Spirito Santo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/spirito-santo/ Settimanale di informazione regionale Fri, 11 Jun 2021 14:24:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Spirito Santo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/spirito-santo/ 32 32 Gesù sceglie discepoli … ma con quali criteri? https://www.lavoce.it/gesu-sceglie-discepoli-ma-con-quali-criteri/ Fri, 11 Jun 2021 14:21:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60962

Terminate le solennità del Signore, la liturgia domenicale ci riporta all’ordinarietà del cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli. Emerge un forte contrasto tra le narrazioni delle grandi feste, in cui i testi biblici ci hanno narrato le straordinarie manifestazioni del Signore e il Vangelo di questa domenica, che inaugura il tempo ordinario. Dalla solennità dell’Ascensione fino al Corpus Domini, la liturgia e la Parola di Dio hanno reso visibile il Mistero, anticipandoci il Regno nella sua prospettiva ultima. Ma gli “effetti speciali”, non sono l’agire ordinario di Dio, bensì lo è la sua azione nascosta e silenziosa, per la quale chiede la partecipazione dell’uomo.

Il cammino ordinario dell’anno liturgico

Il cammino ordinario dell’anno liturgico riprende con il Vangelo di Marco 4,26-34. Il brano conclude il racconto di alcune parabole con queste parole: “Con queste parabole [Gesù] annunciava la Parola. Senza parabole non parlava loro” (4,33-34). I l “discorso parabolico” traduceva in un linguaggio popolare i grandi misteri del Regno, ed evidenziava l’azione provvidenziale del Padre celeste affinché le folle comprendessero. Non mancava mai, però, un supplemento di spiritoegazione ai suoi discepoli: “In privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). Quale opportunità per questi uomini che Gesù aveva da poco chiamato a seguirlo! “Costituì dunque i Dodici” (Mc 3,14-16). Una vera opera costitutiva di un gruppo scelto... ma quali sono i criteri con cui ha scelto queste persone? Quali le loro “competenze”?

Il Signore non sceglie in base ai “punteggi”…

Sappiamo bene dai racconti evangelici che nulla di straordinario potevano vantare per essere scelti: curricula non certo esaltanti, tranne qualche professionalità, ma che semmai eccelleva nella furbizia per approfittarsene. È possibile immaginare un legame tra le parabole narrate nel Vangelo odierno e il “materiale umano” di coloro a cui sarà affidato il compito di guidare la Chiesa? La chiamata degli apostoli, inauguratori della comunità messianica il cui fine è la realizzazione del Regno, sembra l’opera iniziale della semina: un atto da compiere con volontà di gettare il seme (Mc 4,26). Il resto è però affidato alla provvidenza divina: gettato il seme nel terreno, il successivo intervento da parte umana sarà il raccolto (v. 29). In mezzo c’è tutta l’opera nascosta di un Dio che provvede, dal primo stelo fino al frutto maturo (vv. 27-28).

…primo requisito un cuore libero

Il Signore non sembra scegliere in base ai “punteggi” acquisiti con le proprie forze nel corso della vita. Con Lui non si vantano crediti. Un cuore disponibile, libero tanto da accettare una sfida, capace di riconoscere l’amore: queste piuttosto sembrano essere le precondizioni per toccare il cuore di Dio. Poi il discepolo “si farà”. “Lasciarsi fare” da Dio è la garanzia per acquisire le virtù del chiamato. Essere chiamati e lasciarsi fare da Lui significa fidarsi di Lui, come ricorda la seconda lettura. “Sempre pieni di fiducia” (2Cor 5,6.8), ci esorta a essere san Paolo, perché il nostro cammino avanza nella fede, non nella visione (v. 7).

… capace di vivere l'esilio dal proprio corpo

Interessante anche la chiave di lettura che Paolo dà della nostra condizione: “Siamo in esilio, lontano dal Signore finché abitiamo il corpo” (v. 6), perciò per abitare presso il Signore è necessario essere esuli dal corpo (v. 8). L’esilio sembra essere la condizione necessaria per attraversare il tempo e “traguardare” l’eternità, la meta appagante. L’esilio sembra essere il luogo dove il Signore ci ha collocato stabilmente, forse per ricercare la vera patria, e misurare la nostra fede. Il popolo d’Israele in esilio ha fatto le cose migliori, le opere più gradite a Dio. Anche noi, popolo della nuova alleanza, il Signore sta “vagliando” con l’esilio. Anche la Chiesa può ritrovare se stessa ritrovando il Signore nella precarietà della condizione attuale, senza la ricerca di certezze “di bassa lega”.

Lo Spirito trasforma il cuore

La Provvidenza traccia il passo lungo che porta il seme a fruttificare (Mc 4,27-28), trasforma il piccolo seme di senape nell’albero più grande (v. 31-33), un piccolo ramoscello di cedro diventerà un cedro grandissimo (Ez 17,22-23). Il profeta, in questa prima lettura, sa vedere in un tempo di esilio l’opera che Dio ha immaginato.

Oggi la Chiesa ha questo sguardo profetico?

La nostra Chiesa, oggi, ha questo sguardo profetico? Siamo capaci di infondere speranza e fiducia in Dio? Oppure ricerchiamo “previdenze” ecclesiastiche che garantiscono un apparente successo, da presentare come via di accesso a futuri riconoscimenti? Molto appropriato il monito con cui Paolo conclude la seconda lettura: “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male” (2Cor 3,10).]]>

Terminate le solennità del Signore, la liturgia domenicale ci riporta all’ordinarietà del cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli. Emerge un forte contrasto tra le narrazioni delle grandi feste, in cui i testi biblici ci hanno narrato le straordinarie manifestazioni del Signore e il Vangelo di questa domenica, che inaugura il tempo ordinario. Dalla solennità dell’Ascensione fino al Corpus Domini, la liturgia e la Parola di Dio hanno reso visibile il Mistero, anticipandoci il Regno nella sua prospettiva ultima. Ma gli “effetti speciali”, non sono l’agire ordinario di Dio, bensì lo è la sua azione nascosta e silenziosa, per la quale chiede la partecipazione dell’uomo.

Il cammino ordinario dell’anno liturgico

Il cammino ordinario dell’anno liturgico riprende con il Vangelo di Marco 4,26-34. Il brano conclude il racconto di alcune parabole con queste parole: “Con queste parabole [Gesù] annunciava la Parola. Senza parabole non parlava loro” (4,33-34). I l “discorso parabolico” traduceva in un linguaggio popolare i grandi misteri del Regno, ed evidenziava l’azione provvidenziale del Padre celeste affinché le folle comprendessero. Non mancava mai, però, un supplemento di spiritoegazione ai suoi discepoli: “In privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). Quale opportunità per questi uomini che Gesù aveva da poco chiamato a seguirlo! “Costituì dunque i Dodici” (Mc 3,14-16). Una vera opera costitutiva di un gruppo scelto... ma quali sono i criteri con cui ha scelto queste persone? Quali le loro “competenze”?

Il Signore non sceglie in base ai “punteggi”…

Sappiamo bene dai racconti evangelici che nulla di straordinario potevano vantare per essere scelti: curricula non certo esaltanti, tranne qualche professionalità, ma che semmai eccelleva nella furbizia per approfittarsene. È possibile immaginare un legame tra le parabole narrate nel Vangelo odierno e il “materiale umano” di coloro a cui sarà affidato il compito di guidare la Chiesa? La chiamata degli apostoli, inauguratori della comunità messianica il cui fine è la realizzazione del Regno, sembra l’opera iniziale della semina: un atto da compiere con volontà di gettare il seme (Mc 4,26). Il resto è però affidato alla provvidenza divina: gettato il seme nel terreno, il successivo intervento da parte umana sarà il raccolto (v. 29). In mezzo c’è tutta l’opera nascosta di un Dio che provvede, dal primo stelo fino al frutto maturo (vv. 27-28).

…primo requisito un cuore libero

Il Signore non sembra scegliere in base ai “punteggi” acquisiti con le proprie forze nel corso della vita. Con Lui non si vantano crediti. Un cuore disponibile, libero tanto da accettare una sfida, capace di riconoscere l’amore: queste piuttosto sembrano essere le precondizioni per toccare il cuore di Dio. Poi il discepolo “si farà”. “Lasciarsi fare” da Dio è la garanzia per acquisire le virtù del chiamato. Essere chiamati e lasciarsi fare da Lui significa fidarsi di Lui, come ricorda la seconda lettura. “Sempre pieni di fiducia” (2Cor 5,6.8), ci esorta a essere san Paolo, perché il nostro cammino avanza nella fede, non nella visione (v. 7).

… capace di vivere l'esilio dal proprio corpo

Interessante anche la chiave di lettura che Paolo dà della nostra condizione: “Siamo in esilio, lontano dal Signore finché abitiamo il corpo” (v. 6), perciò per abitare presso il Signore è necessario essere esuli dal corpo (v. 8). L’esilio sembra essere la condizione necessaria per attraversare il tempo e “traguardare” l’eternità, la meta appagante. L’esilio sembra essere il luogo dove il Signore ci ha collocato stabilmente, forse per ricercare la vera patria, e misurare la nostra fede. Il popolo d’Israele in esilio ha fatto le cose migliori, le opere più gradite a Dio. Anche noi, popolo della nuova alleanza, il Signore sta “vagliando” con l’esilio. Anche la Chiesa può ritrovare se stessa ritrovando il Signore nella precarietà della condizione attuale, senza la ricerca di certezze “di bassa lega”.

Lo Spirito trasforma il cuore

La Provvidenza traccia il passo lungo che porta il seme a fruttificare (Mc 4,27-28), trasforma il piccolo seme di senape nell’albero più grande (v. 31-33), un piccolo ramoscello di cedro diventerà un cedro grandissimo (Ez 17,22-23). Il profeta, in questa prima lettura, sa vedere in un tempo di esilio l’opera che Dio ha immaginato.

Oggi la Chiesa ha questo sguardo profetico?

La nostra Chiesa, oggi, ha questo sguardo profetico? Siamo capaci di infondere speranza e fiducia in Dio? Oppure ricerchiamo “previdenze” ecclesiastiche che garantiscono un apparente successo, da presentare come via di accesso a futuri riconoscimenti? Molto appropriato il monito con cui Paolo conclude la seconda lettura: “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male” (2Cor 3,10).]]>
Pentecoste. Il Cenacolo, la nostra culla https://www.lavoce.it/pentecoste-il-cenacolo-la-nostra-culla/ Fri, 21 May 2021 10:23:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60742

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>
Rimanere nel Suo amore https://www.lavoce.it/rimanere-nel-suo-amore/ Fri, 07 May 2021 16:27:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60551

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>
Nella Pentecoste lo Spirito santo fa irruzione https://www.lavoce.it/nella-pentecoste-lo-spirito-santo-fa-irruzione/ Fri, 29 May 2020 15:03:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57243

In questa domenica di Pentecoste, nella sintesi liturgica del prefazio è espresso uno dei significati della solennità. La Chiesa prega il Padre dicendo: “Oggi hai portato a compimento il Mistero pasquale”. Un concetto che sembra indicare il raggiungimento di un obiettivo, la fine di un processo. Contrariamente al suo significato lessicale, indica invece la prospettiva verso il fine, quindi orienta, smuove dal torpore, rianima e ci mette in cammino con il “bagaglio leggero” della pienezza dei doni.

L'evento

I brani della Scrittura proposti nella liturgia presentano una concordanza geografica per l’evento della Pentecoste: a Gerusalemme, e la tradizione indica il Cenacolo come luogo dell’evento. Gli stessi testi però sono discordanti per la cronologia; il testo di Atti 2,1 parla sì, del giorno di Pentecoste, ma della festa ebraica, cinquanta giorni dopo la Pasqua, mentre il Vangelo di Giovanni presenta la Pentecoste come unico evento con la Pasqua: “La sera di quello stesso giorno” ( Gv 20,19). Il giorno di Pasqua s’intende, Gesù “irrompe” nel Cenacolo, sciogliendo la paura dei discepoli. Dopo il saluto e il mandato “soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo” ( Gv 20,21-22). La Pentecoste non è quindi una questione di data, ma un evento capace di trasformare con una dinamica creativa la realtà ( Sal 103). La seconda lettura ci mostra la multiforme potenza dello Spirito che genera diversità senza creare confusione, dando a ciascuno la sua propria identità ( 1Cor 12,4-6). Il risultato è l’uomo nuovo, in perfetta armonia, immagine del Cristo risorto vivente nella storia (v.12). La tradizione ecclesiale colloca la Vergine Maria nel Cenacolo, nel giorno di Pentecoste, quando l’irruzione dello Spirito riempie la casa. Si manifesta come un vento che si abbatte impetuoso, contestualmente ad un fragore dal cielo ( At 2,3). Potremmo parlare di una irruzione violenta, capace di distruggere, certamente molto diversa dall’esperienza che Maria sperimenta quando è visitata dall’angelo dell’Annunciazione. Da questo confronto un po’ audace possiamo però cogliere la complessità dell’azione dello Spirito, che è sempre diversa, non facilmente definibile nel suo apparire. I testi infatti, di solito, usano similitudini per indicare la venuta dello Spirito: “Apparvero loro lingue come di fuoco e si posarono su ciascuno di loro” ( At 2,3) attesta il brano degli Atti degli apostoli . Ma la simbologia è già evocativa: “lingue” perché quanti sono raggiunti da questa particolare effusione dello Spirito parlino “le lingue degli uomini” affinché ogni persona di ogni etnia e lingua possa comprendere la novità della Pasqua. Un unico evento di salvezza da tradurre in tutte le lingue perché possa essere compreso, da tradurre in ogni tempo perché sia sempre compreso nella perenne novità. Ma un evento che rimarrà sempre dono del Padre per mezzo del Figlio, mai una “strategia umana”. Fu la stessa azione divina a confondere a Babele il progetto umano di arrivare a Dio, tramite la costituzione di un solo popolo con un’unica lingua. Un progetto opposto al dono che Dio voleva regalare. In realtà, l’uomo voleva arrivare a Dio con le proprie forze, per dire che non ha bisogno di nessuno. Per evitarlo, Dio confuse il progetto degli uomini, attraverso l’incapacità a comprendersi, disseminandoli in ogni dove ( Gen 11,1-9) È la narrazione da cui proviene il significato di Babele, sinonimo di confusione e incapacità a comprendersi, che la liturgia ci fa ascoltare nella celebrazione della veglia di Pentecoste. Babele e Pentecoste indicano ancora una volta la complessa coerenza dell’azione divina, ma che spesso sconvolge i piani umani. In questo caso si può dire “benedetta confusione”, se crea le condizioni per ripartire sulla via tracciata dallo Spirito. Un cammino espresso perfettamente nel Prefazio della celebrazione, che fa memoria dell’evento della Pentecoste. Il testo descrive l’azione dello Spirito riversato sulla Chiesa nascente, la quale è inviata a rivelare a tutti i popoli il mistero nascosto da secoli. Il fine di questa azione è riunire i diversi linguaggi della famiglia umana nell’unica professione di fede. Lo Spirito, così come descritto nei testi biblici e liturgici, continua nel tempo la sua opera nella Chiesa. Anche oggi, alcune volte lo Spirito sembra devastarla con la violenza del vento, altre volte la “coccola” con la tenerezza dell’amante che continuamente la rende feconda. Alla Chiesa di ogni tempo spetta avere orecchi per ascoltare quello che lo Spirito continua a dirle. Don Andrea Rossi]]>

In questa domenica di Pentecoste, nella sintesi liturgica del prefazio è espresso uno dei significati della solennità. La Chiesa prega il Padre dicendo: “Oggi hai portato a compimento il Mistero pasquale”. Un concetto che sembra indicare il raggiungimento di un obiettivo, la fine di un processo. Contrariamente al suo significato lessicale, indica invece la prospettiva verso il fine, quindi orienta, smuove dal torpore, rianima e ci mette in cammino con il “bagaglio leggero” della pienezza dei doni.

L'evento

I brani della Scrittura proposti nella liturgia presentano una concordanza geografica per l’evento della Pentecoste: a Gerusalemme, e la tradizione indica il Cenacolo come luogo dell’evento. Gli stessi testi però sono discordanti per la cronologia; il testo di Atti 2,1 parla sì, del giorno di Pentecoste, ma della festa ebraica, cinquanta giorni dopo la Pasqua, mentre il Vangelo di Giovanni presenta la Pentecoste come unico evento con la Pasqua: “La sera di quello stesso giorno” ( Gv 20,19). Il giorno di Pasqua s’intende, Gesù “irrompe” nel Cenacolo, sciogliendo la paura dei discepoli. Dopo il saluto e il mandato “soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo” ( Gv 20,21-22). La Pentecoste non è quindi una questione di data, ma un evento capace di trasformare con una dinamica creativa la realtà ( Sal 103). La seconda lettura ci mostra la multiforme potenza dello Spirito che genera diversità senza creare confusione, dando a ciascuno la sua propria identità ( 1Cor 12,4-6). Il risultato è l’uomo nuovo, in perfetta armonia, immagine del Cristo risorto vivente nella storia (v.12). La tradizione ecclesiale colloca la Vergine Maria nel Cenacolo, nel giorno di Pentecoste, quando l’irruzione dello Spirito riempie la casa. Si manifesta come un vento che si abbatte impetuoso, contestualmente ad un fragore dal cielo ( At 2,3). Potremmo parlare di una irruzione violenta, capace di distruggere, certamente molto diversa dall’esperienza che Maria sperimenta quando è visitata dall’angelo dell’Annunciazione. Da questo confronto un po’ audace possiamo però cogliere la complessità dell’azione dello Spirito, che è sempre diversa, non facilmente definibile nel suo apparire. I testi infatti, di solito, usano similitudini per indicare la venuta dello Spirito: “Apparvero loro lingue come di fuoco e si posarono su ciascuno di loro” ( At 2,3) attesta il brano degli Atti degli apostoli . Ma la simbologia è già evocativa: “lingue” perché quanti sono raggiunti da questa particolare effusione dello Spirito parlino “le lingue degli uomini” affinché ogni persona di ogni etnia e lingua possa comprendere la novità della Pasqua. Un unico evento di salvezza da tradurre in tutte le lingue perché possa essere compreso, da tradurre in ogni tempo perché sia sempre compreso nella perenne novità. Ma un evento che rimarrà sempre dono del Padre per mezzo del Figlio, mai una “strategia umana”. Fu la stessa azione divina a confondere a Babele il progetto umano di arrivare a Dio, tramite la costituzione di un solo popolo con un’unica lingua. Un progetto opposto al dono che Dio voleva regalare. In realtà, l’uomo voleva arrivare a Dio con le proprie forze, per dire che non ha bisogno di nessuno. Per evitarlo, Dio confuse il progetto degli uomini, attraverso l’incapacità a comprendersi, disseminandoli in ogni dove ( Gen 11,1-9) È la narrazione da cui proviene il significato di Babele, sinonimo di confusione e incapacità a comprendersi, che la liturgia ci fa ascoltare nella celebrazione della veglia di Pentecoste. Babele e Pentecoste indicano ancora una volta la complessa coerenza dell’azione divina, ma che spesso sconvolge i piani umani. In questo caso si può dire “benedetta confusione”, se crea le condizioni per ripartire sulla via tracciata dallo Spirito. Un cammino espresso perfettamente nel Prefazio della celebrazione, che fa memoria dell’evento della Pentecoste. Il testo descrive l’azione dello Spirito riversato sulla Chiesa nascente, la quale è inviata a rivelare a tutti i popoli il mistero nascosto da secoli. Il fine di questa azione è riunire i diversi linguaggi della famiglia umana nell’unica professione di fede. Lo Spirito, così come descritto nei testi biblici e liturgici, continua nel tempo la sua opera nella Chiesa. Anche oggi, alcune volte lo Spirito sembra devastarla con la violenza del vento, altre volte la “coccola” con la tenerezza dell’amante che continuamente la rende feconda. Alla Chiesa di ogni tempo spetta avere orecchi per ascoltare quello che lo Spirito continua a dirle. Don Andrea Rossi]]>