storia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/storia/ Settimanale di informazione regionale Thu, 08 Sep 2022 17:31:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg storia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/storia/ 32 32 I Patti lateranensi a 150 anni da Porta Pia https://www.lavoce.it/patti-lateranensi-150-anni/ Fri, 14 Feb 2020 12:19:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56294 patti lateranensi

di Francesco Bonini

Quest’anno la ricorrenza dei Patti lateranensi (e della revisione del Concordato firmata nel 1984) tra l’11 e il 18 febbraio assume un significato particolare.

Non perché ci siano fatti nuovi o questioni conflittuali in agenda. Il tono delle relazioni tra Italia e Santa Sede è assai positivo. Ma perché coincide con un anniversario tondo, i centocinquant’anni della breccia di Porta Pia, ovvero la fine del potere temporale dei Papi e Roma capitale d’Italia.

Città, Roma, che nel 1929 è diventata capitale di due stati, con la costituzione della Città del Vaticano, uno straordinario unicum mondiale che Gerusalemme non riesce ad imitare.

È solo un fazzoletto di terra, meramente simbolico, per garantire, con l’attribuzione di una reale sovranità, l’autonomia e l’indipendenza del Papa e della Santa Sede, come sua struttura di servizio per la Chiesa nel mondo.

L’unità d’Italia, che si compie appunto centocinquanta anni fa, è un grande fatto italiano ed europeo, un evento “provvidenziale”, ha ripetuto Papa Francesco, citando i suoi predecessori, nel messaggio in occasione dell’apertura delle celebrazioni. E ha aggiunto: “Spesso la dimenticanza della storia si accompagna alla poca speranza di un domani migliore e alla rassegnazione nel costruirlo. Assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune”.

In questo senso il processo iniziato nel 1870 si completa nel 1929, quando si chiude la “questione romana” con il riconoscimento di un quadro plurale, realizzando, a dispetto del totalitarismo fascista che si stava consolidando, un assetto originale e a suo modo “provvidenziale”, come disse a sua volta Papa Pio XI, che tra l’altro garantì la Santa Sede nei giorni plumbei della guerra. Ma il passaggio decisivo, che ci porta all’impegno che oggi ci sta dinanzi, avviene con la Costituzione della Repubblica e il 1984.

Anche in modo prospettico può essere utile ricordare due articoli di quell’Accordo. Nel primo e fondamentale si afferma che Repubblica e Santa Sede, Stato e Chiesa si impegnano “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. Impegno che però non può essere solo una affermazione di principio. Prenderlo sul serio significa chiedersi cosa significa oggi promozione della persona e bene del Paese.

Cosa significa in termini concreti di politiche pubbliche, quelle attese per ridare spinta ad una società invecchiata e depressa.

Articolare risposte comporta anche una soggettività nuova da parte dei “cattolici, le loro associazioni e organizzazioni”, esplicitamente citati all’articolo 3. Interrogarsi sul perché di una sostanziale afasia, o di un rincantucciarsi solo su alcuni temi, può essere utile per invece aprire ad una nuova stagione, a nuove forme di una interlocuzione pubblica, aperta, dialogica e plurale, ma strutturata e organizzata, che tanto bene potrebbe fare. Per darsi una mossa e articolare risposte a troppe domande inevase che circolano nella nostra società.

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patti lateranensi

di Francesco Bonini

Quest’anno la ricorrenza dei Patti lateranensi (e della revisione del Concordato firmata nel 1984) tra l’11 e il 18 febbraio assume un significato particolare.

Non perché ci siano fatti nuovi o questioni conflittuali in agenda. Il tono delle relazioni tra Italia e Santa Sede è assai positivo. Ma perché coincide con un anniversario tondo, i centocinquant’anni della breccia di Porta Pia, ovvero la fine del potere temporale dei Papi e Roma capitale d’Italia.

Città, Roma, che nel 1929 è diventata capitale di due stati, con la costituzione della Città del Vaticano, uno straordinario unicum mondiale che Gerusalemme non riesce ad imitare.

È solo un fazzoletto di terra, meramente simbolico, per garantire, con l’attribuzione di una reale sovranità, l’autonomia e l’indipendenza del Papa e della Santa Sede, come sua struttura di servizio per la Chiesa nel mondo.

L’unità d’Italia, che si compie appunto centocinquanta anni fa, è un grande fatto italiano ed europeo, un evento “provvidenziale”, ha ripetuto Papa Francesco, citando i suoi predecessori, nel messaggio in occasione dell’apertura delle celebrazioni. E ha aggiunto: “Spesso la dimenticanza della storia si accompagna alla poca speranza di un domani migliore e alla rassegnazione nel costruirlo. Assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune”.

In questo senso il processo iniziato nel 1870 si completa nel 1929, quando si chiude la “questione romana” con il riconoscimento di un quadro plurale, realizzando, a dispetto del totalitarismo fascista che si stava consolidando, un assetto originale e a suo modo “provvidenziale”, come disse a sua volta Papa Pio XI, che tra l’altro garantì la Santa Sede nei giorni plumbei della guerra. Ma il passaggio decisivo, che ci porta all’impegno che oggi ci sta dinanzi, avviene con la Costituzione della Repubblica e il 1984.

Anche in modo prospettico può essere utile ricordare due articoli di quell’Accordo. Nel primo e fondamentale si afferma che Repubblica e Santa Sede, Stato e Chiesa si impegnano “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. Impegno che però non può essere solo una affermazione di principio. Prenderlo sul serio significa chiedersi cosa significa oggi promozione della persona e bene del Paese.

Cosa significa in termini concreti di politiche pubbliche, quelle attese per ridare spinta ad una società invecchiata e depressa.

Articolare risposte comporta anche una soggettività nuova da parte dei “cattolici, le loro associazioni e organizzazioni”, esplicitamente citati all’articolo 3. Interrogarsi sul perché di una sostanziale afasia, o di un rincantucciarsi solo su alcuni temi, può essere utile per invece aprire ad una nuova stagione, a nuove forme di una interlocuzione pubblica, aperta, dialogica e plurale, ma strutturata e organizzata, che tanto bene potrebbe fare. Per darsi una mossa e articolare risposte a troppe domande inevase che circolano nella nostra società.

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Il racconto del padre di Benedetta Pilato, medaglia ai Mondiali di nuoto https://www.lavoce.it/padre-benedetta-pilato-nuoto/ Fri, 02 Aug 2019 12:08:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55056 Pilato

Quattordici anni e mezzo. Lo ripete Benedetta Pilato. “Ho quattordici anni e mezzo”. Ed è proprio quel “mezzo”, a tradirla. A dispetto della maturità con cui risponde alle domande dei cronisti. Benedetta Pilato, tarantina del 2005, si è vista catapultata su giornali, riviste, tg, per aver conquistato l’argento ai Mondiali di nuoto in Corea del Sud.

Cinquanta metri, stile rana. Questa la sua specialità. Quattordici centesimi di secondo l’hanno divisa dal suo idolo, la pluripremiata Lilly King, che ha raccolto un altro oro. Che si aspettava, che si aspettavano. Ma da lei no. Dalla ragazzina venuta dalla provincia, magari ci si attendeva un buon tempo ma non un record né un argento.

Ecco allora che la festa è tutta per Benedetta, la sorpresa azzurra, che prima ancora di gareggiare ai Mondiali juniores, si ritrova sul podio di quelli “veri”, di Mondiali. Benedetta ha un sorriso che illumina le giornate grigie. A Talsano, borgata di Taranto, dove vive con la madre, il padre ed un fratellino più piccolo, raramente vede foschia. Il sole fa capolino tutto l’anno e le accende il viso acerbo, la carnagione chiara, gli occhi grandi che curiosano nel mondo.

“È nata una nuova stella nel firmamento del nuoto italiano”, dicono in coro i giornalisti sportivi. Neanche Federica Pellegrini era riuscita a fare di meglio. A quell’età e con quei tempi. Benedetta se la gode ma con la testa pensa già ai prossimi traguardi.

Chiacchierando con il padre, Salvatore, mentre attende che passino in fretta le dodici ore di volo di ritorno che lo separano dall’abbraccio con la sua bambina, si capisce da chi abbia preso Benedetta. Grandi aspirazioni ma piedi ben piantati a terra.

“Direi che è un buon inizio ma è presto per parlare di carriera - dice il papà dell’argento mondiale - e non voglio che si elogi solo mia figlia. I ragazzi che fanno nuoto sono tutti così, dalle Olimpiadi alle gare in provincia: fanno sacrifici immani, diventano grandi subito, vivono di cloro, palestra, non conoscono sabato sera a far tardi. È un peccato che questo sport sia pubblicizzato solo quando ci sono eventi del genere”.

Con Benedetta, Salvatore non ci ha ancora parlato. La figlia, a dispetto dei suoi quattordici anni e mezzo, è allergica ai messaggini. “Risponde poco nelle chat. Ha scambiato qualche parola solo con la madre. Era contenta, emozionata.

Non è pienamente consapevole di quanto stia accadendo al di fuori, dell’improvvisa attenzione mediatica. Cercherò di tenerla lontana da queste cose qui. È così piccola, bisogna che faccia un passo alla volta”.

Il padre, amante del nuoto e dell’agonismo, con lo sport ha smesso una volta iniziato il liceo. “Lei no. Lo studio resta prioritario ma si allena in vasca 2 ore e mezzo al giorno e tre volte a settimana ci unisce anche un’ora di palestra. Segue poi un regime alimentare controllato da un medico. Non è facile conciliare tutto con la scuola ma lei continua e ci tiene”.

La storia di Benedetta Pilato è bella anche per un altro motivo: la sua passione, la sua attitudine, sono il frutto di una prova, del dolore di una situazione inattesa. “È nata con la lussazione dell’anca. Abbiamo dovuto sottoporla ad un intervento che era piccolissima. Per tanto tempo - ricorda Salvatore - ha portato un’ingessatura. Il primario di Bologna che la operò, ci disse che per stare bene doveva vivere in acqua. Così la scelta della piscina. Lei all’inizio non era molto contenta. Alle prime gare a cui la iscrivemmo andava in ansia.

Arrivavamo sul posto e tornavamo a casa, senza che riuscisse a buttarsi in vasca. Poi le è scattato un click e dal pianto è passata al sorriso. Lo fa. Lei è così. Ricordo all’asilo. I primi tempi disperata, non voleva lasciarci. Poi da un giorno all’altro ha cominciato a salutarci felice”. Così dalla malattia, dalla difficoltà, è venuto fuori un talento.

Misteri che chi crede potrebbe considerare “segni” di una Storia più grande, altri potrebbe chiamarlo destino o resilienza. Intanto da domenica Benedetta Pilato è ufficialmente entrata nella leggenda dello sport italiano e nel cuore di chi, guardando il suo viso pulito in diretta tv, ha riconosciuto quell’Italia bella, per cui varrà sempre la pena lottare.

Marina Luzzi

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Pilato

Quattordici anni e mezzo. Lo ripete Benedetta Pilato. “Ho quattordici anni e mezzo”. Ed è proprio quel “mezzo”, a tradirla. A dispetto della maturità con cui risponde alle domande dei cronisti. Benedetta Pilato, tarantina del 2005, si è vista catapultata su giornali, riviste, tg, per aver conquistato l’argento ai Mondiali di nuoto in Corea del Sud.

Cinquanta metri, stile rana. Questa la sua specialità. Quattordici centesimi di secondo l’hanno divisa dal suo idolo, la pluripremiata Lilly King, che ha raccolto un altro oro. Che si aspettava, che si aspettavano. Ma da lei no. Dalla ragazzina venuta dalla provincia, magari ci si attendeva un buon tempo ma non un record né un argento.

Ecco allora che la festa è tutta per Benedetta, la sorpresa azzurra, che prima ancora di gareggiare ai Mondiali juniores, si ritrova sul podio di quelli “veri”, di Mondiali. Benedetta ha un sorriso che illumina le giornate grigie. A Talsano, borgata di Taranto, dove vive con la madre, il padre ed un fratellino più piccolo, raramente vede foschia. Il sole fa capolino tutto l’anno e le accende il viso acerbo, la carnagione chiara, gli occhi grandi che curiosano nel mondo.

“È nata una nuova stella nel firmamento del nuoto italiano”, dicono in coro i giornalisti sportivi. Neanche Federica Pellegrini era riuscita a fare di meglio. A quell’età e con quei tempi. Benedetta se la gode ma con la testa pensa già ai prossimi traguardi.

Chiacchierando con il padre, Salvatore, mentre attende che passino in fretta le dodici ore di volo di ritorno che lo separano dall’abbraccio con la sua bambina, si capisce da chi abbia preso Benedetta. Grandi aspirazioni ma piedi ben piantati a terra.

“Direi che è un buon inizio ma è presto per parlare di carriera - dice il papà dell’argento mondiale - e non voglio che si elogi solo mia figlia. I ragazzi che fanno nuoto sono tutti così, dalle Olimpiadi alle gare in provincia: fanno sacrifici immani, diventano grandi subito, vivono di cloro, palestra, non conoscono sabato sera a far tardi. È un peccato che questo sport sia pubblicizzato solo quando ci sono eventi del genere”.

Con Benedetta, Salvatore non ci ha ancora parlato. La figlia, a dispetto dei suoi quattordici anni e mezzo, è allergica ai messaggini. “Risponde poco nelle chat. Ha scambiato qualche parola solo con la madre. Era contenta, emozionata.

Non è pienamente consapevole di quanto stia accadendo al di fuori, dell’improvvisa attenzione mediatica. Cercherò di tenerla lontana da queste cose qui. È così piccola, bisogna che faccia un passo alla volta”.

Il padre, amante del nuoto e dell’agonismo, con lo sport ha smesso una volta iniziato il liceo. “Lei no. Lo studio resta prioritario ma si allena in vasca 2 ore e mezzo al giorno e tre volte a settimana ci unisce anche un’ora di palestra. Segue poi un regime alimentare controllato da un medico. Non è facile conciliare tutto con la scuola ma lei continua e ci tiene”.

La storia di Benedetta Pilato è bella anche per un altro motivo: la sua passione, la sua attitudine, sono il frutto di una prova, del dolore di una situazione inattesa. “È nata con la lussazione dell’anca. Abbiamo dovuto sottoporla ad un intervento che era piccolissima. Per tanto tempo - ricorda Salvatore - ha portato un’ingessatura. Il primario di Bologna che la operò, ci disse che per stare bene doveva vivere in acqua. Così la scelta della piscina. Lei all’inizio non era molto contenta. Alle prime gare a cui la iscrivemmo andava in ansia.

Arrivavamo sul posto e tornavamo a casa, senza che riuscisse a buttarsi in vasca. Poi le è scattato un click e dal pianto è passata al sorriso. Lo fa. Lei è così. Ricordo all’asilo. I primi tempi disperata, non voleva lasciarci. Poi da un giorno all’altro ha cominciato a salutarci felice”. Così dalla malattia, dalla difficoltà, è venuto fuori un talento.

Misteri che chi crede potrebbe considerare “segni” di una Storia più grande, altri potrebbe chiamarlo destino o resilienza. Intanto da domenica Benedetta Pilato è ufficialmente entrata nella leggenda dello sport italiano e nel cuore di chi, guardando il suo viso pulito in diretta tv, ha riconosciuto quell’Italia bella, per cui varrà sempre la pena lottare.

Marina Luzzi

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Lo sbarco sulla Luna, visto dalla spiaggia https://www.lavoce.it/sbarco-luna-spiaggia/ Fri, 26 Jul 2019 09:48:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55010 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Tutti a ricordare dov’erano e cosa facevano il giorno dello sbarco sulla Luna. Non mi sottraggo, perché è soprattutto un modo per riavere accanto persone, rivivere atmosfere, riannodare legami fortunatamente mai sciolti. A dispetto del tempo. Quella domenica soleggiata che fu il 20 luglio di 50 anni fa per me, allora tredicenne, è l’eterno, inconfondibile sorriso rasserenante di mio zio Giancarlo e la sua 500 verde acqua: quello era il ‘modulo’ con cui, in un viaggio tortuoso cominciato alle 5.30 di mattina, raggiungemmo dopo oltre quattro ore la nostra ‘Luna’. Era la spiaggia di Marotta, dove ad aspettarci c’era il resto della famiglia di Giancarlo e altri amici comuni.

Ricordo che durante il percorso, e anche dopo, sotto l’ombrellone, uno sguardo ogni tanto alla Luna lo buttavo. Ma lei, la Luna, era quella di sempre; allora ci concentrammo, con molto più entusiasmo, sulla frittura di pesce. Risate, bagni, il solleone, il cocomero fresco: cambiava la Storia, in quella domenica al mare. Non cambiavano le persone, gli affetti, i sentimenti. Si può andare lontanissimo per incontrarsi ancora e ancora, ci si può lasciare per brevi o lunghi periodi, ma quello che conta è il cuore: è dentro questo muscolo pieno di emozioni e ricordi che Giancarlo, andato troppo presto lontanissimo da noi, e tutti quelli a cui vogliamo bene, continuano a sorriderci.

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lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Tutti a ricordare dov’erano e cosa facevano il giorno dello sbarco sulla Luna. Non mi sottraggo, perché è soprattutto un modo per riavere accanto persone, rivivere atmosfere, riannodare legami fortunatamente mai sciolti. A dispetto del tempo. Quella domenica soleggiata che fu il 20 luglio di 50 anni fa per me, allora tredicenne, è l’eterno, inconfondibile sorriso rasserenante di mio zio Giancarlo e la sua 500 verde acqua: quello era il ‘modulo’ con cui, in un viaggio tortuoso cominciato alle 5.30 di mattina, raggiungemmo dopo oltre quattro ore la nostra ‘Luna’. Era la spiaggia di Marotta, dove ad aspettarci c’era il resto della famiglia di Giancarlo e altri amici comuni.

Ricordo che durante il percorso, e anche dopo, sotto l’ombrellone, uno sguardo ogni tanto alla Luna lo buttavo. Ma lei, la Luna, era quella di sempre; allora ci concentrammo, con molto più entusiasmo, sulla frittura di pesce. Risate, bagni, il solleone, il cocomero fresco: cambiava la Storia, in quella domenica al mare. Non cambiavano le persone, gli affetti, i sentimenti. Si può andare lontanissimo per incontrarsi ancora e ancora, ci si può lasciare per brevi o lunghi periodi, ma quello che conta è il cuore: è dentro questo muscolo pieno di emozioni e ricordi che Giancarlo, andato troppo presto lontanissimo da noi, e tutti quelli a cui vogliamo bene, continuano a sorriderci.

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Cinquant’anni fa lo sbarco sulla Luna. Tra gli italiani incollati davanti al televisore, c’era Paolo VI https://www.lavoce.it/sbarco-luna-paolo-vi/ Sat, 20 Jul 2019 10:00:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54951 Paolo VI

Si chiama Gary George, e nel lontano 1976 stava facendo uno stage alla Nasa. Il giorno che trovò uno stock di videocassette dal contenuto sconosciuto e le acquistò di getto, senza avere l’attrezzatura necessaria per visionarle, non avrebbe mai pensato di imbattersi in un tesoro.

Tre delle cassette, infatti, riportavano la dicitura “Apollo 11 EVA”, l’indicazione ufficiale che la Nasa utilizzava per lo sbarco sulla Luna. “Conservale, potrebbero valere molto in futuro” fu il consiglio del padre, il primo ad accorgersi di cosa suo figlio avesse per le mani.

Lo stock, mille videocassette in tutto, George se lo è aggiudicato per un totale di 218 dollari. Oggi uno di questi nastri potrebbe fargli guadagnare oltre 2 milioni di dollari. Questa è la cifra stimata per l’asta che si terrà proprio il 20 luglio da Sotheby’s, 50 anni dopo l’allunaggio.

Segno di quanto quel giorno d’estate del 1969, anche nell’Era in cui ci si prepara ad andare su Marte, sia ancora vivo nel ricordo di tutti: chi c’era allora, si ricorda ancora cosa stesse facendo in quel preciso momento.

Paolo VI davanti alla tv

Circa 600 milioni di persone in tutto il mondo hanno seguito la diretta televisiva dell’allunaggio. Oltre 20 milioni erano italiani. Tra loro, anche il Papa. Paolo VI si era recato verso le 22 di domenica 20 luglio alla Specola di Castel Gandolfo, dove aveva osservato la Luna attraverso il telescopio e ascoltato alcune informazioni scientifiche dall’allora direttore dell’osservatorio astronomico vaticano, padre O’ Connell.

Poi aveva seguito davanti al televisore le fasi dell’atterraggio con il sostituto della segreteria di Stato, mons. Benelli.

“È un piccolo passo per un uomo, ma un passo gigantesco per l’umanità”, le parole pronunciate da Armstrong appena scesa la scaletta del Lem e dopo aver posto il primo piede sul suolo lunare.

Poi la passeggiata lunare di Armstrong e Aldrin (Collins era rimasto in orbita lunare) che lasciarono sulla Luna una targa commemorativa: “Qui uomini del pianeta Terra per la prima volta posarono il piede sulla Luna. Siamo venuti in pace per tutta l’umanità”.

Pochi minuti dopo l’approdo del Lem, Papa Montini inviava ai protagonisti questo messaggio: “Onore, saluto e benedizione a voi, conquistatori della Luna, pallida luce delle nostre notti e dei nostri sogni! Portate ad essa, con la vostra viva presenza, la voce dello spirito, l’inno a Dio, nostro Creatore e nostro Padre”.

Ebbrezza e pace

Non fu l’unico intervento del Pontefice per la storica impresa. La domenica precedente aveva invitato tutti i fedeli a pregare per gli astronauti dell’Apollo 11, e domenica 20 luglio all’ Angelus, sempre da Castelgandolfo, aveva auspicato che la conquista dello spazio significasse anche un vero progresso per l’umanità afflitta da guerre - tra le altre, allora, nel Vietnam - e della fame, sostenendo la necessità di non dimenticare, “nell’ebbrezza di questo giorno fatidico”, il bisogno e il dovere che “l’uomo ha di dominare se stesso “.

Paolo VI avrebbe poi ricevuto in udienza Armstrong e i suoi due colleghi in visita a Roma - città natale, tra l’altro, di Collins - il 16 ottobre 1969. “Con la più grande gioia nel cuore diamo il benvenuto a voi, che superando le barriere dello spazio, avete messo piede su un altro mondo del creato” suonò il saluto del Pontefice ai due astronauti, accompagnati dalle rispettive mogli e dai funzionari della Nasa.

E ancora: “L’uomo ha la tendenza naturale ad esplorare l’incognito, a conoscere il mistero; ma l’uomo ha anche timore dell’incognito. Il vostro coraggio ha superato questo timore e, con la vostra intrepida avventura, l’uomo ha compiuto un altro passo verso una maggiore conoscenza dell’universo: con le sue parole, signor Armostrong: un passo gigante per l’umanità”.

Gli astronauti regalarono al Papa la riproduzione della targa lasciata sulla Luna e il microfilm con i messaggi dello stesso Santo Padre e dei Capi di Stato, ugualmente lasciati sul suono lunare. Dopo l’udienza Armstrong, Aldrin e Collins tennero una conferenza nell’aula del Sinodo dei vescovi, la cui assemblea straordinaria si svolgeva proprio in quei giorni.

In diretta, Francesco

Quasi cinquant’anni dopo, Papa Francesco, nel 2017, si è collegato in diretta video con gli astronauti della spedizione 5253, guidata da Paolo Nespoli. “Siete un piccolo Palazzo di vetro”, le parole di Bergoglio in un colloquio a domande e risposte sulle questioni chiave dell’umanità: “Rappresentate tutta la famiglia umana nel grande progetto di ricerca che è la stazione spaziale”.

“La cosmologia moderna - parole di Benedetto XVI agli astronomi di tutto il mondo – ci ha mostrato che né noi né la Terra su cui viviamo siamo il centro dell’universo, composto da miliardi di galassie, ognuna delle quali con miriadi di stelle e pianeti”.

Se c’è un filo rosso che lega i Pontefici moderni nel contemplare con sguardo di fede l’universo, è ilmysterium lunae che i teologi antichi consideravano caratteristico “non solo dell’identità della Chiesa, ma di ognuno di noi - come ha spiegato Papa Francesco nell’udienza generale del 10 aprile scorso. - Questo è il mistero della luna; amiamo anzitutto perché siamo stati amati, perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno”.

La luna al Concilio

Giovanni Paolo II aveva usato la stessa immagine nell’omelia della messa con cui ha concluso il Giubileo del 2000: “Nella teologia patristica si amava parlare della Chiesa come mysterium lunae per sottolineare che essa, come la luna, non brilla di luce propria, ma riflette Cristo, il suo Sole”. Il sole e la luna, Cristo e la Chiesa.

Torna alla memoria il celeberrimo discorso “della luna” pronunciato braccio da Giovanni XXIII all’apertura del Concilio, in una piazza San Pietro irrorata dal chiarore del satellite: “Tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: è la carezza del Papa”. La Luna, allora come oggi, continua a ispirarci. Nella fede come nella scienza.

M. Michela Nicolais

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Paolo VI

Si chiama Gary George, e nel lontano 1976 stava facendo uno stage alla Nasa. Il giorno che trovò uno stock di videocassette dal contenuto sconosciuto e le acquistò di getto, senza avere l’attrezzatura necessaria per visionarle, non avrebbe mai pensato di imbattersi in un tesoro.

Tre delle cassette, infatti, riportavano la dicitura “Apollo 11 EVA”, l’indicazione ufficiale che la Nasa utilizzava per lo sbarco sulla Luna. “Conservale, potrebbero valere molto in futuro” fu il consiglio del padre, il primo ad accorgersi di cosa suo figlio avesse per le mani.

Lo stock, mille videocassette in tutto, George se lo è aggiudicato per un totale di 218 dollari. Oggi uno di questi nastri potrebbe fargli guadagnare oltre 2 milioni di dollari. Questa è la cifra stimata per l’asta che si terrà proprio il 20 luglio da Sotheby’s, 50 anni dopo l’allunaggio.

Segno di quanto quel giorno d’estate del 1969, anche nell’Era in cui ci si prepara ad andare su Marte, sia ancora vivo nel ricordo di tutti: chi c’era allora, si ricorda ancora cosa stesse facendo in quel preciso momento.

Paolo VI davanti alla tv

Circa 600 milioni di persone in tutto il mondo hanno seguito la diretta televisiva dell’allunaggio. Oltre 20 milioni erano italiani. Tra loro, anche il Papa. Paolo VI si era recato verso le 22 di domenica 20 luglio alla Specola di Castel Gandolfo, dove aveva osservato la Luna attraverso il telescopio e ascoltato alcune informazioni scientifiche dall’allora direttore dell’osservatorio astronomico vaticano, padre O’ Connell.

Poi aveva seguito davanti al televisore le fasi dell’atterraggio con il sostituto della segreteria di Stato, mons. Benelli.

“È un piccolo passo per un uomo, ma un passo gigantesco per l’umanità”, le parole pronunciate da Armstrong appena scesa la scaletta del Lem e dopo aver posto il primo piede sul suolo lunare.

Poi la passeggiata lunare di Armstrong e Aldrin (Collins era rimasto in orbita lunare) che lasciarono sulla Luna una targa commemorativa: “Qui uomini del pianeta Terra per la prima volta posarono il piede sulla Luna. Siamo venuti in pace per tutta l’umanità”.

Pochi minuti dopo l’approdo del Lem, Papa Montini inviava ai protagonisti questo messaggio: “Onore, saluto e benedizione a voi, conquistatori della Luna, pallida luce delle nostre notti e dei nostri sogni! Portate ad essa, con la vostra viva presenza, la voce dello spirito, l’inno a Dio, nostro Creatore e nostro Padre”.

Ebbrezza e pace

Non fu l’unico intervento del Pontefice per la storica impresa. La domenica precedente aveva invitato tutti i fedeli a pregare per gli astronauti dell’Apollo 11, e domenica 20 luglio all’ Angelus, sempre da Castelgandolfo, aveva auspicato che la conquista dello spazio significasse anche un vero progresso per l’umanità afflitta da guerre - tra le altre, allora, nel Vietnam - e della fame, sostenendo la necessità di non dimenticare, “nell’ebbrezza di questo giorno fatidico”, il bisogno e il dovere che “l’uomo ha di dominare se stesso “.

Paolo VI avrebbe poi ricevuto in udienza Armstrong e i suoi due colleghi in visita a Roma - città natale, tra l’altro, di Collins - il 16 ottobre 1969. “Con la più grande gioia nel cuore diamo il benvenuto a voi, che superando le barriere dello spazio, avete messo piede su un altro mondo del creato” suonò il saluto del Pontefice ai due astronauti, accompagnati dalle rispettive mogli e dai funzionari della Nasa.

E ancora: “L’uomo ha la tendenza naturale ad esplorare l’incognito, a conoscere il mistero; ma l’uomo ha anche timore dell’incognito. Il vostro coraggio ha superato questo timore e, con la vostra intrepida avventura, l’uomo ha compiuto un altro passo verso una maggiore conoscenza dell’universo: con le sue parole, signor Armostrong: un passo gigante per l’umanità”.

Gli astronauti regalarono al Papa la riproduzione della targa lasciata sulla Luna e il microfilm con i messaggi dello stesso Santo Padre e dei Capi di Stato, ugualmente lasciati sul suono lunare. Dopo l’udienza Armstrong, Aldrin e Collins tennero una conferenza nell’aula del Sinodo dei vescovi, la cui assemblea straordinaria si svolgeva proprio in quei giorni.

In diretta, Francesco

Quasi cinquant’anni dopo, Papa Francesco, nel 2017, si è collegato in diretta video con gli astronauti della spedizione 5253, guidata da Paolo Nespoli. “Siete un piccolo Palazzo di vetro”, le parole di Bergoglio in un colloquio a domande e risposte sulle questioni chiave dell’umanità: “Rappresentate tutta la famiglia umana nel grande progetto di ricerca che è la stazione spaziale”.

“La cosmologia moderna - parole di Benedetto XVI agli astronomi di tutto il mondo – ci ha mostrato che né noi né la Terra su cui viviamo siamo il centro dell’universo, composto da miliardi di galassie, ognuna delle quali con miriadi di stelle e pianeti”.

Se c’è un filo rosso che lega i Pontefici moderni nel contemplare con sguardo di fede l’universo, è ilmysterium lunae che i teologi antichi consideravano caratteristico “non solo dell’identità della Chiesa, ma di ognuno di noi - come ha spiegato Papa Francesco nell’udienza generale del 10 aprile scorso. - Questo è il mistero della luna; amiamo anzitutto perché siamo stati amati, perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno”.

La luna al Concilio

Giovanni Paolo II aveva usato la stessa immagine nell’omelia della messa con cui ha concluso il Giubileo del 2000: “Nella teologia patristica si amava parlare della Chiesa come mysterium lunae per sottolineare che essa, come la luna, non brilla di luce propria, ma riflette Cristo, il suo Sole”. Il sole e la luna, Cristo e la Chiesa.

Torna alla memoria il celeberrimo discorso “della luna” pronunciato braccio da Giovanni XXIII all’apertura del Concilio, in una piazza San Pietro irrorata dal chiarore del satellite: “Tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: è la carezza del Papa”. La Luna, allora come oggi, continua a ispirarci. Nella fede come nella scienza.

M. Michela Nicolais

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I valori dell’Italia ricordati da un grande: Pascoli https://www.lavoce.it/valori-italia-pascoli/ Sat, 13 Jul 2019 13:13:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54864 pascoli

Nel 1911, Giovanni Pascoli scrisse in latino un Inno a Roma. L’anno non era casuale: ricorreva il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, il primo grande anniversario, per così dire. Pascoli riassume in modo coltissimo e personale la storia della Città eterna e della nazione, e tra i suoi valori fondanti inserisce un brano che vale la pena riportare. Lo stesso Pascoli ha tradotto l’inno in italiano, ma in un linguaggio così aulico che... è più semplice tradurre pedissequamente dal latino. “Ti fondano [Roma] profughi portati dal vasto mare, e tu ti sforzi (certas) di raccogliere i profughi sulla tua grande nave. Tu sei fin dall’inizio un santo luogo di asilo (sanctum... limen asyli) per i popoli esuli; tu sei il mondo a cui le genti hanno affidato i semi, le zolle e tutte le cose della loro patria di origine, e le realtà sacre e le proprie divinità familiari (sacra suosque crediderunt manes)”. La traduzione italiana di Pascoli, anzi, rincara la dose: “... i profughi tu sempre prendesti a bordo della tua gran nave”.

Con il paradosso, aggiunge, che a essere accolto con più difficoltà fu il Dio più umile, il Cristo. Altrettanto significativo, più avanti, un brano in cui Giove, furioso per essere stato detronizzato dalla nuova religione, insulta Gesù chiamandolo “profugo” e disprezzandolo perché è “povero” e “deforme” (probabilmente citando Isaia 52,14).

Le parole di Giove sembrano riecheggiare volutamente le arringhe di autodifesa di Satana nei poemi inglesi di John Milton. Pascoli è stato senza ombra di dubbio tra i padri letterari della nazione, insieme ai vari Leopardi, Manzoni, De Sanctis. Quando morì, stava lavorando a un grande poema sugli eventi e i valori dell’Italia unita, altro che i soliti “rondinini”. Per riscoprire le radici giuridiche, culturali, spirituali dell’Italia, forse sono più affidabili autori come Pascoli rispetto ai tweet che vanno di moda oggi.

Dario Rivarossa

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pascoli

Nel 1911, Giovanni Pascoli scrisse in latino un Inno a Roma. L’anno non era casuale: ricorreva il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, il primo grande anniversario, per così dire. Pascoli riassume in modo coltissimo e personale la storia della Città eterna e della nazione, e tra i suoi valori fondanti inserisce un brano che vale la pena riportare. Lo stesso Pascoli ha tradotto l’inno in italiano, ma in un linguaggio così aulico che... è più semplice tradurre pedissequamente dal latino. “Ti fondano [Roma] profughi portati dal vasto mare, e tu ti sforzi (certas) di raccogliere i profughi sulla tua grande nave. Tu sei fin dall’inizio un santo luogo di asilo (sanctum... limen asyli) per i popoli esuli; tu sei il mondo a cui le genti hanno affidato i semi, le zolle e tutte le cose della loro patria di origine, e le realtà sacre e le proprie divinità familiari (sacra suosque crediderunt manes)”. La traduzione italiana di Pascoli, anzi, rincara la dose: “... i profughi tu sempre prendesti a bordo della tua gran nave”.

Con il paradosso, aggiunge, che a essere accolto con più difficoltà fu il Dio più umile, il Cristo. Altrettanto significativo, più avanti, un brano in cui Giove, furioso per essere stato detronizzato dalla nuova religione, insulta Gesù chiamandolo “profugo” e disprezzandolo perché è “povero” e “deforme” (probabilmente citando Isaia 52,14).

Le parole di Giove sembrano riecheggiare volutamente le arringhe di autodifesa di Satana nei poemi inglesi di John Milton. Pascoli è stato senza ombra di dubbio tra i padri letterari della nazione, insieme ai vari Leopardi, Manzoni, De Sanctis. Quando morì, stava lavorando a un grande poema sugli eventi e i valori dell’Italia unita, altro che i soliti “rondinini”. Per riscoprire le radici giuridiche, culturali, spirituali dell’Italia, forse sono più affidabili autori come Pascoli rispetto ai tweet che vanno di moda oggi.

Dario Rivarossa

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Isola Maggiore. Il curioso caso della Madonna che segue con lo sguardo https://www.lavoce.it/isola-maggiore-madonna-sguardo/ Thu, 04 Jul 2019 09:29:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54804 sguardo

All’interno del Palazzo del Capitano del Popolo ad Isola Maggiore, un edificio che rimonta al XII secolo, si può ammirare tra le opere d’arte una splendida “Madonna delle grazie”, dipinta da Sano di Pietro intorno il 1450. Ciò che appare, nello splendido campo d’oro che le fa da sfondo, è anche a tutt’oggi quel che rimane dell’originale trittico (con i santi Michele Arcangelo, Giovanni Battista, Pietro e Paolo e la Resurrezione di Cristo che completava l’originale predella), voluto e pensato per l’Altare della chiesa di san Michele Arcangelo, al sommo della collina. Nei 400 anni successivi questo benedetto polittico è stato spostato, smembrato, scomposto; fatto saltellare di chiesa in chiesa (in san Francesco prima, in san Salvatore poi); di Altare in Altare; fino ad approdare dopo un lungo lavoro di restauro nel vetusto palazzo del Capitano del Popolo, ove ha sede il centro di documentazione sull’Isola Maggiore.

La Madonna che muove gli occhi

Chiunque visitando il “Palazzo dell’orologio” si soffermi ad ammirare questa splendida – e sempre sacra – immagine potrà accorgersi del singolare e simpatico “atteggiamento” della Santa Vergine che ricambia col Suo, lo sguardo dell’osservatore. In sostanza la Madonna muove gli occhi! Spostandosi a destra o sinistra della pala si vedrà bene che il guardo di Maria segue l’osservatore. Nulla di miracoloso: si tratta semplicemente di un effetto ottico realizzato ad arte con l’apposizione di una leggera pasta vitrea sui bulbi oculari che crea appunto l’effetto. In pochi però sanno, e forse anche meno, che questo “scherzetto degli occhi” costò non poco nel passato ai buoni Frati minori del Convento d’Isola.

Storia dell'inganno

Ci troviamo intorno la meta del 1500 quando un tale Balducci – relegato in confino al convento per una qualche infrazione – essendo capace in pittura e cercando di aumentare le entrate di cassa (che in quel frangente erano miserelle), pare, certamente con il consenso del Padre Guardiano di allora, abbia pensato di correggere col pennello la pittura degli occhi dell’immagine della Vergine, così da dare l’idea a chi si soffermasse a venerarla che Ella lo seguisse con lo sguardo. Il passaparola fu immediato ed una grande folla si recò al convento per ammirare il Miracolo della Vergine che muoveva gli occhi, con conseguente gioia del Guardiano e dei frati tutti che videro così moltiplicarsi Messe, oboli ed elemosine. La situazione però, come era del resto prevedibile, oltre i fedeli attirò anche le Autorità Ecclesiastiche competenti che saputo del supposto prodigio vollero immediatamente vedere chiaro sulla faccenda attraverso una scrupolosissima inchiesta. Scoperto l’inganno il miracolo cessò, i lumi furono spenti e venne interrotta la processione di fedeli e con essa il guadagno economico per il convento. L’Autorità Ecclesiastica sempre (e giustamente) severa verso tali atteggiamenti al limite della Simonia censurò i frati e dispose anche la temporanea chiusura del convento. Ciò a conferma del fatto che anche tra i figli di san Francesco ci poteva esser chi non si sentisse molto innamorato di “Madonna povertà”! Del furfantesco pittore si persero le tracce ma non è impossibile pensare che sia stato ancor più severamente punito che non con il semplice esilio coatto nel convento dell’Isola al Trasimeno. Al di la di tutto – anche la storia ha i suoi diritti e merita d’esser raccontata - rimane sempre nell’ormai pochissimo popolo isolano l’amore e la devozione verso la santa immagine di Maria Mater Divine Gratiae, a cui in passato nel giorno delle nozze, molte spose donavano il bouquet, affinché impetrasse sulla nuova famiglia che s’ andava formando, aiuto e protezione.

Umberto Benini 

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sguardo

All’interno del Palazzo del Capitano del Popolo ad Isola Maggiore, un edificio che rimonta al XII secolo, si può ammirare tra le opere d’arte una splendida “Madonna delle grazie”, dipinta da Sano di Pietro intorno il 1450. Ciò che appare, nello splendido campo d’oro che le fa da sfondo, è anche a tutt’oggi quel che rimane dell’originale trittico (con i santi Michele Arcangelo, Giovanni Battista, Pietro e Paolo e la Resurrezione di Cristo che completava l’originale predella), voluto e pensato per l’Altare della chiesa di san Michele Arcangelo, al sommo della collina. Nei 400 anni successivi questo benedetto polittico è stato spostato, smembrato, scomposto; fatto saltellare di chiesa in chiesa (in san Francesco prima, in san Salvatore poi); di Altare in Altare; fino ad approdare dopo un lungo lavoro di restauro nel vetusto palazzo del Capitano del Popolo, ove ha sede il centro di documentazione sull’Isola Maggiore.

La Madonna che muove gli occhi

Chiunque visitando il “Palazzo dell’orologio” si soffermi ad ammirare questa splendida – e sempre sacra – immagine potrà accorgersi del singolare e simpatico “atteggiamento” della Santa Vergine che ricambia col Suo, lo sguardo dell’osservatore. In sostanza la Madonna muove gli occhi! Spostandosi a destra o sinistra della pala si vedrà bene che il guardo di Maria segue l’osservatore. Nulla di miracoloso: si tratta semplicemente di un effetto ottico realizzato ad arte con l’apposizione di una leggera pasta vitrea sui bulbi oculari che crea appunto l’effetto. In pochi però sanno, e forse anche meno, che questo “scherzetto degli occhi” costò non poco nel passato ai buoni Frati minori del Convento d’Isola.

Storia dell'inganno

Ci troviamo intorno la meta del 1500 quando un tale Balducci – relegato in confino al convento per una qualche infrazione – essendo capace in pittura e cercando di aumentare le entrate di cassa (che in quel frangente erano miserelle), pare, certamente con il consenso del Padre Guardiano di allora, abbia pensato di correggere col pennello la pittura degli occhi dell’immagine della Vergine, così da dare l’idea a chi si soffermasse a venerarla che Ella lo seguisse con lo sguardo. Il passaparola fu immediato ed una grande folla si recò al convento per ammirare il Miracolo della Vergine che muoveva gli occhi, con conseguente gioia del Guardiano e dei frati tutti che videro così moltiplicarsi Messe, oboli ed elemosine. La situazione però, come era del resto prevedibile, oltre i fedeli attirò anche le Autorità Ecclesiastiche competenti che saputo del supposto prodigio vollero immediatamente vedere chiaro sulla faccenda attraverso una scrupolosissima inchiesta. Scoperto l’inganno il miracolo cessò, i lumi furono spenti e venne interrotta la processione di fedeli e con essa il guadagno economico per il convento. L’Autorità Ecclesiastica sempre (e giustamente) severa verso tali atteggiamenti al limite della Simonia censurò i frati e dispose anche la temporanea chiusura del convento. Ciò a conferma del fatto che anche tra i figli di san Francesco ci poteva esser chi non si sentisse molto innamorato di “Madonna povertà”! Del furfantesco pittore si persero le tracce ma non è impossibile pensare che sia stato ancor più severamente punito che non con il semplice esilio coatto nel convento dell’Isola al Trasimeno. Al di la di tutto – anche la storia ha i suoi diritti e merita d’esser raccontata - rimane sempre nell’ormai pochissimo popolo isolano l’amore e la devozione verso la santa immagine di Maria Mater Divine Gratiae, a cui in passato nel giorno delle nozze, molte spose donavano il bouquet, affinché impetrasse sulla nuova famiglia che s’ andava formando, aiuto e protezione.

Umberto Benini 

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Muri tra popoli: la lezione del piccolo cimitero di Merna https://www.lavoce.it/muri-popoli-cimitero-merna/ Wed, 03 Jul 2019 14:34:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54795

di Mauro Ungaro (*)

Senti riparlare di “barriere terrestri” fra Italia e Slovenia ed il pensiero corre ad un piccolo cimitero alle porte di Gorizia nel paese ora sloveno di Miren (Merna).

Nel 1947, il Trattato di Parigi stabilì che il confine fra l’Italia e Jugoslavia tagliasse in diagonale proprio quel camposanto. Probabilmente chi discusse i termini dell’articolo 3 del documento nemmeno si pose il problema a che cosa corrispondesse il rettangolo presente sulle mappe che la linea fra le quote 49 e 54 intersecava.

Fra le tombe, nel settembre successivo, i soldati americani piantarono i cippi e posizionarono il filo spinato.

Un’operazione condotta senza alcuna logica umana ma dettata unicamente dalla cecità dei potenti di turno, troppo presi dal proprio tornaconto ideologico immediato per poter ragionare profeticamente tenendo come obiettivo del proprio operare le esigenze e le attese dei popoli affidati alla loro responsabilità.

E così il confine che divideva i vivi fece lo stesso anche con i morti.

Ci furono tombe tagliate letteralmente a metà dalla calce bianca e dalla barriera che vi sorse sopra: parte di esse rimaneva sotto la sovranità di Roma e parte sotto quella di Belgrado. Chi risiedeva dalla parte “sbagliata” rispetto a dove erano sepolti i propri cari ne poteva osservare la lapide solo da lontano, affidando al buon cuore degli ex compaesani o dei familiari – ora cittadini di un altro Stato – l’apposizione di qualche segno di pietà.

Dovettero passare trent’anni perché nel 1975 il Trattato di Osimo spostasse il confine in modo che tutto il cimitero ricadesse sotto la sovranità jugoslava: un anno prima, nel 1974, era stato levato dal suo interno il filo spinato.

Oggi il cimitero di Merna/Miren è anche un luogo museale.

Il visitatore viene accolto dalla scritta Spomni se name, “Ricordati di me” e da un cartello che ne attesta la dedica “a coloro i quali soffrirono a causa del confine, a tutti quelli a cui questo funse da impedimento nel visitare le tombe, a quelli a cui il confine rappresentò la strada verso lo sconosciuto e a tutte le persone che nell’oltrepassare o nel proteggere il confine persero la speranza, la libertà o addirittura la vita”.

Una sequenza di mattonelle segna il tracciato dove correva il filo spinato: ognuna di esse ripete le parole Spomni se name (accompagnate dalle due date significative del 1947 e 1974) ma si arresta dinanzi ad ogni sepoltura.

Un gesto delicato quasi a non voler turbare il riposo eterno in attesa della risurrezione di chi – da vivo e da morto – insieme a migliaia di uomini e donne di queste terre già troppo ha dovuto soffrire nell’ultimo secolo a causa dell’egoismo e della violenza di altri uomini.

“Oggi, il contesto di crisi economica favorisce purtroppo l’emergere di atteggiamenti di chiusura e di non accoglienza. In alcune parti del mondo sorgono muri e barriere. Sembra a volte che l’opera silenziosa di molti uomini e donne che, in diversi modi, si prodigano per aiutare e assistere i profughi e i migranti sia oscurata dal rumore di altri che danno voce a un istintivo egoismo.

Ma la chiusura non è una soluzione, anzi, finisce per favorire i traffici criminali. L’unica via di soluzione è quella della solidarietà. Solidarietà con il migrante, solidarietà con il forestiero…” (Papa Francesco, udienza generale del 26 ottobre 2016). Spomni se name : perché non si ripeta più.

(*) direttore “Voce isontina” (Gorizia)

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Gente che sapeva guardare avanti https://www.lavoce.it/gente-guardare-avanti/ Thu, 27 Jun 2019 12:23:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54777 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

Adesso che passa la maggior parte della sue giornate seduta in poltrona, Marisa, mia madre, 84 anni compiuti da poco, rovista spesso nelle vecchie foto di famiglia. Le guarda con tenerezza, come se quei volti amici (molti di persone che non ci sono più) le trasmettessero l’energia necessaria per andare avanti.

In quelle foto, le più vecchie in bianco e nero, ci sono gite, scampagnate, comunioni, matrimoni, battesimi. Ci sono bambini, anziani, e giovani di belle speranze. C’è la vita che ricomincia dopo una guerra disastrosa e una miseria dilagante. Ci sono brillantina e sandali, giacche doppiopetto e motociclette, brindisi con vino bianco e grandi tavolate. Di gente che aveva conosciuto la fame, fino a mangiare - se c’erano - pane e cipolla per una settimana intera.

Che aveva rigirato più e più volte i colli delle camicie, e fatto risuolare fino all’estremo scarpe e ciabatte. Tutto questo emanano quelle vecchie foto in bianco e nero, insieme a una parola che forse abbiamo dimenticato: dignità. Perché nessuno di quei volti ha negli occhi il rancore o la rabbia che promanano da tanti selfie che oggi intasano i social. Nessuno di loro, dopo la guerra, voleva voltarsi indietro e odiare. Ma solo guardare avanti e costruire qualcosa per i figli e i nipoti. E la maggior parte di loro, dei nostri nonni e genitori, sono riusciti nell’intento di migliorare la vita delle nuove generazioni.

Non sembra stia succedendo altrettanto.

Daris Giancarlini

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lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

Adesso che passa la maggior parte della sue giornate seduta in poltrona, Marisa, mia madre, 84 anni compiuti da poco, rovista spesso nelle vecchie foto di famiglia. Le guarda con tenerezza, come se quei volti amici (molti di persone che non ci sono più) le trasmettessero l’energia necessaria per andare avanti.

In quelle foto, le più vecchie in bianco e nero, ci sono gite, scampagnate, comunioni, matrimoni, battesimi. Ci sono bambini, anziani, e giovani di belle speranze. C’è la vita che ricomincia dopo una guerra disastrosa e una miseria dilagante. Ci sono brillantina e sandali, giacche doppiopetto e motociclette, brindisi con vino bianco e grandi tavolate. Di gente che aveva conosciuto la fame, fino a mangiare - se c’erano - pane e cipolla per una settimana intera.

Che aveva rigirato più e più volte i colli delle camicie, e fatto risuolare fino all’estremo scarpe e ciabatte. Tutto questo emanano quelle vecchie foto in bianco e nero, insieme a una parola che forse abbiamo dimenticato: dignità. Perché nessuno di quei volti ha negli occhi il rancore o la rabbia che promanano da tanti selfie che oggi intasano i social. Nessuno di loro, dopo la guerra, voleva voltarsi indietro e odiare. Ma solo guardare avanti e costruire qualcosa per i figli e i nipoti. E la maggior parte di loro, dei nostri nonni e genitori, sono riusciti nell’intento di migliorare la vita delle nuove generazioni.

Non sembra stia succedendo altrettanto.

Daris Giancarlini

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Perugia 1416, la Quintana e le altre. Chi produce gli abiti d’epoca? https://www.lavoce.it/chi-produce-abiti-epoca/ Fri, 21 Jun 2019 10:17:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54751 epoca

Come per molte altre rievocazioni storiche, anche tra i cinque rioni perugini, in vista della quarta edizione di “Perugia 1416”, si è lavorato per mesi “in sartoria”. Quella degli abiti medievali e d’epoca in generale è una delle attività che viene più curata tra gli organizzatori degli appuntamenti culturali e folkloristici che si svolgono nella nostra regione.

Infatti, in ogni palio, festa e gara che rispecchino fatti e rievocazioni, il corteo con carri e figuranti rappresenta un momento gradito agli occhi dei turisti e partecipanti. Non si tratta di una semplice sfilata di abiti d’altri tempi, ma di quadri viventi e scene che si vestono con costumi creati con una ricerca storica più veritiera possibile su ciò che era l’abbigliamento in secoli tanto lontani dai nostri.

Per la realizzazione degli abiti, lavoro assiduo di tante maestranze, vengono presi in esame non solo affreschi, quadri e miniature, ma anche scritti e manuali che descrivono gli usi e costumi nelle epoche passate. Tra essi, ad esempio, le “leggi suntuarie”, dettami legislativi e religiosi che limitavano il lusso nella moda maschile e femminile, soprattutto del periodo medievale.

Ricreare costumi d’epoca non è facile, ma molti dei rioni, Porte, terzieri delle città interessate da rievocazioni storiche si sono organizzati negli anni con “sartorie proprie”, dove artigiani e volontari realizzano abiti con impegno e competenza durante tutto l’anno, per essere pronti da indossare nei giorni delle feste celebrative, per i propri figuranti e per chi desidera prenderli a noleggio.

E così si creano costumi che possono valere fino a cifre elevate, distinguendosi per la meticolosa riproduzione e per la qualità dei materiali. Nel territorio umbro esistono alcune sartorie professionali prestigiose, pluripremiate, che realizzano abiti teatrali e cinematografici di livello molto alto, e che mettono a disposizione la loro competenza nel creare pezzi unici destinati alle varie manifestazioni che ne fanno richiesta.

Le sartorie più note in Umbria

Tra queste fucine di pregio citiamo alcuni esempi, come la sartoria Gelsi “Costumi d’arte” di Daniele Gelsi di Gualdo Tadino, Afm sartoria di Montone, la sartoria Menghini di Foligno, “Dame et cavalieri” di Cinzia Rosignoli ad Assisi, “Arte in costume” di Maria Cristina Gori a Monteleone d’Orvieto, “L’Arlecchino” di Francesca Porrozzi a Ponte Valleceppi e “Divertilandia” con sede a Perugia.

Gli abiti realizzati per queste rievocazioni sparse per tutta l’Umbria vengono nella massima parte presi in affitto dai figuranti stessi che li indossano. In percentuale minore, vengono anche acquistati.

I soldi versati alle sartorie “di appartenenza” servono a sostenere le varie realtà associative, coprendo le spese di stoffe e accessori per la realizzazione dei costumi. Abiti che negli anni creeranno un patrimonio oggettivo e culturale tale da accrescere il prestigio delle comunità che si impegnano, con amore e sacrificio, a mantenere vive le tante tradizioni del nostro splendido territorio.

Anna Maria Angelelli

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epoca

Come per molte altre rievocazioni storiche, anche tra i cinque rioni perugini, in vista della quarta edizione di “Perugia 1416”, si è lavorato per mesi “in sartoria”. Quella degli abiti medievali e d’epoca in generale è una delle attività che viene più curata tra gli organizzatori degli appuntamenti culturali e folkloristici che si svolgono nella nostra regione.

Infatti, in ogni palio, festa e gara che rispecchino fatti e rievocazioni, il corteo con carri e figuranti rappresenta un momento gradito agli occhi dei turisti e partecipanti. Non si tratta di una semplice sfilata di abiti d’altri tempi, ma di quadri viventi e scene che si vestono con costumi creati con una ricerca storica più veritiera possibile su ciò che era l’abbigliamento in secoli tanto lontani dai nostri.

Per la realizzazione degli abiti, lavoro assiduo di tante maestranze, vengono presi in esame non solo affreschi, quadri e miniature, ma anche scritti e manuali che descrivono gli usi e costumi nelle epoche passate. Tra essi, ad esempio, le “leggi suntuarie”, dettami legislativi e religiosi che limitavano il lusso nella moda maschile e femminile, soprattutto del periodo medievale.

Ricreare costumi d’epoca non è facile, ma molti dei rioni, Porte, terzieri delle città interessate da rievocazioni storiche si sono organizzati negli anni con “sartorie proprie”, dove artigiani e volontari realizzano abiti con impegno e competenza durante tutto l’anno, per essere pronti da indossare nei giorni delle feste celebrative, per i propri figuranti e per chi desidera prenderli a noleggio.

E così si creano costumi che possono valere fino a cifre elevate, distinguendosi per la meticolosa riproduzione e per la qualità dei materiali. Nel territorio umbro esistono alcune sartorie professionali prestigiose, pluripremiate, che realizzano abiti teatrali e cinematografici di livello molto alto, e che mettono a disposizione la loro competenza nel creare pezzi unici destinati alle varie manifestazioni che ne fanno richiesta.

Le sartorie più note in Umbria

Tra queste fucine di pregio citiamo alcuni esempi, come la sartoria Gelsi “Costumi d’arte” di Daniele Gelsi di Gualdo Tadino, Afm sartoria di Montone, la sartoria Menghini di Foligno, “Dame et cavalieri” di Cinzia Rosignoli ad Assisi, “Arte in costume” di Maria Cristina Gori a Monteleone d’Orvieto, “L’Arlecchino” di Francesca Porrozzi a Ponte Valleceppi e “Divertilandia” con sede a Perugia.

Gli abiti realizzati per queste rievocazioni sparse per tutta l’Umbria vengono nella massima parte presi in affitto dai figuranti stessi che li indossano. In percentuale minore, vengono anche acquistati.

I soldi versati alle sartorie “di appartenenza” servono a sostenere le varie realtà associative, coprendo le spese di stoffe e accessori per la realizzazione dei costumi. Abiti che negli anni creeranno un patrimonio oggettivo e culturale tale da accrescere il prestigio delle comunità che si impegnano, con amore e sacrificio, a mantenere vive le tante tradizioni del nostro splendido territorio.

Anna Maria Angelelli

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Perugia 1416. Il programma completo e tutte le novità https://www.lavoce.it/perugia-1416-programma/ Mon, 10 Jun 2019 10:12:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54660 Perugia 1416

Perugia 1416 cambia pelle: il corteo si fa trionfale, i rionali diventano attori per una sera e il Tiro del giavellotto più dinamico. Sono solo alcune delle novità dell'edizione numero quattro di Perugia 1416, annunciate alla sala dei Notari di Palazzo dei Priori dalla presidente dell'associazione, Teresa Severini, insieme al sindaco Andrea Romizi e Stefano Venarucci, coordinatore artistico della manifestazione, durante la presentazione del programma. La rievocazione storica, che si terrà in città dal 14 al 16 giugno, alza quest'anno il tiro pigiando sulla leva dell'attrattività, affinando gli eventi principali nella parte scenografica, il tutto sempre condito di mostre, mercato di prodotti artigianali ed artistici degli antichi mestieri, concerti, conferenze, teatro, spettacoli itineranti di artisti di strada, corteo storico e sfide. Con un ampio spazio dedicato ai bambini, con laboratori, dimostrazioni e intrattenimento a cura del Tieffeu, del POST, della Compagnia del Grifoncello e della Compagnia d'Arme Achille Marozzo. “Tra le novità della quarta edizione - ha spiegato Stefano Venarucci - c'è il corteo trionfale, che ripropone la forma di cortei tipici quattrocenteschi, così da rendere l'evento più filologico possibile. Il tiro del giavellotto si svolgerà in forma molto più dinamica: colui che tirerà avrà a fianco un altro atleta, che andrà a recuperarlo, correndo, utilizzando una treggia, quindi una antica slitta medievale. In questo gioco è stato inserito il timing, per cui, in caso di pareggio, vincerà chi avrà impiegato meno tempo a conlcudere la sessione. Per l'occasione si è creato anche un momento gastronomico, con prodotti tipici della tradizione umbra da poter gustare nella cornice di San Francesco al Prato. Inoltre, l'evento storicamente più rilevante di tutta la manifestazione, che è l'incontro di Braccio con la reggenza comunale, verrà rievocato quest'anno in corso Vannucci di fronte Palazzo Dei Priori in modo tale che tutta la città e gli ospiti possano godere dello spettacolo. Altra novità è la rappresentazione teatrale degli attori dei cinque Rioni durante la festa campestre. Il teatro è un seme gettato per dare poi vita ad una gara di rappresentazione tra i vicoli dei rioni, un'attività che unisce e che permetterebbe di coinvolgere i giovani”. “A presentare questa quarta edizione è la mia voce – ha sottolineato Teresa Severini -, ma i realtà è quella di un Consiglio Direttivo fatto di 12 membri, e soprattutto, al suo interno, dai 5 rioni. La città per la Città. Perugia 1416 è alle porte. Già in questi ultimissimi tempi si sono intensificati gli eventi, come da programma, dopo mesi di approfondimenti e fermenti. Ed è sempre più articolato il calendario dei giorni della festa, per grandi e per picccini, per cui è sempre più affollata anche la lista dei ringraziamenti a coloro che sostengono a vario titolo il progetto, ma anche, e soprattutto, alle centinaia di volontari. Un grazie anche a tutti coloro che aiutano nella logistica e ai cittadini cui chiedo pazienza per i piccoli disagi che potrebbero subire. Ringrazio e saluto anche gli studenti Erasmus che sfileranno ospiti dei cinque Rioni, quale segno di integrazione. “Una manifestazione che, grazie a Teresa e ai Rioni – ha aggiunto Andrea Romizi –, si è riusciti a creare straordinariamente. Proprio in questi giorni di rinnovo della mia carica mi sono tornati in mente tutti quei momenti in cui ha preso vita questo progetto, dagli storici stendardi dei rioni ricollocati nell'atrio di Palazzo dei Priori dopo averli recuperati dai depositi comunali, prima ancora che prendesse corpo la rievocazione, allo 'stoico' ingresso di Braccio sotto la pioggia battente della prima edizione”. L'evento, al di là del suo avvio ufficiale di venerdì 14, comincerà a muovere i primi passi fin dal 10 giugno, proponendo così, di fatto, una intera e intensa settimana di appuntamenti. E ad essere protagonisti saranno sempre loro, i cinque Magnifici Rioni (Porta Eburnea, Porta San Pietro, Porta Sant’Angelo, Porta Santa Susanna, Porta Sole), pronti a gareggiare per il Palio 2019, realizzato da Sara Rossi, la studentessa dell'Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia vincitrice del concorso indetto dall'Associazione. Tra le mostre, che saranno visibili fin da oggi, si segnalano quella aperta fino al 18 giugno, presso la Biblioteca Comunale Augusta, “Alle origini del Grifo: l’emblema di Perugia nella pergamena di Montone del 1216”, con l'esposizione della pergamena stessa, riportante le clausole dell’atto di sottomissione della città di Montone a Perugia e con una delle più antiche raffigurazioni del Grifo. Grande curiosità per la mostra fotografica, non convenzionale e celebrativa del bello formale: “Altera effigies. Perugia 1416 dietro le quinte”, ovvero la descrizione di tutto ciò che accade fuori dall’ufficialità, tra ironia e spontaneità. Momenti invisibili ai più, ma che sono la vera essenza della festa e che trovano compimento in piazza dando forma al lavoro di mesi. Anche questa ad ingresso gratuito, sarà allestita alla Sala ex Misericordia di via Oberdan, dal 10 al 16 giugno. Si segnala, inoltre, la presentazione del volume “Perugia 1416” (Fabrizio Fabbri Editore), e del libro per bambini “Perugia a piccoli passi: viaggio nei Rioni alla scoperta della nostra città... e l’arte ai tempi di dame e cavalieri” (Futura Edizioni) per mercoledì 12, alle 18, alla sala della Fondazione Sant’Anna, in viale Roma. La manifestazione, di fatto, entrerà nel vivo da giovedì 13, con la premiazione del concorso gastronomico “La torta di Braccio. La salata disfida” con assaggi delle torte finaliste in collaborazione con l’Università dei Sapori, alle ore 10.30, presso il ristorante pizzeria Ferrari, in Corso Vannucci. Nel pomeriggio, alle 16.30, con “Viaggio nel Tempo”, protagoniste saranno le prime dame dei Rioni che viaggiano in minimetrò, scortate dai tamburini junior di Porta Eburnea e dalla Compagnia dei Grifoncelli che le attenderà in centro, per poi dirigersi tutti insieme in Cattedrale, dove avverrà, durante la messa, la benedizione del Palio e degli stendardi dei Rioni, grazie alla disponibilità del cardinale arcivescovo mons. Gualtiero Bassetti, che ha sostenuto la manifestazione. Uscendo, esibizione di musici e Cantarine del Rione di Porta Sole. La sera, dopocena, ci sarà il momento gustoso il lancio dei bandi di sfida (ore 21.45), dalla scalinata del Palazzo dei Priori, cui seguirà, alle 22.30, nella Sala dei Notari, la pièce teatrale “Canzone d’amore”, di Artemio Giovagnoni, inscenata e recitata dalla compagnia “gli amici di Artemio”.

Gli appuntamenti della tre giorni

I momenti salienti

Venerdì 14: dalle 18 alle 19, in piazza IV Novembre, esibizione di combattimento medievale della Compagnia del Grifoncello; alle 19.30 corteo del Giavellotto da Palazzo dei Priori a Piazza San Francesco al Prato, dove, dalle 20 alle 23, saranno aperti gli stand gastronomici, accompagnati dalla musica degli Ensemble Trobadores. Alle 21.30 inizierà la prima sfida tra i Rioni, quella del Tiro del Giavellotto. Sabato 15: alle 16, in Corso Vannucci, lo spettacolo degli Sbandieratori di Assisi darà il via al corteo della Mossa alla Torrre da Palazzo dei Priori a Piazza Matteotti, dove si terrà, alle 17.15, la seconda sfida, quella della Mossa alla Torre. Dalle 21.30, tutto si sposterà al Cassero di Porta Sant’Angelo, in Corso Garibaldi, per l'appuntamento scenografico di Perugia 1416 in notturna: alla vigilia del gran corteo storico, Braccio Fortebracci incontra i Consoli dei 5 Rioni; alle 22.30, presso il Giardino di San Matteo degli Armeni, ci si tufferà nella suggestiva Festa campestre, in cui si farà spazio “Braccio, un uomo come noi…”, la rappresentazione teatrale a cura di Stefano Venarucci e degli “attori” dei Rioni. A seguire, animazioni, musica, danze medievali e degustazione gratuita di prodotti tipici umbri fino a tarda notte. Domenica 16: dalle 16, in Corso Vannucci, spettacolo degli Sbandieratori di Assisi; alle 16.30, presso la Caserma Braccio Fortebracci, Comando Militare Esercito Umbria, Piazza Lupattelli, 1, picchetto d’onore con partenza del corteo di Braccio scortato dagli armati della Compagnia del Grifoncello e di Militia Bartholomei (percorso via Cesare Battisti, via Maestà delle Volte, Piazza IV Novembre). Alle 17, in Corso Vannucci, nello spazio antistante Palazzo dei Priori, incontro di Braccio con la Reggenza comunale; consegna delle chiavi della Città e salita in corteo al palazzo comunale in Piazza IV Novembre; alle 17.30, da Piazza Italia a Piazza IV Novembre sfilata del gran corteo storico, accompagnato dalle delegazioni ospiti (Montone, Corciano, Gualdo Tadino, Torgiano, Sangemini, Senigallia e Todi, c con la partecipazione dei Tamburini di Norcia e della Pro Loco di Norcia. Alle 19, Corsa del Drappo in Corso Vannucci, la terza sfida tra i Rioni. A seguire spettacolo degli Sbandieratori di Todi e dei Musici “Arcus Tuder” Città di Todi; alle ore 19.30, proclamazione del Rione vincitore e assegnazione del Palio 2019. Un grande appuntamento che quest'anno si realizza grazie al contributo di Comune di Perugia, Piccini Group, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Camera di commercio, Regione Umbria, Minimetrò Spa, Barton Park, Metalprogetti, Bartoccini gioiellerie, Umbra control, BCC Spello e Bettona, Cdp concesionaria De Poi, Promocamera, Rocco Ragni, Galli 1952, Tiziano Sordini, Cantine Lungarotti. Si ringraziano inoltre Gaggi alimentari (per gli incarti personalizzati con Perugia 1416 e i simboli dei Rioni), Ristorante Ferrari, Mr. Happy, G7 Tessuti arredamento, e il Gelato di Mastro Cianuri (che torna a riproporre i cinque gusti dei Rioni), e per il supporto Università dei Sapori, Scuola di lingue estere dell'Esercito italiano, Accademia delle Belle Arti. Il programma è consultabile sul sito www.perugia1416.com]]>
Perugia 1416

Perugia 1416 cambia pelle: il corteo si fa trionfale, i rionali diventano attori per una sera e il Tiro del giavellotto più dinamico. Sono solo alcune delle novità dell'edizione numero quattro di Perugia 1416, annunciate alla sala dei Notari di Palazzo dei Priori dalla presidente dell'associazione, Teresa Severini, insieme al sindaco Andrea Romizi e Stefano Venarucci, coordinatore artistico della manifestazione, durante la presentazione del programma. La rievocazione storica, che si terrà in città dal 14 al 16 giugno, alza quest'anno il tiro pigiando sulla leva dell'attrattività, affinando gli eventi principali nella parte scenografica, il tutto sempre condito di mostre, mercato di prodotti artigianali ed artistici degli antichi mestieri, concerti, conferenze, teatro, spettacoli itineranti di artisti di strada, corteo storico e sfide. Con un ampio spazio dedicato ai bambini, con laboratori, dimostrazioni e intrattenimento a cura del Tieffeu, del POST, della Compagnia del Grifoncello e della Compagnia d'Arme Achille Marozzo. “Tra le novità della quarta edizione - ha spiegato Stefano Venarucci - c'è il corteo trionfale, che ripropone la forma di cortei tipici quattrocenteschi, così da rendere l'evento più filologico possibile. Il tiro del giavellotto si svolgerà in forma molto più dinamica: colui che tirerà avrà a fianco un altro atleta, che andrà a recuperarlo, correndo, utilizzando una treggia, quindi una antica slitta medievale. In questo gioco è stato inserito il timing, per cui, in caso di pareggio, vincerà chi avrà impiegato meno tempo a conlcudere la sessione. Per l'occasione si è creato anche un momento gastronomico, con prodotti tipici della tradizione umbra da poter gustare nella cornice di San Francesco al Prato. Inoltre, l'evento storicamente più rilevante di tutta la manifestazione, che è l'incontro di Braccio con la reggenza comunale, verrà rievocato quest'anno in corso Vannucci di fronte Palazzo Dei Priori in modo tale che tutta la città e gli ospiti possano godere dello spettacolo. Altra novità è la rappresentazione teatrale degli attori dei cinque Rioni durante la festa campestre. Il teatro è un seme gettato per dare poi vita ad una gara di rappresentazione tra i vicoli dei rioni, un'attività che unisce e che permetterebbe di coinvolgere i giovani”. “A presentare questa quarta edizione è la mia voce – ha sottolineato Teresa Severini -, ma i realtà è quella di un Consiglio Direttivo fatto di 12 membri, e soprattutto, al suo interno, dai 5 rioni. La città per la Città. Perugia 1416 è alle porte. Già in questi ultimissimi tempi si sono intensificati gli eventi, come da programma, dopo mesi di approfondimenti e fermenti. Ed è sempre più articolato il calendario dei giorni della festa, per grandi e per picccini, per cui è sempre più affollata anche la lista dei ringraziamenti a coloro che sostengono a vario titolo il progetto, ma anche, e soprattutto, alle centinaia di volontari. Un grazie anche a tutti coloro che aiutano nella logistica e ai cittadini cui chiedo pazienza per i piccoli disagi che potrebbero subire. Ringrazio e saluto anche gli studenti Erasmus che sfileranno ospiti dei cinque Rioni, quale segno di integrazione. “Una manifestazione che, grazie a Teresa e ai Rioni – ha aggiunto Andrea Romizi –, si è riusciti a creare straordinariamente. Proprio in questi giorni di rinnovo della mia carica mi sono tornati in mente tutti quei momenti in cui ha preso vita questo progetto, dagli storici stendardi dei rioni ricollocati nell'atrio di Palazzo dei Priori dopo averli recuperati dai depositi comunali, prima ancora che prendesse corpo la rievocazione, allo 'stoico' ingresso di Braccio sotto la pioggia battente della prima edizione”. L'evento, al di là del suo avvio ufficiale di venerdì 14, comincerà a muovere i primi passi fin dal 10 giugno, proponendo così, di fatto, una intera e intensa settimana di appuntamenti. E ad essere protagonisti saranno sempre loro, i cinque Magnifici Rioni (Porta Eburnea, Porta San Pietro, Porta Sant’Angelo, Porta Santa Susanna, Porta Sole), pronti a gareggiare per il Palio 2019, realizzato da Sara Rossi, la studentessa dell'Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia vincitrice del concorso indetto dall'Associazione. Tra le mostre, che saranno visibili fin da oggi, si segnalano quella aperta fino al 18 giugno, presso la Biblioteca Comunale Augusta, “Alle origini del Grifo: l’emblema di Perugia nella pergamena di Montone del 1216”, con l'esposizione della pergamena stessa, riportante le clausole dell’atto di sottomissione della città di Montone a Perugia e con una delle più antiche raffigurazioni del Grifo. Grande curiosità per la mostra fotografica, non convenzionale e celebrativa del bello formale: “Altera effigies. Perugia 1416 dietro le quinte”, ovvero la descrizione di tutto ciò che accade fuori dall’ufficialità, tra ironia e spontaneità. Momenti invisibili ai più, ma che sono la vera essenza della festa e che trovano compimento in piazza dando forma al lavoro di mesi. Anche questa ad ingresso gratuito, sarà allestita alla Sala ex Misericordia di via Oberdan, dal 10 al 16 giugno. Si segnala, inoltre, la presentazione del volume “Perugia 1416” (Fabrizio Fabbri Editore), e del libro per bambini “Perugia a piccoli passi: viaggio nei Rioni alla scoperta della nostra città... e l’arte ai tempi di dame e cavalieri” (Futura Edizioni) per mercoledì 12, alle 18, alla sala della Fondazione Sant’Anna, in viale Roma. La manifestazione, di fatto, entrerà nel vivo da giovedì 13, con la premiazione del concorso gastronomico “La torta di Braccio. La salata disfida” con assaggi delle torte finaliste in collaborazione con l’Università dei Sapori, alle ore 10.30, presso il ristorante pizzeria Ferrari, in Corso Vannucci. Nel pomeriggio, alle 16.30, con “Viaggio nel Tempo”, protagoniste saranno le prime dame dei Rioni che viaggiano in minimetrò, scortate dai tamburini junior di Porta Eburnea e dalla Compagnia dei Grifoncelli che le attenderà in centro, per poi dirigersi tutti insieme in Cattedrale, dove avverrà, durante la messa, la benedizione del Palio e degli stendardi dei Rioni, grazie alla disponibilità del cardinale arcivescovo mons. Gualtiero Bassetti, che ha sostenuto la manifestazione. Uscendo, esibizione di musici e Cantarine del Rione di Porta Sole. La sera, dopocena, ci sarà il momento gustoso il lancio dei bandi di sfida (ore 21.45), dalla scalinata del Palazzo dei Priori, cui seguirà, alle 22.30, nella Sala dei Notari, la pièce teatrale “Canzone d’amore”, di Artemio Giovagnoni, inscenata e recitata dalla compagnia “gli amici di Artemio”.

Gli appuntamenti della tre giorni

I momenti salienti

Venerdì 14: dalle 18 alle 19, in piazza IV Novembre, esibizione di combattimento medievale della Compagnia del Grifoncello; alle 19.30 corteo del Giavellotto da Palazzo dei Priori a Piazza San Francesco al Prato, dove, dalle 20 alle 23, saranno aperti gli stand gastronomici, accompagnati dalla musica degli Ensemble Trobadores. Alle 21.30 inizierà la prima sfida tra i Rioni, quella del Tiro del Giavellotto. Sabato 15: alle 16, in Corso Vannucci, lo spettacolo degli Sbandieratori di Assisi darà il via al corteo della Mossa alla Torrre da Palazzo dei Priori a Piazza Matteotti, dove si terrà, alle 17.15, la seconda sfida, quella della Mossa alla Torre. Dalle 21.30, tutto si sposterà al Cassero di Porta Sant’Angelo, in Corso Garibaldi, per l'appuntamento scenografico di Perugia 1416 in notturna: alla vigilia del gran corteo storico, Braccio Fortebracci incontra i Consoli dei 5 Rioni; alle 22.30, presso il Giardino di San Matteo degli Armeni, ci si tufferà nella suggestiva Festa campestre, in cui si farà spazio “Braccio, un uomo come noi…”, la rappresentazione teatrale a cura di Stefano Venarucci e degli “attori” dei Rioni. A seguire, animazioni, musica, danze medievali e degustazione gratuita di prodotti tipici umbri fino a tarda notte. Domenica 16: dalle 16, in Corso Vannucci, spettacolo degli Sbandieratori di Assisi; alle 16.30, presso la Caserma Braccio Fortebracci, Comando Militare Esercito Umbria, Piazza Lupattelli, 1, picchetto d’onore con partenza del corteo di Braccio scortato dagli armati della Compagnia del Grifoncello e di Militia Bartholomei (percorso via Cesare Battisti, via Maestà delle Volte, Piazza IV Novembre). Alle 17, in Corso Vannucci, nello spazio antistante Palazzo dei Priori, incontro di Braccio con la Reggenza comunale; consegna delle chiavi della Città e salita in corteo al palazzo comunale in Piazza IV Novembre; alle 17.30, da Piazza Italia a Piazza IV Novembre sfilata del gran corteo storico, accompagnato dalle delegazioni ospiti (Montone, Corciano, Gualdo Tadino, Torgiano, Sangemini, Senigallia e Todi, c con la partecipazione dei Tamburini di Norcia e della Pro Loco di Norcia. Alle 19, Corsa del Drappo in Corso Vannucci, la terza sfida tra i Rioni. A seguire spettacolo degli Sbandieratori di Todi e dei Musici “Arcus Tuder” Città di Todi; alle ore 19.30, proclamazione del Rione vincitore e assegnazione del Palio 2019. Un grande appuntamento che quest'anno si realizza grazie al contributo di Comune di Perugia, Piccini Group, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Camera di commercio, Regione Umbria, Minimetrò Spa, Barton Park, Metalprogetti, Bartoccini gioiellerie, Umbra control, BCC Spello e Bettona, Cdp concesionaria De Poi, Promocamera, Rocco Ragni, Galli 1952, Tiziano Sordini, Cantine Lungarotti. Si ringraziano inoltre Gaggi alimentari (per gli incarti personalizzati con Perugia 1416 e i simboli dei Rioni), Ristorante Ferrari, Mr. Happy, G7 Tessuti arredamento, e il Gelato di Mastro Cianuri (che torna a riproporre i cinque gusti dei Rioni), e per il supporto Università dei Sapori, Scuola di lingue estere dell'Esercito italiano, Accademia delle Belle Arti. Il programma è consultabile sul sito www.perugia1416.com]]>
Le chiese in fiamme. O vuote https://www.lavoce.it/chiese-fiamme-vuote/ Fri, 19 Apr 2019 11:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54421 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

L’incendio e la parziale rovina della basilica di Notre-Dame a Parigi hanno suscitato emozione in tutto il mondo.

Una volta domate le fiamme, si è scoperto che il danno è gravissimo, ma non irreparabile; del resto la copertura e la guglia, che sono andate distrutte, già non erano più quelle originali. E contribuisce a rasserenare gli animi il pensiero che si è trattato di un incidente e non di un attentato. Tuttavia si affaccia qualche riflessione.

Quanti di coloro che sono rimasti turbati vedendo in diretta tv le immagini del crollo si sentivano addolorati perché stava andando distrutto un luogo di fede e di preghiera? O erano forse più numerosi quelli per i quali Notre-Dame è “solo” uno scrigno di opere d’arte e di memorie storiche, un monumento civile e nazionale, insomma “laico”?

La domanda pare legittima, perché nel nostro mondo secolarizzato la dimensione religiosa e spirituale viene messa sempre più in ombra.

Nell’Europa cristiana, per secoli e secoli, la religione è stata ispiratrice di grandi opere d’arte in ogni campo: nell’architettura, nella musica, nella poesia, nella pittura. Tanti celebri dipinti che erano stati creati per essere oggetto di devozione sopra un altare, e lo sono stati, oggi stanno nei musei, e la gente li guarda con lo stesso spirito con cui si guarda la statua di una divinità pagana.

Me ne viene in mente uno: lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Era stato dipinto per la chiesa di San Francesco a Città di Castello, ora si trova a Milano alla Pinacoteca di Brera. Ma anche quella chiesa, che fino a pochi anni fa era sempre piena di fedeli, forse la più frequentata della città, ora è deserta; è ancora aperta, se qualcuno vuole entrare, ma la messa vi si celebra solo due o tre volte l’anno.

Finché dura. Ogni volta che una chiesa si chiude, si disperde (o si è già dispersa) anche la comunità che lì si riuniva. E ogni volta che accade - molto spesso, purtroppo - , per me e per molti come me è una profonda tristezza, come quella provata vedendo la flèche , la guglia più alta di Notre-Dame, sbriciolarsi nel fuoco. La guglia sarà ricostruita, ma le comunità quando rinasceranno?

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di Pier Giorgio Lignani

L’incendio e la parziale rovina della basilica di Notre-Dame a Parigi hanno suscitato emozione in tutto il mondo.

Una volta domate le fiamme, si è scoperto che il danno è gravissimo, ma non irreparabile; del resto la copertura e la guglia, che sono andate distrutte, già non erano più quelle originali. E contribuisce a rasserenare gli animi il pensiero che si è trattato di un incidente e non di un attentato. Tuttavia si affaccia qualche riflessione.

Quanti di coloro che sono rimasti turbati vedendo in diretta tv le immagini del crollo si sentivano addolorati perché stava andando distrutto un luogo di fede e di preghiera? O erano forse più numerosi quelli per i quali Notre-Dame è “solo” uno scrigno di opere d’arte e di memorie storiche, un monumento civile e nazionale, insomma “laico”?

La domanda pare legittima, perché nel nostro mondo secolarizzato la dimensione religiosa e spirituale viene messa sempre più in ombra.

Nell’Europa cristiana, per secoli e secoli, la religione è stata ispiratrice di grandi opere d’arte in ogni campo: nell’architettura, nella musica, nella poesia, nella pittura. Tanti celebri dipinti che erano stati creati per essere oggetto di devozione sopra un altare, e lo sono stati, oggi stanno nei musei, e la gente li guarda con lo stesso spirito con cui si guarda la statua di una divinità pagana.

Me ne viene in mente uno: lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Era stato dipinto per la chiesa di San Francesco a Città di Castello, ora si trova a Milano alla Pinacoteca di Brera. Ma anche quella chiesa, che fino a pochi anni fa era sempre piena di fedeli, forse la più frequentata della città, ora è deserta; è ancora aperta, se qualcuno vuole entrare, ma la messa vi si celebra solo due o tre volte l’anno.

Finché dura. Ogni volta che una chiesa si chiude, si disperde (o si è già dispersa) anche la comunità che lì si riuniva. E ogni volta che accade - molto spesso, purtroppo - , per me e per molti come me è una profonda tristezza, come quella provata vedendo la flèche , la guglia più alta di Notre-Dame, sbriciolarsi nel fuoco. La guglia sarà ricostruita, ma le comunità quando rinasceranno?

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La cattedrale di Notre-Dame che brucia può diventare simbolo di tante cose https://www.lavoce.it/notre-dame-brucia-simbolo/ Thu, 18 Apr 2019 08:00:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54412 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Simboli e simbolismi. La cattedrale di Notre-Dame a Parigi che collassa sotto l’incalzare di un incendio devastante evoca pensieri molteplici. Simbolo di una città massimamente laica, ma anche della cristianità, mentre cede - in molta parte delle sue strutture - a fiamme violentissime, rimanda ad altri cedimenti, ad altri drammi.

Come quello delle Torri gemelle di New York. Scrigno di oltre mille opere d’arte, custode di quella che - secondo la tradizione cristiana - è stata la corona di spine imposta al Cristo prima della crocifissione, la cattedrale parigina divorata in gran parte dal fuoco paga anche, nella convinzione di molti e secondo le prima rilevazioni, una certa superficialità di chi avrebbe dovuto custodirla.

Anche i soccorsi, nonostante il tradizionale eroismo dei vigili del fuoco, sono apparsi tardivi e poco efficienti. Simbolici forse, anche questi, di una nazione come la Francia, ma anche dell’intera Europa, ingrippate in una crisi ideale e valoriale che avviluppa l’agire di singoli e istituzioni, in una ragnatela di grigiore e impotenza. Simbolico anche il fatto che nella laicissima Francia i beni ecclesiastici siano di proprietà dello Stato.

Simbolico, infine, l’intervento a gamba tesa, e a fiamme incombenti, del Presidente degli Stati Uniti. “Mandate i canadair a lanciare acqua da sopra” ha scritto Trump su Twitter. Ma Notre-Dame non è un bosco della California: il lancio di tonnellate d’acqua avrebbe solo aggravato i crolli strutturali. Una simbolica superficialità.

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di Daris Giancarlini

Simboli e simbolismi. La cattedrale di Notre-Dame a Parigi che collassa sotto l’incalzare di un incendio devastante evoca pensieri molteplici. Simbolo di una città massimamente laica, ma anche della cristianità, mentre cede - in molta parte delle sue strutture - a fiamme violentissime, rimanda ad altri cedimenti, ad altri drammi.

Come quello delle Torri gemelle di New York. Scrigno di oltre mille opere d’arte, custode di quella che - secondo la tradizione cristiana - è stata la corona di spine imposta al Cristo prima della crocifissione, la cattedrale parigina divorata in gran parte dal fuoco paga anche, nella convinzione di molti e secondo le prima rilevazioni, una certa superficialità di chi avrebbe dovuto custodirla.

Anche i soccorsi, nonostante il tradizionale eroismo dei vigili del fuoco, sono apparsi tardivi e poco efficienti. Simbolici forse, anche questi, di una nazione come la Francia, ma anche dell’intera Europa, ingrippate in una crisi ideale e valoriale che avviluppa l’agire di singoli e istituzioni, in una ragnatela di grigiore e impotenza. Simbolico anche il fatto che nella laicissima Francia i beni ecclesiastici siano di proprietà dello Stato.

Simbolico, infine, l’intervento a gamba tesa, e a fiamme incombenti, del Presidente degli Stati Uniti. “Mandate i canadair a lanciare acqua da sopra” ha scritto Trump su Twitter. Ma Notre-Dame non è un bosco della California: il lancio di tonnellate d’acqua avrebbe solo aggravato i crolli strutturali. Una simbolica superficialità.

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Maturità senza Storia? Una follia https://www.lavoce.it/maturita-senza-storia/ Sat, 02 Mar 2019 08:23:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54116 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Sono tra quelli che si stanno ancora chiedendo come mai sia stato tolto il tema storico dall’esame di maturità di quest’anno. Se lo chiede anche la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio di Auschwitz, che ha chiesto al Parlamento di promuovere una commissione d’inchiesta per capire le ragioni di questa decisione.

“Ma bisogna fare presto e poi reintrodurre il tema storico dall’anno prossimo - ha incalzato Segre. - Sono una voce che grida nel deserto dei morti. E cosa succederà quando non ci saremo più? La storia è sempre manipolabile. Quando saranno venuti meno gli ultimi sopravvissuti, la Shoah diventerà una riga nei libri di storia. E più tardi ancora, non ci sarà neppure quella”.

La preoccupazione della senatrice è legittima, prima di tutto perché fondata sulla sua drammatica esperienza personale. Ma è legittima e fondata a livello generale, rispetto alla marginalizzazione di una materia come la Storia: che serve a capire il presente avendo ben presente cosa è successo in passato. “Chi controlla il passato controlla il futuro. E chi controlla il presente controlla il passato”, ha scritto George Orwell in 1984 .

Quindi, per garantirsi libertà, sarebbe meglio studiarne di più e meglio, di Storia. Altro che cancellarla. Perché, come canta De Gregori, “la Storia siamo noi”.

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di Daris Giancarlini

Sono tra quelli che si stanno ancora chiedendo come mai sia stato tolto il tema storico dall’esame di maturità di quest’anno. Se lo chiede anche la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio di Auschwitz, che ha chiesto al Parlamento di promuovere una commissione d’inchiesta per capire le ragioni di questa decisione.

“Ma bisogna fare presto e poi reintrodurre il tema storico dall’anno prossimo - ha incalzato Segre. - Sono una voce che grida nel deserto dei morti. E cosa succederà quando non ci saremo più? La storia è sempre manipolabile. Quando saranno venuti meno gli ultimi sopravvissuti, la Shoah diventerà una riga nei libri di storia. E più tardi ancora, non ci sarà neppure quella”.

La preoccupazione della senatrice è legittima, prima di tutto perché fondata sulla sua drammatica esperienza personale. Ma è legittima e fondata a livello generale, rispetto alla marginalizzazione di una materia come la Storia: che serve a capire il presente avendo ben presente cosa è successo in passato. “Chi controlla il passato controlla il futuro. E chi controlla il presente controlla il passato”, ha scritto George Orwell in 1984 .

Quindi, per garantirsi libertà, sarebbe meglio studiarne di più e meglio, di Storia. Altro che cancellarla. Perché, come canta De Gregori, “la Storia siamo noi”.

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Cento anni fa l’appello di don Luigi Sturzo ai “liberi e forti”. Ma a chi si rivolgeva? https://www.lavoce.it/don-luigi-sturzo-appello/ Fri, 18 Jan 2019 12:00:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53823 sturzo

Sono passati cento anni dal lancio dell’appello “ai liberi e forti” con cui don Sturzo diede il via all’esperienza del Partito popolare italiano. Era infatti il 18 gennaio 1919 quando quell’innovativo manifesto politico fu diffuso da Roma. Ed è un testo che, dopo un secolo, presenta ancora oggi spunti di straordinaria attualità.

Ne parliamo con il presidente dell’Istituto Luigi Sturzo, Nicola Antonetti, che è anche ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma.

Che cosa ha significato l’appello di don Sturzo per la storia dell’impegno politico dei cattolici italiani?

“Il manifesto ‘ai liberi e forti’ e più in generale l’avvio dell’esperienza del Partito popolare segnano l’inizio dell’impegno dei cattolici italiani nelle istituzioni apicali dello Stato. Una svolta importantissima. Fino a quel momento infatti, almeno formalmente, i cattolici erano del tutto estranei alla vita politica nazionale, potevano operare soltanto a livello amministrativo.

Ma questo per Sturzo limitava fortemente la possibilità di incidere nella trasformazione democratica dello Stato, che per lui era un obiettivo fondamentale. Mentre il pensiero prevalente in ambito cattolico aveva ancora una visione armonica della società, Sturzo aveva percepito che c’era un ‘dinamismo della lotta’ ineliminabile, e che questo doveva essere governato”.

Nell’appello si parla della necessità di un “reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali”. Sembra una riflessione di questi mesi...

“Sturzo è sempre stato molto attento alle vicende internazionali, per tutta la vita. Quel riferimento molto lucido contenuto nell’appello va compreso anche alla luce di un fatto contingente: si era all’indomani della fine della guerra, i cattolici uscivano da un’immagine di neutralismo e l’idea di un ‘giusto equilibrio’ costituiva una risposta convincente al ritorno dei nazionalismi.

Sturzo aveva colto che con i nazionalismi si sarebbe ricaduti nuovamente nella guerra, e che il problema vero era quello di costruire un nuovo equilibrio tra gli Stati. Di qui la positiva valutazione del piano dell’allora presidente americano Wilson e la sottolineatura del ruolo della Società delle nazioni. Non solo. Già nel ’29 Sturzo parlava degli Stati Uniti d’Europa come di un obiettivo a cui tendere con tenacia e pazienza”.

L’appello auspica “uno Stato veramente popolare”. Sturzo ha chiamato “popolare” anche il partito da lui fondato. Ma che cosa intendeva con questo termine che oggi è circondato da molte ambiguità?

“La scelta del nome del partito risponde principalmente alla volontà di distaccarsi dall’esperienza della prima Democrazia cristiana, quella di Murri. Con il termine ‘popolare’ Sturzo voleva semplicemente esprimere un antagonismo rispetto alle oligarchie borghesi che avevano dominato la politica italiana fino a quel momento.

Non a caso la prima grande operazione di Sturzo fu quella di riuscire a far approvare una legge elettorale proporzionale, con l’obiettivo non di eliminare, ma di costringere all’opposizione i partiti espressione di quelle oligarchie.

Il popolarismo non ha nulla a che vedere con quello che oggi siamo soliti chiamare populismo. Sturzo è sempre stato molto critico verso un’idea di popolo come nebulosa indistinta. Non dimentichiamo che di lì a poco l’avvento del fascismo sarebbe avvenuto ‘in nome del popolo’ e avrebbe portato all’eliminazione dei partiti”.

A un giovane che oggi prendesse in mano l’appello “ai liberi e forti”e, più in generale, si accostasse al pensiero di Sturzo, quale aspetto suggerirebbe di valorizzare?

“Ne vedo soprattutto due. In primo luogo il richiamo alla moralità della politica, che è centrale in tutta la riflessione e l’esperienza di Sturzo. Il secondo riguarda il piano istituzionale, e in particolare il sistema della rappresentanza come momento di sintesi tra lo Stato e la società, essenziale per la vita democratica. Il Parlamento deve poter svolgere pienamente questa funzione. Se il suo ruolo viene vanificato sia da parte dell’esecutivo, sia da visioni di tipo populista, è la stessa democrazia che decade”.

Stefano De Martis

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sturzo

Sono passati cento anni dal lancio dell’appello “ai liberi e forti” con cui don Sturzo diede il via all’esperienza del Partito popolare italiano. Era infatti il 18 gennaio 1919 quando quell’innovativo manifesto politico fu diffuso da Roma. Ed è un testo che, dopo un secolo, presenta ancora oggi spunti di straordinaria attualità.

Ne parliamo con il presidente dell’Istituto Luigi Sturzo, Nicola Antonetti, che è anche ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma.

Che cosa ha significato l’appello di don Sturzo per la storia dell’impegno politico dei cattolici italiani?

“Il manifesto ‘ai liberi e forti’ e più in generale l’avvio dell’esperienza del Partito popolare segnano l’inizio dell’impegno dei cattolici italiani nelle istituzioni apicali dello Stato. Una svolta importantissima. Fino a quel momento infatti, almeno formalmente, i cattolici erano del tutto estranei alla vita politica nazionale, potevano operare soltanto a livello amministrativo.

Ma questo per Sturzo limitava fortemente la possibilità di incidere nella trasformazione democratica dello Stato, che per lui era un obiettivo fondamentale. Mentre il pensiero prevalente in ambito cattolico aveva ancora una visione armonica della società, Sturzo aveva percepito che c’era un ‘dinamismo della lotta’ ineliminabile, e che questo doveva essere governato”.

Nell’appello si parla della necessità di un “reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali”. Sembra una riflessione di questi mesi...

“Sturzo è sempre stato molto attento alle vicende internazionali, per tutta la vita. Quel riferimento molto lucido contenuto nell’appello va compreso anche alla luce di un fatto contingente: si era all’indomani della fine della guerra, i cattolici uscivano da un’immagine di neutralismo e l’idea di un ‘giusto equilibrio’ costituiva una risposta convincente al ritorno dei nazionalismi.

Sturzo aveva colto che con i nazionalismi si sarebbe ricaduti nuovamente nella guerra, e che il problema vero era quello di costruire un nuovo equilibrio tra gli Stati. Di qui la positiva valutazione del piano dell’allora presidente americano Wilson e la sottolineatura del ruolo della Società delle nazioni. Non solo. Già nel ’29 Sturzo parlava degli Stati Uniti d’Europa come di un obiettivo a cui tendere con tenacia e pazienza”.

L’appello auspica “uno Stato veramente popolare”. Sturzo ha chiamato “popolare” anche il partito da lui fondato. Ma che cosa intendeva con questo termine che oggi è circondato da molte ambiguità?

“La scelta del nome del partito risponde principalmente alla volontà di distaccarsi dall’esperienza della prima Democrazia cristiana, quella di Murri. Con il termine ‘popolare’ Sturzo voleva semplicemente esprimere un antagonismo rispetto alle oligarchie borghesi che avevano dominato la politica italiana fino a quel momento.

Non a caso la prima grande operazione di Sturzo fu quella di riuscire a far approvare una legge elettorale proporzionale, con l’obiettivo non di eliminare, ma di costringere all’opposizione i partiti espressione di quelle oligarchie.

Il popolarismo non ha nulla a che vedere con quello che oggi siamo soliti chiamare populismo. Sturzo è sempre stato molto critico verso un’idea di popolo come nebulosa indistinta. Non dimentichiamo che di lì a poco l’avvento del fascismo sarebbe avvenuto ‘in nome del popolo’ e avrebbe portato all’eliminazione dei partiti”.

A un giovane che oggi prendesse in mano l’appello “ai liberi e forti”e, più in generale, si accostasse al pensiero di Sturzo, quale aspetto suggerirebbe di valorizzare?

“Ne vedo soprattutto due. In primo luogo il richiamo alla moralità della politica, che è centrale in tutta la riflessione e l’esperienza di Sturzo. Il secondo riguarda il piano istituzionale, e in particolare il sistema della rappresentanza come momento di sintesi tra lo Stato e la società, essenziale per la vita democratica. Il Parlamento deve poter svolgere pienamente questa funzione. Se il suo ruolo viene vanificato sia da parte dell’esecutivo, sia da visioni di tipo populista, è la stessa democrazia che decade”.

Stefano De Martis

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È un nuovo Sessantotto? No https://www.lavoce.it/nuovo-sessantotto/ Thu, 06 Dec 2018 09:31:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53570 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

In Francia l’annuncio di una modesta sovrattassa su alcuni tipi di carburante – pensata per incentivare i motori meno inquinanti – ha scatenato una rivolta popolare così turbolenta che il Governo, alla fine, ha creduto meglio fare un passo indietro. Una protesta, nota bene, non classificabile sotto una precisa etichetta politica.

Negli stessi giorni alcune elezioni locali in una regione della Spagna hanno premiato un movimento di protesta.

Episodi del genere, sia pure in forme molto diverse, si stanno verificando in tutta Europa, con il caso eclatante dell’Italia, dove hanno preso il potere due movimenti apparentemente diversi in tutto ma accomunati dall’essere “antisistema” (qualunque cosa voglia dire questa parola).

C’è un filo conduttore? Forse sì; ed è molto diverso da quello che, a partire dal Sessantotto (cinquant’anni fa!), legava i movimenti giovanili di tutta Europa in una rivolta che anche allora appariva “antisistema”. La differenza sta in questo: negli anni 1968 e seguenti – anni che un protagonista ha definito “formidabili” e che io valuterei assai più criticamente – il movimento si proponeva, sia pur confusamente, di aprire le porte a un mondo nuovo e a una società nuova.

Oggi sembra che, altrettanto confusamente, i movimenti (meglio parlarne al plurale) siano ispirati alla nostalgia per un mondo passato, meno tecnologico (smartphone a parte), meno europeista, meno globalista, meno interculturale, meno aperto al dialogo.

Il movimento iniziato nel 1968 puntava alla cancellazione di tutti i confini, e raggiunse il suo vertice simbolico ma anche pratico nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino; i movimenti di oggi si esaltano all’idea di “difendere i confini nazionali”, ripristinare le separazioni, recuperare le identità culturali in pericolo.

Lungi da me stabilire assiomaticamente l’equazione per cui andare avanti è il Bene e tornare indietro è il Male. Però, se difendere i confini e i valori tradizionali è il modo nobile per dire che non si vuole condividere il proprio benessere con i poveri del mondo, come cristiani non ci siamo.

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di Pier Giorgio Lignani

In Francia l’annuncio di una modesta sovrattassa su alcuni tipi di carburante – pensata per incentivare i motori meno inquinanti – ha scatenato una rivolta popolare così turbolenta che il Governo, alla fine, ha creduto meglio fare un passo indietro. Una protesta, nota bene, non classificabile sotto una precisa etichetta politica.

Negli stessi giorni alcune elezioni locali in una regione della Spagna hanno premiato un movimento di protesta.

Episodi del genere, sia pure in forme molto diverse, si stanno verificando in tutta Europa, con il caso eclatante dell’Italia, dove hanno preso il potere due movimenti apparentemente diversi in tutto ma accomunati dall’essere “antisistema” (qualunque cosa voglia dire questa parola).

C’è un filo conduttore? Forse sì; ed è molto diverso da quello che, a partire dal Sessantotto (cinquant’anni fa!), legava i movimenti giovanili di tutta Europa in una rivolta che anche allora appariva “antisistema”. La differenza sta in questo: negli anni 1968 e seguenti – anni che un protagonista ha definito “formidabili” e che io valuterei assai più criticamente – il movimento si proponeva, sia pur confusamente, di aprire le porte a un mondo nuovo e a una società nuova.

Oggi sembra che, altrettanto confusamente, i movimenti (meglio parlarne al plurale) siano ispirati alla nostalgia per un mondo passato, meno tecnologico (smartphone a parte), meno europeista, meno globalista, meno interculturale, meno aperto al dialogo.

Il movimento iniziato nel 1968 puntava alla cancellazione di tutti i confini, e raggiunse il suo vertice simbolico ma anche pratico nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino; i movimenti di oggi si esaltano all’idea di “difendere i confini nazionali”, ripristinare le separazioni, recuperare le identità culturali in pericolo.

Lungi da me stabilire assiomaticamente l’equazione per cui andare avanti è il Bene e tornare indietro è il Male. Però, se difendere i confini e i valori tradizionali è il modo nobile per dire che non si vuole condividere il proprio benessere con i poveri del mondo, come cristiani non ci siamo.

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Rovigliano. Proposta di trasformare in Centro studi la ex scuola Franchetti https://www.lavoce.it/rovigliano-scuola-franchetti/ Tue, 04 Dec 2018 10:00:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53532 Rovigliano

La comunità di Astucci di Città di Castello ha ricordato Leopoldo ed Alice Franchetti con un evento dal titolo emblematico: “Il dovere della riconoscenza”. La giornata si è svolta in più fasi, aperte da una mostra didattica dei lavori storici degli allievi delle scuole della Montesca, Rovigliano ed Astucci allestita nei locali della canonica. Un folto pubblico ha seguito la conferenza tenuta da Elvio Ciferri, Marisa Borchiellini e Fabrizio Bordrini.

Giunto a Città di Castello nel 1882 quale deputato eletto nel Collegio regionale di Perugia del Regno d’Italia, Leopoldo Franchetti si dedicò, insieme alla moglie, la newyorchese Alice Hallgarten, a risollevare l’economia e la cultura dell’Alta Valle del Tevere, con particolare attenzione alle fasce più povere della popolazione.

Insieme avviarono e finanziarono attività, quali il laboratorio Tela umbra, gestito dalle stesse operaie, e le scuole di Rovigliano e della Montesca, la villa fatta costruire dal barone, fulcro di attività culturali e assistenziali di livello internazionale, quali la sperimentazione e la pubblicazione del metodo montessoriano.

Entrambi di origine ebraica, furono attenti a salvaguardare le radici culturali e religiose della zona, riscoprendo e mantenendo antiche tradizioni cristiane. In estrema coerenza con quanto teorizzato nei suoi studi sulla Questione meridionale e realizzato in collaborazione con Alice, Franchetti lascia nel suo testamento i poderi della Montesca e Rovigliano ai suoi contadini e la villa Montesca alle maestre.

Sulla base di questi fatti straordinari, che l’ha profondamente coinvolta, la comunità di Astucci e Rovigliano propone di rendere nuovamente fruibile l’edificio della scuola di Rovigliano, per custodirne le memorie concrete e adibirlo a sede di studio e divulgazione, e di inserire la zona nel percorso dei Sentieri francescani.

Marisa B. Conti

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Rovigliano

La comunità di Astucci di Città di Castello ha ricordato Leopoldo ed Alice Franchetti con un evento dal titolo emblematico: “Il dovere della riconoscenza”. La giornata si è svolta in più fasi, aperte da una mostra didattica dei lavori storici degli allievi delle scuole della Montesca, Rovigliano ed Astucci allestita nei locali della canonica. Un folto pubblico ha seguito la conferenza tenuta da Elvio Ciferri, Marisa Borchiellini e Fabrizio Bordrini.

Giunto a Città di Castello nel 1882 quale deputato eletto nel Collegio regionale di Perugia del Regno d’Italia, Leopoldo Franchetti si dedicò, insieme alla moglie, la newyorchese Alice Hallgarten, a risollevare l’economia e la cultura dell’Alta Valle del Tevere, con particolare attenzione alle fasce più povere della popolazione.

Insieme avviarono e finanziarono attività, quali il laboratorio Tela umbra, gestito dalle stesse operaie, e le scuole di Rovigliano e della Montesca, la villa fatta costruire dal barone, fulcro di attività culturali e assistenziali di livello internazionale, quali la sperimentazione e la pubblicazione del metodo montessoriano.

Entrambi di origine ebraica, furono attenti a salvaguardare le radici culturali e religiose della zona, riscoprendo e mantenendo antiche tradizioni cristiane. In estrema coerenza con quanto teorizzato nei suoi studi sulla Questione meridionale e realizzato in collaborazione con Alice, Franchetti lascia nel suo testamento i poderi della Montesca e Rovigliano ai suoi contadini e la villa Montesca alle maestre.

Sulla base di questi fatti straordinari, che l’ha profondamente coinvolta, la comunità di Astucci e Rovigliano propone di rendere nuovamente fruibile l’edificio della scuola di Rovigliano, per custodirne le memorie concrete e adibirlo a sede di studio e divulgazione, e di inserire la zona nel percorso dei Sentieri francescani.

Marisa B. Conti

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Il fascismo “eterno” si prepara a tornare? https://www.lavoce.it/fascismo-eterno-tornera/ Sun, 11 Nov 2018 10:00:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53354 eterno

di Daris Giancarlini

Se ne discute, con qualche remora, strappi in avanti e ritorni indietro, ma se ne discute, sui giornali (molto) e in televisione (molto meno).

Quella che la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio degli ebrei, ha definito la “fascistizzazione del senso comune” o, in altre parole, la possibile riproposizione non soltanto di uno schema politico ma anche e soprattutto di un modo di pensare, viene affrontata da commentatori, studiosi e storici con l’atteggiamento di chi non vuole eccedere in valutazioni e giudizi che potrebbero travalicare i limiti dell’oggettività e della realtà storica.

Prudenza, dunque: se anche un ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio utilizza la frase “me ne frego”, non si può automaticamente attribuire a questo motto, storicamente datato, il bollo dell’evocazione del Ventennio. Proprio perché, appunto, la circostanze della storia sono completamente diverse.

E così sarebbe quanto meno azzardato paragonare, per esempio, l’esclusione dei bambini stranieri da un asilo di una provincia lombarda a quello che avvenne con gli alunni di origine ebraica nelle scuole elementari del Regno d’Italia la mattina in cui entrarono in vigore le leggi razziali.

È riflettendo su queste tematiche che mi è tornato tra le mani il volumetto, appena una cinquantina di pagine, uscito nel 1997, che raccoglieva il discorso che Umberto Eco, uno degli intellettuali italiani più raffinati e noti a livello internazionale, pronunciò il 25 aprile del 1995 alla Columbia University. Il titolo del libriccino, e della riflessione del sociologo autore del Nome della rosa, è “Il fascismo eterno”.

Eco, nel corso della sua riflessione, propone una lista di quelle che, secondo lui, sono le caratteristiche del fascismo eterno. Tra queste: il culto della tradizione, che non ammette avanzamento del sapere; il rifiuto del modernismo; il culto dell’azione per l’azione, che implica un atteggiamento di sospetto e repulsione nei confronti della cultura; la non accettazione della critica, che valuta il disaccordo come tradimento; la paura della differenza; l’appello alle classi medie frustrate; l’ossessione del complotto, sostenuta dalla xenofobia; il concepire il popolo come un’entità monolitica che esprime la volontà comune, da opporre ai governi parlamentari.

Fin qui l’analisi di Eco. Non una bibbia, certamente, ma un testo su cui riflettere. Senza timori e senza pregiudizi.

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eterno

di Daris Giancarlini

Se ne discute, con qualche remora, strappi in avanti e ritorni indietro, ma se ne discute, sui giornali (molto) e in televisione (molto meno).

Quella che la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio degli ebrei, ha definito la “fascistizzazione del senso comune” o, in altre parole, la possibile riproposizione non soltanto di uno schema politico ma anche e soprattutto di un modo di pensare, viene affrontata da commentatori, studiosi e storici con l’atteggiamento di chi non vuole eccedere in valutazioni e giudizi che potrebbero travalicare i limiti dell’oggettività e della realtà storica.

Prudenza, dunque: se anche un ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio utilizza la frase “me ne frego”, non si può automaticamente attribuire a questo motto, storicamente datato, il bollo dell’evocazione del Ventennio. Proprio perché, appunto, la circostanze della storia sono completamente diverse.

E così sarebbe quanto meno azzardato paragonare, per esempio, l’esclusione dei bambini stranieri da un asilo di una provincia lombarda a quello che avvenne con gli alunni di origine ebraica nelle scuole elementari del Regno d’Italia la mattina in cui entrarono in vigore le leggi razziali.

È riflettendo su queste tematiche che mi è tornato tra le mani il volumetto, appena una cinquantina di pagine, uscito nel 1997, che raccoglieva il discorso che Umberto Eco, uno degli intellettuali italiani più raffinati e noti a livello internazionale, pronunciò il 25 aprile del 1995 alla Columbia University. Il titolo del libriccino, e della riflessione del sociologo autore del Nome della rosa, è “Il fascismo eterno”.

Eco, nel corso della sua riflessione, propone una lista di quelle che, secondo lui, sono le caratteristiche del fascismo eterno. Tra queste: il culto della tradizione, che non ammette avanzamento del sapere; il rifiuto del modernismo; il culto dell’azione per l’azione, che implica un atteggiamento di sospetto e repulsione nei confronti della cultura; la non accettazione della critica, che valuta il disaccordo come tradimento; la paura della differenza; l’appello alle classi medie frustrate; l’ossessione del complotto, sostenuta dalla xenofobia; il concepire il popolo come un’entità monolitica che esprime la volontà comune, da opporre ai governi parlamentari.

Fin qui l’analisi di Eco. Non una bibbia, certamente, ma un testo su cui riflettere. Senza timori e senza pregiudizi.

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1918-2018. Esce il catalogo dei monumenti ai Caduti in Umbria https://www.lavoce.it/catalogo-monumenti-caduti/ Sat, 10 Nov 2018 12:00:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53348 caduti

E' stato presentato martedì a Perugia il volume 1918-2018, cento anni di memorie che contiene (come recita il sottotitolo) il “rilievo e catalogazione dei monumenti ai Caduti della Prima guerra mondiale in Umbria”, a cura di Paolo Belardi, Luca MartiniValeria Menchetelli. Precisando, comunque, che vari monumenti furono successivamente aggiornati aggiungendo i nomi dei caduti del secondo conflitto mondiale.

Cosa contiene il testo

cadutiIl testo, pubblicato dall’editrice Formichiere, deriva dal progetto di catalogazione finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e co-finanziato dalla Consulta delle Fondazioni delle Casse di risparmio umbre. Il lavoro di ricerca e documentazione (notizie, foto, disegni) è stato condotto dal dipartimento di Ingegneria civile e ambientale dell’Università di Perugia.

Dopo un’introduzione generale, che presenta il panorama dei monumenti ai Caduti a livello locale e nazionale, si susseguono le schede relative ai singoli monumenti e lapidi commemorative presenti in Umbria, con immagini, descrizioni e note storiche. Alla fine è inoltre offerto un “regesto” tratto dal Censimento dei monumenti ai Caduti redatto dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione; grazie ai QR Code, è possibile accedere - con lo smartphone e tablet - direttamente dalla pagina stampata al sito dell’Istituto, con tutte le informazioni.

Gli obiettivi

Scopo del progetto è anzitutto conoscere meglio una tragica e fondamentale pagina di storia italiana, ma anche un capillare impegno culturale che coinvolse noÈ mi famosi e tanti artisti o artigiani anonimi, i quali crearono in ogni centro grande o piccolo del Paese queste strutture, onorate ancora oggi ogni 4 novembre.

La migliore conoscenza contribuirà anche a una migliore tutela dei monumenti. Si tratta di una storia in parte ancora da scrivere, anche a causa di passati pregiudizi ideologici, come sottolinea il prof. Mario Tosti nel suo saggio all’interno del volume.

Infatti occorre “mettere a confronto da un lato il ricordo ‘ufficiale’ della guerra, che disseminò anche questa regione di monumenti alla vittoria o ai Caduti, e dall’altro gli orientamenti politici e culturali nel lungo periodo”, ossia “quell’orientamento a sinistra che in generale caratterizzò tutti gli ambenti intellettuali italiani, e in particolaregli indirizzi della cultura umbra”.

Insomma, fino a poco tempo fa, pareva ‘strano’ studiare il 1915-18 nella terra di Aldo Capitini. E tuttavia, non di militarismo si tratta, ma di rievocare persone concrete “con le loro paure, con i loro desideri, magari riassunti nella canzone Lilì Marlène”, come ha affermato il gen. Maugeri, della Scuola di lingue dell’Esercito, il 4 novembre a Perugia in sala dei Notari durante il concerto dedicato alla fine della Grande guerra.

Dario Rivarossa

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caduti

E' stato presentato martedì a Perugia il volume 1918-2018, cento anni di memorie che contiene (come recita il sottotitolo) il “rilievo e catalogazione dei monumenti ai Caduti della Prima guerra mondiale in Umbria”, a cura di Paolo Belardi, Luca MartiniValeria Menchetelli. Precisando, comunque, che vari monumenti furono successivamente aggiornati aggiungendo i nomi dei caduti del secondo conflitto mondiale.

Cosa contiene il testo

cadutiIl testo, pubblicato dall’editrice Formichiere, deriva dal progetto di catalogazione finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e co-finanziato dalla Consulta delle Fondazioni delle Casse di risparmio umbre. Il lavoro di ricerca e documentazione (notizie, foto, disegni) è stato condotto dal dipartimento di Ingegneria civile e ambientale dell’Università di Perugia.

Dopo un’introduzione generale, che presenta il panorama dei monumenti ai Caduti a livello locale e nazionale, si susseguono le schede relative ai singoli monumenti e lapidi commemorative presenti in Umbria, con immagini, descrizioni e note storiche. Alla fine è inoltre offerto un “regesto” tratto dal Censimento dei monumenti ai Caduti redatto dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione; grazie ai QR Code, è possibile accedere - con lo smartphone e tablet - direttamente dalla pagina stampata al sito dell’Istituto, con tutte le informazioni.

Gli obiettivi

Scopo del progetto è anzitutto conoscere meglio una tragica e fondamentale pagina di storia italiana, ma anche un capillare impegno culturale che coinvolse noÈ mi famosi e tanti artisti o artigiani anonimi, i quali crearono in ogni centro grande o piccolo del Paese queste strutture, onorate ancora oggi ogni 4 novembre.

La migliore conoscenza contribuirà anche a una migliore tutela dei monumenti. Si tratta di una storia in parte ancora da scrivere, anche a causa di passati pregiudizi ideologici, come sottolinea il prof. Mario Tosti nel suo saggio all’interno del volume.

Infatti occorre “mettere a confronto da un lato il ricordo ‘ufficiale’ della guerra, che disseminò anche questa regione di monumenti alla vittoria o ai Caduti, e dall’altro gli orientamenti politici e culturali nel lungo periodo”, ossia “quell’orientamento a sinistra che in generale caratterizzò tutti gli ambenti intellettuali italiani, e in particolaregli indirizzi della cultura umbra”.

Insomma, fino a poco tempo fa, pareva ‘strano’ studiare il 1915-18 nella terra di Aldo Capitini. E tuttavia, non di militarismo si tratta, ma di rievocare persone concrete “con le loro paure, con i loro desideri, magari riassunti nella canzone Lilì Marlène”, come ha affermato il gen. Maugeri, della Scuola di lingue dell’Esercito, il 4 novembre a Perugia in sala dei Notari durante il concerto dedicato alla fine della Grande guerra.

Dario Rivarossa

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Guerra 1915-18. Nel centenario della fine del conflitto esce il libro-diario dal fronte di don Ubaldi https://www.lavoce.it/guerra-centenario-diario-don-ubaldi/ Sun, 04 Nov 2018 10:00:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53296 Ubaldi

La pubblicazione del libro "Diario della Grande guerra" dell’allora don Beniamino Ubaldi giunge a conclusione del centenario del primo conflitto mondiale. Evento sconvolgente nella storia umana, ma ancora poco conosciuto nei suoi risvolti locali, almeno eugubini. Migliaia di giovani mobilitati, circa 700 caduti, un lascito di vita e di esperienza troppo presto dimenticato. Le memorie di don Ubaldi rappresentano un ulteriore stimolo per sollecitare e rinnovare l’interesse della comunità eugubina verso questo periodo importante della sua storia. La prima parte comprende le annotazioni di maggio-giugno 1915, quando don Ubaldi cerca in tutti i modi di evitare il suo invio al fronte nella qualità di prete-soldato. Nella seconda parte, da gennaio 1916 a gennaio 1917, si trova al fronte al seguito del 129° Reggimento fanteria. L’ultima parte riguarda invece il periodo in cui don Beniamino è assegnato all’ospedaletto da campo n. 162.

I curatori

 

Profonda è la gratitudine per i curatori di questo lavoro che permette ad un ampio pubblico di poter conoscere i diari di guerra di don Beniamino Ubaldi. Lungi dall’essere una violazione del personalissimo dialogo con la propria coscienza, questa operazione editoriale consegna al nostro popolo un preziosissimo album di immagini e ricordi che raccontano e disegnano la figura umanissima e nel contempo saldamente radicata nella fede di questo prete delle nostre terre, che la nostra diocesi eugubina avrà l’onore di avere come suo pastore negli anni seguenti.

Tali testi semplici e diretti nella loro espressività avvolgono il lettore nel tremendo mistero della crudeltà della guerra. Sono parole di un uomo che mentre vive il dramma di una tale “inutile strage” cerca di darle un contributo di umanizzazione, per se e per i compagni di sventura.

Frasi brevi e ritmate che scandiscono giorni lunghi e tormentati. A volte segnati dall’attesa timorosa di ciò che potrà accadere, e troppo spesso definiti dalla triste rassegnazione di chi è costretto a raccoglieri i frutti strazianti della violenza.

L’ignaro autore di un tale documento ci introduce nell’intimo tormento di un’anima che, dal sereno e devoto servizio ecclesiale si trova catapultato nel cuore di una vicenda assurda e raccapricciante, che mai avrebbe voluto interpretare. La dura accettazione di vestire la divisa militare, svestendo la più familiare e amata tonaca da prete. I mille tentativi di farsi assegnare ad un ruolo di cappellano per non correre il rischio inimmaginabile di trovarsi ad imbracciare un’arma per uccidere. La pietà e la tenerezza di padre nell’affiancare il dolore e lo smarrimento di tanti giovani inventatisi soldati.

La cura del ministero pastorale, che cerca di non far mancare il conforto della grazia sacramentale e della preghiera a tutti i malcapitati del fronte. Il conforto di una parola, la familiarità di un volto, il dono di una invocazione a Dio, nella paura e nell’incontro con la morte.

Don Ubaldi attraversa l’esperienza della guerra con la grande consapevolezza della profonda ingiustizia che essa rappresenta in primis per coloro che costretti ne sono i tragici protagonisti. Ma si lascia anche attraversare da questo drammatico evento senza alcuna difesa, esponendo ad essa tutta la sua umanità, gli interrogativi laceranti e le amarezze più struggenti, che lo feriscono e lo prostrano.

Da notare anche la semplicità delle sue annotazioni sugli elementi della vita comune, che costituiscono la trama delle giornate al fronte. Il cibo, l’alloggio, l’occasione di una partita a carte, la chiacchierata distesa con qualche commilitone, la posta, il tempo. Come anche i continui appunti sulla sua vita spirituale, la preghiera personale, la celebrazione della messa, le confessioni.

Tante volte emerge forte il cuore del prete. Il desiderio della vicinanza di Dio. Il dolore per l’allontanamento dei suoi figli, che si perdono nell’odio verso altri uomini, e bestemmiano quel Dio che solo può salvarli e custodirli in vita e in morte. L’invocazione fiduciosa della provvidenza divina. Il rifugio nella materna protezione della vergine Maria. Il pensiero affettuoso alle famiglie, alle madri e alle mogli, ai fratelli e ai figli degli uomini in armi.

I quasi quattro anni della sua “vita di guerra” trasformano lo sguardo e il ministero del sacerdote vadese. Non è difficile immaginare quanto abbiano inciso questi lunghi giorni vissuti nel ventre della guerra sulla fermezza e fortezza del vescovo Beniamino Ubaldi nei giorni bui del secondo conflitto mondiale in terra eugubina. In quei due lunghi giorni del sacrificio barbaro dei quaranta innocenti portati al martirio dalla inumana violenza.

La lettura di questi quotidiani appunti, che raccomando a molti, ci aiutino a rafforzare in noi la ferma condanna di ogni violenza dell’uomo sull’uomo, e dell’utilizzo della guerra come assurdo strumento di risoluzione delle umane controversie.

Mons. Luciano Paolucci Bedini, vescovo di Gubbio

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Ubaldi

La pubblicazione del libro "Diario della Grande guerra" dell’allora don Beniamino Ubaldi giunge a conclusione del centenario del primo conflitto mondiale. Evento sconvolgente nella storia umana, ma ancora poco conosciuto nei suoi risvolti locali, almeno eugubini. Migliaia di giovani mobilitati, circa 700 caduti, un lascito di vita e di esperienza troppo presto dimenticato. Le memorie di don Ubaldi rappresentano un ulteriore stimolo per sollecitare e rinnovare l’interesse della comunità eugubina verso questo periodo importante della sua storia. La prima parte comprende le annotazioni di maggio-giugno 1915, quando don Ubaldi cerca in tutti i modi di evitare il suo invio al fronte nella qualità di prete-soldato. Nella seconda parte, da gennaio 1916 a gennaio 1917, si trova al fronte al seguito del 129° Reggimento fanteria. L’ultima parte riguarda invece il periodo in cui don Beniamino è assegnato all’ospedaletto da campo n. 162.

I curatori

 

Profonda è la gratitudine per i curatori di questo lavoro che permette ad un ampio pubblico di poter conoscere i diari di guerra di don Beniamino Ubaldi. Lungi dall’essere una violazione del personalissimo dialogo con la propria coscienza, questa operazione editoriale consegna al nostro popolo un preziosissimo album di immagini e ricordi che raccontano e disegnano la figura umanissima e nel contempo saldamente radicata nella fede di questo prete delle nostre terre, che la nostra diocesi eugubina avrà l’onore di avere come suo pastore negli anni seguenti.

Tali testi semplici e diretti nella loro espressività avvolgono il lettore nel tremendo mistero della crudeltà della guerra. Sono parole di un uomo che mentre vive il dramma di una tale “inutile strage” cerca di darle un contributo di umanizzazione, per se e per i compagni di sventura.

Frasi brevi e ritmate che scandiscono giorni lunghi e tormentati. A volte segnati dall’attesa timorosa di ciò che potrà accadere, e troppo spesso definiti dalla triste rassegnazione di chi è costretto a raccoglieri i frutti strazianti della violenza.

L’ignaro autore di un tale documento ci introduce nell’intimo tormento di un’anima che, dal sereno e devoto servizio ecclesiale si trova catapultato nel cuore di una vicenda assurda e raccapricciante, che mai avrebbe voluto interpretare. La dura accettazione di vestire la divisa militare, svestendo la più familiare e amata tonaca da prete. I mille tentativi di farsi assegnare ad un ruolo di cappellano per non correre il rischio inimmaginabile di trovarsi ad imbracciare un’arma per uccidere. La pietà e la tenerezza di padre nell’affiancare il dolore e lo smarrimento di tanti giovani inventatisi soldati.

La cura del ministero pastorale, che cerca di non far mancare il conforto della grazia sacramentale e della preghiera a tutti i malcapitati del fronte. Il conforto di una parola, la familiarità di un volto, il dono di una invocazione a Dio, nella paura e nell’incontro con la morte.

Don Ubaldi attraversa l’esperienza della guerra con la grande consapevolezza della profonda ingiustizia che essa rappresenta in primis per coloro che costretti ne sono i tragici protagonisti. Ma si lascia anche attraversare da questo drammatico evento senza alcuna difesa, esponendo ad essa tutta la sua umanità, gli interrogativi laceranti e le amarezze più struggenti, che lo feriscono e lo prostrano.

Da notare anche la semplicità delle sue annotazioni sugli elementi della vita comune, che costituiscono la trama delle giornate al fronte. Il cibo, l’alloggio, l’occasione di una partita a carte, la chiacchierata distesa con qualche commilitone, la posta, il tempo. Come anche i continui appunti sulla sua vita spirituale, la preghiera personale, la celebrazione della messa, le confessioni.

Tante volte emerge forte il cuore del prete. Il desiderio della vicinanza di Dio. Il dolore per l’allontanamento dei suoi figli, che si perdono nell’odio verso altri uomini, e bestemmiano quel Dio che solo può salvarli e custodirli in vita e in morte. L’invocazione fiduciosa della provvidenza divina. Il rifugio nella materna protezione della vergine Maria. Il pensiero affettuoso alle famiglie, alle madri e alle mogli, ai fratelli e ai figli degli uomini in armi.

I quasi quattro anni della sua “vita di guerra” trasformano lo sguardo e il ministero del sacerdote vadese. Non è difficile immaginare quanto abbiano inciso questi lunghi giorni vissuti nel ventre della guerra sulla fermezza e fortezza del vescovo Beniamino Ubaldi nei giorni bui del secondo conflitto mondiale in terra eugubina. In quei due lunghi giorni del sacrificio barbaro dei quaranta innocenti portati al martirio dalla inumana violenza.

La lettura di questi quotidiani appunti, che raccomando a molti, ci aiutino a rafforzare in noi la ferma condanna di ogni violenza dell’uomo sull’uomo, e dell’utilizzo della guerra come assurdo strumento di risoluzione delle umane controversie.

Mons. Luciano Paolucci Bedini, vescovo di Gubbio

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Pensare per vivere https://www.lavoce.it/pensare-per-vivere/ Tue, 23 Oct 2018 08:00:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53190 logo abat jour, rubrica settimanale

“Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per far loro raccogliere il legno, distribuire i compiti in modo da organizzare bene il lavoro, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Cito da Il Piccolo Principe, un capolavoro timido e bello come una viola del pensiero, che fiorisce solo a fine estate ma poi dura fino a primavera.

Il Piccolo Principe racconta il dialogo tra un pilota il cui aereo con un atterraggio di fortuna s’è inca-gliato nel deserto del Sahara e un bambino apparso all’improvviso che, tanto per attaccare bottone, gli chiede di disegnargli una pecora, e lui gli disegna una scatola. Non si sono capiti, ma proprio per questo il dialogo che parte zoppo assume un grande spessore umano, grazie soprattutto al fatto che il bambino non è dei nostri, ma proviene da un lontano asteroide, sul quale abitano solo lui, tre vulcani di cui uno è spento, e una piccola rosa, molto vanitosa, che lui ama molto...

Uno sfondo magico per un invito estremamente realistico. Lo dobbiamo alla penna di Antoine de Saint-Exupéry, un pilota di guerra che durante la Seconda guerra mondiale s’impegnò allo spasimo contro l’aviazione del Reich, nelle file delle Forces aériennes françaises libres, e morì sul finire del conflitto, colpito da un caccia tedesco davanti a Marsiglia.

Il pilota della Luftwaffe che lo abbatté, pur non sapendolo, aveva mille e una ragioni per farlo: perché Antoine de Saint-Exupéry, mentre volava e combatteva, pensava. Pensava cose grandi: la vita, l’uomo, la comunità umana. Pensava e poi, una volta a casa, affidava alla pagina bianche il frutto di quel suo rimuginare intimo. E dunque un’attività che al Führer doveva per forza dare un immenso fastidio, e giustificare quel colpo alla schiena col quale un suo scagnozzo, a guerra finita, uccise lo scrittore reo di tanto delitto.

Perché la qualità del pensiero di Saint-Exupéry è umanamente eccellente: il brano che abbiamo citato è uno dei tanti che t’inducono a spegnere la tv e a dar luogo alla liturgia manzoniana: poggiare il gomito sulla scrivania (invece che sul bordo della barca) poggiare la testa sul gomito, e pensare. Pensare a come impostare la vita.

L’invito del Piccolo Principe a puntare sul fascino infinito del mare piuttosto che sulle tecniche di costruzione della nave avrà un giorno il suo apice in quello che don Milani scriverà al suo confratello don Ezio Palombo, tentato di puntare sul ping-pong per poter attirare i giovani in parrocchia:

“Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto... e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo”.

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“Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per far loro raccogliere il legno, distribuire i compiti in modo da organizzare bene il lavoro, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Cito da Il Piccolo Principe, un capolavoro timido e bello come una viola del pensiero, che fiorisce solo a fine estate ma poi dura fino a primavera.

Il Piccolo Principe racconta il dialogo tra un pilota il cui aereo con un atterraggio di fortuna s’è inca-gliato nel deserto del Sahara e un bambino apparso all’improvviso che, tanto per attaccare bottone, gli chiede di disegnargli una pecora, e lui gli disegna una scatola. Non si sono capiti, ma proprio per questo il dialogo che parte zoppo assume un grande spessore umano, grazie soprattutto al fatto che il bambino non è dei nostri, ma proviene da un lontano asteroide, sul quale abitano solo lui, tre vulcani di cui uno è spento, e una piccola rosa, molto vanitosa, che lui ama molto...

Uno sfondo magico per un invito estremamente realistico. Lo dobbiamo alla penna di Antoine de Saint-Exupéry, un pilota di guerra che durante la Seconda guerra mondiale s’impegnò allo spasimo contro l’aviazione del Reich, nelle file delle Forces aériennes françaises libres, e morì sul finire del conflitto, colpito da un caccia tedesco davanti a Marsiglia.

Il pilota della Luftwaffe che lo abbatté, pur non sapendolo, aveva mille e una ragioni per farlo: perché Antoine de Saint-Exupéry, mentre volava e combatteva, pensava. Pensava cose grandi: la vita, l’uomo, la comunità umana. Pensava e poi, una volta a casa, affidava alla pagina bianche il frutto di quel suo rimuginare intimo. E dunque un’attività che al Führer doveva per forza dare un immenso fastidio, e giustificare quel colpo alla schiena col quale un suo scagnozzo, a guerra finita, uccise lo scrittore reo di tanto delitto.

Perché la qualità del pensiero di Saint-Exupéry è umanamente eccellente: il brano che abbiamo citato è uno dei tanti che t’inducono a spegnere la tv e a dar luogo alla liturgia manzoniana: poggiare il gomito sulla scrivania (invece che sul bordo della barca) poggiare la testa sul gomito, e pensare. Pensare a come impostare la vita.

L’invito del Piccolo Principe a puntare sul fascino infinito del mare piuttosto che sulle tecniche di costruzione della nave avrà un giorno il suo apice in quello che don Milani scriverà al suo confratello don Ezio Palombo, tentato di puntare sul ping-pong per poter attirare i giovani in parrocchia:

“Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto... e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo”.

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