sant'Agostino Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/santagostino/ Settimanale di informazione regionale Fri, 21 Jul 2023 15:58:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg sant'Agostino Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/santagostino/ 32 32 Nel disastro di Casteldaccia un amore senza misura https://www.lavoce.it/casteldaccia-amore-senza-misura/ Sat, 10 Nov 2018 08:00:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53335 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

“Non ti preoccupare, papà, a Rachele ci penso io!”. Federico, 15 anni, voleva salvare Rachele, la sorellina di un anno che fango e acqua portati dalla piena stavano minacciando nella villetta di Casteldaccia, in Sicilia, dove poi sono morte nove persone di due diverse famiglie. Tra le vittime anche Federico e Rachele, che sono volati in cielo abbracciati.

Come succedeva spesso prima della tragedia: perché Federico, faccia pulita da bravo ragazzo, quella sorella, da quando era arrivata, se la coccolava tutti i giorni, ci giocava, la proteggeva. Le voleva un bene dell’anima, e non l’ha voluta lasciare fino all’ultimo, perché lei era indifesa di fronte a quell’ondata di melma, rami spezzati e detriti che nel giro di pochi minuti ha sterminato due famiglie.

Per Federico più di qualcuno, raccontando il fatto, ha usato la parola ‘eroe’: chi lo ha conosciuto racconta di un ragazzino generoso e altruista, che spesso si prendeva responsabilità anche più grandi di lui per aiutare la famiglia. Un angelo, che semplicemente (!) amava le persone a lui più care. “La misura dell’amore è amare senza misura” ha scritto sant’Agostino. Ora Federico abbraccerà Rachele per l’eternità, con il suo amore senza misura.

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di Daris Giancarlini

“Non ti preoccupare, papà, a Rachele ci penso io!”. Federico, 15 anni, voleva salvare Rachele, la sorellina di un anno che fango e acqua portati dalla piena stavano minacciando nella villetta di Casteldaccia, in Sicilia, dove poi sono morte nove persone di due diverse famiglie. Tra le vittime anche Federico e Rachele, che sono volati in cielo abbracciati.

Come succedeva spesso prima della tragedia: perché Federico, faccia pulita da bravo ragazzo, quella sorella, da quando era arrivata, se la coccolava tutti i giorni, ci giocava, la proteggeva. Le voleva un bene dell’anima, e non l’ha voluta lasciare fino all’ultimo, perché lei era indifesa di fronte a quell’ondata di melma, rami spezzati e detriti che nel giro di pochi minuti ha sterminato due famiglie.

Per Federico più di qualcuno, raccontando il fatto, ha usato la parola ‘eroe’: chi lo ha conosciuto racconta di un ragazzino generoso e altruista, che spesso si prendeva responsabilità anche più grandi di lui per aiutare la famiglia. Un angelo, che semplicemente (!) amava le persone a lui più care. “La misura dell’amore è amare senza misura” ha scritto sant’Agostino. Ora Federico abbraccerà Rachele per l’eternità, con il suo amore senza misura.

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Un “purtroppo” necessario https://www.lavoce.it/un-purtroppo-necessario/ Tue, 16 Oct 2018 08:00:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53138 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Siamo nell’Era della comunicazione, lo dicono tutti: grazie ai prodigi dell’informatica, una vera e propria valanga di notizie ci viene rovesciata addosso ogni momento. Ne sono parzialmente esclusi quelli che, come lo scrivente, guardano all’informatica come all’ultima invenzione della stregoneria. Una valanga di notizie. Ma quali notizie? Scelte con quale criterio?

Il criterio di scelta che i signori del vapore si propongono costantemente è quello del sensazionalismo. Ormai lo sanno anche i bambini dell’asilo che un cane che morde un uomo fa male, ma non fa notizia, mentre nelle “civiltà” come la nostra, dove la frenesia del mordere la vince sulla considerazione di chi è colui che viene morso, un uomo che morde un cane, càspita se fa notizia!

E velocemente. In un articolo di giornale o in uno spot informatico la scelta del titolo è la cosa fondamentale: che la gente leggerà il testo si può esserne sicuri tanto più quanto più il titolo del testo sarà veloce, emotivo, sorprendente, provocatorio, scioccante.

Ma in questo modo le verità della vita non passano. Passano le ciàcole fra comari che triturano notizie su notizie, con la bella nonchalance delle loro illustri antesignane, le tricoteuses che durante la Rivoluzione francese assistevano ai trionfi della ghigliottina facendo il calzetto.

Le verità della vita”: quelle che ti aiutano a capire cos’è questo giocattolo che ti sei trovato in mano quando s’è svegliata in te la coscienza. E della vita ti hanno detto, alcuni, che è un giocattolo, altri che è una tragedia.

In questo contesto si capisce bene perché, nel cuore della liturgia del battesimo, la Chiesa quel batuffolo di carne (tenera, umidiccia e frignante) che è stato presentato all’altare lo abiliti a essere profeta, oltre che sacerdote e re.

Pro-femì: “parlo a nome di”. C’è un parlare da parte dei succhi gastrici, e ben che vada serve solo a digerire. C’è un parlare a nome della gonadi, e ben che vada produce solo gameti provvisori. Non è questo il parlare, la “profezia”, che nel battesimo viene assegnata come compito vitale al bambino nell’atto di battezzarlo. Un altro è il parlare che conta. È quello che nasce solo dall’ascolto: dall’ascolto della propria coscienza, dall’ascolto degli altri, dall’ascolto del mondo, dall’ascolto della Chiesa, dall’ascolto di Dio.

Allora, quando torniamo a constatare che in Italia oggi squillano 40 milioni di telefonini, dobbiamo aggiungere un “purtroppo” grande così. Perché sono loro che impediscono di ascoltare, a loro va attribuito quel silenzio assordante che rischia di farci affogare nell’insignificanza.

Noli foras exire, sed redi in te; in interiore homine habitat veritas: l’ha detto Agostino, che “non bisogna uscire da se stessi, ma piuttosto ritornare a se stessi” ogni giorno, ogni volta che la società dei 40 milioni di telefonini ci spinge fuori, a misurarci solo con le materialità delle cose e non con la loro anima. Agostino, che questa vicenda l’aveva sofferta e pagata di persona.

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di Angelo M. Fanucci

Siamo nell’Era della comunicazione, lo dicono tutti: grazie ai prodigi dell’informatica, una vera e propria valanga di notizie ci viene rovesciata addosso ogni momento. Ne sono parzialmente esclusi quelli che, come lo scrivente, guardano all’informatica come all’ultima invenzione della stregoneria. Una valanga di notizie. Ma quali notizie? Scelte con quale criterio?

Il criterio di scelta che i signori del vapore si propongono costantemente è quello del sensazionalismo. Ormai lo sanno anche i bambini dell’asilo che un cane che morde un uomo fa male, ma non fa notizia, mentre nelle “civiltà” come la nostra, dove la frenesia del mordere la vince sulla considerazione di chi è colui che viene morso, un uomo che morde un cane, càspita se fa notizia!

E velocemente. In un articolo di giornale o in uno spot informatico la scelta del titolo è la cosa fondamentale: che la gente leggerà il testo si può esserne sicuri tanto più quanto più il titolo del testo sarà veloce, emotivo, sorprendente, provocatorio, scioccante.

Ma in questo modo le verità della vita non passano. Passano le ciàcole fra comari che triturano notizie su notizie, con la bella nonchalance delle loro illustri antesignane, le tricoteuses che durante la Rivoluzione francese assistevano ai trionfi della ghigliottina facendo il calzetto.

Le verità della vita”: quelle che ti aiutano a capire cos’è questo giocattolo che ti sei trovato in mano quando s’è svegliata in te la coscienza. E della vita ti hanno detto, alcuni, che è un giocattolo, altri che è una tragedia.

In questo contesto si capisce bene perché, nel cuore della liturgia del battesimo, la Chiesa quel batuffolo di carne (tenera, umidiccia e frignante) che è stato presentato all’altare lo abiliti a essere profeta, oltre che sacerdote e re.

Pro-femì: “parlo a nome di”. C’è un parlare da parte dei succhi gastrici, e ben che vada serve solo a digerire. C’è un parlare a nome della gonadi, e ben che vada produce solo gameti provvisori. Non è questo il parlare, la “profezia”, che nel battesimo viene assegnata come compito vitale al bambino nell’atto di battezzarlo. Un altro è il parlare che conta. È quello che nasce solo dall’ascolto: dall’ascolto della propria coscienza, dall’ascolto degli altri, dall’ascolto del mondo, dall’ascolto della Chiesa, dall’ascolto di Dio.

Allora, quando torniamo a constatare che in Italia oggi squillano 40 milioni di telefonini, dobbiamo aggiungere un “purtroppo” grande così. Perché sono loro che impediscono di ascoltare, a loro va attribuito quel silenzio assordante che rischia di farci affogare nell’insignificanza.

Noli foras exire, sed redi in te; in interiore homine habitat veritas: l’ha detto Agostino, che “non bisogna uscire da se stessi, ma piuttosto ritornare a se stessi” ogni giorno, ogni volta che la società dei 40 milioni di telefonini ci spinge fuori, a misurarci solo con le materialità delle cose e non con la loro anima. Agostino, che questa vicenda l’aveva sofferta e pagata di persona.

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“Fiat voluntas Tua” https://www.lavoce.it/fiat-voluntas-tua/ Tue, 19 May 2015 13:31:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=33660 Don Alessandro all’uscita della cattedrale
Don Alessandro all’uscita della cattedrale

È stato ordinato sacerdote nel giorno dell’Ascensione di Cristo Alessandro Picchiarelli, trentunenne, della parrocchia di Costano. La cerimonia, svoltasi nella cattedrale di San Rufino nel pomeriggio di domenica scorsa, è stata assai gioiosa e partecipata da numerosissimi fedeli che hanno testimoniato il loro affetto e calore anche nella successiva festa tenutasi nella cittadina di provenienza.

Commozione e determinatezza nel pronunciare il proprio “Fiat voluntas Tua” sono emerse nel corso della solenne celebrazione, allietata dal coro diocesano, presieduta da mons. Domenico Sorrentino accanto al quale erano sacerdoti provenienti da tutta la diocesi e non solo.

La vocazione di don Alessandro, scoperta nel 2007 a seguito di un pellegrinaggio a Medjugorie è culminata con l’ingresso nel pontificio seminario regionale umbro il 7 ottobre del 2008, giorno della Madonna del Rosario, subito dopo il conseguimento della laurea in ingegneria informatica.

Nell’omelia (la cui registrazione è presente sul sito della diocesi), dopo essersi soffermato sul mistero dell’Ascensione, il vescovo ha desiderato sottolineare come don Alessandro sia chiamato a fissare il volto di Gesù per poter essere, nel suo apostolato, volto, corpo e cuore vibrante di Cristo. Per operare ciò dovrà coltivare un personale dialogo con Gesù, affinché la signoria di Cristo possa travolgerne completamente la vita e plasmarne il ministero, che acquisirà così l’efficacia della testimonianza che nasce dall’intimità con il Signore. Monsignor Sorrentino ha pure ribadito come la paternità sacerdotale sia propria di colui cui viene affidato il compito di edificare la famiglia di Dio insieme con il vescovo, i confratelli e la comunità ecclesiale in cui si è chiamati ad operare, vivendo operativamente la propria dimensione missionaria. “La tua esistenza – ha ribadito il vescovo – è ormai nelle mani di Gesù, sei il missionario di Gesù, chiunque potrà dire: ‘Ti aspetto, perché aspetto Gesù’… Sei anche il primo sacerdote del sinodo diocesano”.

Nel corso della celebrazione, un grosso applauso ha sottolineato il momento successivo alla vestizione; similmente, è sorto spontaneo al termine della cerimonia, quando don Alessandro ha recitato una preghiera di Sant’Agostino, per poi ringraziare il Signore e la Vergine Maria per il grande dono ricevuto; ha salutato e ringraziato la sua famiglia e le parrocchie in cui ha svolto il proprio servizio pastorale, dedicando un pensiero speciale al vescovo, con il quale in quest’ultimo periodo ha avuto modo di collaborare.

Dopo aver scelto la piccola cappella di Santa Elisabetta a Costano per celebrare la messa nel giorno successivo alla sua ordinazione presbiteriale, don Alessandro presiederà la prima messa solenne domenica 24 maggio alle ore 17 nella chiesa di San Giuseppe di Costano.

È peraltro tradizione della Chiesa che il celebrante e i fedeli che assistono devotamente alla prima messa di un novello sacerdote possano ricevere l’indulgenza plenaria.

 

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Innamorate di Dio come sant’Agostino https://www.lavoce.it/innamorate-di-dio-come-santagostino/ https://www.lavoce.it/innamorate-di-dio-come-santagostino/#comments Mon, 23 Feb 2015 17:31:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=30476 suor-giacominaDal monastero di Santa Rita a Cascia desideriamo porgere il classico saluto agostiniano Deo gratias! (“Rendiamo grazie a Dio”) a tutti i lettori de La Voce. Saluto che noi, figlie spirituali di sant’Agostino, porgiamo sempre ai numerosi pellegrini che vengono a pregare sulla tomba di santa Rita, attratti dalla sua singolare esperienza di vita, vissuta in tutti gli stati che una donna può vivere. Sono senza numero coloro che si rivolgono a noi ogni giorno, da ogni parte del mondo, attraverso la corrispondenza, il telefono, gli incontri nei parlatori.

Alla grata del monastero si presentano tante persone. La carità ci spinge a farci carico dei loro problemi, a prendere tutti nel nostro cuore, a “perdere” il nostro tempo per far sperimentare loro l’amicizia, la provvidenza, l’accoglienza di Dio. A quella grata avviene continuamente l’incontro tra la miseria dell’uomo e la misericordia di Dio, tra la disperazione umana e la consolazione divina. La spiritualità agostiniana infatti ci invita a “tornare all’uomo interiore”, ad andare nel profondo e trovare là il senso della vita perché là Dio abita. Sant’Agostino si è sentito trapassare il cuore dalla Parola di Dio e nulla è più esistito se non il Signore, il Suo amore, la ricerca della Verità e della Bellezza. Scrive: “Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti” (Confessioni, X 6,8). Questa è la sintesi della spiritualità agostiniana: ricerca della Verità, attraverso la Parola, partendo dall’amore per Dio, per la Chiesa, per gli uomini, nell’amore fraterno e nell’esercizio della carità, per divenire un cuore solo e un’anima sola. In sintesi: passione per Dio, passione per l’uomo. Per noi Agostiniane il cuore di Agostino infiammato dalla Parola di Dio è anche il nostro cuore, e respirare alla scuola della Parola è mantenere viva ogni fibra del nostro cuore.

gruppo-santa-rita-casciaLa nostra vita, “cuore a cuore” con la Parola, ha senso ed è feconda se si apre alla condivisione gioiosa, grata e riconoscente di questo incontro con il Signore. E l’amore è ben raffigurato nello stemma che ci contraddistingue come famiglia agostiniana: un cuore fiammeggiante al quale fa da sfondo un libro aperto (la Parola), trapassato da una freccia. Agostino ce lo spiega: “Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del Tuo amore” (Conf. 9,2). Noi monache agostiniane cerchiamo Dio insieme: “Il motivo essenziale del vostro vivere insieme è di abitare nella stessa casa nel comune progetto di cercare instancabilmente Dio, avendo tutte un cuor solo e un’anima sola” (Regola, n. 3). Come sant’Agostino, il nostro desiderio è “rivestirci del Signore Gesù Cristo e non seguire la carne nei suoi desideri” (cfr. Rm 13,13) e far ruotare tutto attorno al cardine dell’amore: “Amate con tutto il cuore Dio e poi il prossimo, perché questo il Signore vuole da noi al di sopra di ogni altra cosa” (Regola, n. 1). C’è un’altra particolarità che ci caratterizza come Agostiniane: l’amore per la Chiesa, essere Chiesa, avere l’anima della Chiesa. Il nostro carisma è ecclesiale non solo perché il Papa stesso ci ha costituito giuridicamente come Ordine nel 1256, ma anche perché sant’Agostino amava la Chiesa. Ascoltiamolo: “Amiamo il Signore, Dio nostro; amiamo la sua Chiesa! Amiamo lui come padre, la Chiesa come madre. Amiamo lui come signore, la Chiesa come sua ancella… Ebbene, fratelli, tenetevi tutti stretti insieme a Dio come padre e alla Chiesa come madre” (Esposiz. Salmo 88, IIa,14).

In questo Anno della vita consacrata, più che mai ringraziamo e lodiamo il Signore che ha creduto e crede in noi, che ci vuole testimoni vive, gioiose, autentiche della sua misericordia. “Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti… O sommo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile!” (Agostino, Confessioni, I, 1,1; 4,4). E allora Deo gratias! Semper, Deo gratias!

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Sentinelle per i nostri fratelli https://www.lavoce.it/sentinelle-per-i-nostri-fratelli/ Thu, 11 Aug 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9586 La liturgia di questa domenica si apre con un termine insolito nel contesto liturgico: “sentinella”. È come uno squillo di tromba che mette in moto la nostra curiosità. La sentinella e il profeta. A prima vista sembrano due grandezze distanti. Eppure Dio dice al profeta Ezechiele: “Ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele” (Ez 33,1). A somiglianza della sentinella il profeta ha il compito di avvertire. Chi? Il malvagio, che è sovrastato da un pericolo mortale, a causa della sua malvagità. Di fronte alla prima lettura, come del resto accade ogni domenica, c’è la lettura evangelica, compimento della profezia di Ezechiele.

Vengono in mente le parole di sant’Agostino: “Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e l’Antico Testamento si manifesta pienamente nel Nuovo”. Abbiamo ascoltato le parole di Gesù: “Se tuo fratello commette una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo” (Mt 18,15). Il fratello di cui si parla è evidentemente un membro della comunità cristiana, verso cui ognuno di noi ha lo stesso obbligo che ebbe il profeta Ezechiele. L’insegnamento di Gesù è rivolto a una comunità di fratelli. Se pensiamo di poterlo estendere all’intera società civile, esso appare del tutto impraticabile. Immaginate quale sarebbe la reazione di un signore che incontrate per strada, noto evasore fiscale, se lo ammonite di fare il suo dovere di cittadino? Nel migliore dei casi vi direbbe: “Lei come si permette? Io ho la mia coscienza. Lei pensi alla sua”, e simili.

La nostra è una società profondamente individualista, dove ognuno si regola secondo i propri punti di vista, in modo integralmente autoreferenziale, senza accettare lezioni morali da nessuno. Vedi anche le frequenti esternazioni di alcuni nostri politici. Un tempo la comunità cristiana coincideva in qualche modo con quella civile, con tutti i limiti e le contraddizioni che sappiamo. Allora era concepibile che uno si occupasse della salvezza dell’altro. Quei tempi non esistono più. La realtà storica della comunità cristiana però rimane intatta; da lì potrebbe avere inizio una nuova forma di civiltà, in cui l’altro non è più un estraneo, ma un fratello di cui ti devi prendere pensiero.

Ognuno di noi è chiamato a custodire suo fratello. Solo così si capisce l’insegnamento di Gesù, che non si pone su un piano moralistico, ma esistenziale: se tuo fratello è evidentemente in errore, rischia la sua vita e tu non puoi ignorarlo, perché essa ti è data in custodia. Purtroppo la mentalità individualista del mondo ha contagiato dall’interno anche la comunità cristiana. Si tratta di fare un salto di qualità: passare da una concezione individualistica della vita a una visione comunitaria. Ricordiamo la Parola della Genesi: “Dov’è Abele tuo fratello? – Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9) Quella risposta tentava di coprire un assassinio.

C’è un’altra domanda che ci sonnecchia dentro: chi mi autorizza a giudicare mio fratello? Ricordo anche quell’altra parola di Gesù: “Perché cerchi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, tu che hai una trave nel tuo” (Mt 7,3). E anche: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). La lettura di Ezechiele suggerisce la direzione della risposta: “Se senti una parola della mia bocca, avvertili da parte mia” (33,7). Non ci paia strana la possibilità di udire una Parola del Signore. Dio parla in molti modi. Se ascoltiamo la nostra coscienza, possiamo udirla. Essa ci chiede di domandarci anzitutto se ciò che vorremmo dire al fratello viene da Dio o dalle nostre insofferenze verso di lui. Lo facciamo per aiutare lui/lei, o per innalzare noi stessi ai suoi occhi? Se siamo sinceri con noi stessi, Dio lo farà capire. Conviene riflettere anche sulle altre parole che Dio dice al profeta “Se io dico al malvagio: ‘Malvagio, tu morirai’, e tu non parli, perché il malvagio desista dalla sua condotta, il malvagio morirà per la sua iniquità, ma della sua morte domanderò conto a te” (Ez 33,1).

Non ci possiamo sottrarre al confronto con questa Parola severa. Essa ci riguarda, perché Dio, come si è detto, ci ha fatto custodi della vita del fratello. Tuttavia per dichiarare al fratello il suo errore, è necessario molto amore per lui, molta umiltà e anche la consapevolezza che si può diventare oggetto di antipatia e talvolta di odio da parte sua. Quando ci mettono dinanzi il nostro errore, non tendiamo certo a gratificare chi lo fa. Per questo, in genere, ce ne asteniamo. Per paura. Così la paura continua a essere la protagonista delle nostre opache relazioni interpersonali. Giovanni Battista, che abbiamo ripetutamente incontrato nelle liturgie domenicali, non ebbe paura di dichiarare la verità neanche di fronte al suo re, che pure rispettava. La verità gli fu più cara della propria vita.

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Il giogo leggero dell’amore di Gesù https://www.lavoce.it/il-giogo-leggero-dellamore-di-gesu/ Fri, 01 Jul 2011 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9482 Il Vangelo della 14a domenica del tempo ordinario, ciclo A, è divisibile in tre brevi sezioni. La prima (vv. 25-26) è una preghiera di lode. Gesù loda il Padre, perché si è fatto conoscere non dai sapienti e dagli assennati, ma dai piccoli. Qui la parola “i piccoli” non significa “i bambini”, ma piuttosto i non assennati, gli inesperti di problemi di leggi, gli appartenenti al popolo comune e non istruito. Gli intelligenti e assennati sono invece coloro che a quel tempo avevano in mano le chiavi della cultura, della legislazione religiosa e della sua interpretazione: i capi religiosi, i dottori della Legge.

Le loro pretese pesavano soprattutto sul popolo minuto. Secondo il pensiero corrente dell’epoca, l’affermazione di Gesù suonava paradossale. Oggi altrettanto. La preghiera si conclude con una conferma solenne: “Sì, Padre, questa è stata la tua scelta benevola”, checché ne pensino i grandi di questo mondo. Secondo le Scritture sante, è una costante dell’agire di Dio scegliere ciò che è piccolo, che non conta agli occhi del mondo, per realizzare ciò che è decisivo. Già nell’Antico Testamento se ne possono leggere molti esempi. Ma forse il momento più alto è nella prima lettera di san Paolo ai cristiani di Corinto. (1 Cor 1,21-25). Dio non ha salvato il mondo attraverso sofisticati ragionamenti, o miracoli vistosi, ma per mezzo della “stoltezza della predicazione”: l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto.

Un’affermazione come questa, oggi, è “politicamente scorretta”. Le culture dominanti accettano forse l’idea che la debolezza o la piccolezza possano mai essere vincenti? Nella seconda sezione (v. 27) Gesù parla di sé e del suo rapporto con il Padre. Nessuno conosce il Padre così intimamente come lo conosce il Figlio, né Gesù può essere conosciuto da qualcuno, così come lo conosce il Padre. Gesù però dà, a quelli che vuole, esperienza di sé e del Padre. C’è qui una risonanza di un altro passo del Vangelo secondo Matteo (16,13-17). Gesù domandò un giorno al gruppetto dei dodici che cosa pensavano di Lui. Pietro a nome di tutti rispose che, secondo loro, Egli era il Messia, il Figlio di Dio. In risposta Gesù gli disse: “Tu sei beato, non perché hai scoperto la verità da te stesso, ma perché il Padre te lo ha rivelato”.

La terza sezione (vv. 28-30) è un grande invito alla sequela, rivolto a tutti, ma particolarmente a quelli che sono affaticati dai pesi della vita. Sul piano grammaticale, l’invito è sostenuto da tre imperativi: “Venite a me… prendete il mio giogo… imparate da me”. Gli affaticati della vita sono coloro che conoscono le difficoltà dell’esistenza. Il fardello di cui parlava il Maestro era di ordine politico, economico, religioso. Si sa che al tempo di Gesù, sotto l’occupazione romana, la povera gente ne conosceva il rigore, gli attentati connessi, la repressione, una fiscalità molto pesante, una situazione economica lamentevole, un’esistenza precaria. Inoltre la religione, così come era gestita dalle autorità religiose d’Israele, era fatta di precetti molto severi: si parla di centinaia di prescrizioni, che continuavano a moltiplicarsi, e che ogni buon giudeo doveva rispettare.

Ne risultava un “giogo” importabile. San Pietro in occasione del Concilio di Gerusalemme, dove si discusse la questione se anche i pagani, che venivano alla fede, dovessero osservare le leggi giudaiche, si espresse così: “Fratelli, perché tentate Dio mettendo sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,10-11). Gesù è venuto a sollevare dal collo quel giogo insopportabile e ad offrirne uno “soave e leggero”: la sequela di lui, che scelse di stare fra i piccoli, i poveri, i miti. Solo accettando quel giogo è possibile sperimentare il riposo vero, quello della mente e dell’anima, quello che il mondo, in continua agitazione, non può conoscere.

Sant’Agostino, dopo anni di agitazione in cerca di un’introvabile pienezza, approdò sulle rive di Dio e ne lasciò testimonianza, scrivendo: “Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore non trova quiete, finché non riposa in te” (Conf. I 1,1). Il messaggio evangelico non è un messaggio “moralistico”, un codice di leggi su ciò che è vietato o permesso; ma è semplicemente la rivelazione di un Dio che è il Padre di Gesù e il Padre nostro. Il messaggio della paternità di Dio è il solo autenticamente liberante. L’unico comandamento è “tu amerai”. Amare Dio e amare il nostro prossimo alla maniera di Gesù. Ciò che è permesso e ciò che è vietato è solo la conseguenza di una conoscenza personale del Dio di Gesù Cristo.

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Corpo di Cristo siamo anche noi https://www.lavoce.it/corpo-di-cristo-siamo-anche-noi/ Fri, 24 Jun 2011 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9465 Nella festa del Corpus Domini, la liturgia celebra quell’avvenimento che il mondo non può credere: la presenza reale di Dio fra gli uomini. Dio è presente nel mondo in mille modi. San Paolo, parlando agli intellettuali ateniesi, radunati sull’areopago, disse: “In lui viviamo, ci muoviamo, e siamo” (At 17,28). L’eucaristica tuttavia rende tale presenza talmente “concreta” da potercene perfino cibare. Sant’Agostino, in quella straordinaria autobiografia che sono le Confessioni, prova a descrivere il momento della svolta decisiva della propria vita. Tra l’altra scrive: “Cresci – sentì come una voce dall’alto che gli diceva – e mi mangerai; ma non mi trasformerai in te, come avviene con il cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me” (Conf. VII,16).

L’ascolto delle tre letture della messa ci condurrà al cuore di quella misteriosa pienezza. La prima lettura ruota attorno ad una parola-chiave: “manna”, simbolo di tutto il nutrimento provvidenziale con cui Dio sostentò il popolo che aveva tratto con potenza dalla schiavitù dell’Egitto. Il libro dell’Esodo parla di un cammino di quarant’anni, pari a due generazioni, durante le quali Dio educò il popolo, insegnandogli due cose fondamentali: conoscere la realtà di se stessi e sperimentare che Dio agisce come un saggio pedagogo. Ha fatto provare loro la fame, ma non ha lasciato che ne morissero, anzi li ha nutriti di manna, cibo sconosciuto a loro e ai loro padri. Ugualmente con la sete, con la malattia e gli incidenti della marcia nel deserto.

Tutto avveniva in modo inaspettato e insospettabile. Profezia di un’altra manna, cibo incorruttibile, con cui Gesù condurrà nei secoli la Chiesa; e profezia di come Dio educa noi, alternando sapientemente disagio e gratificazione; nella stessa maniera, ogni genitore saggio fa con suo figlio. La seconda lettura è formata da due soli versetti della Prima lettera ai Corinzi di san Paolo apostolo. La parola “comunione” vi compare due volte. Parola che ci rimanda al sacramento a cui molti di noi partecipano spesso. Paolo mette in relazione il calice e il pane con il sangue ed il corpo di Cristo; e l’uno e l’altro con noi, che siamo un solo corpo in Lui. Ossia: il vino e il pane consacrati sono corpo e sangue del Signore; e noi, l’assemblea dei credenti in Gesù, siamo il suo Corpo.

Pensavo: quando andiamo alla comunione, il celebrante ci presenta l’ostia consacrata e dichiara autorevolmente: “Corpo di Cristo!”. Noi rispondiamo: “Amen”, ossia è certo, lo confermo, ne sono convinto. Ma se lo stesso celebrante, anziché presentarci l’ostia consacrata, ci indicasse l’assemblea, dichiarando con uguale autorevolezza: “Corpo di Cristo!”, risponderemmo “Amen” con uguale convinzione? Sinceramente mi rimane qualche dubbio. Eppure per Paolo c’è equivalenza fra il pane eucaristico, il Corpo di Cristo e la Chiesa. I tre sono dinamicamente collegati: attraverso il mistero eucaristico si realizza e vive il mistero della Chiesa, che è il corpo di Cristo.

Lo Spirito santo circola in tutto il corpo come soffio che tutto vivifica: il Capo, che è Cristo, e le membra, che siamo noi. (Ricordiamo le parole della liturgia di Pentecoste: “Lo Spirito del Signore riempie l’universo”). Quando comunicano al pane e al vino, i fedeli diventano Corpo di Cristo, cioè Chiesa. Paolo ribadisce con forza questa certezza, un poco più avanti nella stessa lettera (1 Cor 11,17-29), quando rimprovera violentemente i cristiani di quella città, perché nello loro assemblee si fanno discriminazioni tra chi è benestante e chi è povero. E conclude che chi mangia il pane e beve al calice del Signore indegnamente, ossia disconoscendo le esigenze di fraternità, di solidarietà, che comporta il ricevere il Corpo di Cristo, “mangia e beve la propria condanna”; entra cioè, in contraddizione con se stesso. Se, infatti, uno è il Corpo di Cristo/eucaristia, uno deve anche essere il Corpo di Cristo/assemblea cristiana.

Il Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58) sottolinea l’altro aspetto dell’eucaristia: il nutrimento. Gesù è esplicito “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. I due temi sono inseparabili: la comunione fraterna e il nutrimento spirituale. Ad analogia con il nutrimento quotidiano che ci permette di vivere fisicamente, il Corpo di Cristo, ricevuto nell’eucaristia, ci dà un supplemento di vita. Quando ci comunichiamo si compie in noi l’unione fra Dio e l’uomo; siamo quindi responsabili, in certo senso, della presenza di Dio nel mondo. E si compie anche l’unione dei credenti in Gesù Cristo.

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La mediazione sociale del cristiano https://www.lavoce.it/la-mediazione-sociale-del-cristiano/ Thu, 16 Jul 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7721 Le ultime elezioni amministrative hanno portato nel Consiglio comunale di Spoleto molti cattolici, anche impegnati in vari servizi ecclesiali. A partire da questo fatto lo storico spoletino Giuseppe Guerrini, studioso di storia locale, ci ha inviato, e volentieri pubblichiamo, un suo contributo sull’impegno sociale e politico dei cristiani. Scriveva Fernando Pessoa: “Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere di essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo”. I principi contenuti nella mia brevissima nota intendono richiamare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: l’impegno sociale e politico dei cattolici, la coerenza tra fede e vita, tra Vangelo e cultura, richiamata dal Concilio Vaticano II. Mio diritto-dovere di cittadino cattolico, come di tutti gli altri cittadini è quello di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere con mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la giustizia, la libertà, il rispetto della persona. Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno concreto – come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l’amore e la dedizione nella famiglia e nell’educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della verità nell’ambito della cultura – sono occasioni provvidenziali per un continuo esercizio della fede, della speranza e della carità.

La società civile si trova oggi all’interno di un complesso processo culturale che mostra la fine di un’epoca e l’incertezza per la nuova che emerge all’orizzonte. Esiste una concezione unitaria e distinta dell’azione cattolica e dell’azione politica, dell’esperienza religiosa e dell’impegno culturale nella convinzione che la politica intesa come autonoma costruzione della civitas humana abbia bisogno di ritrovare le sue ragioni fondative in un’antropologia morale disponibile all’ascolto delle verità religiose e debba adottare l’etica della laicità, quale suo specifico statuto regolativo. La laicità è la proprietà essenziale dello spazio pubblico, delle istituzioni e dello Stato. E il cittadino credente deve assumersi in prima persona la responsabilità di una mediazione culturale che consenta di partecipare al dibattito pubblico, capace di attirare l’ascolto di ogni cittadino al di là di ogni personale appartenenza di fede.

È necessario lavorare per lo sviluppo di un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà, secondo il quale i diritti delle persone, delle famiglie e dei gruppi, e il loro servizio devono essere riconosciuti. In ciò mi aiuta una frase di sant’Agostino: “Nella casa del giusto, anche coloro che esercitano un comando non fanno che prestare un servizio a coloro che sembrano essere comandati: essi difatti non comandano per cupidigia di dominio, ma per dovere di fare del bene agli uomini, non per orgoglio di primeggiare, ma per onore di provvedere. Fortunato e saggio è colui che possiede la forza di accettare le cose che non può cambiare, il coraggio di cambiare quello che può, il buon senso di distinguere le une dall’altre”. Il buon politico sa fare questa distinzione; il cattivo si orienta a mutare quel che deve conservare, e a tenere fermo quel che invece deve rinnovare.

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Occidente senz’anima https://www.lavoce.it/occidente-senzanima/ Thu, 18 Jun 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7632 L’occidente rischia di perdere l’anima’ scriveva pochi giorni fa un noto filosofo su uno dei più diffusi nostri quotidiani, e concludeva: ‘Ma se non rinnegherà i valori cristiani, potrà salvarsi’. Messo in bocca ad un filosofo, che pur si dichiarava anche non credente, quest’affermazione è di grande importanza. In questo nostro mondo postmoderno, in cui dominano la scienza, la tecnica e gli strumenti audiovisivi, l’anima sembra infatti che stia sempre più scomparendo. Ma non è colpa né della scienza né della tecnica. Esse fanno il loro mestiere. La colpa è di chi sta sta vivendo in questo mondo artificiale senza vita interiore, cioè senz’anima. E sembra che costoro stiano aumentando di numero, secondo il suddetto articolista. Perdere l’anima significa perdere la coscienza della propria origine e della propria destinazione. Perché in essa Dio è già virtualmente presente, immanente e trascendente insieme, in quanto l’anima è stata creata a sua immagine e somiglianza: ‘Non uscire fuori di te stesso; la verità abita nell’uomo interiore’ dichiarava sant’Agostino e poi precisava: ‘Se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi te stesso. Ma quando trascendi te stesso, ricordati che trascendi l’anima razionale: tendi là dove s’accende il lume stesso della ragione’ ( La vera religione , 39,72). Non bisogna andare dunque molto lontano, né molto in alto, per risolvere il problema della nostra anima. Sta alla radice del nostro intendere e volere, della nostra autocoscienza, della nostra vita spirituale. Anche se poi è difficile esprimere ciò che intuitivamente abbiamo presente. Questa difficoltà la provava già sant’Agostino stesso: ‘Ogni volta che, in quella creatura che noi siamo, volli mettere in luce qualcosa di simile a ciò che essa è, la mia parola non fu capace di seguire anche il più piccolo mio pensiero; anzi nel mio stesso pensiero vidi che c’era più uno sforzo che un risultato’ ( Commento del Vangelo di Giovanni , 63,3). Ma ‘la visibilità della carne di Cristo ci indica un cammino ( iter ) da percorrere più che una visione da contemplare’, faceva notare. Alla contemplazione bisogna unire l’imitazione. E avere così un terreno solido su cui camminare. E questo particolarmente ci interessa anche oggi. Viviamo infatti in un tempo in cui le cose vecchie non sembrano più su misura dell’uomo moderno. E tuttavia le cose nuove, più adatte ai bisogni e alle attese dell’uomo postmoderno, non ci sono ancora. Questo vuoto di modelli di vita lo chiamiamo crisi. La scienza e la tecnica non sanno però dare modelli di vita. Non è il loro compito. Forniscono solo mezzi, strumenti; ma per fare che cosa? C’è oggi abbondanza di mezzi, ma c’è crisi di fini, di ideali, di valori. Chi crede e chi non crede si trova d’accordo almeno in questo: un mondo così fatto non va bene. E tutti aspettiamo che qualcosa cambi. Bisogna dunque offrire modelli di vita all’uomo d’oggi, e questo per rispondere alle attese all’interno e al di fuori della Chiesa. Anche per non perdere l’anima, come si diceva.

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Mille giovani trascorrono insieme a Gesù una notte diversa dalle altre, luminosa e felice https://www.lavoce.it/mille-giovani-trascorrono-insieme-a-gesu-una-notte-diversa-dalle-altre-luminosa-e-felice/ Thu, 28 May 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7564 Pr una volta, generazioni diverse hanno condiviso la notte, che sembra essere prerogativa dei giovani; hanno visto insieme l’alba e sono stati all for One, tutti per Uno, insieme per condividere la bellezza di una vita illuminata da Cristo. Erano circa in mille a rappresentare tutta l’Umbria all’evento conclusivo del triennio dell’Agorà: tre anni giovani in cui c’è stata ‘un’attenzione nuova della Chiesa ai giovani e dei giovani al mondo’, come ha ricordato don Paolo Giulietti all’inizio della serata. Una serata scandita dalla musica, che come un manto ha avvolto e scaldato i presenti, e ha creato un clima di festa e di riflessione perché, come diceva Sant’Agostino, ‘chi canta prega due volte’. I canti, le danze e la musica delle ‘Voci di giubilo’, i giovani che compongono la corale della diocesi di Perugia- Città della Pieve, e dei One Way, gruppo rock della Pastorale giovanile di Città di Castello, hanno accompagnato i diversi interventi e i racconti dei tanti che si sono avvicendati sul palco. C’erano i vescovi delle diverse diocesi accanto a giovani con tante storie da raccontare, come quella di Giacomo Sintini, o meglio Jack, palleggiatore della Perugia Volley, che insieme a sua moglie Alessia e alla piccola Carolina ha raccontato di come la sua fede sia cresciuta e diventata consapevole grazie all’incontro con sua moglie e, con lei, del Rinnovamento nello Spirito, dopo aver sperimentato cosa significa vivere in un mondo fatto di guadagni facili e grande successo, un mondo in cui Dio è scomodo e viene tenuto alla larga. In fondo un Dio che dice ‘chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi perderà la propria vita per causa mia la salverà’ non è un Dio facile, anche se la frase è a effetto, e sembra adatta da mettere su Facebook. Queste le parole con cui don Nazzareno Marconi ha iniziato la sua riflessione, chiedendo il senso profondo di questo brano del Vangelo di Marco e usando un linguaggio dei giovani: le scritte fatte con lo spray sui muri. Con l’ausilio di bombolette colorate e di un rotolone di carta bianca ha aiutato i presenti a entrare nella logica di Dio una logica quasi matematica fatta di tre lettere: SDD, estrapolate dalla frase ‘Se Desideri Davvero’. Ci sono giorni in cui non ci si sente vivi, la vita non s’illumina, ma se desideri davvero la vita’ Il mondo ti dice che devi essere Sexy, che devi avere il Denaro e devi Divertirti. Ma tutto questo non rende felici, perché Solo Dio Dona, e bisogna vivere nel mondo per poterlo cambiare, ma non bisogna averne bisogno. Le tre iniziali che hanno accompagnato l’intervento, SDD, sono diventate un invito a donare, a spendere la propria vita per gli altri e in particolare per quanti vivono il dramma del terremoto in Abruzzo, perché ‘Gesù è sotto una tenda e sente caldo, ha sete, si sente solo e ha paura’. Per questo l’Umbria si è mobilitata e sta realizzando un campo gestito dalla Caritas, che ha bisogno di volontari, come ha testimoniato Ilaria, ragazza di 21 anni della parrocchia di Ponte San Giovanni, che è appena tornata da quest’esperienza di servizio. Un momento toccante che ha fatto sorgere, in tanti presenti, il desiderio di partire per dare il proprio contributo. Ha dato maggior valore alla serata, ai racconti e alla musica dei One Way, che propongono la loro testimonianza fatta dei suoni e versi delle loro canzoni anche nei luoghi tipici dei giovani come le discoteche; a dimostrazione che essere cristiano non significa non sapersi o non potersi divertire, ma farlo con un altro spirito e un altro stile. A mezzanotte e mezzo circa si è entrati nel cuore di questa notte alternativa, una notte nella quale la città e i suoi rumori hanno visto passare un corteo molto numeroso ma silenzioso; il silenzio infatti non va temuto ma va vissuto con ‘Gesù che ci dà appuntamento lungo la strada’ come ha sottolineato suor Roberta Vinerba invitando tutti a mettersi in cammino. Le tappe del pellegrinaggio notturno, in cui i giovani sono stati accompagnati da mons. Chiaretti, sono state alcune chiese cittadine: San Costanzo, Santa Giuliana, San Bernardino, Sant’Angelo, per concludersi nella cattedrale di San Lorenzo. Seguendo il crocifisso di San Damiano e le fiaccole, armati solo di uno zainetto, un quaderno in cui seguire le diverse tappe e altri oggetti utilizzati lungo il cammino, i giovani si sono messi sulle orme di Paolo, il grande camminatore della fede, percorrendo idealmente le città che ha visitato e ascoltando le sue parole, di volta in volta analizzate dai diversi responsabili delle Pastorali giovanili diocesane. Il cammino, la fatica, la condivisione e le riflessioni personali hanno segnato il passaggio dalla notte all’alba, sorta proprio all’arrivo davanti alla cattedrale dove un braciere ha permesso di bruciare i propri idoli, quelli che si frappongono tra noi e Gesù; come è stato detto, ‘Gesù non ci promette una vita facile ma una vita bella!’. Con queste parole si è entrati in cattedrale passando per Cristo che è la porta, e si è conclusa la festa con la celebrazione eucaristica. Il Vescovo ha sottolineato nell’omelia che c’è una divisione netta tra i giovani della notte, di cui si sono visti i resti in piazza, e i giovani del giorno; ma la nottata alternativa che tanti giovani hanno vissuto tra il 23 e il 24 dimostra che c’è voglia di cambiamento e che ciascuno, come ha invitato a fare mons. Sigismondi, deve chiedersi ‘Cosa devo fare?’, come fece san Paolo dopo aver incontrato il Signore.

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Uomo e cristiano? https://www.lavoce.it/uomo-e-cristiano/ Thu, 12 Mar 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7379 In questa nostra era postmoderna tutto tende, soprattutto a causa degli attuali strumenti audiovisivi, a scivolar via indistinto, confuso, ‘liquido’ come si dice, senza neppure dar tempo a pensare. E questo può accadere anche in campo religioso. Qualche giorno fa, a un mio amico al quale era sfuggita di bocca una parolaccia, ho detto: ‘Ma che cristiano sei!’. ‘Eh, che sono una bestia?’, mi ha replicato mostrandosi sorpreso di quel mio rimprovero. Uomo e cristiano, secondo lui, sono sinonimi, si identificano. Negandogli il secondo, egli pensava che io gli negassi anche il primo, cioè di essere un uomo. E il suo modo di dire ricorre spesso anche nel linguaggio popolare. Certamente il credente li unisce in sé ambedue: in lui, uomo e cristiano sono uniti, però distinti. ‘Considera che tu sei creato, e devi dar gloria al Creatore ‘ diceva infatti sant’Agostino in un’omelia -. Cosa eri, o uomo? […] Quando non capivi sei entrato; quando non vuoi, esci’ (Quando nescisti intrasti; quando non vis, exis) (Discorsi 289, 6). Incoscienti siamo infatti nel nascere, incoscienti diventiamo nel morire. Fra queste due zone buie si svolge tutta la nostra breve esistenza terrena. Ma allora tutto finirà così, nel buio? No, perché l’uomo non è una bestia, diceva anche quel mio amico. ‘Ci hai fatti per te – affermava ancora sant’Agostino – e il nostro cuore è inquieto, finché non trova riposo in te (quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te, Le Confessioni, 1.1). Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, certamente. Ma questa è una verità che non toglie la distanza fra Dio e l’uomo. Anzi, l’approfondisce duplicandola: mistero ‘nfatti diventa così anche l’uomo, non solo di fronte a Dio, di cui è immagine, ma ancor più quando si chiude in se stesso. E la sua stessa inquietudine ne è un sintomo, perché si sente come chiuso in un guscio troppo stretto. ‘erché proprio qui, in questo stretto guscio del suo corpo, abita la sua anima inquieta. Ed è inquieta anche, anzi soprattutto direi, quando essa è anche credente. La sua fede non l’addormenta nel possesso d’un bene illusorio. La lancia invece, con una irresistibile spinta, verso la visione di Dio. ‘La fede cerca, l’intelletto trova’, affermava ancora sant’Agostino in un modo paradossale (Fides quaerit, intellectus invenit, La Trinità, XV, 2,2). È proprio la fede, infatti, che stimola la nostra intelligenza ad andare oltre il limite della sua capacità di conoscere. E non le dà pace perché, ‘anche dopo averlo trovato, bisogna cercarlo ancora, perché (Dio) è immenso’ (Ut inventus quaeratur, immensus est, Commento del vangelo di Giovanni, 63,1).’Chi non vorrebbe tirarsi indietro da tale fatica?’ egli dunque si chiedeva. E concludeva: ‘Ma spaventa il Vangelo’ (sed terret Evangelium). Eluderlo infatti non si può, comprenderlo in pieno e realizzarlo totalmente come propria regola di vita, è impossibile perché è immenso. Da qui potrebbe, almeno in una certa misura, nascere anche in noi quel primo impatto psicologico con il Vangelo, cioè lo spavento, come avveniva nell’anima inquieta di sant’Agostino.

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Un appuntamento da non perdere: con Dio https://www.lavoce.it/un-appuntamento-da-non-perdere-con-dio/ Thu, 15 Jan 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7227 Siamo tutti cercatori di Dio, anche quando rincorriamo affannosamente mete limitate e illusorie. Sant’Agostino nelle sue Confessioni riassume così l’anelito divino che sale da ogni cuore umano: “Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non trova pace fino a quando non riposa in te”. Benedetto XVI, nel settembre scorso, ha rilanciato dal centro di Parigi questo grido di san Paolo ai cristiani di Corinto: “Fuggite l’idolatria!” (1 Cor 10,14). “Questo invito – diceva – resta valido anche oggi. Il mondo contemporaneo ha imitato, magari a sua insaputa, i pagani dell’antichità distogliendo l’uomo dal suo vero fine, dalla felicità di vivere eternamente con Dio”. Chi ha smesso di cercare Dio si ritrova con un pugno di mosche in mano, senza presente e senza futuro. Ma per trovare Dio è necessario l’annuncio che incuriosisce e scuote il nostro torpore intellettuale.

I troppi messaggi commerciali che ci piovono addosso ci frastornano e ci disorientano. Solo se facciamo un po’ di silenzio attorno e dentro riusciamo a distinguere il richiamo che sale dal profondo di noi stessi e a percepire quella divina calamita di cui parlava Gesù: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,44s). Il Vangelo di Giovanni che abbiamo letto oggi ci presenta concretamente il tema della ricerca di Gesù. Si apre con un annuncio quasi lapidario del Battista ai suoi discepoli: “Ecco l’agnello di Dio”. Il giorno prima lo aveva gridato alle folle che accorrevano al suo battesimo in forma più completa, dicendo: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”(1,29), ma nessuno si era incuriosito e si era mosso. Il suo annuncio era caduto nel vuoto. Eppure conteneva una novità assoluta sul Messia tanto atteso. Diceva che Gesù si sarebbe addossato l’enorme cumulo dei peccati del mondo per cancellarli con la sua morte espiatrice.

Era l’agnello pasquale, simbolo della liberazione dalla schiavitù del peccato e del male, molto più grave e distruttiva di quella egiziana (Es 12,27). Perciò avrebbe dato a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, per la vita del mondo, nella cena di Pasqua. Era anche il Servo del Signore di cui parlava Isaia, che, sette secoli prima, lo presentava come agnello mansueto “trafitto per i nostri delitti e schiacciato dal peso delle nostre iniquità” (Is 53,5-7). Tutto l’episodio richiama l’esperienza pasquale che proietta indietro fin qui la sua luce: l’evangelista ha contato tre giorni dal primo annuncio del Battista, perciò l’incontro avviene proprio il terzo giorno, il giorno del Risorto. Per di più ricorda l’ora precisa di quell’appuntamento tanto decisivo per lui: “Le quattro del pomeriggio”, un’ora dopo quella della morte di Gesù in croce (Mc 15,34).

Ogni incontro con Gesù ormai è un incontro con il Crocifisso-risorto, per chiunque. C’era di che incuriosirsi in questo annuncio pasquale anticipato, inaudito. Solo due dei discepoli inseguirono Gesù con una domanda personale: “Rabbì, dove abiti?”. E lui non diede il suo indirizzo, ma li invitò addirittura ad andare a casa sua: “Venite e vedete” (èrcheste kai òpseste) . Questa curiosa coppia di discepoli del Battista ricorda tanto la coppia di apostoli che la mattina di Pasqua corsero al sepolcro per “vedere” i primi segni e iniziare credere (Gv 20,2-10). Erano Pietro e Giovanni; qui invece sono Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni. Siamo sempre sotto la luce del Risorto. Sta di fatto che i primi cercatori di Cristo furono due discepoli di Giovanni Battista, da lui stesso inviati. Questo conferma la magnanimità del Precursore, che non teme concorrenza (Gv 3,23-30). I due vennero dunque nel luogo dove Gesù dimorava e restarono con lui tutto il giorno. Dialogarono comodamente con lui e forse si fermarono tutta la notte fino al giorno dopo.

L’evangelista tace su quel colloquio, ma ci lascia la netta impressione che i due siano stati conquistati da Cristo. Da qui comincerà la sua esperienza di comunione fisica e spirituale con Gesù: “Abbiamo udito, abbiamo visto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita” (1 Gv 1,1s). Non c’è conoscenza e fede senza esperienza personale, anche oggi per noi. Solo la parola, la liturgia, la preghiera personale ce la possono dare. Per Andrea l’esperienza di quel giorno fu entusiasmante, tanto che non poté fare a meno di comunicarla con calore a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Cristo!”.

È la prima gioiosa confessione apostolica che apre il Vangelo, dove essa si moltiplicherà e si approfondirà di bocca in bocca. I due erano stati indirizzati a Gesù dal Battista, ora Simone è guidato direttamente da suo fratello. Gesù si serve della mediazione umana per comunicarsi: sono i fratelli nella fede che annunciano e confessano. Solo chi è conquistato da Gesù è capace di conquistare a Gesù i fratelli.  L’evangelizzazione cristiana è proposta di esperienza, non costrizione. Fu quel gioioso annuncio che portò Simone a faccia a faccia con Gesù, a tu per tu nel senso più vero. Gesù lo fissò infatti negli occhi (emblèpsas), lo riconobbe e lo chiamò per nome, un doppio nome, quello umano e quello divino: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni”, questo è il nome che ti ha dato tuo padre, ma il nome nuovo che ti dà mio Padre è quello di “Kepha”, cioè Pietro-Roccia.

Per ora Gesù non aggiunge altro, ma nella mente di Andrea e di Simone la prima idea che dovette balenare fu quella della pietra di Giacobbe a Betel, che nel sogno del patriarca costituì la base della scala che saliva dalla terra al cielo (Gn 28,10-19). Tanto più che Gesù vi alluderà poco dopo nella risposta a Natanaele, l’ultimo anello dei primi incontri con i suoi futuri discepoli (Gv 1,51). Come Pietro, tutti noi nasciamo conosciuti e segnati dal progetto di Dio. Nessuno nasce a caso o per sbaglio. Dio ha per noi un nome e un progetto positivo di vita (Ef 1,3-12). Sta a noi scoprirlo nella fede, per misurare su di esso la vita. In fin dai conti la ricerca di Dio è la ricerca di noi stessi, del significato della nostra vita, della nostra vocazione, del nostro destino. Ignorare Dio è ignorare il vero senso dalla vita, è un vivere alla cieca come a tentoni, col rischio di sciupare e perdere un bene così grande e insostituibile.

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Nel pozzo dell’anima https://www.lavoce.it/nel-pozzo-dellanima/ Thu, 13 Nov 2008 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7104 Un uomo, che soffre d’un male incurabile, pensando vicina la sua morte, mi diceva pochi giorni fa: ‘Per me non è un problema vivere qui o di là; mi dispiace solo di dare un dolore a mia moglie e ai miei figli’. Me l’ha detto con la semplicità di chi non ha più un problema perché l’ha già risolto nel profondo della sua coscienza, della sua anima illuminata dalla fede. Mi ha colpito questa sua ingenua affermazione, che rivela un’interiorità difficile ai tempi nostri. Ma non penso che sia una persona così rara, come si crede. Penso anzi che non ci sia parrocchia in cui non viva qualcuna di esse. Ma non fanno notizia. In questo nostro mondo della scienza e della tecnica, che è creazione dell’uomo, l’uomo incontra soltanto esteriormente se stesso e le sue imprese. Sembra che non abbia più bisogno né volontà di rientrare in se stesso e pensare all’anima. La visione del mondo e dei suoi avvenimenti attraverso i mass media, infatti, sta deformando le nostre coscienze più di quanto riesca a fare la nostra attività pastorale nel formarle. Anche perché quello è un modo più comodo per risolvere i piccoli problemi d’ogni giorno. Il grande problema dell’anima resta così nel fondo inesplorato della nostra coscienza, nel cosiddetto subcosciente. E si dovrebbe affrontare la fatica di riportarlo alla luce della nostra coscienza. Ma l’uomo è intelligente solo quando è costretto a esserlo, è stato detto. Ed è vero. Mettere in attività la nostra intelligenza è già, infatti, un’impresa faticosa. Risalire poi alla sua sorgente, cioè all’anima, lo è ancora di più. Non abbiamo nemmeno parametri esatti per situarla: mente e cuore, cielo e terra, eternità e tempo sono intrecciati nell’anima in modo inestricabile. Lo affermava sant’Agostino, ricordando forse la sua conversione, in una specie di dialogo con Dio: ‘Tu eri più intimo della mia parte più intima e più alto della mia parte parte più alta’ (Et eras interior intimo meo et superior summo meo: Le confessioni, III, 6,11). E in questo ossimoro, che è una specie di bisticcio di parole, è condensata tutta la nostra vita interiore, che è interiorità e trascendenza insieme. ‘Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso – egli concludeva -; la verità abita nell’uomo e, se troverai che la tua è mutevole, trascendi te stesso. Ma quando trascendi te stesso, ricordati che trascendi l’anima razionale; tendi pertanto là dove s’accende il lume della ragione’ (La vera religione 39,72). Ma già Origene (185-254), due secoli prima, lo ripeteva ai fedeli in un’omelia: ‘Tenta anche tu che mi ascolti di avere un pozzo, una fontana, in modo che, quando prenderai il libro delle Scritture, ti possa mettere a produrre, anche secondo il tuo pensiero, qualche interpretazione secondo quanto hai appreso nella Chiesa; prova anche tu a bere alla sorgente del tuo spirito. Dentro di te sta la sorgente dell’acqua viva, ci sono le perenni sorgenti dell’intelligenza del senso della Scrittura’ (Omelie sulla Genesi, 12,5). Questo richiamo all’interiorità è da accogliere come la migliore difesa contro il clima dispersivo in cui viviamo oggi.

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Una nuova Pentecoste a partire dai giovani https://www.lavoce.it/una-nuova-pentecoste-a-partire-dai-giovani/ Thu, 31 Jul 2008 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=6856 Non c’è nulla di esagerato o di retorico in questo titolo.

È la pura definizione di Sydney ’08, letta nelle intenzioni e nei discorsi ufficiali di Benedetto XVI, ancora una volta il Papa giusto al momento giusto; un Papa coraggioso che non si ferma alle apparenze, che sa leggere la storia come pochi e sa indicare la strada dell’autentica umanizzazione, a partire da quel piccolo grande gregge smarrito dei giovani, che può tuttavia diventare il nuovo futuro di questo mondo e di questa Chiesa.

È incredibile la fiducia nei giovani di questo ottantenne, successore di Pietro, e perciò il coraggio di educarli alle grandi verità, anche quando molti si defilano. Lui affronta un viaggio ‘carico di apprensione’, ma non ha nessuna paura ad affrontare un dialogo su un contenuto di altissimo livello, su quella ‘Persona dimenticata della santissima Trinità’, lo Spirito santo, l’unico che può sempre ancora rinnovare e ringiovanire la Chiesa e il mondo.

Non si poteva scegliere un scenario migliore: una città spettacolare, l’emblema della modernità e dell’efficienza; una terra caratterizzata dallo ‘splendore maestoso della bellezza naturale’, che tuttavia racchiudono un’umanità frammentata e fragile, che non riesce da sola a superare le inevitabili contraddizioni e a ricostruire il vero giardino della civiltà dell’amore.

Questa città e questa terra si sono presentate un po’ sonnolente e scettiche di fronte all’evento della Giornata mondiale. Non potevano credere che tanti giovani cattolici facessero sul serio. Subito hanno pensato alla solita sceneggiata, ma quando hanno dovuto costatare che si trattava di gioia vera, di entusiasmo sincero, senza le solite siringhe e bottiglie, si sono lasciati contagiare e hanno aperto le porte di casa. Molti ‘ è vero ‘ sono di origine italiana, ma ormai sono australiani a tutti gli effetti.

La presenza del Papa e la testimonianza aperta di tantissimi giovani veramente motivati ha fatto loro riscoprire l’orgoglio della propria fede e la bellezza delle proprie radici cristiane.

Effettivamente i nostri giovani della Gmg sono un capitale preziosissimo e un motivo di grande speranza. Ha veramente ragione il Papa a considerarli una base sicura per la nuova evangelizzazione. Possiamo veramente contare sulla loro serietà e sul loro impegno, a patto di non lasciarli soli.

Dobbiamo tutti – vescovi, sacerdoti, diaconi, genitori, catechisti’- imparare dal Papa: amarli ed educarli ai grandi voli, ma con coraggio, senza temere che se ne vadano, se siamo noi i primi convinti della bellezza, della razionalità e dell’efficacia della nostra fede. Certamente non possiamo pretendere di avere tutti la stessa chiarezza di dottrina di Benedetto XVI, ma seguirne le piste indicative è più che necessario. Lui legge per noi la cultura del nostro tempo, ed è già un enorme vantaggio. Con lui dobbiamo sentirci dentro ‘la storia più grande di tutti i tempi’, iniziata dagli apostoli con la Pentecoste, e fare la parte che ci tocca, interpretare ‘il nostro turno’, seguendo il metodo delle sue catechesi sullo Spirito santo. Ce l’aveva già detto un anno fa, in vista di Sydney, che dovevamo conoscere meglio lo Spirito santo (‘il grande sconosciuto’).

A Sydney con grande pazienza ci ha fatto il ritratto del nostro battesimo (‘nuove creature’) ed ha analizzato il potere dello Spirito, il potere della vita di Dio (‘amore unificante’, ‘amore durevole’, ‘amore che si dona’) per credere nella missione che lo stesso Spirito ci affida: ‘essere suoi testimoni’.

Nel catino dell’ippodromo quella domenica c’erano veramente giovani di tutte le etnie e, quando il Corpo di Cristo fu distribuito a tutti, ho pianto di gioia, perché effettivamente lo Spirito ci rendeva l’unico Corpo, per dire a tutti che è possibile rinascere in Cristo e costruire un mondo nuovo. Mi sono venute in mente quelle parole di sant’Agostino sull’eucaristia: ‘Ricevete ciò che siete, e potete essere ciò che vedete’ (Accipite quod estis, estote quod videtis).

Questa è la nostra Pentecoste.

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