaccia diretta ai valori della nostra Organizzazione e alla cooperazione internazionale da cui la nostra sicurezza democratica dipende. Il Consiglio d’Europa è stato fondato al termine di due devastanti guerre mondiali proprio in risposta a tali sfide. Le istituzioni della nostra Organizzazione e i nostri 47 Stati membri porteranno avanti questo impegno insieme ai nostri partner europei e internazionali: l’Ue, l’Osce, l’Onu e molti altri. Offriremo il nostro contributo per garantire un futuro migliore.  

Thorbjørn Jagland, segretario generale del Consiglio d’Europa. Liliane Maury Pasquier, presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Timo Soini, ministro degli Affari esteri della Finlandia e presidente del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa

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umani

Il Consiglio d’Europa, a settant’anni dalla sua fondazione, è la più importante organizzazione del nostro continente per la difesa dei diritti umani. 47 Stati membri si sono riuniti per concordare norme comuni in materia di diritti umani, democrazia e Stato di diritto. Tutte le persone che vivono in questo spazio giuridico comune, 830 milioni, hanno il diritto fondamentale di presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo rappresenta un fatto senza precedenti nella storia europea, un traguardo che dovremmo festeggiare. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta sociale europea sono le radici vitali che permettono alla nostra Organizzazione di crescere. Nel corso degli anni il Consiglio d’Europa si è avvalso di questi diritti, applicandoli a casi specifici e offrendo un’ulteriore protezione alle persone. Ciò ha comportato l’elaborazione di nuovi strumenti giuridici sulla base delle norme concordate in comune. Abbiamo così agito per proteggere le minoranze nazionali e le lingue regionali e minoritarie, nonché per combattere lo sfruttamento sessuale, gli abusi sui minori, la violenza contro le donne e la violenza domestica. Abbiamo adottato misure per prevenire atti di tortura e pene o trattamenti disumani e degradanti, per combattere la tratta di esseri umani e il traffico di organi e per porre fine alle violazioni di dati personali e alla cibercriminalità. Abbiamo anche svolto un ruolo attivo nel garantire la sicurezza e l’integrità dello sport, l’accessibilità della cultura europea e un’educazione che promuova la parità, l’integrazione e la cittadinanza democratica. Il mondo moderno si trova ad affrontare sfide sempre nuove. Oggi queste includono la gestione della rivoluzione avviata dall’intelligenza artificiale, il flagello della schiavitù moderna e una crescente disuguaglianza in molte delle nostre società. Nei prossimi anni, inoltre, emergeranno problemi ora inimmaginabili. Un Consiglio d’Europa forte, con il suo Comitato dei ministri e l’Assemblea parlamentare, saprà sfruttare il sistema delle Convenzioni – e la volontà degli Stati membri – per fornire soluzioni multilaterali a vantaggio dei cittadini di tutto il continente. Naturalmente vi sono anche sfide maggiori. Rigurgiti di nazionalismo estremo e populismo costituiscono una minaccia diretta ai valori della nostra Organizzazione e alla cooperazione internazionale da cui la nostra sicurezza democratica dipende. Il Consiglio d’Europa è stato fondato al termine di due devastanti guerre mondiali proprio in risposta a tali sfide. Le istituzioni della nostra Organizzazione e i nostri 47 Stati membri porteranno avanti questo impegno insieme ai nostri partner europei e internazionali: l’Ue, l’Osce, l’Onu e molti altri. Offriremo il nostro contributo per garantire un futuro migliore.  

Thorbjørn Jagland, segretario generale del Consiglio d’Europa. Liliane Maury Pasquier, presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Timo Soini, ministro degli Affari esteri della Finlandia e presidente del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa

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