terrorismo islamico Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/terrorismo-islamico/ Settimanale di informazione regionale Thu, 08 Sep 2022 17:16:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg terrorismo islamico Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/terrorismo-islamico/ 32 32 Si allarga in Africa il terrorismo anti-cristiano https://www.lavoce.it/africa-terrorismo-anti-cristiano/ Sun, 26 May 2019 13:06:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54606 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

Pur con tutti i problemi legati alle forme di povertà e alla carenza di istruzione tipiche purtroppo di molti Paesi africani, il Burkina Faso non aveva mai avuto il terrorismo. Ma il 12 maggio in una chiesa di Dablo, nel centro-nord del Paese, un gruppo di uomini armati è entrato in una chiesa sparando all’impazzata e uccidendo sei persone, tra cui il parroco.

Il giorno dopo, altre quattro persone sono rimaste vittime di un attacco armato contro una processione nella cittadina di Ouahigouya.

Con ogni probabilità si tratta di infiltrazioni del terrorismo di origine islamica che proviene dal vicino Mali. A rendere ancora più triste il fatto non è solo che, intontiti dalle beghe della politica nostrana, da noi non se ne è parlato più di tanto, ma soprattutto che non si sviluppano analisi serie su questo fenomeno che si allarga pericolosamente a macchia d’olio nella vicina Africa.

Dovremmo interessarcene non solo perché la violenza terroristica rende ancora più fragile il contesto africano, ma anche per arginare un fenomeno sempre in agguato che, se sceglie i cristiani come obiettivo principale, non ambisce che di colpire anche l’Europa e soprattutto l’Italia.

Interessarcene non vuol dire iniziare un conflitto armato, ma mettere piuttosto in campo tutti gli strumenti nonviolenti dall’ intelligence all’educazione. Forse la missionarietà che ci viene richiesta oggi è in buona parte di questo tipo.

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di Tonio Dell’Olio

Pur con tutti i problemi legati alle forme di povertà e alla carenza di istruzione tipiche purtroppo di molti Paesi africani, il Burkina Faso non aveva mai avuto il terrorismo. Ma il 12 maggio in una chiesa di Dablo, nel centro-nord del Paese, un gruppo di uomini armati è entrato in una chiesa sparando all’impazzata e uccidendo sei persone, tra cui il parroco.

Il giorno dopo, altre quattro persone sono rimaste vittime di un attacco armato contro una processione nella cittadina di Ouahigouya.

Con ogni probabilità si tratta di infiltrazioni del terrorismo di origine islamica che proviene dal vicino Mali. A rendere ancora più triste il fatto non è solo che, intontiti dalle beghe della politica nostrana, da noi non se ne è parlato più di tanto, ma soprattutto che non si sviluppano analisi serie su questo fenomeno che si allarga pericolosamente a macchia d’olio nella vicina Africa.

Dovremmo interessarcene non solo perché la violenza terroristica rende ancora più fragile il contesto africano, ma anche per arginare un fenomeno sempre in agguato che, se sceglie i cristiani come obiettivo principale, non ambisce che di colpire anche l’Europa e soprattutto l’Italia.

Interessarcene non vuol dire iniziare un conflitto armato, ma mettere piuttosto in campo tutti gli strumenti nonviolenti dall’ intelligence all’educazione. Forse la missionarietà che ci viene richiesta oggi è in buona parte di questo tipo.

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Antonio, un giovane che credeva nell’Ue https://www.lavoce.it/antonio-giovane-ue/ Thu, 20 Dec 2018 10:00:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53676 giovane

“Quanti luoghi comuni contribuisce a spazzar via - scrive don Ivan Maffeis, direttore dell’ufficio Comunicazioni sociali della Cei - , quante analisi affonda, quasi le nuove generazioni fossero semplicemente sedute, ripiegate e spente!”.

Si riferisce alla tragica morte di Antonio Megalizzi, il giornalista italiano ferito a morte da una scheggia durante l’attentato terroristico di Strasburgo l’11 dicembre. “Chi prosegue Maffeis - con violenza assurda e omicida ha voluto spezzare l’esistenza di Antonio ha ottenuto l’effetto contrario: la morte di questo giovane ha dato risonanza planetaria a un patrimonio di valori e progetti, di cultura locale e universale, di impegno civile aperto e propositivo.

Davanti a volti come il suo diventa subito chiaro l’appello che Papa Francesco ha più volte ripetuto, scontentando chi presume di possedere verità: ‘Abbiamo bisogno di ascoltare i giovani, senza esclusioni. Ognuno di loro ha qualcosa da dire agli altri, ha qualcosa da dire agli adulti, ha qualcosa da dire ai preti, alle suore, ai vescovi, e al Papa’.

Quante cose ci affida Antonio; quante cose rimbalzano con intensità nei brevi anni della sua vita: la famiglia, lo studio, gli affetti; la volontà di andare oltre per conoscere, capire e incontrare; la passione per la radio, la politica, il giornalismo”.

E ancora: “Mentre il mondo adulto trova nella crisi finanziaria, economica, sociale e politica dell’Europa un motivo per prenderne le distanze, Megalizzi ci testimonia che un’altra Unione è possibile, se non ci si limita a intervenire sugli effetti e non sulle cause.

Un’ Unione europea non sopra gli Stati, né a prescindere dagli Stati, ma casa comune proprio grazie alla capacità di valorizzare l’identità storica, culturale e morale dei popoli del Vecchio Continente e di costruirsi sul rispetto della dignità di ogni essere umano”.

Come ha commentato il vescovo di Trento (città in cui viveva il giovane giornalista), mons. Lauro Tisi: “Il tuo sorriso, Antonio, ha saputo toccare tanti cuori e varcare confini impensati. È stato motore di relazioni e testimonianza della bellezza della vita, anche in queste drammatiche ore in cui ti abbiamo conosciuto più da vicino. Per questo ti diciamo un profondo grazie”.

Certo, può suonare perfino come un’ironia della sorte che Megalizzi sognasse come carriera di fare giornalismo in Europa e per l’Europa, fino a dare letteralmente la vita, in un momento in cui per molti è difficile perfino dare un’adesione tiepida all’Ue. Ma non mancano giovani che credono nel progetto di Unione nato dopo l’incubo delle due guerre mondiali.

E la Chiesa cattolica stessa è in prima fila nella partecipazione a questo progetto, non solo con i valori che incarna, ma anche con un fattivo servizio di informazione. In questi stessi giorni ha compiuto 22 anni di attività Europe-Infos, il mensile della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece), creato per “informare gli episcopati e la comunità cristiana sulla posta in gioco della costruzione europea e le sfide per la Chiesa e la società”.

Nell’editoriale del numero di dicembre (che si può leggere online su www.europeinfos.eu), il segretario della Comece, Olivier Poquillon, ne ripercorre la storia a partire dal 1996, quando “internet era lontano dall’essere il potente strumento che usiamo oggi” e “la creazione di Europe-Infos un passo positivo per fornire un panorama degli sviluppi sociali, politici e legali in Europa”.

Guardando al 2019, che sarà un anno di novità con le elezioni al Parlamento europeo, la nuova Commissione, il nuovo presidente del Consiglio europeo e gli esiti del Brexit, l’impegno resta quello di “offrire nuovi modi per condividere la visione cristiana del bene comune in Europa”.

D. R.

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giovane

“Quanti luoghi comuni contribuisce a spazzar via - scrive don Ivan Maffeis, direttore dell’ufficio Comunicazioni sociali della Cei - , quante analisi affonda, quasi le nuove generazioni fossero semplicemente sedute, ripiegate e spente!”.

Si riferisce alla tragica morte di Antonio Megalizzi, il giornalista italiano ferito a morte da una scheggia durante l’attentato terroristico di Strasburgo l’11 dicembre. “Chi prosegue Maffeis - con violenza assurda e omicida ha voluto spezzare l’esistenza di Antonio ha ottenuto l’effetto contrario: la morte di questo giovane ha dato risonanza planetaria a un patrimonio di valori e progetti, di cultura locale e universale, di impegno civile aperto e propositivo.

Davanti a volti come il suo diventa subito chiaro l’appello che Papa Francesco ha più volte ripetuto, scontentando chi presume di possedere verità: ‘Abbiamo bisogno di ascoltare i giovani, senza esclusioni. Ognuno di loro ha qualcosa da dire agli altri, ha qualcosa da dire agli adulti, ha qualcosa da dire ai preti, alle suore, ai vescovi, e al Papa’.

Quante cose ci affida Antonio; quante cose rimbalzano con intensità nei brevi anni della sua vita: la famiglia, lo studio, gli affetti; la volontà di andare oltre per conoscere, capire e incontrare; la passione per la radio, la politica, il giornalismo”.

E ancora: “Mentre il mondo adulto trova nella crisi finanziaria, economica, sociale e politica dell’Europa un motivo per prenderne le distanze, Megalizzi ci testimonia che un’altra Unione è possibile, se non ci si limita a intervenire sugli effetti e non sulle cause.

Un’ Unione europea non sopra gli Stati, né a prescindere dagli Stati, ma casa comune proprio grazie alla capacità di valorizzare l’identità storica, culturale e morale dei popoli del Vecchio Continente e di costruirsi sul rispetto della dignità di ogni essere umano”.

Come ha commentato il vescovo di Trento (città in cui viveva il giovane giornalista), mons. Lauro Tisi: “Il tuo sorriso, Antonio, ha saputo toccare tanti cuori e varcare confini impensati. È stato motore di relazioni e testimonianza della bellezza della vita, anche in queste drammatiche ore in cui ti abbiamo conosciuto più da vicino. Per questo ti diciamo un profondo grazie”.

Certo, può suonare perfino come un’ironia della sorte che Megalizzi sognasse come carriera di fare giornalismo in Europa e per l’Europa, fino a dare letteralmente la vita, in un momento in cui per molti è difficile perfino dare un’adesione tiepida all’Ue. Ma non mancano giovani che credono nel progetto di Unione nato dopo l’incubo delle due guerre mondiali.

E la Chiesa cattolica stessa è in prima fila nella partecipazione a questo progetto, non solo con i valori che incarna, ma anche con un fattivo servizio di informazione. In questi stessi giorni ha compiuto 22 anni di attività Europe-Infos, il mensile della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece), creato per “informare gli episcopati e la comunità cristiana sulla posta in gioco della costruzione europea e le sfide per la Chiesa e la società”.

Nell’editoriale del numero di dicembre (che si può leggere online su www.europeinfos.eu), il segretario della Comece, Olivier Poquillon, ne ripercorre la storia a partire dal 1996, quando “internet era lontano dall’essere il potente strumento che usiamo oggi” e “la creazione di Europe-Infos un passo positivo per fornire un panorama degli sviluppi sociali, politici e legali in Europa”.

Guardando al 2019, che sarà un anno di novità con le elezioni al Parlamento europeo, la nuova Commissione, il nuovo presidente del Consiglio europeo e gli esiti del Brexit, l’impegno resta quello di “offrire nuovi modi per condividere la visione cristiana del bene comune in Europa”.

D. R.

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Antonio Megalizzi, un “eroe” in cerca di futuro https://www.lavoce.it/antonio-megalizzi-eroe-futuro/ Thu, 20 Dec 2018 08:00:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53674 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Sì, è stato un eroe, Antonio Megalizzi: non per come è morto, a 29 anni, in una strada della Strasburgo illuminata dalle luci natalizie, colpito alla testa da un proiettile sparato da un suo coetaneo che inneggiava a un Dio che forse in quel momento era girato dall’altra parte.

Antonio, giornalista free-lance (che vuol dire senza posto fisso), è stato un eroe dei nostri tempi per come ha vissuto fino a quel maledetto pomeriggio di metà dicembre. Lui, figlio del Sud nato nel profondo Nord, aveva in mente in modo molto chiaro cosa fosse il futuro.

E voleva costruirlo con le sue forze: studiava, conosceva tre lingue, amava la sua professione fino al punto da volerla praticare anche a guadagno zero. E l’Europa - quella stessa Europa che tanti suoi coetanei non conoscono, non capiscono o vogliono distruggere per Antonio era l’orizzonte da tenere a mente, la meta da raggiungere, lo sfondo su cui costruire un’esistenza dignitosa.

In tutto ciò, di questi tempi, c’è eroismo: perché in questa fase la cultura, la formazione, l’apertura mentale, l’impegno nello studio per essere sempre pronti ad affrontare la realtà, sembrano tutti elementi passati di moda, travolti da scorciatoie per il successo che non prevedono sforzo e sudore quotidiano.

Onore ad Antonio, dunque, morto come Valeria al Bataclan, o Fabrizia a Berlino, o Giulio al Cairo. Giovani in cerca di futuro, senza più un futuro, ma ancora esempi da imitare, per tutti i ragazzi che hanno il coraggio di farlo.

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di Daris Giancarlini

Sì, è stato un eroe, Antonio Megalizzi: non per come è morto, a 29 anni, in una strada della Strasburgo illuminata dalle luci natalizie, colpito alla testa da un proiettile sparato da un suo coetaneo che inneggiava a un Dio che forse in quel momento era girato dall’altra parte.

Antonio, giornalista free-lance (che vuol dire senza posto fisso), è stato un eroe dei nostri tempi per come ha vissuto fino a quel maledetto pomeriggio di metà dicembre. Lui, figlio del Sud nato nel profondo Nord, aveva in mente in modo molto chiaro cosa fosse il futuro.

E voleva costruirlo con le sue forze: studiava, conosceva tre lingue, amava la sua professione fino al punto da volerla praticare anche a guadagno zero. E l’Europa - quella stessa Europa che tanti suoi coetanei non conoscono, non capiscono o vogliono distruggere per Antonio era l’orizzonte da tenere a mente, la meta da raggiungere, lo sfondo su cui costruire un’esistenza dignitosa.

In tutto ciò, di questi tempi, c’è eroismo: perché in questa fase la cultura, la formazione, l’apertura mentale, l’impegno nello studio per essere sempre pronti ad affrontare la realtà, sembrano tutti elementi passati di moda, travolti da scorciatoie per il successo che non prevedono sforzo e sudore quotidiano.

Onore ad Antonio, dunque, morto come Valeria al Bataclan, o Fabrizia a Berlino, o Giulio al Cairo. Giovani in cerca di futuro, senza più un futuro, ma ancora esempi da imitare, per tutti i ragazzi che hanno il coraggio di farlo.

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Bassetti commenta l’attentato di Strasburgo https://www.lavoce.it/bassetti-attentato-strasburgo/ Thu, 13 Dec 2018 16:44:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53665 forum

"Mai come in questo momento, quando un vile attentato ha portato la morte in un mercatino natalizio di Strasburgo, bisogna ricordare la santità della vita nascente che celebriamo nel Natale". Queste le parole del cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nel suo articolo dal titolo “La dolcezza del Natale”, pubblicato da L’Osservatore Romano. "L’attesa di Gesù, il salvatore – continua il cardinale –, viene a dare un senso, oggi, a questo mondo ferito dalla follia perversa di un terrorismo che colpisce all’improvviso senza alcuna pietà verso il prossimo e dalla diffusione di un mercato della vita che pervade la nostra quotidianità mascherando con la pietà un’industria del desiderio. Si tratta di due fenomeni della società contemporanea molto diversi tra loro ma che sono accomunati da una stessa radice: la perdita del significato profondo della vita umana. Da un lato, infatti, la vita viene uccisa per vendetta; dall’altro lato, invece, viene fabbricata per profitto". E sul Natale ricorda: "Il Natale è un inno alla vita da cantare su uno spartito in cui sono scritte tre parole: gioia, dono, umiltà. La gioia di un Dio che viene in mezzo agli uomini e nasce ultimo tra gli ultimi. 'Egli viene – scrive don Mazzolari – e con Lui viene la gioia'. Una gioia che viene donata al mondo, scrive il parroco di Bozzolo, 'attraverso un bambino che non ha niente'".]]>
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"Mai come in questo momento, quando un vile attentato ha portato la morte in un mercatino natalizio di Strasburgo, bisogna ricordare la santità della vita nascente che celebriamo nel Natale". Queste le parole del cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nel suo articolo dal titolo “La dolcezza del Natale”, pubblicato da L’Osservatore Romano. "L’attesa di Gesù, il salvatore – continua il cardinale –, viene a dare un senso, oggi, a questo mondo ferito dalla follia perversa di un terrorismo che colpisce all’improvviso senza alcuna pietà verso il prossimo e dalla diffusione di un mercato della vita che pervade la nostra quotidianità mascherando con la pietà un’industria del desiderio. Si tratta di due fenomeni della società contemporanea molto diversi tra loro ma che sono accomunati da una stessa radice: la perdita del significato profondo della vita umana. Da un lato, infatti, la vita viene uccisa per vendetta; dall’altro lato, invece, viene fabbricata per profitto". E sul Natale ricorda: "Il Natale è un inno alla vita da cantare su uno spartito in cui sono scritte tre parole: gioia, dono, umiltà. La gioia di un Dio che viene in mezzo agli uomini e nasce ultimo tra gli ultimi. 'Egli viene – scrive don Mazzolari – e con Lui viene la gioia'. Una gioia che viene donata al mondo, scrive il parroco di Bozzolo, 'attraverso un bambino che non ha niente'".]]>
Avremo imam con i titoli di studio https://www.lavoce.it/avremo-imam-con-i-titoli-di-studio/ Thu, 20 Jul 2017 16:10:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=49520

La “questione musulmana” continua a far discutere a Umbertide, e non solo per alcune traversie che hanno coinvolto l’imam (vedi articolo qui sotto) ma anche e soprattutto per il progetto per la costruzione della moschea e relativo Centro culturale islamico. L’ondata di islamofobia, o più semplicemente una conoscenza molto approssimativa delle religioni, viene cavalcata da alcuni gruppi politici e organi di “informazione” che gettano benzina sul fuoco dell’allarme terrorismo. Resta però vero che la situazione degli imam in Italia è ancora molto fluida, senza normative chiare. Alcuni casi di predicazione integralista in moschea - si ricordi l’imam di Ponte Felcino qualche anno fa, e quello di Perugia centro nelle settimane scorse - hanno provocato non solo l’arresto e l’espulsione dei colpevoli, ma anche un senso di pericolo nell’opinione pubblica. Di fatto, per un imam l’iter di formazione non è regolamentato in modo netto, con un percorso che dura molti anni, come per i sacerdoti cattolici. Il suo compito è essenzialmente quello di guidare le formule e i gesti corporei nel rito della preghiera, e poi commentare non la parola di Dio bensì i fatti del giorno. Per questo il suo ruolo non è tanto quello del “parroco” quanto quello del “cerimoniere” e del predicatore o magari dell’oratore politico. Il tema è stato esaminato con attenzione nel Rapporto stilato nell’aprile 2016 dal Consiglio per i rapporti con l’islam italiano. Ne emerge che “la formazione degli imam [nel nostro Paese] passa per almeno quattro possibili ambiti diversi, non necessariamente alternativi, e anzi spesso complementari”. C’è anzitutto “l’autoformazione”, con un livello di approfondimento molto diverso da persona a persona. Oppure possono esistere - in alcuni Paesi europei ma non in Italia, per ora - “scuole o corsi di istruzione superiore organizzati da centri di formazione creati a questo scopo, spesso con finanziamenti di Fondazioni estere”. Oppure ancora, l’imam può aver seguito un iter di preparazione non nel Paese europeo in cui vive bensì in Università e altre istituzioni nei Paesi musulmani; che comunque, di solito, offrono una preparazione esclusivamente su materie religiose, non culturali né interculturali. E infine, “la formazione all’interno di corsi e istituzioni create ad hoc nei vari Paesi europei”, che è la meta a cui si vorrebbe arrivare. È di pochi giorni fa la notizia che presso il nostro ministero degli Esteri si è tenuta una Conferenza sulla tutela delle comunità religiose. Al termine, il responsabile del Centro culturale islamico della Grande moschea di Roma, Abdellah Redouane, ha dichiarato che “siamo molto vicini alla creazione di un organismo per la formazione degli imam in Italia”. Già lo scorso febbraio era stato firmato il Patto nazionale per un islam italiano, e questo - ha aggiunto Redouane - ha posto le premesse “per un dibattito di cui c’è bisogno anche a livello territoriale, perché vuol dire apertura di moschee e formazione degli imam”. Esattamente, a che serve una moschea? Quando nell’anno 638 il patriarca di Gerusalemme, Sofronio, invitò il califfo Omar a pregare insieme nella basilica del Santo Sepolcro dopo la conquista araba della città, Omar disse: “No, pregherò fuori, perché altrimenti un giorno vi verrà confiscato l’edificio”. E fu provvidenziale. Per i musulmani, infatti, un luogo in cui ci si raduna per pregare diventa automaticamente sacro, come una moschea, e si può pretendere di acquisirne la proprietà. È un punto su cui a volte i vescovi o altre autorità mettono in guardia i sacerdoti che “prestano” spazi parrocchiali agli immigrati musulmani. Questa della sacralità dello spazio è una venerabile tradizione che accomuna forse tutti i popoli, perlomeno quelli antichi: si tratta solo di saperlo, e di agire con avvedutezza. Ma la questione è ancora più complessa. Una moschea infatti non ha solo funzioni “liturgiche” (nel senso etimologico di rito pubblico). In Umbria in questi giorni è vivo il dibattito sulla costruzione del Centro culturale islamico a Umbertide. Già nel 2001, all’inizio della querelle sulle moschee in Italia, su La cività cattolica era apparso un articolo del gesuita Khalil Samir, il quale sottolineava: “La moschea è il luogo dove la comunità si raduna per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare. Voler limitare la moschea a luogo di preghiera è fare violenza alla tradizione musulmana”. Nel giorno sacro, il venerdì, l’imam tiene ai fedeli un discorso, la khutbah, “che non è una predica - prosegue padre Samir. - Nella khutbah vengono approfondite le questioni dell’ora presente: politiche, sociali, morali, ecc.”. Il che rende le moschee un luogo ‘delicato’ perfino nei Paesi a maggioranza islamica, perché “nella storia musulmana quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee... In alcuni Paesi musulmani il testo della khubtah deve essere presentato prima alle autorità civili, visto che gli imam sono funzionari statali”. Un altro aspetto della questione, che infatti riaffiora regolarmente anche in Italia, Umbertide inclusa, consiste nel “chiedersi chi finanzi le moschee e i Centri islamici. È risaputo che gran parte delle moschee e dei Centri islamici in Europa sono finanziati da Governi musulmani, in particolare da quello dell’Arabia Saudita, che perciò ha il diritto di imporre i suoi imam”. E - precisa Samir - “non sono questi imam che potranno aiutare gli emigrati a inserirsi nella civiltà occidentale”. Quindi, meglio non avere moschee in casa nostra? Tutto il contrario. Bisogna semmai creare rapporti di vicinato e di prossimità, imparare a conoscersi, a stimarsi, perché - come diceva Gesù - “la bocca parla dalla pienezza del cuore”. Nessuno predicherà mai contro le persone di cui ha imparato a fidarsi. Senza fiducia reciproca, senza un tessuto sociale variegato ma solido, non basteranno le leggi a garantire quella famigerata “sicurezza” che oggi viene invocata per giustificare qualunque misura. Il caso dell’imam di Umbertide In questi tempi l’imam di Umbertide, Chafiq El Oqayly, si è ritrovato al centro di vicende movimentate. Forse tutte si sgonfieranno con il tempo ma, se non altro, dimostrano che il clima è teso perfino nei confronti di una comunità musulmana, quella umbertidese, composta perlopiù da marocchini, non taliban afghani. A inizio giugno una trasmissione tv aveva insinuato che la moschea di Umbertide sarebbe realizzata con soldi del Qatar, Stato con cui la stessa Arabia Saudita ha interrotto i rapporti con l’accusa (probabilmente strumentale) di terrorismo. A fine mese, l’imam è stato vittima di un’aggressione. Poi, la settimana scorsa, è finito tra gli indagati in una storia di false assunzioni e falsi licenziamenti allo scopo di ricevere sussidi dall’Inps. Il sindaco della città, Marco Locchi, tiene d’occhio questa spinosa situazione; intanto però c’è un suo collega del Pd, Marco Vinicio Guasticchi, che a più riprese si è pronunciato contro la moschea.]]>

La “questione musulmana” continua a far discutere a Umbertide, e non solo per alcune traversie che hanno coinvolto l’imam (vedi articolo qui sotto) ma anche e soprattutto per il progetto per la costruzione della moschea e relativo Centro culturale islamico. L’ondata di islamofobia, o più semplicemente una conoscenza molto approssimativa delle religioni, viene cavalcata da alcuni gruppi politici e organi di “informazione” che gettano benzina sul fuoco dell’allarme terrorismo. Resta però vero che la situazione degli imam in Italia è ancora molto fluida, senza normative chiare. Alcuni casi di predicazione integralista in moschea - si ricordi l’imam di Ponte Felcino qualche anno fa, e quello di Perugia centro nelle settimane scorse - hanno provocato non solo l’arresto e l’espulsione dei colpevoli, ma anche un senso di pericolo nell’opinione pubblica. Di fatto, per un imam l’iter di formazione non è regolamentato in modo netto, con un percorso che dura molti anni, come per i sacerdoti cattolici. Il suo compito è essenzialmente quello di guidare le formule e i gesti corporei nel rito della preghiera, e poi commentare non la parola di Dio bensì i fatti del giorno. Per questo il suo ruolo non è tanto quello del “parroco” quanto quello del “cerimoniere” e del predicatore o magari dell’oratore politico. Il tema è stato esaminato con attenzione nel Rapporto stilato nell’aprile 2016 dal Consiglio per i rapporti con l’islam italiano. Ne emerge che “la formazione degli imam [nel nostro Paese] passa per almeno quattro possibili ambiti diversi, non necessariamente alternativi, e anzi spesso complementari”. C’è anzitutto “l’autoformazione”, con un livello di approfondimento molto diverso da persona a persona. Oppure possono esistere - in alcuni Paesi europei ma non in Italia, per ora - “scuole o corsi di istruzione superiore organizzati da centri di formazione creati a questo scopo, spesso con finanziamenti di Fondazioni estere”. Oppure ancora, l’imam può aver seguito un iter di preparazione non nel Paese europeo in cui vive bensì in Università e altre istituzioni nei Paesi musulmani; che comunque, di solito, offrono una preparazione esclusivamente su materie religiose, non culturali né interculturali. E infine, “la formazione all’interno di corsi e istituzioni create ad hoc nei vari Paesi europei”, che è la meta a cui si vorrebbe arrivare. È di pochi giorni fa la notizia che presso il nostro ministero degli Esteri si è tenuta una Conferenza sulla tutela delle comunità religiose. Al termine, il responsabile del Centro culturale islamico della Grande moschea di Roma, Abdellah Redouane, ha dichiarato che “siamo molto vicini alla creazione di un organismo per la formazione degli imam in Italia”. Già lo scorso febbraio era stato firmato il Patto nazionale per un islam italiano, e questo - ha aggiunto Redouane - ha posto le premesse “per un dibattito di cui c’è bisogno anche a livello territoriale, perché vuol dire apertura di moschee e formazione degli imam”. Esattamente, a che serve una moschea? Quando nell’anno 638 il patriarca di Gerusalemme, Sofronio, invitò il califfo Omar a pregare insieme nella basilica del Santo Sepolcro dopo la conquista araba della città, Omar disse: “No, pregherò fuori, perché altrimenti un giorno vi verrà confiscato l’edificio”. E fu provvidenziale. Per i musulmani, infatti, un luogo in cui ci si raduna per pregare diventa automaticamente sacro, come una moschea, e si può pretendere di acquisirne la proprietà. È un punto su cui a volte i vescovi o altre autorità mettono in guardia i sacerdoti che “prestano” spazi parrocchiali agli immigrati musulmani. Questa della sacralità dello spazio è una venerabile tradizione che accomuna forse tutti i popoli, perlomeno quelli antichi: si tratta solo di saperlo, e di agire con avvedutezza. Ma la questione è ancora più complessa. Una moschea infatti non ha solo funzioni “liturgiche” (nel senso etimologico di rito pubblico). In Umbria in questi giorni è vivo il dibattito sulla costruzione del Centro culturale islamico a Umbertide. Già nel 2001, all’inizio della querelle sulle moschee in Italia, su La cività cattolica era apparso un articolo del gesuita Khalil Samir, il quale sottolineava: “La moschea è il luogo dove la comunità si raduna per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare. Voler limitare la moschea a luogo di preghiera è fare violenza alla tradizione musulmana”. Nel giorno sacro, il venerdì, l’imam tiene ai fedeli un discorso, la khutbah, “che non è una predica - prosegue padre Samir. - Nella khutbah vengono approfondite le questioni dell’ora presente: politiche, sociali, morali, ecc.”. Il che rende le moschee un luogo ‘delicato’ perfino nei Paesi a maggioranza islamica, perché “nella storia musulmana quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee... In alcuni Paesi musulmani il testo della khubtah deve essere presentato prima alle autorità civili, visto che gli imam sono funzionari statali”. Un altro aspetto della questione, che infatti riaffiora regolarmente anche in Italia, Umbertide inclusa, consiste nel “chiedersi chi finanzi le moschee e i Centri islamici. È risaputo che gran parte delle moschee e dei Centri islamici in Europa sono finanziati da Governi musulmani, in particolare da quello dell’Arabia Saudita, che perciò ha il diritto di imporre i suoi imam”. E - precisa Samir - “non sono questi imam che potranno aiutare gli emigrati a inserirsi nella civiltà occidentale”. Quindi, meglio non avere moschee in casa nostra? Tutto il contrario. Bisogna semmai creare rapporti di vicinato e di prossimità, imparare a conoscersi, a stimarsi, perché - come diceva Gesù - “la bocca parla dalla pienezza del cuore”. Nessuno predicherà mai contro le persone di cui ha imparato a fidarsi. Senza fiducia reciproca, senza un tessuto sociale variegato ma solido, non basteranno le leggi a garantire quella famigerata “sicurezza” che oggi viene invocata per giustificare qualunque misura. Il caso dell’imam di Umbertide In questi tempi l’imam di Umbertide, Chafiq El Oqayly, si è ritrovato al centro di vicende movimentate. Forse tutte si sgonfieranno con il tempo ma, se non altro, dimostrano che il clima è teso perfino nei confronti di una comunità musulmana, quella umbertidese, composta perlopiù da marocchini, non taliban afghani. A inizio giugno una trasmissione tv aveva insinuato che la moschea di Umbertide sarebbe realizzata con soldi del Qatar, Stato con cui la stessa Arabia Saudita ha interrotto i rapporti con l’accusa (probabilmente strumentale) di terrorismo. A fine mese, l’imam è stato vittima di un’aggressione. Poi, la settimana scorsa, è finito tra gli indagati in una storia di false assunzioni e falsi licenziamenti allo scopo di ricevere sussidi dall’Inps. Il sindaco della città, Marco Locchi, tiene d’occhio questa spinosa situazione; intanto però c’è un suo collega del Pd, Marco Vinicio Guasticchi, che a più riprese si è pronunciato contro la moschea.]]>
Strage di Nizza: il cardinale Bassetti “la terra inorridisce per l’ingiustizia del sangue sparso” https://www.lavoce.it/strage-di-nizza-il-cardinale-bassetti-la-terra-inorridisce-per-lingiustizia-del-sangue-sparso/ Fri, 15 Jul 2016 14:44:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=46766 cardinale bassetti con profughi pakistani a villa sacro cuore di pg al pranzo di natale 2015«Siamo rimasti colpiti da quanto alcuni giovani profughi accolti dalla nostra Caritas diocesana ci hanno detto a caldo, dopo l’ennesima tragedia che ha causato tanto spargimento di sangue la notte scorsa a Nizza, nella vicina Francia». Lo racconta il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti al termine di un incontro programmato da alcune settimane, tenutosi nella mattinata del 15 luglio, sul “Progetto diocesano per l’accoglienza dei profughi e richiedenti asilo” affidato alla Caritas, attraverso il quale la Chiesa perugino-pievese dà ospitalità a più di 70 persone provenienti dall’Africa e dall’Asia. «Sono ragazzi sconvolti, con le lacrime agli occhi – prosegue il cardinale –, alcuni di loro li conosco da quando sono arrivati lo scorso autunno. Abbiamo vissuto insieme anche dei bei momenti come l’iniziativa del pranzo di Natale organizzata dalla Caritas ed altri incontri che mi hanno permesso di conoscerli meglio e di seguirli nel loro soggiorno. Le loro parole non possono non farci riflettere: “Dopo mille peripezie e rischiando la vita – hanno raccontato -, siamo giunti in Europa dove pensavamo di trovare almeno un po’ di pace e invece vediamo il ripetersi degli stessi eventi tragici dei nostri Paesi di origine”».

«Ci sarà ancora su questa terra un angolo dove gli uomini possono vivere quello che è il progetto di Dio per loro?», si domanda il porporato. Si tratta di «un progetto di amore, di solidarietà, di giustizia e di pace», precisa l’arcivescovo di Perugia non nascondendo la sua preoccupazione per il futuro di questa umanità ormai in guerra.

«La Chiesa, accogliendo il grido degli ultimi – evidenzia il cardinale –, da molti considerati gli “scarti della società”, perché le loro vicende non trovano accoglienza da parte di chi si accontenta soltanto del proprio benessere, fa proprio il loro grido e ripete con il Salmo: “Fino a quando Signore?”. La terra che dovrebbe essere per tutti madre accogliente, inorridisce per l’ingiustizia del sangue sparso di questi suoi figli sacrificati da un odio cieco e disumano. Si moltiplichino nelle nostre chiese le preghiere e le suppliche davanti all’Agnello innocente, il Cristo dell’Eucaristia, e al tempo stesso le persone, gli onesti e i buoni non si chiudano in se stessi, ma vivano con coraggio la loro missione di costruttori di pace e di giustizia».

Il presule, soffermandosi sul passo del Vangelo di Matteo: “Non temete coloro che possono uccidere il corpo, dice Gesù, ma non possono uccidere l’amina” (Mt 10, 28), ricorda che «il grido di un bambino innocente capace di offuscare lo splendore di un cielo stellato, è più forte davanti a Dio della violenza di qualunque atto terroristico».

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In fuga dall’orrore https://www.lavoce.it/in-fuga-dallorrore/ Thu, 06 Aug 2015 09:18:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=42057 Profughi in fuga dagli attacchi dell’Isis
Profughi in fuga dagli attacchi dell’Isis

Un anno fa, 120 mila cristiani abbandonavano la Piana di Ninive in fuga dall’Isis. “Nei primi otto mesi dall’invasione dello Stato islamico, abbiamo perso dodici consorelle. Il loro cuore non è riuscito a sopportare tanta sofferenza”.

Così suor Justina, delle Domenicane di santa Caterina da Siena, riassume ad Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) il dramma vissuto da tante religiose costrette a fuggire dal sedicente Califfato.

Suor Justina è rientrata in Iraq dall’Italia un anno e mezzo fa. Il convento dove viveva vicino a Pisa è stato chiuso e lei è tornata ad Ankawa, sobborgo a maggioranza cristiana di Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno.

Appena in tempo per assistere all’esodo di 120 mila cristiani che nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014 hanno abbandonato la Piana di Ninive per trovare rifugio in Kurdistan.

“È impossibile descrivere – dice – quanto è accaduto in quei giorni. Intere famiglie hanno perso tutto”. Assieme ai profughi, alla casa delle Domenicane di Ankawa sono giunte anche molte consorelle fuggite dalle città e dai villaggi caduti in mano all’Isis. Tra loro suor Lyca, che racconta le dieci interminabili ore di viaggio verso Erbil.

Per tutta la giornata del 6 agosto, mentre molti altri abitanti di Qaraqosh erano già fuggiti, le religiose sono rimaste nel villaggio cristiano per sostenere i fedeli terrorizzati. “Speravamo che la minaccia sarebbe durata soltanto alcuni giorni – ricorda – ma quando i peshmerga hanno smesso di difenderci, abbiamo capito che non c’era più alcuna speranza”.

Le religiose hanno lasciato il convento alle 11.30 di sera. In condizioni normali sarebbe stata sufficiente un’ora per raggiungere Erbil, ma le strade erano invase da macchine e famiglie in fuga e le religiose hanno camminato fino al mattino seguente, senz’acqua e con una temperatura di oltre 40 gradi.

“In marcia ai bordi della strada vi erano migliaia e migliaia di persone, mentre ogni macchina ospitava almeno dieci passeggeri”. Nonostante lo shock, appena giunte ad Ankawa le suore si sono messe al servizio dei rifugiati: dall’assistenza nei campi profughi alla gestione dei dispensari, alla pastorale giovanile.

Alcune di loro vivono in uno dei container donati da Acs ai profughi cristiani. “Ci impegniamo soprattutto – dichiara suor Diana – a garantire un’educazione ai ragazzi. Facciamo del nostro meglio, ma purtroppo non è abbastanza. L’Isis sta uccidendo il nostro futuro, perché, se questa generazione non riceverà un’istruzione, non ve ne sarà un’altra”.

Nei giorni scorsi la Fondazione Acs ha approvato due nuovi progetti: un contributo di 2 milioni di euro per finanziare sei mesi affitto di alloggi per i rifugiati cristiani, e uno di 690 mila euro per l’acquisto di pacchi viveri per 13 mila famiglie cristiane in Kurdistan.

 

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Nigeria in fiamme https://www.lavoce.it/nigeria-in-fiamme/ Thu, 09 Jul 2015 09:42:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=38069 Un campo profughi in Nigeria
Bambini in fuga dagli attacchi di Boko Haram rifugiati in un campo profughi a Diffa (Niger)

Bambine e donne kamikaze, bombe nei mercati, nelle chiese, nelle moschee e nei ristoranti. Tragedie che colpiscono indistintamente musulmani e cristiani e portano la firma del gruppo fondamentalista Boko Haram.

Nell’ultima settimana sono state più di 200 le vittime in Nigeria, le ultime 44 a Jos, in un’affollata moschea dove il predicatore invitava alla pace tra le religioni, e in un ristorante frequentato da musulmani. Poi una giovane donna si è fatta esplodere in una chiesa evangelica nel Nord-est, uccidendo 5 fedeli.

Alcuni giorni prima, nella stessa area, erano state date alle fiamme 32 chiese e 300 abitazioni; altre due donne kamikaze si sono fatte esplodere a Maiduguri, provocando 13 morti. A Miringa i miliziani islamici hanno sgozzato 11 persone accusandole di essere “traditori” in procinto di disertare. In 6 anni nel Nord-est della Nigeria i morti sono stati 13 mila, e un milione e mezzo gli sfollati.

Abbiamo raggiunto telefonicamente l’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Ayau Kaigama, presidente della Conferenza episcopale nigeriana.

La sua arcidiocesi è stata di nuovo colpita al cuore…

“È dovere delle autorità fermare la violenza. La gente chiede con forza di essere difesa dagli attacchi dei gruppi fondamentalisti. Non so indicare in che modo, perché la situazione è molto difficile: non c’è un nemico ben identificato, con soldati in uniforme. Questa è una sorta di guerriglia, che coinvolge perfino donne e bambine kamikaze vestite normalmente. Per cui è difficile, anche per il Governo, contrastare un fenomeno di questo tipo, nel quale non si sa chi sia il nemico”.

Com’è il clima nella comunità cristiana?

“Chi non avrebbe paura di vivere in una situazione del genere? Anche il nostro vicino potrebbe essere pericoloso. C’è un continuo clima di sospetto e siamo tutti preoccupati. Non siamo tranquilli in nessun luogo. All’interno delle nostre chiese e strutture abbiamo delle forze di sicurezza private, oltre alle normali forze dell’ordine. Cerchiamo di essere attenti e di vigilare”.

La situazione è peggiorata?

“Al Nord-est è molto peggiorata. Ci sono migliaia di sfollati interni, e poi ci sono centinaia di migliaia di rifugiati nei Paesi vicini: in Ciad, in Niger, in Camerun. È terribile. Questi terroristi hanno perso la loro umanità, attaccano senza una logica razionale. Quando si perde la razionalità, si apre la strada al fanatismo e si uccide indiscriminatamente”.

Gli stessi musulmani sono colpiti dalla violenza dei fanatici. Dialogate?

“C’è un dialogo costante e una collaborazione molto buona. I musulmani moderati comprendono bene il problema, si sentono anche loro vittime del fanatismo, lo denunciano con forza. La scorsa settimana sono andato, con altri preti, nella grande moschea di Jos per salutare il nuovo imam. Tutti dicono che questi terroristi non sono veri musulmani, non agiscono in nome dell’islam, commettono solo gravi crimini contro l’umanità. Io ci credo”.

Il 20 luglio il presidente Buhari incontrerà alla Casa Bianca il presidente Obama, che promette aiuti alla lotta contro Boko Haram.

“Siamo ottimisti sulla presidenza del generale Buhari. I leader europei e americani stanno estendendo la collaborazione, molto è stato fatto. Abbiamo visto tanta buona volontà da parte della comunità internazionale, che ha intenzione di aiutarci. È interesse di tutti unire le forze per combattere contro il terrorismo, che si sta diffondendo ovunque. Non è solo un problema della Nigeria ma di diverse zone dell’Africa e del Medio Oriente, dell’Europa e dell’America. Oramai il terrorismo è globale, non ci sono più i limiti delle frontiere. Il livello di attenzione deve essere molto alto, da parte di tutti”.

 

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Un anno vissuto nel terrore https://www.lavoce.it/un-anno-vissuto-nel-terrore/ Wed, 01 Jul 2015 12:54:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=37089 Militanti Isis presso la provincia irachena di Salahuddin (foto AFP)
Militanti Isis presso la provincia irachena di Salahuddin (foto AFP)

Si trasforma in tragedia anche una vacanza sulle spiagge della Tunisia. È ancora presto per dire se e in che misura sia coinvolto il gruppo terrorista Stato islamico (Isis), ma – a distanza di un anno esatto dalla proclamazione del sedicente Califfato – l’Isis è diventato una minaccia globale, intravista dietro ogni attentato che sia feroce e attuato da kamikaze.

Prima, lo “spettro che si aggirava per il mondo” era Al Qaeda; ora ci si chiede se le due formazioni confluiranno in una. (A noi occidentali potrà sembrare che l’estremismo islamico sia tutto uguale ma, di fatto, solo di recente Al Qaeda e Isis hanno cominciato a cercare vie di collaborazione).

Un anno. Riprecorriamo brevemente i fatti. Il 29 giugno 2014, Ibrahim al-Badri, ossia Abu Bakr al-Baghdadi, proclamò la nascita del Califfato in un territorio compreso tra Siria e Iraq, conquistato dalle milizie fondamentaliste dell’Isis, che era emerso alla luce un po’ prima.

Mosul, Ramadi, Raqqa, Palmira sono alcune delle località su cui ora sventola il vessillo nero del Califfo. Da quel momento una lunga scia di sangue: dal Maghreb al Mashreq, dal Golfo arabico fino all’Afghanistan, jihadisti di varie provenienze hanno espresso fedeltà al califfo Al Baghdadi.

Le stragi contro le minoranze irachene yazide e cristiane, l’uso sistematico dello stupro, della tortura, della pena di morte, dei rapimenti, sono i mezzi abituali con cui i “miliziani neri” impongono la loro supremazia alle popolazioni conquistate. Il tutto, seguendo passo dopo passo un dettagliato manuale di guerra rimasto segreto fino a poco fa, poi rivelato da un’inchiesta del settimanale tedesco Der Spiegel.

A fare da cassa di risonanza mondiale per il movimento terrorista sono state le decapitazioni di prigionieri occidentali, a cominciare dal giornalista americano James Foley il 19 agosto 2014. Il bilancio delle vittime sale giorno dopo giorno: alcune stime lo fissano in almeno 15 mila morti, e va ricordato che la maggioranza di loro erano musulmani. L’Isis non combatte l’Occidente, combatte tutto ciò che non coincide con se stesso. Le minacce si sono estese all’Occidente: “Arriveremo a Roma” ha annunciato tempo fa il Califfo.

I Governi sembrano aver sottovalutato il fenomeno almeno fino a stragi come quella di Charlie Ebdo a Parigi, o al Museo del Bardo a Tunisi.

I cristiani delle aree occupate dall’Isis sono in una situazione disperata. Giorni fa, tra gli altri, il senatore John McCain e Tony Perkins, presidente del Family Research Council americano, hanno rilasciato una dichiarazione in cui si afferma che la strategia di Usa e Europa non sta minimanente fermando i massacri dei fedeli in Cristo.

I miliziani – hanno denunciato – “stanno commettendo feroci atrocità contro le comunità cristiane in Siria e in Iraq, preseguitando le minoranze religiose e distruggendo intere città, intere economie locali. I cristiani fuggono dalle loro case in numero sempre più grande, creando una crisi migratoria esplosiva che avrà pesanti ripercussioni sulla stabilità e sicurezza dell’intera area”.

Dopo un anno, l’Occidente – e non solo – si ritrova a dover prendere misure per salvaguardare la sicurezza interna dalle minacce dei terroristi, che trovano reclute direttamente sul territorio: vedi i killer di Charlie Ebdo, vedi il killer tunisino, che lavorava come animatore di spiaggia.

Sostanzialmente, bravi ragazzi, disagiati per vari motivi, che vengono “assunti” per uccidere, come fanno le mafie in Italia. È lecito, chiedersi che cosa si stia facendo per evitare che le nuove generazioni musulmane conoscano solo odio religioso e intolleranza. Non saranno certo gli aerei della Coalizione a mettere la parola “fine” allo Stato islamico.

 

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Non si vede la luce in fondo al tunnel https://www.lavoce.it/non-si-vede-la-luce-in-fondo-al-tunnel/ Thu, 11 Jun 2015 10:15:37 +0000 https://www.lavoce.it/?p=35391 Cristiani a Mosul
Cristiani a Mosul

Gli edifici pubblici rivestiti di nastri e addobbi. Festoni sulle strade principali piene di miliziani. Ma anche moschee fatte saltare in aria, donne costrette a coprirsi completamente, scuole vuote e quartieri cristiani deserti.

Così, a un anno esatto dall’occupazione dell’Isis, si presenta Mosul, la seconda città irachena, oggi nella morsa del califfo Abu Bakr al Baghdadi. La sua caduta rappresenta uno dei momenti focali dell’avanzata dello “Stato islamico” in Iraq e in Siria, e ha portato la comunità internazionale a reagire avviando, sotto l’egida Usa, bombardamenti nei territori occupati.

Sono di martedì 9 giugno le immagini, riprese segretamente nel corso del 2014, clandestinamente fatte uscire dalla città e quindi trasmesse dalla Bbc, in cui residenti locali parlano delle regole severissime imposte dall’Isis secondo un’interpretazione ferrea della sharia , la legge islamica.

Si apprende così che “la punizione minima è la fustigazione, che può essere applicata anche se si viene sorpresi a fumare. Il furto è punito con l’amputazione di una mano, l’adulterio di un uomo gettandolo dall’alto di un edificio, di una donna con la lapidazione. Le esecuzioni avvengono in pubblico per intimidire la gente, che spesso è obbligata ad assistere”.

Altre testimonianze riferiscono che “le donne possono uscire di casa solo se accompagnate da un familiare maschio e completamente coperte, compresi viso e mani”. In un video si vedono moschee sciite e sunnite fatte saltare in aria al grido di Allah akbar (“Dio è grande”), solo perché mete di pellegrinaggi considerati “idolatri”.

Terrore e violenza bloccano la città, dove scarseggia il carburante e la ricostruzione stenta a partire. Per non parlare dell’inquinamento e del degrado che aumentano a vista d’occhio. Deserte le aule scolastiche. I genitori hanno ritirato i figli per evitare che subiscano l’indottrinamento dei miliziani. Ma i timori della popolazione di Mosul non si fermano allo Stato islamico. L’altra grande paura dei residenti è che, se le milizie sciite dovessero arrivare a Mosul insieme alle truppe dell’esercito regolare di Baghdad, queste potrebbero lasciarsi andare a rappresaglie contro la popolazione sunnita, come accaduto a Tikrit, strappata nei mesi scorsi all’Isis.

Non ha visto le immagini della Bbc, mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, ma commenta: “Non mi direbbero nulla di nuovo. Distruzione, violenza, terrore, persecuzione come mai fino a oggi. È quello che stiamo vivendo ormai da anni, e con lo Stato islamico la situazione è peggiorata. E non parlo solo di Mosul. Quelli dell’Isis sono dei veri barbari”.

La mente del vescovo corre alla vicina Piana di Ninive, un tempo popolata di villaggi cristiani e “oggi ridotta a una landa desolata”. Mons. Warduni parla da uno dei villaggi a nord della Piana, “dove manca tutto, acqua, medicine, cibo, mezzi di trasporto… Sa qual è la nostra sofferenza più grande? Non sapere dov’è la comunità internazionale, non capire perché si permette di distruggere una storia cristiana lunga duemila anni. Il mondo se ne infischia di questa storia, e una parte di esso continua a vendere armi all’Isis e alimentare la guerra, diventando complici della nostra sciagura”.

Le scuole chiuse di Mosul, le case dei cristiani marchiate con la “N” nera, famigerata “lettera scarlatta” con cui il Califfato marchia i nasrani, ovvero i cristiani seguaci del Nazareno, l’indottrinamento violento, gli abusi, gli espropri, le torture e le esecuzioni sommarie: “Chi avrebbe mai pensato che un giorno ci saremmo trovati in questa condizione?”, chiede mons. Warduni.

“La cosa più grave è che non vediamo la luce in fondo al tunnel, il buio più pesto ci avvolge, ci stringe, ci impedisce di avanzare. Siamo circondati dalla disperazione, dalla paura. Siamo stanchi”. Eppure la Chiesa irachena, nelle sue diverse componenti, continua il suo sforzo “di stare accanto ai fedeli rimasti grazie agli aiuti che altre Chiese e organismi di solidarietà ci recapitano. Li ringraziamo per questo. Purtroppo l’esodo dei cristiani è continuo, è un’emorragia che, se continua, così ci porterà alla morte. Non ci saranno più cristiani in Iraq. Tutto, nell’indifferenza di molti della comunità internazionale. Questo ci fa molto male. L’unico rifugio vero per noi è confidare nella preghiera, nella certezza che Dio è al nostro fianco”.

 

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L’Isis prende in ostaggio 100 cristiani https://www.lavoce.it/lis-prende-in-ostaggio-100-cristiani/ Fri, 27 Feb 2015 11:25:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=30535 Siriani in fuga dall’Isis trasportano quello che possono diretti verso il confine con la Turchia
Siriani in fuga dall’Isis trasportano quello che possono diretti verso il confine con la Turchia

Sono tra 120 e 140 i cristiani assiri tenuti in ostaggio dai jiahdisti dello “Stato islamico” che nella notte tra domenica 22 e lunedì 23 febbraio hanno sferrato un attacco su larga scala ai villaggi cristiani disseminati lungo le sponde del fiume Khabur, nella provincia siriana nord-orientale di Jazira. Lo conferma l’arcivescovo Jacques Behnan Hindo, ordinario dell’Arcieparchia siro-cattolica di Hassaké-Nisibi. Gli ostaggi appartengono tutti ai villaggi di Tel Jazira, Tel Shamiram e Tel Gouram.

“I jihadisti – riferisce l’Arcivescovo – hanno preso pieno controllo dei villaggi sulla sponda occidentale del Khabur, mentre, il pomeriggio del 24 febbraio, tutti gli abitanti dei 22 villaggi disseminati lungo la sponda orientale sono stati evacuati e più di mille famiglie cristiane assire e caldee sono fuggite verso i centri maggiori di Hassakè, Qamishli, Dirbesiye e Ras al-Ayn. Martedì sera – aggiunge mons. Hindo – soltanto ad Hassakè le famiglie di nuovi rifugiati erano più di 950”.

L’offensiva dei jihadisti dello Stato islamico finora ha provocato la morte in combattimento di 4 cristiani arruolati nelle milizie assire (schieratesi con i battaglioni curdi contro i miliziani dell’Is), mentre al momento, secondo fonti assire, un giovane cristiano assiro di nome Milad risulta essere l’unica vittima civile degli islamisti.

A giudizio dell’Arcivescovo siro-cattolico, i jihadisti hanno lanciato l’offensiva nella regione del Khabur per trovare nuovi spazi e vie di fuga, compensando le sconfitte e le perdite di territorio da loro registrate a Kobane e intorno alla roccaforte di Raqqa. Secondo mons. Hindo, anche le contromosse prospettate da alcuni Paesi stranieri davanti alle recenti strategie militari dello Stato islamico confermano le gravi responsabilità dell’Occidente nello scatenamento dei conflitti che stanno dilaniando il Medio Oriente.

“Con le loro politiche sciagurate – dichiara – soprattutto francesi e statunitensi, con i loro alleati regionali, hanno favorito di fatto l’escalation del Daesh [acronimo arabo con cui si indica lo Stato islamico, ndr]. Adesso perseverano nell’errore, commettono sbagli strategici grotteschi come l’annuncio sui media della ‘campagna di primavera’ per liberare Mosul. Si ostinano a interferire con interventi irrilevanti, invece di riconoscere che proprio il sostegno da loro garantito ai gruppi jihadisti ci ha portato a questo caos e ha distrutto la Siria, facendoci regredire di 200 anni”.

isis-raqqa-syriaLungo le sponde del fiume Khabur, affluente dell’Eufrate, c’erano più di 30 villaggi cristiani, fondati negli anni Trenta del secolo scorso, dove avevano trovato rifugio dall’Iraq i cristiani assiri e caldei fuggiti dai massacri perpetrati allora dall’esercito iracheno.

Erano villaggi fiorenti, abitati ognuno da migliaia di persone, con chiese e comunità molto attive, che gestivano anche scuole e iniziative sociali. Ma dall’inizio della guerra si erano quasi tutti svuotati, e alcuni di loro somigliavano ormai a città fantasma. Tel Hormuz prima della guerra contava più di 4.000 abitanti, ma negli ultimi mesi si sono ridotti a meno di 300.

Inizio dei corsi all’Università cattolica di Erbil, Iraq

Il 2015 è l’anno in cui prenderanno il largo i corsi dell’Università cattolica di Erbil, ateneo fortemente voluto dalla Chiesa caldea anche come forma concreta di aiuto ai giovani cristiani in Medio Oriente. Nei giorni scorsi l’arcivescovo caldeo Bashar Matti Warda, ordinario dell’arcidiocesi di Erbil e grande sponsor dell’opera, ha annunciato con una lettera l’imminente inizio delle attività per quattro facoltà universitarie, compreso il college di studi economici (Business Administration). Nella lettera, diffusa sui media ufficiali del Patriarcato, l’Arcivescovo fa appello a tutti i potenziali sponsor e collaboratori dell’iniziativa affinché contattino l’arcidiocesi per mettere a disposizione dell’ateneo le proprie eventuali donazioni e le proprie competenze nel campo dell’insegnamento universitario.

La prima pietra della nuova università era stata posta ad Ankawa, sobborgo di Erbil abitato in maggioranza da cristiani, il 20 ottobre 2012. Era stata la Chiesa caldea a mettere a disposizione i 30 mila mq su cui far sorgere le strutture. L’obiettivo, fin dall’inizio, era quello di creare un polo d’insegnamento universitario privato aperto a tutti, conforme alle esigenze del mercato e strettamente associato alla ricerca scientifica. A distanza di quasi tre anni, dopo le convulsioni che hanno travolto le regioni settentrionali dell’Iraq e hanno portato proprio ad Ankawa migliaia di profughi cristiani costretti alla fuga dai jihadisti dello Stato islamico, l’Università vuole essere un segno concreto di aiuto ai giovani cristiani iracheni, inevitabilmente tentati dall’idea di fuggire all’estero per lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le incertezze e le minacce che pesano sul futuro.

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A Parigi terroristi islamici fanno strage nella redazione di un giornale https://www.lavoce.it/a-parigi-terroristi-islamici-fanno-strage-nella-redazione-di-un-giornale/ Fri, 09 Jan 2015 18:31:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29732 Charlie-Hebdo-cmykNon si sono fermati davanti a nulla, hanno sparato a sangue freddo, senza pietà, senza ripensamenti. Mercoledì, Parigi è caduta nell’ombra più oscura del terrorismo di matrice islamica, come purtroppo da tempo si temeva e come purtroppo è avvenuto, nonostante le allerte e le precauzioni. Un attacco durissimo messo a segno da tre uomini contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi.

Uomini vestiti tutti di nero, incappucciati e armati di kalashnikov. L’attacco, le grida di Allah akbar. I redattori sono stati chiamati per cognome e ammazzati. Freddati anche mentre erano a terra e chiedevano pietà. L’auto con cui i terroristi sono scappati è stata trovata, un’ora dopo l’attentato, nel XIX Arrondissement. Tra le vittime, il direttore del settimanale, Stephan Charbonnier, detto Charb, e i tre più importanti vignettisti: Cabu, Tignous e Georges Wolinski. Si tratta dell’attacco più grave della storia recente di Francia.

La reazione dell’Eliseo. Il presidente François Hollande è arrivato sul luogo dell’attentato verso mezzogiorno e ha indetto una riunione urgente all’Eliseo e tutta l’area dell’Île-de-France è stata messa sotto “allerta attentato” secondo il piano Vigipirate. Hollande ha parlato subito di un “attentato terroristico” e ha aggiunto: “Dobbiamo reagire con fermezza, ma anche con la preoccupazione di non ledere l’unità nazionale. Siamo in un momento difficile: molti attentati sono stati evitati. Sapevamo che eravamo minacciati perché siamo un Paese libero. Puniremo gli aggressori”.

Solidarietà alla Francia è stata espressa da tutta Europa. Il primo ministro britannico David Cameron ha subito dichiarato via twitter: “Siamo a fianco del popolo francese nella lotta contro il terrorismo e per la difesa della libertà di stampa”. Mentre il premier italiano Matteo Renzi ha deciso di recarsi personalmente all’Ambasciata di Francia per portare la solidarietà del nostro Paese.

La Santa Sede esprime “esecrazione” per l’attentato, e parla di “un atto che merita una doppia condanna, sia perché lede la libertà religiosa sia perché è un atto che minaccia e offende la libertà di stampa”.

Imam francesi dal Papa. E mentre a Parigi c’era l’inferno, a Roma in piazza San Pietro una delegazione di imam francesi si incontravano con Papa Francesco. Ad accompagnarli c’era mons. Michel Dubost, vescovo d’Evry-Corbeil-Essonnes e presidente del Consiglio per le relazioni interreligiose. “Siamo sconvolti per le vittime e per le loro famiglie ma siamo sconvolti anche per la Francia e per la democrazia” sono le primissime parole di shock espresse dal vescovo. Mons. Dubost racconta cosa è avvenuto tra il Papa e gli imam: “Ero lì con loro quando il Papa ha chiesto loro: ‘Pregate per me’, manifestando una fraternità straordinaria, che può esistere tra i credenti di differenti religioni quando c’è rispetto gli uni per gli altri”.

Il rischio ora sono le conseguenze dell’attentato al giornale Charlie Hebdo sulla già delicata coesione sociale in Francia tra le diverse comunità. “Non si trovano le soluzioni ai problemi attraverso la violenza – precisa Dubost – ma sempre e solo nel diritto. Stiamo vivendo un momento difficile, ma è proprio questo il tempo di incontrarci. È vero che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. La strada del dialogo è lunga, ma non ci sono alternative”.

La voce della comunità musulmana. Il Consiglio francese del culto musulmano e i musulmani di Francia condannano subito “con la più forte determinazione l’attentato terroristico commesso con una violenza eccezionale contro il giornale Charlie Hebdo”.

“Questo atto barbarico, di estrema gravità – dichiara il presidente del Cfcm, Dalil Boubakeur -, è anche un attacco contro la democrazia e la libertà di stampa. I nostri primi pensieri vanno alle vittime e alle loro famiglie, alle quali esprimiamo la nostra totale solidarietà nella terribile prova che stanno vivendo. In un contesto internazionale politico di tensioni alimentate dai deliri di gruppi terroristici che sfruttano ingiustamente l’islam, chiediamo a tutti coloro che sono impegnati per i valori della Repubblica e della democrazia di evitare provocazioni che servono solo a gettare olio sul fuoco. Di fronte a questo dramma di scala nazionale, richiamiamo la comunità musulmana a dare prova della massima vigilanza contro eventuali manipolazioni da parte di gruppi dalle visioni estremiste, qualunque esse siano”.

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Tra regimi e terrorismo https://www.lavoce.it/tra-regimi-e-terrorismo/ Thu, 29 Jun 2006 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=5247 Intimidazioni, violenze, soprusi: anche quest’anno la libertà religiosa continua a subire aggressioni in tutto il mondo, in particolare in Cina, Iraq, Terra Santa, Turchia. È la fotografia scattata dal Rapporto 2006 sulla libertà religiosa nel mondo, curato, come di consueto, dall’associazione di diritto pontificio ‘Aiuto alla Chiesa che soffre’ (Acs), giunto all’ottava edizione e presentato il 27 giugno a Roma. L’ambivalenza della Cina. Intervenendo alla presentazione del Rapporto, il direttore dell’agenzia AsiaNews, padre Bernardo Cervellera, ha denunciato, tra l’altro, le persecuzioni della Chiesa in Cina, a proposito delle quali ha parlato di ‘ambivalenza’. ‘Da un lato – ha detto – il governo cinese tenta di mostrare un volto positivo al mondo, dall’altro permane la mentalità stalinista dei quadri intermedi, l’Associazione patriottica e l’Ufficio affari religiosi, che con gli ostacoli al dialogo e le ordinazioni episcopali illecite hanno acuito le tensioni con la Santa Sede’. Secondo la ricerca, in Cina funzionano a pieno ritmo i campi di concentramento e di tortura per i Falun Gong e i buddisti tibetani, e proseguono gli arresti di cattolici e protestanti. Dei tre vescovi scomparsi oltre sei anni fa non si è saputo più nulla. Per padre Cervellera ‘è necessario parlare chiaro, denunciare le violazioni alla libertà religiosa senza chiudere gli occhi e usando termini adeguati’. Fondamento di ogni libertà. ‘Sono convinto che la libertà religiosa sia il fondamento della libertà tout-court’ perché ‘essa significa il rispetto per la sacralità della vita e la libertà della persona: due valori sui quali si fondano le società davvero democratiche e civili’. Così il vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam. Dopo aver rammentato che ‘dieci milioni di cristiani e un milione di ebrei sono stati costretti a fuggire da Paesi arabi’, Allam ha denunciato ‘l’esistenza di intolleranza religiosa anche all’interno della religione islamica’ (la violenza dei sunniti waabiti contro gli sciiti in Iraq) per la quale, ha detto, ‘il fanatismo ha finito per ritorcersi contro gli stessi musulmani’. Atti di ‘un terrorismo di matrice fondamentalista che tuttavia – ha precisato il giornalista egiziano – è di natura aggressiva e non reattiva, perché è presente non solo in Iraq, ma anche in Egitto, Indonesia, Arabia Saudita, Paesi nei quali non può essere visto come risposta alla guerra scatenata dagli Usa, e che non deve essere in alcun modo giustificato’. Così nel mondo. Colpiti dalla minaccia del terrorismo, segnala il Rapporto, in Iraq e in Palestina decine di migliaia di cristiani hanno scelto la via dell’esilio, mentre in Arabia Saudita e Iran si consumano gravi violazioni della libertà religiosa, e in India i missionari cristiani sono oggetto di sistematica violenza. Nella panoramica della libertà religiosa nei cinque continenti offerta da Acs, la maglia nera va all’Asia dove si registrano gravi violazioni a questo diritto anche nel Myanmar, nel Laos, in Vietnam e Corea del Nord. In Indonesia la libertà religiosa è minacciata dal terrorismo integralista islamico. Quanto all’Africa, il conflitto in corso in Uganda ha provocato la morte di un operatore Caritas e ha creato un clima di persecuzione contro la Chiesa cattolica, mentre in Algeria è stata approvata una legge che proibisce le conversioni all’islam, che intanto avanza inesorabilmente in Kenya e Nigeria. Nel continente americano, nonostante gli sforzi di pacificazione, proseguono in Colombia le violenze delle Farc contro esponenti religiosi; in Venezuela si acuisce le tensione tra Stato e Chiesa cattolica. Difficoltà anche per le comunità cristiane di Cuba e dell’Ecuador.

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11 settembre: preghiera, politica e cultura per “non dimenticare” https://www.lavoce.it/11-settembre-preghiera-politica-e-cultura-per-non-dimenticare/ Thu, 12 Sep 2002 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=2669 Mercoledì 11, primo anniversario della tragedia che ha colpito al cuore l’America e che tutti abbiamo ancora davanti ai nostri occhi, anche l’Umbria ha ricordato le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York. In modi diversi e con accenti diversi, da Forza Italia alla Margherita, che hanno scelto l’una Assisi, l’altra Orvieto per iniziative a carattere nazionale; dalla presidente della regione Maria Rita Lorenzetti ai Vescovi Giuseppe Chiaretti a Perugia e Vincenzo Paglia a Terni. E infine il cuore degli umbri, che si sono uniti al dolore delle famiglie colpite e di tutti gli americani segnati da quella terrificante giornata. L’Umbria delle Istituzioni e delle Forze del’ordine si è ritrovata a commemorare l’11 settembre con i pompieri di Perugia e di Terni che hanno chiesto di celebrare una messa per commemorare i loro colleghi americani. Alla celebrazione a Perugia erano presenti, tra gli altri, la presidente della Regione, Maria Rita Lorenzetti, il prefetto di Perugia, Gianlorenzo Fiore, e rappresentanti di carabinieri, polizia, guardia di finanza e Croce rossa. Vigili del fuoco in divisa si sono schierati a fianco dell’altare, con una bandiera italiana listata a lutto. L’arcivescovo mons. Giuseppe Chiaretti, ricordando tutte le vittime innocenti di quel giorno, ha sottolineato come non può esserci pace dove vengano meno i diritti universalmente riconosciuti della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, e ha ribadito, ricordando il salmo, che Dio “ama il diritto e la giustizia”, elementi indispensabile per ogni forma di umana convivenza e per evitare che tragedie simili si ripetano in futuro. Al termine della celebrazione un rappresentante dei vigili del fuoco ha recitato la preghiera del loro Corpo che, invocando l’intercessione di santa Barbara, loro patrona, chiede a Dio forza, aiuto e protezione per far fronte alle diverse situazioni in cui essi si vengono a trovare. Nella cattedrale di Terni, presenti le autorità locali, la messa è stata celebrata dal vicario generale mons. Antonio Maniero che ha ricordato come la Chiesa ha reagito all’evento: invitando alla preghiera e al digiuno per la pace, fino alla giornata del 24 gennaio scorso ad Assisi e ai ripetuti appelli del Papa. Ha rivolto un saluto ai presenti il vescovo mons.Vincenzo Paglia, appena tornato dal Libano dove si è svolto il congresso biblico mondiale, di cui è stato recentemente nominato presidente. “Molti mi hanno sconsigliato di farlo, ma sono tornato in aereo oggi, 11 settembre, perché volevo essere qui con voi per questa preghiera” ha detto mons. Paglia. Anche dalla basilica di San Francesco ad Assisi, si è levata la preghiera in suffragio delle vittime di un anno fa. “Siamo qui per ricordare quel tragico evento – padre Vincenzo Coli, custode del Sacro convento – e per sottolineare che bisogna aprirsi all’altro, non rinchiudersi in se stessi”. “occorre anche mettere da parte l’idolo dell’invincibilità per far tornare la gioia e la speranza”. Ad Orvieto, alla festa nazionale della Margherita applausi e commozione in sala, prima di celebrare un minuto di silenzio per tutte le vittime delle torri di New York, con la poesia di Mario Luzi che Carla Fracci, con a fianco il poeta, ha letto sul palco.”Dimettete la vostra alterigia sorelle di opulenza, gemelle di dominanza, cessate di torreggiare nel lutto e nel compianto dopo il crollo e la voragine, dopo lo scempio”. “Vi ha una fede sanguinosa – continua così la lirica di Luzi – in un attimo ridotte a niente. Sia umile e dolente, non sia furibondo lo strazio dell’ecatombe. Si sono mescolati in quella frenesia di morte dell’estremo affronto i sangui, l’arabo, l’ebreo, il cristiano, l’indio. E ora vi richiamerà qualcuno ai vostri fasti. Risorgete, risorgete, non più torri, ma steli, gigli di preghiera. Avvenga per desiderio di pace. Di pace vera”. “Per non dimenticare” è stato lo slogan del ‘sit-in’ organizzato nel centro storico di Perugia da An e da Azione Giovani per ricordare i tragici eventi di New York dell’anno scorso. All’iniziativa hanno partecipato anche il presidente di An, Andrea Lignani, e il consigliere regionale Pietro Laffranco, della direzione nazionale del partito. Assisi potrebbe essere la città della memoria dell’11 settembre. La proposta è stata presentata, con la convinta adesione del sindaco Bartolini, nel corso del convegno nazionale promosso da Forza Italia ad Assisi, lunedì scorso sul tema “11 settembre un anno dopo. Globalizzare la libertà sconfiggere il terrorismo”. Il convegno è stato voluto “per ricordare”, perché l’impressione ha detto l’ex ministro dell’Interno Claudio Scaiola presente, a sorpresa, è che si dimentichi cosa è accaduto un anno fa e si allenti l’impegno di lotta al terrorismo. L’on. Sandro Bondi, responsabile nazionale Dipartimenti di F.I, organizzatore del convegno ha ribadito la solidarietà agli Stati Uniti ricordando che il terrorismo “non può accampare giustificazioni” ma, ha aggiunto, non capire che “trae alimento dalle sacche di povertà e disperazione significa chiudere gli occhi”. Significativi gli interventi dei relatori, tra cui Lorenzo Ornaghi, Rettore dell’Università Cattolica, che ha affrontato la questione del rapporto tra economia e politica e sulla “governance” della globalizzazione. “Anche in settori liberali la globalizzazione è vista come fattore di costrizione e non come scelta di libertà” – ha detto Ornaghi, indicando uno dei punti oggetto di dibattito e sui quali si differenzia la politica Usa e Dell’Europa. Questo ‘dopo 11 settembre’ ha concluso Ornaghi è segnato dalla necessità di “governance politica” della globalizzazione, ovvero dalla necessità di un ordine internazionale stabile che richiede Istituzioni stabili. Parole dietro cui “occorre ricordare che ci sono persone, le classi politiche dirigenti nazionali” alle quali occorre un “supplemento di cultura” per poter indicare i nuovi obiettivi della politica. Sul cosa fare, dunque, si è sviluppato il dibattito: da Piero Gheddo, che ha riproposto la cultura come motore dello sviluppo, a Adornato che ha chiesto all’Europa un più chiaro impegno nella lotta al terrorismo indicando nella “questione Irak” un punto su cui decidere se l’Europa vuole che l’Onu debba poter fare o no le ispezioni per il controllo delle armi di distruzione di massa.

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No alla guerra! https://www.lavoce.it/no-alla-guerra/ Thu, 13 Sep 2001 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=1507 Un prete americano, a Perugia per studiare l’italiano, ha detto che i cittadini degli Stati Uniti, compresi i suoi parrocchiani, dopo l’immenso dolore e l’umiliazione subita per l’attacco terroristico, attendono la vendetta e sperano che sia dura. Ed ha raccolto in preghiera studenti italiani e stranieri, anche palestinesi cristiani, per ricordare le vittime e invocare la pace. Il pericolo che questa tragedia comporta è quello di cedere al senso di impotenza, rassegnazione, chiusura e demonizzazione generalizzata del mondo islamico da cui si pensa che provenga la minaccia del terrorismo. Sarebbe un cedimento alle mire distruttrici di coloro che vogliono mettere in ginocchio, insieme alla potenza economica, anche le conquiste di civiltà e di democrazia raggiunte con sacrificio e secoli di lotte in Occidente. Ed è pure un’illusione credere che si possa garantire la difesa della vita, della sicurezza e del progresso, solo attraverso il ricorso alle armi, chiudendo i canali della diplomazia e di quella necessaria mediazione che compete agli organismi internazionali troppe volte, anche recentemente e violentemente, contrastati e contestati, pur rappresentando un netto salto qualitativo nel processo di sviluppo civile della storia umana. A queste istituzioni, a partire dall’Onu, devono essere affidate le gravi questioni conflittuali che sorgono tra Stato e Stato in modo da approdare a composizioni pacifiche. Su questo punto anche l’Occidente, che oggi piange, ha le sue colpe, se si pensa alle risoluzioni dell’Onu non osservate nel vicino oriente. Una strada difficile, ma non ci sono altre vie percorribili, tranne la tragedia della guerra o della violenza terroristica. Dal punto di vista culturale, inoltre, si deve provocare il dialogo tra le culture in modo da “contaminare” i mondi dell’intolleranza e aiutarli a entrare nella logica di un umanesimo per cui la persona umana, ogni persona umana, anche quella del nemico e del colpevole, deve essere considerata “indisponibile” nella sua esistenza e nella sua dignità ad ogni potere umano e per ogni ragione politica. Nessun uomo di normale buon senso può considerare legittimo colpire l’innocente, l’inerme, i bambini, donne, vecchi, persone che non sanno niente del perché si spara o si mette la bomba, che non ha compiuto nessun atto contro quel determinato individuo o paese. E’ insensato anche giustificare il terrorismo con motivazioni patriottiche o religiose. I kamikaze non sono eroi e tanto meno martiri. Sono soltanto degli assassini pieni di odio, resi capaci, attraverso una forma patologica di indottrinamento, di uccidere e di distruggere la loro stessa vita. Il martire è colui che subisce la violenza, non voluta e deprecata, cercando prima di tutto di evitarla (Se vi perseguitano in una città, dice Gesù, fuggite in un’altra), o sacrificando per amore la propria vita, al posto di un altro, come ha fatto Massimiliano Kolbe, che si è offerto alla morte in un lager nazista al posto di un padre di famiglia. I kamikaze coinvolgono Dio e la religione in un’azione violenta, infangando il nome di Dio e della religione e ponendo le basi per un “sano ateismo” rispettoso dell’umanità, che può essere più dignitoso di una religiosità impazzita. Dio è un nome di pace e la religione autentica è una via di amore e una legge di rispetto della vita (Non uccidere!, è scritto nella Bibbia).

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