Trinità Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/trinita/ Settimanale di informazione regionale Wed, 05 Aug 2015 14:51:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Trinità Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/trinita/ 32 32 Eucaristia, mistero nuziale https://www.lavoce.it/eucaristia-mistero-nuziale/ Wed, 03 Jun 2015 11:32:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=34548 In questa domenica il Vangelo di Marco ci consegna il momento-culmine della cena che Gesù fa con i suoi prima di iniziare il cammino che lo condurrà alla croce. Tutte le parole che Gesù pronuncia in questa cena di addio, e che abbiamo ascoltato in queste domeniche dopo la Pasqua, sono illuminate ulteriormente dall’istituzione dell’eucaristia con cui Gesù conclude la cena.

L’amore per gli esseri umani ha bisogno di contatto fisico. Gesù mostra di assecondare questa esigenza creando l’eucaristia, che è una risposta fantastica al suo desiderio di restare fisicamente presente sulla terra e, nello stesso tempo, al desiderio dei suoi amici di tenerlo vicino. Si potrebbe dire che l’eucaristia soddisfa così un’esigenza reciproca.

L’eucaristia ricapitola tutta la vita di Gesù fino al dono supremo di sé al Padre. È insieme sacramento di Gesù crocifisso, vertice, causa e modello dell’unità, e del Risorto in mezzo a noi, che ci rende suo Corpo. L’eucaristia forma la famiglia dei figli di Dio, fratelli di Gesù e tra loro. Egli, unendo i cristiani a se stesso e tra loro in un unico Corpo, che è il suo, dà vita alla Chiesa nella sua essenza più profonda. L’eucaristia produce la comunione tra fratelli. Gesù eucaristia è l’anima, il cuore della vita stessa della Chiesa. Quando ricevo Gesù eucaristia (premettendo l’amore reciproco che egli ci ha comandato), consegno la mia vita al Crocifisso-Risorto che la porta nel seno della Trinità; per cui posso affermare con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Tu in me”.

La radice sacramentale più profonda dell’eucaristia è la vita trinitaria, alla quale siamo chiamati, per vivere nella Trinità e a modo della Trinità. Gesù estende a chiunque si unisce con lui il rapporto trinitario che ha con il Padre e lo Spirito santo. Compito dell’eucaristia è di renderci “Dio” per partecipazione. Mescolando alle nostre carni quelle vivificate (dallo Spirito santo) e vivificanti del Cristo, ci divinizza nell’anima e nel corpo. La Chiesa stessa si potrebbe definire “l’Uno provocato dall’eucaristia”, perché composta da uomini e donne divinizzati, fatti Dio, uniti al Cristo che è Dio, e tra loro.

L’eucaristia è un mistero nuziale: è il mistero della donazione che Cristo fa del suo Corpo alla Chiesa sua sposa. Questo dono è l’espressione della sua fedeltà fino alla morte. Come non è possibile una Chiesa senza eucaristia, così non è possibile una famiglia, piccola Chiesa, senza eucaristia. Nell’eucaristia gli sposi riscoprono se stessi come attualizzazione della nuova alleanza. Accogliendo il dono d’amore che Gesù fa di se stesso nell’eucaristia, essi vivificano e accrescono la capacità di donarsi reciprocamente. Andiamo all’eucaristia per riconoscere Cristo sposo nel gesto dello spezzare il pane.

Viviamo con slancio la nostra esperienza coniugale per riscoprire in essa il ritmo eucaristico del dono e dell’accoglienza totale, per riconoscere nell’eucaristia la fonte del nostro matrimonio. La chiamata a essere “una sola carne”, un solo corpo, rivolta da Dio all’uomo e alla donna alle origini nella creazione, si realizza per gli sposi con la partecipazione al banchetto eucaristico. È come se gli sposi si dicessero reciprocamente: “Il nostro legame non si basa solo sull’ eros naturale o sulla decisione di condividere una vita insieme. Il nostro impegno coniugale si fonda su Gesù”.

Nell’essere due in una sola carne, gli sposi si appartengono completamente e definitivamente. Nel dono eucaristico essi riconoscono Cristo, lo Sposo con loro, e ritrovano i veri dinamismi della loro nuzialità. L’eucaristia, dono del corpo e del sangue di Cristo offerti per noi, crea un legame intrinseco tra l’uso che Gesù fa del proprio corpo – un dono – e l’uso che gli sposi fanno del proprio corpo, che esprime il dono totale di ciascuno all’altro. L’eucaristia è la sorgente vera da cui essi possono attingere il bell’amore. È necessario riproporre continuamente la centralità dell’eucaristia nella vita del cristiano e della comunità, mostrando come in essa confluisca e da essa parta ogni realtà e ogni impegno nella Chiesa e tra gli uomini.

 

 

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Uno per Uno per Uno = Uno https://www.lavoce.it/uno-per-uno-per-uno-uno/ Tue, 26 May 2015 13:37:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=34121 Abbiamo constatato che, con l’Ascensione, Gesù manda i discepoli in tutto il mondo assicurando loro la sua presenza nel loro agire; abbiamo meditato che la Pentecoste è il momento del dono dello Spirito alla Chiesa nascente e a quanti accolgono l’invito ad amare come Egli ama.

Oggi, festa della santissima Trinità, contempliamo e gioiamo di questo “gioco d’amore” tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo guardando a Dio nella Sua intima relazione triadica, fatto Uno dall’amore. Gesù ci invita a entrare e immergerci in questa circolarità d’amore per scoprirne la bellezza, le conseguenze sulla nostra vita. Una comunione, quella delle tre Persone divine, che non resta tra sé e sé, ma invita ciascuno di noi a prenderne parte, misticamente.

La Trinità, questa straordinaria “famiglia”, nel Suo disegno salvifico ha scelto di entrare nella storia degli uomini per essere un tutt’uno con noi, e trasformarci in figli di Dio. Oggi questa festa ci interroga più che mai sulla grande sfida che viviamo in un contesto dove sembra massima la difficoltà e la frammentazione dei rapporti, dove l’individualità è assolutizzata, dove la diversità fa paura, anche quella tra uomo e donna; ma dove l’anelito e la condizione di vivere assieme, gli uni accanto agli altri, ha una dimensione globale come mai fino ad ora. Il Vangelo dunque ci rivela la Trinità non tanto e solo come una verità da credere, ma come una realtà da vivere.

Don Tonino Bello scriveva: “Secondo una suggestione semplicissima e splendida, nella Trinità non c’è Uno più Uno più Uno, uguale a Tre. Ma c’è Uno per Uno per Uno, che fa sempre Uno. Quando si vive veramente l’uno per l’altro, densificando questo rapporto di oblatività, la comunione raggiunge il vertice”.

La Trinità è un’esperienza di amore che solo amando possiamo comprendere, trovandovi luce per affrontare le sfide che ci sorprendono, e da riversare sugli altri. Come persone singole, come sposi, come comunità, dobbiamo entrare sempre di più nel dinamismo trinitario donatoci da Gesù con la sua morte e risurrezione, per sperimentarne le innumerevoli conseguenze – oltreché spirituali – culturali, relazionali, sociali, economiche, familiari, in un’esistenza resa nuova e plasmata dal “dimorare nel seno della Trinità”. L’esperienza mistica della Trinità, infatti, vissuta nella dimensione comunitaria, può aprire prospettive inedite e feconde di novità per tutte le dimensioni della vita umana, aiutandoci a trovare risposte ai più spinosi interrogativi dell’uomo di oggi, come l’incontro fra culture diverse, necessario e urgente per la pace universale e per la civiltà globale. E così, anche attraverso un nuovo umanesimo, l’umanità assaporerà in tutta la sua ricchezza il dono ricevuto dall’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù.

Da questo si comprende l’enorme portata dell’annuncio del Vangelo della Trinità, e della responsabilità che la comunità cristiana e la Chiesa hanno nei confronti dell’intera famiglia umana. La grande missione di “fare discepoli tutti i popoli”, figli dell’unico Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo, è dunque di estrema attualità anche oggi.

È proprio Gesù con la sua vicinanza, che incoraggia i discepoli “turbati” e dubbiosi e trasmette loro il potere ricevuto dal Padre. Così come, se facciamo esperienza della sua presenza nell’eucaristia, nella Parola, nella fraternità della comunione, nella missione, Egli oggi farà fiorire anche il deserto. E la vita trinitaria che fluisce liberamente, nei luoghi della comunione, genera l’unità che è il segno della Sua presenza fra noi, e il dono supremo che attira sulla terra la vita del Cielo e affascina: “L’unità, che divina bellezza! Chi potrà mai azzardarsi a parlare di lei? È ineffabile! Si sente, si vede, si gode, ma è ineffabile. Tutti godono della Sua presenza, tutti soffrono della Sua assenza. È pace, è gaudio, è ardore, è amore, è clima di eroismo, di somma generosità. È Gesù tra noi!… E io mi sono resa conto che oggi il mondo che non crede, o che crede diversamente, è particolarmente toccato da questa presenza di Gesù” (Chiara Lubich).

 

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La nostra vita è la Vite https://www.lavoce.it/la-nostra-vita-e-la-vite/ Wed, 29 Apr 2015 17:57:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31998 Nelle domeniche che vanno da Pasqua alla Pentecoste, la Chiesa propone passi del discorso “di commiato” che Gesù fa ai suoi. Attraverso un paragone, Gesù oggi ci rivela che tutti coloro che gli sono legati mediante una adesione incondizionata, vivono in Lui. Come i tralci della vite, che sono generati e nutriti dalla vite stessa, noi cristiani siamo legati in modo vitale a Gesù Cristo nella comunità della Chiesa.

L’immagine presentata nel brano evangelico di questa domenica, molto cara al popolo di Israele, è abbondantemente usata dai Profeti e nei Salmi: la vigna, la vite, i tralci, i frutti. Ma Gesù, per la prima volta, dice di se stesso “io sono la vite” e chiama tralci i suoi discepoli; ne consegue che la vigna è il regno di Dio e che il vignaiolo è il Padre. Qui, oltre al vitale legame con lui, a Gesù preme evidenziare un altro aspetto: i frutti. Un tralcio staccato dalla vite non ha futuro, non ha più alcuna speranza, non ha fecondità, non gli resta che seccare ed essere bruciato. È la sterilità completa… anche se sgobbi da mattina a sera, anche se credi di essere utile all’umanità, anche se gli amici ti applaudono, anche se i beni terreni crescono, anche se fai sacrifici notevoli.

Per essere un tralcio verde e rigoglioso che fa corpo con la vite occorre credere in Cristo, vivere conformemente a questa fede mettendo in pratica le parole di Gesù senza trascurare quei mezzi divini, i sacramenti, che Cristo ha lasciato, mediante in quali ottieni o riacquisti l’unità eventualmente spezzata con lui, e l’amore al fratello. La fecondità della vita del cristiano è legata a doppia mandata all’intima unione con Gesù, la vera vite, e alle potature del vignaiolo, il Padre. Tale fecondità costituisce la cartina di tornasole del legame vitale che fa scorrere nella vita di tutti i giorni la linfa stessa che il Risorto “passa” ai tralci e che viene dal seno della vita di Dio. “Chi rimane in me e io in lui”. Unità nostra con lui, e anche unità sua con noi. Se siamo uniti a lui, lui è in noi, è presente nell’intimo del nostro cuore. Ne nasce un rapporto e un colloquio d’amore reciproco, una collaborazione tra Gesù e te, discepolo suo. La conseguenza è quella di fare molto frutto, proprio come un tralcio ben unito alla vite dona grappoli saporosi. “Molto frutto” significa “molto”! Cioè può voler dire portare nell’umanità che ci circonda una corrente di bene, di comunione, di amore reciproco.

Cogliamo allora nel matrimonio e nella vita coniugale e familiare i tratti del solido legame alla Vite che dà solidità ai rapporti e ne genera di nuovi intorno, allargando la trama dei legami di comunione che generano la Chiesa e i brani di socialità fraterna. L’unicità dell’amore per Gesù, unica e vera vite, rende unico e duraturo il rapporto tra gli sposi. Così come le fragilità, i dolori, che si succedono negli anni sono le potature che fanno fruttificare a vantaggio di tutti, i membri della famiglia stessa e i suoi vicini. Il credente, per la sua scelta esistenziale di fondo, si colloca all’interno della vita stessa di Dio e ne fa parte. Questo significa che è parte della Vite.

Ogni battezzato è inserito in Cristo e ne condivide la vita e il destino (Rm 6,4-5), ne è rivestito come di un abito nuovo, è cristificato al punto tale che non è più lui a vivere, ma è Cristo stesso a vivere e operare in lui (Gal 2,20). Essere tralci non dipende da noi, bensì dalla vite, di cui siamo parte in virtù del battesimo, ma il rimanerci dipende da noi. Il termine “rimanere” non indica un esserci effimero e provvisorio, ma persistente e perseverante. Significa dimorare, sempre. Significa fare di quella vite, che è Cristo, la nostra dimora abituale. Ma se Gesù è nel Padre e noi siamo in lui, e lui in noi, allora anche noi siamo nel Padre; siamo inseriti nel ciclo vitale della stessa Trinità. Visto in questa prospettiva, il nostro vivere quotidiano, saldamente uniti alla Vite, diventa un vivere nella Trinità, diventa vivere la stessa vita della Trinità, per cui tutto ciò che facciamo – anche le cose più umili e insignificanti – acquista un valore salvifico immenso.

Perché non siamo più noi che viviamo e operiamo, ma il Padre, il Figlio e lo Spirito vivono e operano in noi, e noi diventiamo la loro dimora: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Il nostro vivere, dunque, diventa dimora della Trinità come la Chiesa; e la famiglia, come “ecclesia”, ne diventa un’icona.

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Abat Jour. Impastati di vita trinitaria https://www.lavoce.it/abat-jour-impastati-di-vita-trinitaria/ Sat, 14 Jun 2014 14:18:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25554 “Impastati di vita trinitaria!”. Il commento di mons. Battaglia alla liturgia della Parola domenicale e festiva, depositatosi nei suoi tre volumi (uno ogni anno liturgico) Dalla liturgia alla vita, è sempre pacato e acuto, perché non cede mai al gusto dei fuochi d’artificio cari a certi biblisti, usi ad attraversare impavidi (andata e ritorno, a volte solo andata) il burned out della decenza teologica: il “Cristo della fede” è loro talmente caro da ridurre il “Cristo della storia” a una pallida controfigura. No, signori, così non va! Se il “Cristo della fede” non mantiene perfettamente funzionante, momento per momento, il cordone ombelicale che lo unisce al “Cristo della storia”… scusate la volgarità!, ma… tenetevelo! Non è di lui che ha bisogno la nostra salvezza.

Ma se i commenti che via via si srotolano dalla penna di mons. Battaglia, domenica dopo domenica, festa dopo festa, sono sempre pacati e acuti, il suo commento alla liturgia della Parola della solennità della Ss. Trinità è davvero sorprendente: “Impastati di vita trinitaria!”.

Scrive don Oscar: “C’è sempre un residuo di paganesimo nella nostra fede in Dio e nel rifiuto di Lui che caratterizza tanti nostri contemporanei”.

Per ricordarci che noi cadiamo nell’idolatria non solo quando ci dimentichiamo di Dio e mettiamo qualcun altro al Suo posto, ma anche quando parliamo di Dio come se non fosse Dio, ci voleva questo giovanile antico saggio, la cui pagina conserva ancora intatti l’odore e la freschezza della piana di Norcia, di quando, giovanissimo studente di Teologia, i suoi conterranei se lo additavano, chiamavano Òskire e sorridevano al suo passaggio, perché intuivano in lui al tempo stesso un esponente della nuova saggezza cristiana e l’erede della saggezza umana e della profonda religiosità di cui erano ricche le genti osco-umbre, quando Roma non aveva ancora emesso il primo vagito.

Noi predicatori di mezza tacca ce la prendiamo spesso con l’idolatria del denaro, con l’idolatria del potere, con l’idolatria del successo. Don Oscar denuncia l’idolatria di Dio: molti si sono fatti una loro immagine di Dio, una specie di idolo che venerano o rifiutano a seconda dei casi. L’esito di questa stortura è tragico: in base a questa immagine personale, Dio spesso è più temuto che amato.

L’antidoto è proprio la corretta celebrazione della Trinità santissima, che non è un’astrusa formula algebrica di teologia speculativa, ma una verità che ci inserisce in una misteriosa corrente irresistibile che mette in circolazione relazioni affettuose tra Padre, Figlio e Spirito santo, una corrente di amore che trabocca all’esterno e travolge tutti noi. E ci chiede solo di arrenderci, per lasciarci impastare di vita trinitaria.

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Noi valiamo la vita di Dio https://www.lavoce.it/commento-al-vangelo-22/ Thu, 12 Jun 2014 14:55:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25506 Nicodemo è un anziano che, di notte, va dal Maestro per imparare come si rinasce per non morire. È il problema fondamentale dell’uomo: come vivere per vincere l’angoscia della morte che tutti abbiamo. Nicodemo, un ricercatore della Legge, non vi ha mai trovato come si fa a “rinascere”. E Gesù spiega che uno “nasce dall’alto” quando vive veramente. Non quando nasce, perché nasce mortale e poi muore. Uno vive veramente quando è amato.

È l’amore che ci fa nascere, e questo Vangelo parla soprattutto dell’incredibile amore di Dio per l’uomo. All’origine del nostro esistere non c’è il caso – tantomeno il disegno sadico della natura che distrugge ciò che produce – ma l’amore di alcune persone.

Dalla Croce si vede e si comprende l’amore di Dio per questo mondo, non per un altro. Dio ama questo mondo, e la fede cristiana è credere nell’amore incredibile che Dio ha per l’uomo, alla passione di Dio per l’uomo. L’amore è il pane quotidiano del quale l’uomo vive. In qualunque altro modo, si muore. Anche i conflitti che si hanno con se stessi non sono altro che i conflitti che si hanno nella relazione con i genitori. Se uno non si sa amato, non può amarsi e non può amare.

La falsa immagine di Dio è il “peccato originale” che Gesù è venuto a togliere, finendo in croce per l’uomo. Dio si rivela nell’aver mandato il suo Figlio, che ci insegna a essere noi “figli” e ad amare i fratelli come sa fare solo chi conosce l’amore del Padre. Tutto il Vangelo è testimonianza di questo amore del Figlio che ci ama come ama il Padre. E il Padre ci ama come ama lui, il Figlio unico.

Uno vale quanto è amato. Noi valiamo la vita di Dio. Ogni persona vale tanto! Così Dio ha amato il mondo, e questo è il centro della fede cristiana, l’amore del Padre. Di queste cose parlavano Gesù e Nicodemo, di notte.

Oggi è la solennità della Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. La liturgia ci ha fatto conoscere meglio lo Spirito domenica scorsa. È l’amore del Padre e del Figlio. Il regno del Padre che si annuncia è quello dell’amore misericordioso, e i sacramenti della Chiesa offrono il perdono e rinnovano tutti i gesti della vita cristiana. Il soffio di Gesù è un gesto simbolico, ricorda il “soffio” di Dio, che dà la vita all’uomo. Perdonare è ridare vita.

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I Tre nell’unità dell’amore https://www.lavoce.it/titolo/ Thu, 23 May 2013 14:45:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=16862 Questa domenica che segue la Pentecoste segna la fine del tempo pasquale e introduce il tempo detto “ordinario”. Anche il nostro camminare in questo tempo liturgico sarà appunto “ordinario”, ossia quotidiano, in qualche modo feriale; fatto della vita di tutti i giorni, con le sue fatiche, i suoi problemi, le sue tentazioni e le consolazioni dello Spirito; intanto la Chiesa continua a fare memoria del mistero di Dio, dentro cui lo Spirito santo progressivamente la introduce. La solennità della Ss. Trinità, che oggi celebriamo, contempla e adora la vita intima e misteriosissima di Dio, che è relazione d’amore. A questo alludono, da punti di vista diversi, le tre letture liturgiche.

Dinanzi all’annuncio che Dio è Trinità, ossia uno e trino, tutti ci siamo domandati: che vuol dire? Dio, chi è? Siamo da sempre abituati a immaginare le realtà in termini aritmetici e facciamo fatica ad accettare che uno sia uguale a tre e tre uguale a uno. Anche i discepoli che vissero fisicamente con Gesù, e lo ascoltarono parlare del Padre, dello Spirito e di sé, uguale al Padre, stentarono e entrare in una dimensione di cui non possedevano nemmeno il vocabolario.

La Chiesa stessa impiegò qualche secolo per trovare una parola con cui esprimere sinteticamente la realtà misteriosa di cui Gesù aveva parlato. Nel Vangelo di oggi, Gesù parla del Padre che lo ha mandato e che è una cosa sola con Lui; parla anche dello Spirito che il Padre manderà; lo Spirito ricorderà le parole che Egli aveva già annunciato, ma permetterà di capirle con una diversa profondità ed estensione. Nelle sue parole c’è dunque la presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. I Tre vivono in tale unità d’amore da essere uno. Questa vita di relazione d’amore fa sì che Dio non sia un solitario, come altre religioni lo pensano; ma aperto verso la creatura, particolarmente verso l’uomo, con cui incredibilmente entra in dialogo. La teologia più tardi tenterà una formula di sintesi: tre sussistenze in una sola natura.

Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che scrive ai cristiani della comunità di Roma. Pochi versetti nei quali, con rara potenza di sintesi, tratta della nuova condizione dell’uomo credente, che ha accettato il dialogo offerto da Dio in Gesù Cristo. Anzitutto afferma, con certezza impressionante, che ormai tra Dio e l’uomo non ci sono più tensioni, ma pace. Nei secoli passati l’ira di Dio si era manifestata “contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nella ingiustizia” (Rm 1,18): quando pretesero di essere dèi di se stessi e della propria storia. Ora però ai tempi dell’ira si è sostituita la pace. Ciò non per merito dell’uomo e delle sue buone azioni, ma per l’opera di Gesù Cristo, che gratuitamente ci ha riconciliati con Dio, con il creato e tra noi.

Questa nuova condizione non solo è una realtà oggettiva, ma addirittura occasione di vanto. Termine su cui noi pudicamente glissiamo, come per non apparire presuntuosi. Non così Paolo, che lo ripete anche nel versetto successivo: “Ci vantiamo anche nelle tribolazioni”. Nel primo capitolo della lettera (1,16), aveva affermato: “Io non mi vergogno del Vangelo”. Nella cultura greco-romana del tempo (come del resto oggi) c’era davvero di che vergognarsi pubblicamente a predicare che la pace è necessariamente legata alla morte e risurrezione di Gesù Cristo: non era – e non è – politicamente corretto. Ora aggiunge che non solo non se ne vergogna, ma ne mena vanto.

Anzi proprio su questo si fonda la speranza, di cui dice che “non fa vergognare” (la traduzione italiana: “non delude” sembra un po’ debole). Ciò è reso possibile dallo Spirito santo, che ha riversato l’amore di Dio nei nostri cuori. La prima lettura introduce un personaggio femminile, chiamato Sapienza di Dio, che racconta la propria storia. Parla di un tempo prima del tempo, quando fu generata. Allora non c’erano ancora le sorgenti cariche d’acqua, i monti, le colline; Dio non aveva ancora creato terre, campi, neppure le prime zolle del mondo. Poi parla anche della propria attività: era la collaboratrice di Dio; descrive se stessa come un architetto-fanciulla, che giocava a far scaturire le sorgenti in fondo agli abissi marini, a calcolare le leggi per regolare le maree e dare stabilità alla crosta terrestre.

A vederla giocare così, il Creatore rideva dalla gioia; mentre essa si deliziava a stare con la gente. Chi è questa dolce figura inaspettata? È la Parola creatrice. Difficile non pensare al prologo del Vangelo di Giovanni (1,3), dove si dice che “tutto è stato fatto per mezzo di Lui”. Il Verbo che era fin da principio, il Logos, l’origine, il sostegno, la “logica” di tutto il creato.

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In Dio noi esistiamo https://www.lavoce.it/in-dio-noi-esistiamo/ Thu, 27 May 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8484 In questo nostro tempo, in cui, come ha detto il Papa nella sua visita a Malta, ci sono “voci persuadenti che cercano di mettere Dio in un angolo”, la liturgia della Chiesa ci invita a riflettere proprio su Dio e il suo mistero. Quel Dio che Gesù ci ha svelato, per quanto è possibile intendere ad una creatura razionale ma non infinita, nel suo mistero e nella sua identità, parlandoci soprattutto della connotazione di Dio come “Amore che ama come un padre”, mentre la prima rivelazione ce l’aveva svelato come “Colui che è” (Es 3,14), per il quale essere ed esistere coincidono. Vengono alla mente le parole del più grande poeta teologo che per grazia di Dio abbiamo, Dante Alighieri, il quale s’azzardò a racchiudere nel breve volgere d’una terzina tutto l’umanamente pensabile non solo di Dio, ma del Dio cristiano che è Trinità ineffabile – letto con la chiave della luce – verità: “O luce etterna che sola in te sidi, Sola t’intendi, e da te intelletta e intendente, te ami e arridi!” (Paradiso, canto XXXIII, vv. 124-126).

Interpretando alla lettera per meglio capire il linguaggio teologico-poetico di Dante, traduciamo così: “O luce eterna, che sola sussisti in te stessa e perfettamente comprendi, e come tale sei il Padre; e in quanto sei perfettamente compresa sei il Figlio; e perfettamente comprendente come Padre e nell’essere perfettamente compreso come Figlio, spiri lo Spirito santo come amore e letizia!”. È vero che queste considerazioni, fatte con linguaggio umano sempre inadeguato per parlare del Trascendente, sono proprie della scienza teologica, che è pur sempre scienza chiamata a penetrare, per via intuitiva e per via mistica ma senza dimenticare l’afflato razionale, il Mistero per antonomasia che ci trascende e ci pervade: “In Dio siamo, ci muoviamo ed esistiamo, perché di lui anche noi siamo stirpe” (Atti 18,28). Così Paolo parlava nell’aeropago di Atene. Il nostro però è sempre un balbettio per dire l’inesprimibile, che nell’Antico Testamento veniva inteso come Sapienza, personificazione di Dio e sua opera. E la Sapienza di Dio grida in ogni momento la sua gioia di esistere e di creare: “Ero la sua delizia ogni giorno, giocavo davanti a lui in ogni istante”.

La creazione che continuamente si rinnova è il gioco di Dio che prosegue. La seconda lettura è pur essa un cantico di lode all’opera redentiva del Figlio. È Paolo, esperto della misericordia di Gesù nei propri riguardi, che afferma con forza che la vita nuova in Cristo dona pace e speranza anche nelle tribolazioni. Il percorso abituale del cristiano dalla tribolazione sfocia nella speranza, passando per i gradini della pazienza e della virtù messa a prova: tribolazione come terreno di coltura d’ogni virtù. La speranza è considerata ancora una volta come certezza, perché radicata nell’amore di Dio riversato nel cuore dallo Spirito santo. Viviamo comunque all’interno d’una speranza-certezza inossidabile, che è data dalla presenza e dall’azione dello Spirito di verità, terza Persona del Dio trinitario cristiano. “Quando verrà Lui – ci assicura Gesù -, vi guiderà a tutta la verità: dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà”.

Viviamo ora il tempo della Chiesa, che è il tempo specifico dello Spirito. È lo Spirito che guida la Chiesa nelle grandi accelerazioni che essa è chiamata a vivere: per questo non ci assale né lo sconforto né la paura. È dello Spirito la realizzazione della promessa: “Faccio nuove tutte le cose!” (Ap 21,5), e quindi il pieno compimento del Vangelo, perché finalmente Dio sia “tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). La comunità cristiana è abituata a menzionare la Trinità santissima come inizio e conclusione d’ogni azione liturgica. Il bambino impara attraverso il segno della croce che due sono i misteri più grandi da accogliere: l’unità e la trinità di Dio, come dicono le parole; la passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù, come indica il segno della croce. Nel nome della Trinità inizia la vita nuova di figlio di Dio con il battesimo, nel nome della Trinità ognuno di noi conclude la sua esperienza terrena. Che l’uso frequente del segno della croce e l’indossare continuamente il segno della propria identità cristiana, cioè il piccolo crocifisso donatoci nel battesimo, tornino nell’uso dei credenti, con convinzione e fierezza.

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Custoditi nel cuore di Dio Padre, Figlio e Spirito santo https://www.lavoce.it/custoditi-nel-cuore-di-dio-padre-figlio-e-spirito-santo/ Thu, 04 Jun 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7592 È difficile parlare di Dio, perché per noi resta un mistero. Gesù, quando ce ne parla, lo chiama Padre per farci capire che la sua natura è l’amore, la sua funzione è quella di donare la vita. Lo chiama Signore, per indicare la sua sovranità sul mondo e sulla storia, come creatore e padrone del mondo. Davanti a Lui noi siamo piccole creature, totalmente dipendenti dalla sua cura amorosa. Questi sono termini e paragoni umani che ci danno appena un’idea di ciò che Dio è veramente. Resta il “mistero” una parola derivata dalla lingua greca e che alla base ha il termine muein che significa “fare silenzio”. Davanti a Dio la nostra parola tace perché non adatta a dirlo e a contenerlo interamente. Se presumesse di farlo, scoppierebbe o diventerebbe ridicola. Il mondo dove Dio abita è del tutto diverso dal nostro; noi siamo come ciechi che non riescono a immaginare o descrivere il mondo in cui pure sono immersi; siamo come sordi che non sanno gustare le armonie di un concerto perché manca loro la capacità di sentire. È del tutto vano descrivere ai ciechi i colori che non vedono e ai sordi i suoni che non odono.

Gesù, nel rivelarci il mistero di Dio nel quale viveva, aveva solo pochi poveri concetti umani, e quelli ha usato. Non ha mai adoperato il termine “Trinità”, perché era troppo astratto per i suoi ascoltatori, abituati al linguaggio concreto di ogni giorno. Avrebbero capito che Dio era un numero da contare fino a tre, una cifra che moltiplicava la sua natura, e questo contraddiceva la loro fede in un solo Dio. In realtà, quella di Dio è una matematica nuova in cui tre è uguale a uno, perché non indica divisione, ma solo unità ricca e varia. La formula più completa usata da Gesù e da Paolo è quella concreta di “Dio Padre, Figlio e Spirito santo”. Dio unico in tre persone, un famiglia dove il Padre genera un Figlio e ambedue si amano con un amore che li unisce così forte che diventa una terza Persona, lo Spirito santo. La Trinità è divenuta una formula di fede con la quale noi cominciamo e finiamo ogni nostra preghiera, ed esprimiamo nel segno di croce che ci facciamo spesso. È una professione di fede riassuntiva di tutta la rivelazione evangelica su Dio. Gesù risorto la usa nel Vangelo di oggi a conclusione delle sue apparizioni, come a riassumere l’intero suo insegnamento: “Fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

Non ci ha rivelato questo mistero per mettere in difficoltà il nostro modo di ragionare, ma per farci capire ciò che Dio è per noi. Non un Dio solitario e lontano, ma un Dio vicino, un Padre che ci dona il Figlio inviandolo nel mondo a morire per noi e a risorgere il terzo giorno; e con il Figlio ci manda il suo Spirito per comunicarci la sua stessa vita divina. Il Figlio e lo Spirito sono come le due mani che Dio protende verso di noi per un abbraccio d’amore senza limiti. San Paolo descrive questo abbraccio divino nel saluto ai cristiani di Corinto, lo stesso che noi usiamo all’inizio della messa: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2 Cor 13,13). Contemporaneamente, l’unicità del nostro Dio è espressa dallo stesso apostolo così: “Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Gal 4,6).

Il Vangelo di oggi ci porta in Galilea, sopra un monte dove Gesù ha dato appuntamento ai suoi apostoli. Quella montagna richiama spontaneamente alla mente il monte delle Beatitudini, dove Gesù rivelò il cuore del suo insegnamento, e il monte Tabor, dove Gesù manifestò il suo splendore di Figlio di Dio anticipando la gloria della sua risurrezione. Nell’apparizione oggi descritta, che certamente non fu l’unica in Galilea (Mc 16,7), sembra voler richiamare, come in una panoramica dall’alto, l’insegnamento che aveva impartito loro in quella sua terra. È una specie di ripasso, prima della definitiva missione nel mondo. Poi Gesù traccia una chiara linea di continuità tra l’insegnamento suo e quello degli apostoli inviati dopo di lui. L’incontro ha tutta la solennità e l’autorevolezza di un mandato divino: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque…”.

I discepoli sono affascinati come sul Tabor e reagiscono prostrandosi davanti a lui con la faccia a terra (Mt 17,6). Nello stesso tempo però in alcuni di loro si affaccia il dubbio. Avevano conosciuto e seguito per quelle strade un Gesù uomo tanto diverso, lo avevano visto morire; ora se lo trovano risorto e trasfigurato dalla gloria divina. Era spontaneo domandarsi se fosse proprio lui, quello di una volta. Gli apostoli sono uomini come noi e come noi conservano sempre, anche nel pieno della fede, un angolo dal quale fa capolino ogni tanto il dubbio. È così umano! Il discorso fatto da Gesù è diviso in tre parti: all’inizio c’è la descrizione della sua potenza divina su tutto il mondo, cielo e terra; segue poi la missione degli Undici; infine è espressa la garanzia della permanente presenza e assistenza di Gesù nella Chiesa di tutti i tempi. L’incarico affidato alla Chiesa è formulato con quattro verbi: “andate, fate discepoli, battezzate, insegnate”.

Tutto deriva dal potere che il Figlio ha ricevuto dal Padre al momento della risurrezione. La sera di Pasqua, nel cenacolo, Gesù aveva detto: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Tutto viene dal Padre e passa attraverso il Figlio e lo Spirito santo. La missione ha ormai per confini il mondo, non è più limitata alla Galilea come una volta (Mt 10,5). Essi ormai devono edificare la comunità facendo discepoli tutti i popoli. Questa aggregazione universale avviene mediante il battesimo, che è la porta d’ingresso da cui tutti devono transitare. È un battesimo dato “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”, una formula in uso nell’antica chiesa di Palestina e di Siria, come ci attesta la Didachè, un manuale liturgico diffuso già al tempo apostolico nell’anno 90 circa, che dice:”Battezzate così: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo” (Did. 7,3).

“Battezzare nel nome” è indicazione di appartenenza: i credenti appartengono ormai a Dio, sono sua gelosa proprietà. Ma la formula indica anche la comunione intima nella quale entra il battezzato: diventa membro della famiglia di Dio Padre, Figlio e Spirito. Avviene nel battesimo cristiano ciò che avvenne al Giordano (Mt 3,16s). Anche là le tre Persone divine erano unite e presenti. Così il credente diventa tempio della Trinità santissima, casa del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Per questo, al termine del suo discorso Gesù garantisce la sua presenza nella Chiesa e in ciascuno di noi per sempre. Dato poi che le tre Persone divine sono indivisibili, con Gesù è presente il Padre e lo Spirito. È la certezza più consolante che la festa odierna ci dona.

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Amore indissolubile come quello della Trinità https://www.lavoce.it/amore-indissolubile-come-quello-della-trinita/ Thu, 18 Dec 2008 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7199 Un percorso di riflessione sul ruolo e sul concetto della famiglia, alla luce del messaggio cristiano, è stato intrapreso dalla Pastorale familiare della diocesi di Città di Castello. Il primo incontro si è svolto sabato 13 dicembre, presso le aule dell’istituto ‘San Francesco di Sales’. Molte famiglie sono intervenute, alcune portando con sé i bambini. Erano presenti mons. Luigi Guerri, direttore della Pastorale, e il vescovo diocesano mons. Domenico Cancian, che ha fortemente voluto questo percorso di approfondimento sull’unione familiare. Proprio sul concetto di ‘unione’ è iniziata la meditazione del Vescovo, dal titolo ‘Famiglia, credi in ciò che sei’. ‘Marito e moglie devono essere una sola cosa con Gesù, come Gesù è una sola cosa con il Padre: questa ‘ ha sottolineato mons. Cancian ‘ è l’immagine della Trinità, che aveva in mente Dio nell’atto della creazione dell’uomo e della donna’. Per capire questo è opportuno comprendere il significato della parola ‘credere’. Spiega il Vescovo: ‘Ciò significa che la famiglia, la mia famiglia, l’ha voluta il Signore. Lui l’ha pensata e voluta, quindi la sostiene con la forza dell’amore divino che è lo Spirito santo. Credere significa, inoltre, che l’amore umano è ‘fiamma del Signore’, come dice il Cantico, è riflesso dell’Amore totalizzante. In questa luce l’amore della coppia riflette le caratteristiche dell’amore divino: unico, totale, definitivo, indissolubile. La carnalità dell’amore umano diventa il luogo dell’incarnazione dell’amore divino con la nascita di Gesù, con la sua vita umana, con la sua Pasqua’. Dall’altro lato, vivere quello in cui si crede è un monito rivolto alle famiglie per dire: amatevi come Gesù vi ama. ‘Questo significa ‘ ha detto mons. Cancian ‘ dare spazio nel pensiero, nell’affetto, nel comportamento, all’amore di Dio che si è rivelato in Gesù. Vuol dire amare come Gesù ha amato, vivere l’esperienza coniugale e familiare assumendo la misura altissima dell’amore trinitario. Come in Dio ogni Persona si ritrova tale nel dono di sé all’Altro, così nella relazione sponsale-familiare. Uscire da sé per realizzare nella comunione il frutto di un’altra vita, cioè il figlio, e insieme la reciproca felicità. Marito e moglie e figli sono in una scuola permanente di amore che porta al dono di sé come amore in tutte le sue componenti, porta alla Chiesa domestica, piccola Chiesa, piccolo regno di Dio realizzato’. Su queste parole si sono poi svolti lavori di gruppo. L’incontro è stato concluso con una celebrazione eucaristica officiata da mons. Cancian.

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Quel grande mistero (divino) che si chiama matrimonio https://www.lavoce.it/quel-grande-mistero-divino-che-si-chiama-matrimonio/ Thu, 25 Oct 2007 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=6209 Cosa significa, dire che la famiglia è ‘specchio della Trinità’? Perché, in secondo luogo, il matrimonio è considerato come un riflesso dell’antica alleanza che lega Dio al suo popolo? Con questi interrogativi si può riassumere l’intervento di mons. Vittorio Peri, vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, pronunciato in apertura al primo seminario preparatorio (villa Sacro Cuore, Città di Castello) in vista del Convegno ecclesiale regionale ‘La famiglia. Il futuro di tutti’, in programma a Perugia il 18 e 19 ottobre 2008. La relazione di Peri, dal titolo ‘Il matrimonio: sacramento e icona trinitaria’, di carattere prettamente teologico, è stata resa tuttavia più semplice da un linguaggio piano e dal frequente ricorso a divertenti aneddoti. Mons. Peri ha dapprima parlato della Trinità come principio di ogni cosa: ‘Tutta la vita si sviluppa nella Trinità, ovvero nella comunione che allo stesso tempo tempo è sorgente e approdo di tutta la storia’. Parlare di famiglia, come ogni altro aspetto della vita, vuol dire riferirsi a ciò che sta a monte e fine di tutto, alla Trinità che è origine e approdo cui siamo destinati. Terminata questa breve introduzione, il relatore ha parlato del rapporto tra Bibbia e matrimonio. ‘In tutta la Sacra Scrittura – ha detto – è presente una dimensione sponsale, in quanto noi siamo sempre sposi di Cristo, anche se non apparteniamo al clero. Ne è un esempio il Cantico dei cantici, dialogo d’amore tra un uomo e una donna, più volte interpretato come dialogo tra Dio e il suo popolo’. Ma, nello specifico, c’è una differenza fondamentale tra Antico e Nuovo Testamento per quanto riguarda l’esperienza matrimoniale. Afferma Peri: ‘Nell’Antico Testamento l’esperienza matrimoniale rivela l’alleanza sponsale tra il Signore e il popolo d’Israele, come rivela il racconto della vicenda del profeta Osea che sposa un’infedele. Nel Nuovo Testamento, viceversa, è l’alleanza che rivela l’identità del matrimonio; è l’amore salvifico che diventa il paolino magnum mysterium, ossia il grande Mistero, modello dell’amore nel matrimonio’. Tutto ciò rivela una base cristologica, poiché ‘il matrimonio cristiano ha l’archetipo o l’immagine nel connubio tra Cristo e la Chiesa’. Qui sta la differenza principale rispetto a qualsiasi altra unione. Riflette Peri a microfono spento: ‘Ogni famiglia, purché sia autentica, in quanto tale è già una pietra angolare per basare la società o, come si esprimevano i latini, cosituisce a pieno titolo un seminarium rei publicae, seminario per la formazione dello Stato. La famiglia cristiana ha il valore aggiunto di essere icona, immagine della Trinità, di essere cioè consapevole della vocazione di rendere visibile nella storia l’amore forte e indissolubile di Dio. L’unione, pertanto, si configura come patto, alleanza, secondo il significato biblico precedentemente espresso’. Inoltre, argomenta Peri, ‘in questa dimensione, l’esperienza matrimoniale e familiare è via privilegiata alla santità. Vivendo il matrimonio, noi realizziamo la santità. Anche questo è un messaggio fortissimo: il matrimonio non è una semplice unione, ma un mezzo potente attraverso cui possiamo raggiungere la santità’. Le conclusioni di questa relazione sono in parte accennate: ‘Ogni volta che diciamo ‘famiglia’, dobbiamo ripensare nella vita quotidiana all’amore indissolubile di Dio verso di noi, il fatto che Dio cammini con noi. Al contempo, però, il matrimonio rende trasparente il Tu divino che si nasconde dietro il tu umano, per cui al di là della sposa c’è Dio, l’Assoluto. Come trovai scritto in una prigione: ciò che non è eterno, non vale nulla’. Nel dibattito seguente la relazione, è emersa proprio questa difficoltà a scorgere nel coniuge la ‘profezia’ della comunione con Dio, quasi un senso di abbandono di fronte a un momento di crisi delle famiglie. ‘Non dobbiamo temere nulla – ha risposto mons. Peri -, anche perché l’iniziativa è sempre di Dio, che ci viene incontro e rimane sull’uscio della porta aspettando che noi l’apriamo’.

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Accolti nella famiglia di Dio https://www.lavoce.it/accolti-nella-famiglia-di-dio/ Thu, 31 May 2007 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=5911 Celebriamo oggi il mistero più originale e profondo della fede cristiana, quello che apre la strada alla comprensione delle altre verità del nostro Credo. Senza la Trinità, tutto diventa inspiegabile. Noi professiamo Dio uno in tre Persone. Quando confessiamo il Dio unico escludiamo ogni tipo di numerazione; sant’Agostino dice: “Dio non si moltiplica, Dio è uno solo e unico e vero”. Ma Dio è anche trinità di Persone. Il numero 3 della Trinità non è un numero matematico, che indichi tre oggetti messi uno accanto all’altro per essere contati. Forse per questo rischio della conta, e ancor più per l’allergia ai concetti astratti, nel Nuovo Testamento non si usa mai la parola “Trinità”.

Parliamo di tre Persone divine perché non abbiamo altro linguaggio umano più adeguato per esprimerci. Con i 3 vogliamo esprimere l’unità nella differenza e la differenza nell’unità. Se Dio fosse solo uno, sarebbe solitudine e incomunicabilità. Se in Dio ci fossero due Persone, ci sarebbe separazione ed esclusione, l’uno sarebbe non solo distinto dall’altro, ma anche separato dall’altro; tutt’al più, i due starebbero faccia a faccia in contemplazione narcisistica. Il fatto che le Persone divine siano tre lo ricaviamo dalla rivelazione portataci da Gesù. E cominciamo a capire perché: il 3 è una realtà aperta, una triangolazione di rapporti, la possibilità di guardare al di fuori di se stessi. Il che impedisce a Dio di chiudersi nella sua solitudine e nel narcisismo della sua autocontemplazione e del suo autocompiacimento. E sono proprio questi rapporti che fanno esistere la Persone divine come uguali e distinte, eternamente uno nell’altro, l’uno per l’altro, mai l’uno senza l’altro.

È così assicurata l’identità del Padre, la differenza del Figlio, la comunione dello Spirito santo. Lo Spirito è il sospiro di amore del Padre in direzione del Figlio e il soffio di amore del Figlio nei confronti del Padre. Dio allora è famiglia, famiglia divina tenuta insieme dall’amore. Questo è il messaggio che ci viene portato nel breve brano del Vangelo di oggi, uno spezzone di quel lungo dialogo intessuto da Gesù nel cenacolo con i suoi discepoli prima della passione e continuato dopo la risurrezione. Quel dialogo è una specie di trattato sulla Trinità divina. Gesù aveva cominciato col dire: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conosceste me, conoscereste anche il Padre, perché io sono nel Padre e il Padre è in me, le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,8-11).

Poco prima, durante la festa della dedicazione del tempio di Gerusalemme, aveva affermato solennemente la sua identità divina con parole simili a queste: “Io e il Padre siamo una cosa sola’ Se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre” (10,30.38). Viene in mente l’immagine di san Giovanni Damasceno: “Nella Trinità, a somiglianza di tre Soli, ogni Persona divina è contenuta nell’altra, in modo che vi sia una sola luce nell’intima compenetrazione di tutti con tutti”. Per far capire che non esiste solo un rapporto di unità tra lui e il Padre, Gesù annuncia la presenza e la venuta dello Spirito santo, l’altro Paraclito (Consolatore), che il Padre dona dietro richiesta del Figlio per continuare la sua opera di salvezza: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi” (14,16-17).

Si tratta dell'”Emmanuele”, il Dio con noi, inviato prima in Gesù e poi nella persona dello Spirito santo. Ma dove c’è lo Spirito, lì c’è anche il Padre e il Figlio: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”(14,23). I tre Soli si fondono insieme anche nel riempire di luce e di calore l’anima dei credenti. A Pentecoste abbiamo visto che il cristiano non solo beve l’acqua di vita, ma ne ingoia la sorgente. Oggi comprendiamo che egli non solo è illuminato dal triplice Sole divino, ma lo riceve dentro di sé divenendo, come Gesù, luce del mondo (Gv 8,12; Mt 5,14). Ogni credente diventa tempio del Dio Trinità, paradiso viaggiante, perché dove c’è Dio, lì c’è il paradiso. Nel Vangelo di oggi, come in gran parte dei discorsi di addio di Gesù, l’inabitazione di Dio Padre, Figlio e Spirito santo è presentata dal punto di vista di quest’ultima Persona. Lo Spirito è dono del Padre che passa attraverso il Figlio. Con lui le altre Persone divine vengono nel cuore dell’uomo, come nel loro santuario.

È un mistero grande; i discepoli non possono portarne tutto il peso. Provvederà lo Spirito santo il giorno di Pentecoste ad aprire totalmente la loro mente e ad insegnare e ricordare loro ciò che Gesù aveva già detto. Egli ha il compito specifico di guidare la Chiesa verso la verità evangelica tutta intera. E lo farà con la presenza e la compagnia delle altre due Persone divine. Gesù descrive i rapporti di comunione tra le tre Persone con le parole che abbiamo ascoltato: “Non parlerà da sé, ma dirà ciò che ha udito egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà”. La comunione trinitaria è comunicazione e scambio reciproco tra le Persone che la compongono. Nessuno può dire “suo” ciò che possiede insieme agli altri e comunica insieme a loro. Tutte e tre le Persone divine guidano la Chiesa, mediante lo Spirito, verso la comprensione sempre più chiara delle verità di fede annunciate da Gesù nel suo ministero terreno.

Non meraviglia dunque che la storia della Chiesa registri un progresso continuo nella formulazione del suo Credo. Le verità sono state chiarite, esplicitate, insegnate dai Concili ecumenici e dai Pontefici. Quella sulla Trinità trovò la sua formulazione piena nel I Concilio di Costantinopoli nel 381, quando fu formulato il credo che recitiamo ogni domenica nella messa. Ci sono voluti quasi quattrocento anni per esprimere in una terminologia tecnico-teologica una verità che i cristiani professavano e vivevano fin dai tempi apostolici. La Chiesa è come l’organismo umano: sviluppa nel crescere tutte le sue potenzialità, senza perdere la sua identità, in un processo di novità nella continuità.

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Nel nome della Trinità https://www.lavoce.it/nel-nome-della-trinita/ Thu, 08 Jun 2006 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=5206 Matteo 28,16-20 è stato definito la “chiave interpretativa” di tutto il Vangelo secondo Matteo. È da questo brano che oggi la Chiesa parte per contemplare il mistero della santissima Trinità.Lì, dove tutto era iniziato. Nel primo Vangelo, il Risorto non appare subito a tutti i discepoli, ma solo alle donne (Mt 28,9-10), che dovranno dire loro dove Gesù li vuole incontrare: “Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno”. Gli undici partono, e salgono su un monte della Galilea. In questa regione al nord della Palestina, tutto aveva avuto inizio: Gesù aveva cominciato ad insegnare e fare miracoli, e lì aveva inaugurato la sua missione ad Israele.

Ora, da qui tutto riprende. Dopo la passione e la risurrezione, l’arrivare del Risorto e dei suoi discepoli è l’inizio di una nuova missione. Questa volta, e per la prima volta, è la missione ai non ebrei, ai pagani. Ma prima di ricevere il mandato, gli undici si ritrovano ad essere immersi nel mistero della Trinità.La Chiesa contempla la Trinità. Quanto accade è descritto da Matteo con la simbolica a cui il suo Vangelo ci ha abituati. Il monte è anzitutto il luogo dove Gesù si era già manifestato, trasfigurato, come il Figlio prediletto del Padre (Mt 17,5). Ora, ancora una volta, su un monte parla di sé come del Figlio, unito al Padre dallo Spirito. Dal monte Gesù aveva insegnato alla folla (Mt 5-7), ed ecco che da un monte invia i suoi discepoli ad insegnare le cose che ha comandato di osservare. Non dimentichiamo poi che, proprio all’inizio della missione di Gesù, il diavolo l’aveva tentato trasportandolo su un alto monte, promettendogli in cambio i regni di tutta la terra, se fosse stato da lui adorato (Mt 4,8-10).

Su un monte, e dopo tutte le sue prove oramai concluse, è invece Gesù a essere adorato dai discepoli che si prostrano davanti a lui. Queste esperienze che abbiamo ora brevemente ricordato raccolgono e sintetizzano la vita pubblica di Gesù, che i discepoli fanno forse ancora fatica a coniugare con la presenza del Cristo, lì davanti a loro, visibile dopo la sua risurrezione. Ed ecco che nascono i dubbi: “alcuni però dubitavano” (Mt 28,17). Nel nome della Trinità. In quei discepoli, gli undici, ci siamo anche noi. Tutti lo adorano, ma tra essi vi sono coloro che hanno poca fede. Anche davanti al mistero di Dio uno e trino, come davanti a quello della risurrezione di Gesù, è richiesto il dono della fede: “La Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati. [‘] L’intimità del suo essere come Trinità santa costituisce un mistero inaccessibile alla sola ragione, come pure alla fede d’Israele, prima dell’incarnazione del Figlio di Dio e dell’invio dello Spirito santo” (Catechismo della Chiesa cattolica, 237).

La comprensione di questo mistero nella Chiesa e nella teologia si svilupperà gradualmente, a partire proprio dalla formula tripartita di Mt 28,19 che diventerà la base della liturgia del battesimo: “I cristiani sono battezzati nel nome – e non nei nomi – del Padre e del Figlio e dello Spirito santo” (Professione di fede di papa Vigilio). Si dovrà poi confrontare con il rigoroso monoteismo ebraico e il politeismo dei pagani, ma soprattutto “il problema trinitario si acutizza quando, tra la fine del III sec. e l’inizio del IV, nel tentativo di illustrare nei termini della cultura e della filosofia greco-ellenistica il mistero del Dio rivelato da Gesù Cristo, si rischia di comprometterne l’originalità e la verità, ricadendo, pur con ottime intenzioni, in modelli culturali pre-cristiani” (P. Coda).

Sarà la sfida più grande, che porterà ai concili di Nicea e di Costantinopoli II.La Chiesa riceve il compito di evangelizzare tutti i popoli. Da quel luogo santo i discepoli sono inviati a tutti i popoli della terra. È la svolta epocale del Vangelo, la “pentecoste” di Matteo: il Vangelo, che doveva anzitutto essere annunciato agli ebrei (“Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani – diceva loro Gesù -; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”‘; Mt 10,5-6), ora è aperto a tutti. Con questo Vangelo, Dio sarà presentato come uno e trino. Le ultime parole di Gesù, nel primo Vangelo, dicono infatti della presenza della Trinità nella storia, e chiudono la storia raccontataci da Matteo per aprire ad un'”altra storia”: “Tutta la storia della salvezza è la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo” (CCC 234).

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‘Amore è…’ tutto da imparare https://www.lavoce.it/amore-e-tutto-da-imparare/ Thu, 04 May 2006 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=5134 L’amore lo troviamo in noi, ma l’amore s’impara, un po’ come con l’alfabeto. Su queste basi riparte l’itinerario catechetico di educazione all’amore ‘Se questo è Amore’, rivolto agli adolescenti, ai giovani e agli animatori dei gruppi giovanili. Proposto per il secondo anno da suor Roberta Vinerba, il corso ha fatto notizia superando i confini regionali. Lo scorso 28 aprile è stato pubblicato un articolo su La Stampa di Torino e Radio 24News de Il Sole 24Ore ha dedicato un servizio; mentre RaiUno ha ripreso il primo incontro per la trasmissione quotidiana La vita in diretta. ‘C’è il bisogno di imparare l’amore, e questa è la prima sorpresa che i ragazzi incontrano – afferma suor Roberta, relatrice del corso – L’amore ha bisogno di essere imparato, di essere insegnato e non basta una vita. Si trova in noi ma deve essere imparato. Decifrato questo bisogno, poi si imparano le categorie fondamentali. È un cammino per illuminare la coscienza, non è un ricettario sull’amore’. Il corso è rivolto ad adolescenti, educatori, animatori, ma anche a tutti coloro che vogliono saperne di più sull’amore. ‘L’anno scorso erano oltre 350 i giovani provenienti in gran parte da Perugia, ma anche da Terni, Spoleto e Assisi – prosegue suor Roberta – ma anche tanti genitori, insospettiti di vedere i propri figli entusiasti’.Gli incontri (ogni giovedì a Montemorcino alle 21) sviluppano un percorso attraverso il quale si giunge a scoprire l’amore come progetto globale della propria esistenza. Attraverso le categorie base dell’antropologia cristiana e della teologia morale, e mediante un linguaggio concreto si presenta il progetto secondo fede e ragione dell’affettività e della sessualità umana come il luogo della propria scoperta vocazionale, della propria felicità, dove si gioca la possibilità stessa di diventare uomini e donne. ‘Questo bisogno di amore è tanto forte nei giovani, quanto negli adulti – afferma suor Roberta – ma non si può rimanere prigionieri dell’equazione sentimentalismo = amore, non possiamo pensare che più l’amore è spontaneo e più vero, perché questo porta solo alla dissoluzione delle relazioni e della persona. Non c’è nessuna parentela tra innamoramento e amore. Il primo è spontaneo e passivo, il secondo è assunzione di responsabilità nei confronti di sé e dell’altra persona’. Suor Roberta non predica, comunica con i giovani, attraverso delle ‘categorie biblico – filosofiche che sono offerte a partire da poesie, canzoni, racconti per presentare un vero percorso di allenamento ad amare. Perché bisogna distinguere tra affetto, amicizia, eros e agape – conclude suor Roberta. Come ogni amore è immagine della Trinità, dell’amore di Dio, se ogni amore è rivestito dalla carità, diventa eterno e nobile, altrimenti non hanno il potere di reggere il ‘per sempre’, il sogno che ognuno di noi porta nel cuore’.

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La “Trinità” di Raffaello vola a Londra https://www.lavoce.it/la-trinita-di-raffaello-vola-a-londra/ Thu, 07 Oct 2004 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=4063 Si profila all’attenzione dei cultori dell’arte un appuntamento mondiale dedicato al genio di Raffaello Sanzio: dal 20 ottobre al 16 gennaio 2005, la National Gallery di Londra ha allestito, nell’ala Sainsbury, l’affascinante mostra “Raffaello: da Urbino a Roma”. Per la prima volta si potranno ammirare, l’una accanto all’altra, tra dipinti e disegni, ottanta opere dell’Urbinate, formando così un esauriente percorso artistico incentrato sull’evoluzione stilistica del pittore, sui modelli che lo hanno influenzato e sulle sue peculiari tecniche espressive. I numerosi dipinti provengono dalle più importanti gallerie del mondo, dal Louvre di Parigi al Prado di Madrid, coinvolgendo anche la nostra Pinacoteca comunale. E proprio in questa sede è conservata la tela che volerà a Londra per l’esposizione: il celebre “Gonfalone della Trinità”, opera della prima giovinezza di Raffaello che la dipinse nel periodo in cui abitava a Città di Castello, all’alba del Cinquecento. Questo stendardo fu eseguito su committenza della confraternita della Santissima Trinità, i cui conversi solevano portarlo in processione per i vicoli della città durante le solennità e i tempi di peste. È stato proprio uno dei tre organizzatori della mostra, Tom Henry, a illustrare il progetto nella conferenza stampa del 2 ottobre presso la stessa Pinacoteca. “Dopo dieci anni di ricerche svolte in questi luoghi dove Raffaello ha vissuto – ha sostenuto Henry – , siamo in grado di indicare lo stendardo come una delle sue prime opere, in quanto presenta indubbie affinità con la Crocefissione Mond e con l’Angelo che si trova a Brescia”. Nello stesso contesto, il sindaco Cecchini ha richiamato l’attenzione sull’importanza dell’opera dell’Urbinate per la città, mentre il vicesindaco Salvato si è soffermato sul rapporto culturale e artistico tra Tiferno e Londra. “Nella prossima primavera – ha anticipato Salvato – giungerà presso la nostra Pinacoteca il celebre dipinto “Predica di San Giovanni Battista”, la predella della Pala Ansidei eseguita da Raffaello per la chiesa di San Fiorenzo a Perugia, che per la prima volta eccezionalmente è prestata dalla National Gallery. Non si tratta di uno scambio, ma di un dialogo culturale tra i due paesi”. Due occasioni per conoscere meglio il “Pittore dell’ideale”, come lo definì superbamente Enrico Giovagnoli in una delle sue conferenze presso la Villa Montesca.

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La Trinità nel Vangelo di Giovanni https://www.lavoce.it/la-trinita-nel-vangelo-di-giovanni/ Thu, 03 Jun 2004 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=3831 Nella prima parte del nostro commento vedremo da vicino, per quanto possibile, il vangelo che oggi il Lezionario ci offre. Nella seconda cercheremo collegamenti tra il nostro brano e la solennità celebrata in questa domenica. Lo Spirito che ascolta. Di nuovo, il vangelo è tratto da Giovanni; ancora – come già per alcune domeniche nel tempo recente – siamo all’interno dell’ultimo discorso di Gesù che prende i capitoli 14-17. Gesù sta parlando di un futuro che è oltre l’immaginazione dei discepoli, ed è pertanto necessario l’aiuto continuo dello Spirito, che darà non “un più” di rivelazione, ma un “nuovo modo” per riceverla, nella Chiesa. L’insegnamento sarà dato in modo sicuro, sotto una buona “guida”. È quanto dice Gesù: lo Spirito “guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13), perché i discepoli possano portare il peso della rivelazione di Gesù.

Senza voler entrare nei dettagli del significato di queste espressioni, ci concentriamo sul fatto che si tratta di una rivelazione data dallo Spirito e comunque donata dal Cristo: la frase “lo Spirito dirà tutto ciò che avrà udito” (16,13) significa, secondo Beasley-Murray, che “quanto poi dirà ai discepoli, il Paràclito lo riceve da Gesù, proprio come Gesù l’ha ricevuto dal Padre”. Ad onore del vero, però, dobbiamo notare che Giovanni non dice esplicitamente da chi il Paraclito ode ciò che dice (se da Gesù o dal Padre). Ma la questione per l’evangelista non deve essere importante: poco dopo scrive: “lo Spirito prenderà del mio e ve l’annunzierà” (16,14), ma, soprattutto, tutto ciò che Gesù ha viene comunque dal Padre (cfr. 16,15). Insomma, è mostrata una catena di comunione e di comunicazione incessante all’interno della Trinità.

Più che mai si tratta di un modello da presentare nel nostro contesto culturale, nel quale – nonostante gli strumenti tecnologici abbiano ridotto le distanze e globalizzato il pianeta – paradossalmente sembrano aumentate le difficoltà a comunicare. Lo Spirito che dice “tutto ciò che avrà udito” (16,13) è un esempio: prima di dire qualsiasi cosa, anche lo Spirito deve ascoltare. Lo Spirito che annuncia. La rivelazione non può restare una verità semplicemente “data” una volta per sempre, ma il suo peso deve sempre essere “portato” con fatica (16,12), cioè compreso, da chi la rivelazione riceve: c’è, per dirla con Brown, “una tensione tra la completezza del messaggio e il bisogno di applicazione continua, tensione che attraversa tutta l’opera sia di Gesù che del Paràclito, poiché essi hanno lo stesso compito di rivelazione”.

La Trinità, potremmo dire, non finisce mai di parlare, e non si esaurisce lo sforzo di chi vuole ascoltarne la Parola. Ad aiutare interviene lo Spirito. La Chiesa non rimane da sola nell’impegno di ascoltare e comprendere il messaggio di Dio, e da subito è cosciente che Gesù, mandato dal Padre, attraverso lo Spirito parla ancora. Emblematica, a proposito, è la formula con la quale nella comunità primitiva vengono prese decisioni che risolvono gravi problemi ecclesiali: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…” (At 15,28). L’unità nella Trinità. Qui si aggancia il nostro percorso verso la solennità odierna. Ora notiamo che nel nostro brano sono presenti in modo esplicito le tre persone della Trinità: è il Figlio, Gesù Cristo, che parla; sta parlando dello Spirito santo, il quale a sua volta parlerà per conto del Figlio; la presenza del Padre dei cieli, parimenti, è evocata dal Figlio.

La Trinità, come detto già sopra, è vista non solo nelle sue relazioni, nella sua immanenza, ma anche nel suo sforzo “economico” di comunicazione e rivelazione. Giovanni ne mostra, soprattutto, la profonda unità. Infatti, “nella tradizione giovannea del Nuovo Testamento troviamo già i primi cenni di riflessione trinitaria. Nella prima parte del Vangelo di Giovanni (cap. 1-12), in fondo si tratta sempre del rapporto del Figlio con il Padre; nei discorsi di congedo della seconda parte (cap. 14-17) il tema è invece quello dell’invio di un altro Paràclito (14,16), del suo procedere dal Padre (15,26), della sua missione ad opera di Gesù Cristo (16,7) e del suo compito di attualizzare l’opera di Cristo ricordando ciò che lui ha detto (16,13s.)” (Kasper).

Continua il Cardinale: nel Quarto vangelo “l’unità tra il Padre e il Figlio diventa così, per mezzo dello Spirito, possibilità e fondamento vitale di un’unità che i fedeli devono mostrare come segno al mondo (17,21)”. Da qui un ulteriore messaggio che viene dalla odierna solennità. Nella festa di Pentecoste abbiamo ricordato come lo Spirito valorizzi le diversità e le molteplicità, in quanto ricchezze, come ogni lingua umana è buona e deve essere imparata. Oggi, nella comunione che lega le tre persone divine, ci viene ricordato il valore dell’unità. Scrive ancora Kasper: “L’Antico e il Nuovo Testamento, con questo loro messaggio del Dio unico, riprendono il problema originario dell’umanità: quello dell’unità in ogni molteplicità e dispersione del reale”. Per queste intenzioni possiamo pregare oggi. Il mistero del Dio trino, unità nella distinzione delle tre persone, mistero della fede “in senso stretto, uno dei misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati” (Catechismo della Chiesa cattolica, 237), componga le tensioni che lacerano il nostro mondo e le nostre vite, e ci conduca alla via della salvezza.

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Il matrimonio fa la differenza https://www.lavoce.it/il-matrimonio-fa-la-differenza/ Thu, 27 May 2004 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=3821 Martedì 25 maggio al Palazzo del Vignola di Todi si è svolto un seminario di studi promosso dalla diocesi di Orvieto Todi. L’incontro che ha visto la presenza del Vescovo e di relatori qualificati come mons. Carlo Rocchetta, teologo, e l’avvocato Ciro Intino, vicepresidente nazionale del Forum delle famiglie, ha richiamato moltissime persone da tutta la diocesi, a testimonianza dell’interesse che questo tema, ‘La famiglia come soggetto sociale e pubblico’, è in grado di suscitare in tutti, cattolici e non. Da segnalare anche la partecipazione, oltre a quella di molti cittadini tuderti, di numerosi esponenti politici locali. Perché oggi un seminario di studio sulla famiglia? Questa, come risulta chiaramente dalle parole introduttive del Vescovo, è la risposta che la Chiesa locale dà ai recenti avvenimenti riguardanti le modifiche apportate allo Statuto del Comune di Todi. Una risposta non istintiva, meditata ed autorevole, che non vuole instaurare alcuna polemica con le istituzioni locali, ma che vuole ribadire qual è il pensiero della Chiesa nei confronti della famiglia. La scaturigine dell’incontro è dunque l’approvazione di un articolo dello Statuto comunale, ancora non definitivo, che ammette il riconoscimento, accanto alla famiglia ‘tradizionale’ come descritta nell’art. 29 della Costituzione, anche ‘di ogni altra forma di convivenza umana’. Si tratta di un passaggio poco felice della norma dal quale emerge chiaramente la deriva a cui portano queste parole. Ecco dunque il motivo dell’intervento della Chiesa locale, che si viene ad inserire, con lo stile propositivo che le è proprio, nel dibattito su un tema così importante come quello della famiglia. Le parole del vescovo Scanavino sono state a questo proposito chiare e luminose: ‘La nostra fede, la fede della Chiesa, è questa: la famiglia fondata sul matrimonio. Per noi, per la nostra fede, il significato della famiglia non è semplicemente una categoria umana. Il significato della famiglia non viene da noi, dalla nostra cultura; viene ben più dall’alto, il suo Dna è la Trinità stessa. È a questa famiglia, fondata sul matrimonio, che va dato il primato nella nostra secolare tradizione cristiana’. Tutto questo non significa negare ai singoli la libertà di scelta, nè allo Stato il dovere di regolamentare altre forme di convivenza. Deve però essere chiaro, come ha detto mons. Scanavino, che ‘la Chiesa accoglierà tutti, ogni tipo di naufrago, ma al tempo stesso non possiamo propagandare il naufragio o tutelarlo, come la stessa via della famiglia. L’impresa non è facile di questi tempi, ma rinunciarvi in partenza, quasi ‘istituzionalmente’, è solo deleterio e ingannevole’.

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Una “famiglia” di tre persone https://www.lavoce.it/una-famiglia-di-tre-persone/ Thu, 23 May 2002 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=2434 La festa della Trinità, che il calendario liturgico latino celebra dopo la domenica della Pentecoste, apre l’ultimo e lungo periodo che chiude l’anno liturgico. È un tempo chiamato ” ordinario”, perché non ha nessuna memoria particolare della vita di Gesù che abbiamo “visto” ascendere al cielo. Tuttavia, non è un tempo meno significativo del precedente. Potremmo anzi dire che la festa della SS.ma Trinità proietta la sua luce su tutti i giorni che verranno sino all’inizio dell’Avvento; quasi a dilatare nel tempo l’abitudine che abbiamo di iniziare ogni nostra azione – e ogni nostra giornata – nel “nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.

Se guardiamo un poco le nostre abitudini mentali, dobbiamo dire che il mistero della Trinità in genere è ritenuto poco significativo per la nostra vita, per il nostro comportamento. Poco importa, sia nella dottrina della fede come nell’etica, che Dio sia Uno e Trino. E per lo più è ritenuto un “mistero” che non riusciamo a comprendere. La Santa Liturgia, riproponendo questo grande e santo mistero alla nostra attenzione, viene incontro alla nostra pochezza e alla nostra inveterata distrazione.

Ho detto “ri-proporre”, perché questo mistero, in realtà, è presente e accompagna tutta la vita di Gesù, fin dal Natale. Anzi, accompagna tutta la storia dell’umanità, dalla creazione stessa, quando “Il Verbo era in principio presso Dio” e “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,2-3), come scrive Giovanni nel prologo al suo Vangelo. Questo sta a dire che già il momento della creazione è radicalmente segnato dalla comunione tra il Padre e il Figlio, sì da poter dire che ogni realtà umana è fatta di comunione e per la comunione.

Perché, dopo aver creato l’uomo, Dio dice: “non è bene che l’uomo sia solo”? La risposta è semplice. Perché lo aveva creato “a sua immagine e somiglianza”. E Dio, il Dio cristiano (ma dobbiamo domandarci se tanti cristiani credono nel “Dio di Gesù”!), non è un essere solitudinario, che sta in alto, potente e maestoso. Il Dio di Gesù è una “famiglia” di tre persone.

E questi tre, si potrebbe dire, si vogliono così bene da essere una cosa sola. Ma non basta. Non hanno trattenuto al loro interno la gioia che vivono. L’hanno riversata sugli uomini e le donne del mondo. Scrive Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). L’invio del Figlio non nasce da un obbligo giuridico, o da una esigenza di giustizia, semmai da una sovrabbondanza d’amore.

La Trinità non è altro che questo mistero sovrabbondante d’amore, che dal cielo si è riversato sulla terra superando ogni frontiera, ogni confine, anche ogni fede. Ed è come un’energia irrefrenabile per chi l’accoglie. Lo Spirito santo spinge, trascina verso Dio, verso la vita di Dio, ch’è pienezza di amore. La Trinità, questa incredibile “famiglia”, ha scelto di entrare nella storia degli uomini per chiamare tutti a far parte di essa. Questo è l’orizzonte finale che il mistero della Trinità oggi ci dischiude.

E tale orizzonte è senza dubbio la sfida più bruciante oggi lanciata alla Chiesa, anzi a tutte le Chiese cristiane; vorrei aggiungere a tutte le religioni, a tutti gli uomini. È la sfida a vivere nell’amore, proprio mentre sembrano prevalere le spinte verso l’individualismo, l’etnia, il clan, la nazione, il gruppo. La Trinità supera i confini, e in ogni caso li relativizza sino a distruggerli. È la sfida a vivere nell’amore. Certi che là dove c’è amore, c’è Dio. Lo aveva intuito bene il “profeta” dell’anonimo poema di Khalil Gibran: “Quando ami non dire: ho Dio nel cuore, ma piuttosto: sono nel cuore di Dio”.

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