santa Caterina da Siena Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/santa-caterina-da-siena/ Settimanale di informazione regionale Tue, 27 Apr 2021 10:15:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg santa Caterina da Siena Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/santa-caterina-da-siena/ 32 32 Monsignor Cancian celebra una Santa Messa in onore di Santa Caterina da Siena https://www.lavoce.it/monsignor-cancian-celebra-una-santa-messa-in-onore-di-santa-caterina-da-siena/ Tue, 27 Apr 2021 10:13:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60343 Santa Caterina da Siena

Una Santa Messa in onore di Santa Caterina da Siena, Patrona d’Italia, sarà celebrata dal vescovo monsignor Domenico Cancian, giovedì 29 aprile alle ore 18 in San Domenico, nell’ambito del Centenario di Santa Margherita di Città di Castello (è di pochissimi giorni la gioiosa notizia della sua canonizzazione). Donne fragili e deboli nel corpo ma ugualmente eccezionali da essere onorate dal popolo come sante e dalla Chiesa invocate e indicate come modello. Si affiancano al patriarca San Domenico nel trittico dorato, sul lato destro della navata, nella cappella absidale della chiesa. Donne straordinarie che hanno superato con la forza della fede le barriere limitanti del corpo per farsi partecipi per il bene della società e della Chiesa del loro tempo. Caterina negli ospedali di Siena si dedicò agli ammalati, anche quelli contagiosi, da meritarsi il riconoscimento di Patrona delle Infermiere d’Italia. Grazie al suo carisma, per il bene della Chiesa riuscì a convincere il papa Gregorio XI a tornare a Roma da Avignone. Papa Giovanni Paolo II definì Caterina la Mistica della politica per la sua opera pacificatrice e il suo interesse per la città di Siena, impegno finalizzato al bene comune e alla buona amministrazione della cosa pubblica. Papa Francesco la definisce Forte nella fede, ferma nella speranza, ardente nella carità. Il vescovo della Diocesi di Città di Castello Domenico Cancian, nell’ambito del Centenario, con questa celebrazione in onore della domenicana mantellata Santa Caterina da Siena, vuol mettere al centro dell’attenzione di tutti i credenti e uomini di buona volontà il valore dell’impegno religioso e civile. Impegno che ben traspare nelle due figure femminili, figlie del loro tempo: un tempo di crisi e trasformazioni come questo attuale, che aveva e ha bisogno di spiriti forti e liberi.]]>
Santa Caterina da Siena

Una Santa Messa in onore di Santa Caterina da Siena, Patrona d’Italia, sarà celebrata dal vescovo monsignor Domenico Cancian, giovedì 29 aprile alle ore 18 in San Domenico, nell’ambito del Centenario di Santa Margherita di Città di Castello (è di pochissimi giorni la gioiosa notizia della sua canonizzazione). Donne fragili e deboli nel corpo ma ugualmente eccezionali da essere onorate dal popolo come sante e dalla Chiesa invocate e indicate come modello. Si affiancano al patriarca San Domenico nel trittico dorato, sul lato destro della navata, nella cappella absidale della chiesa. Donne straordinarie che hanno superato con la forza della fede le barriere limitanti del corpo per farsi partecipi per il bene della società e della Chiesa del loro tempo. Caterina negli ospedali di Siena si dedicò agli ammalati, anche quelli contagiosi, da meritarsi il riconoscimento di Patrona delle Infermiere d’Italia. Grazie al suo carisma, per il bene della Chiesa riuscì a convincere il papa Gregorio XI a tornare a Roma da Avignone. Papa Giovanni Paolo II definì Caterina la Mistica della politica per la sua opera pacificatrice e il suo interesse per la città di Siena, impegno finalizzato al bene comune e alla buona amministrazione della cosa pubblica. Papa Francesco la definisce Forte nella fede, ferma nella speranza, ardente nella carità. Il vescovo della Diocesi di Città di Castello Domenico Cancian, nell’ambito del Centenario, con questa celebrazione in onore della domenicana mantellata Santa Caterina da Siena, vuol mettere al centro dell’attenzione di tutti i credenti e uomini di buona volontà il valore dell’impegno religioso e civile. Impegno che ben traspare nelle due figure femminili, figlie del loro tempo: un tempo di crisi e trasformazioni come questo attuale, che aveva e ha bisogno di spiriti forti e liberi.]]>
Assisi e San Pietro: due lampi di luce su un mondo stanco https://www.lavoce.it/assisi-e-san-pietro-due-lampi-di-luce-su-un-mondo-stanco/ Fri, 10 Oct 2014 11:25:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28376 matteo-renzi-e-mauro-gambettiOra che abbiamo un Papa che ha preso il nome di Francesco, con il chiaro riferimento al Santo d’Assisi – che non amo chiamare il Poverello come largamente si usa, essendo stato un genio di prima grandezza della storia – è difficile e sembra persino riduttivo considerare san Francesco soltanto patrono d’Italia. E tuttavia tale è per la proclamazione fatta il 18 giugno del 1939 da Pio XII, in un periodo in cui l’Italia fascista godeva di una diffusa tranquillità e sicurezza. Insieme a san Francesco è stata proclamata patrona d’Italia santa Caterina da Siena. I due personaggi sono stati scelti certamente per la loro santità e congiuntamente per la loro “italianità”, sia di appartenenza sia di interesse e impegno culturale e sociale a favore di questo nostro Paese.

Da allora ad Assisi, alla tomba di san Francesco una Regione italiana porta in pellegrinaggio l’olio che alimenta la lampada che arde perennemente presso la tomba del Santo. La prima fu la Regione del Lazio il 4 ottobre del 1939 e proprio alla Regione Lazio è toccato di fare altrettanto in questo 75° anniversario della proclamazione. Molti personaggi si sono recati ad Assisi e il messaggio all’Italia da parte del suo patrono è stato interpretato da più voci religiose e civili, tra tutte ha fatto notizia quella del presidente del Consiglio Matteo Renzi. È stato un messaggio uscito in modo quasi spontaneo e diretto esplicitamente rivolto alle attuali problematiche del sistema politico italiano. Qualcuno lo ha ritenuto riduttivo in funzione governativa e tuttavia incentrato su temi e valori indubbiamente di elevato spessore culturale e sociale: la bellezza, la gioia, l’ambiente, il lavoro, la pace, la persona umana, la scuola, la riforma della giustizia. Anche da altri personaggi della politica è stato rilevato che dal messaggio francescano derivino indicazioni e suggerimenti opportuni e utili per i governanti, gli amministratori e tutti i cittadini.

Il “ripara la mia casa”, detto dal Crocifisso di S. Damiano a Francesco all’inizio della sua conversione, esteso per analogia alla casa comune della società da parte di Renzi è stato largamente condiviso dai personaggi intervenuti numerosi ad Assisi il 4 ottobre scorso, festa grande per Assisi, l’Umbria e l’Italia. D’altra parte questa festa è formalizzata anche civilmente con l’approvazione da parte del Parlamento italiano della Legge 24 del 2005 in cui si stabilisce che il 4 ottobre di ogni anno è da considerare “Giornata della pace, fraternità e dialogo con religioni e culture diverse”, prevedendo iniziative appropriate nelle scuole e negli ambienti pubblici. La deriva in ambito civile della festa del patrono comunque non deve diventare uno spot pubblicitario per persone o organizzazioni che siano pubbliche o private ancorché apprezzabili e meritorie.

Il messaggio all’Italia e al mondo, a tutto il mondo degli uomini e delle donne che Dio ama, soprattutto degli umili e dei poveri e di coloro che soffrono, è venuto dai padri francescani e dal cardinale Agostino Vallini, vicario del Papa, il quale nell’omelia ha esaltato la figura di Francesco “gigante della fede e dell’amore cristiano, un esempio ben riuscito di discepolo di Gesù”. Parole che non rendono ancora quanto affermava Dante nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XI) chiamando Assisi “Oriente” dal quale è nato un “Sole” che ha illuminato il mondo. Sempre il cardinale, con slancio ispirato, ha esortato tutti: “Cresciamo come uomini e donne di pace, contrastiamo le insidie delle culture di morte, sappiamo perdonare, condividiamo le sofferenze dei poveri, degli ultimi, degli emarginati, dei tanti cercatori di pace e di dignità, riapriamo ai tanti crocifissi della vita le porte della speranza”.

La festa di san Francesco è caduta nello stesso giorno in cui il Papa ha celebrato una grande liturgia in piazza San Pietro affollata e devota in preparazione del Sinodo sulla famiglia appena iniziato (5 ottobre). Possiamo dire che come due poli di orientamento, due polmoni del respiro della Chiesa particolare e universale, si sono trovati in sintonia un Francesco di Assisi e un Francesco Papa che in questa giornata hanno illuminato la chiesa e il mondo con una pura luce di gioia e di speranza diffusa sulle nebbie di un mondo stanco e malato.

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L’attualità di Francesco in un mondo in guerra https://www.lavoce.it/lattualita-di-francesco-in-un-mondo-in-guerra/ Thu, 02 Oct 2014 18:02:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28271 Settantacinque anni fa san Francesco veniva proclamato patrono d’Italia da Pio XII, insieme a santa Caterina da Siena. Era un periodo in cui il regime fascista aveva ottenuto grandi consensi; quella scelta era segno di una nazione pacifica e serena, che nel Santo di Assisi pensava di potersi rispecchiare in quanto, come fu detto, san Francesco “è il più santo degli italiani e il più italiano tra i santi”. Quest’ultima notazione si poteva riferire – più che allo spirito francescano, così distante dallo spirito del regime – agli scritti di Francesco, che costituiscono esempi originari della nascente lingua italiana, si pensi soprattutto al Cantico delle creature. Negli anni successivi, fino a oggi, la devozione o la stima anche da parte di non cristiani e non credenti sono andate crescendo. I motivi sono diversi, e l’attuale Pontefice li ha riassunti nel momento in cui, in maniera sorprendente – qualche protestante ha detto perfino “provocatoria” – ha scelto di chiamarsi Francesco. Tra i motivi della scelta papale e della crescente fama del Santo (non amo chiamarlo “il Poverello”, essendo un gigante della storia) è l’aspetto della pace, sia per le parole del saluto “pace e bene” da lui utilizzato, sia per l’esempio della sua vita, e in particolare perché in tempo di Crociata si recò, non per caso ma per sua precisa volontà, a parlare con il sultano d’Egitto Melek al-Kamel. Questa storia è nota, credo, a tutti, e non è il caso di raccontarla nei dettagli. Ma il suo significato è quanto mai chiaro in quel contesto: siamo alla quinta Crociata in atto, e Francesco, disarmato messaggero di Cristo, va dal nemico in guerra (si capisce perché i musulmani definiscano “Crociata” ogni azione dell’Occidente contro un Paese a maggioranza islamica) e pensa di convertirlo. L’incontro andò bene… il Sultano non si convertì, ma i due strinsero amicizia e Francesco ebbe dei regali come pegno di pace.

Rileggere e ripensare questa storia oggi, quando in nome di Allah una rilevante corrente politico-religiosa del mondo musulmano giura di voler distruggere gli infedeli dell’Occidente, suscita una serie di interrogativi (non si parla degli “infedeli” dell’Oriente, indiani e cinesi, che sarebbero i veri infedeli secondo l’islam, mentre i cristiani dovrebbero essere considerati con un certo rispetto in quanto “uomini del Libro”, i seguaci di un Profeta considerato tale dal Corano, e figlio di una Vergine). Ma chi sono questi, che vogliono issare bandiere nere sulla Casa bianca e arrivare a Roma, questi tagliatori di teste che non hanno paura di uccidere perché – dicono – è un modo per dare gloria ad Allah, e neppure di morire, perché andrebbero sicuri in paradiso come martiri della causa di Dio? In quale abisso di ignoranza e barbarie sono immerse le loro menti farneticanti? Di chi sono figli? In quale scuola si sono formati? Chi li finanzia? Chi chiude gli occhi di fronte ai loro massacri di popolazioni cristiane? Il grande mondo musulmano pare che cominci a rispondere ad alcune di queste domande e a prendere le distanze da questi folli che distruggono non solo le chiese ma anche le moschee che ritengono eretiche, cioè non allineate con la loro strategia politica.

Per parte nostra, facciamo bene a celebrare il Patrono d’Italia con solennità e a stringerci con viva partecipazione alla grande famiglia francescana che ha il suo centro e il suo punto di riferimento nella nostra regione Umbria. Fa bene il presidente Matteo Renzi a sintonizzare la sua chiamata al risveglio per un’Italia stanca e sfiduciata con il messaggio di letizia e speranza per tutti. Rimanendo tuttavia pronti e prudenti nell’operare realisticamente per la pace nel mondo. Non sarà fuori luogo, infatti, ricordare che dopo la visita al Sultano avvenuta nel 1219 vi fu, un anno dopo, un triste seguito nella vicenda dei cinque frati francescani decapitati a Marrakesh (Marocco) nel 1220. Martiri della pace predicata secondo il Vangelo di Gesù Cristo.

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La Madonna del rosario da Fabriano alla Galleria nazionale dell’Umbria https://www.lavoce.it/la-madonna-del-rosario-da-fabriano-alla-galleria-nazionale-dellumbria/ Fri, 01 Aug 2014 12:26:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27337 Madonna del rosario (particolare) di Orazio Gentileschi -  Fabriano Pinacoteca Civica - (1613 - 1618)
Madonna del rosario (particolare) di Orazio Gentileschi – Fabriano Pinacoteca Civica – (1613 – 1618)

La Galleria nazionale dell’Umbria ospiterà fino al 30 settembre la Madonna del Rosario di Orazio Gentileschi, pittore pisano tra i più abili interpreti del linguaggio caravaggiesco. L’opera seicentesca che ritrae al centro la Vergine con il Bambino, ai lati san Domenico e santa Caterina da Siena, è un prestito della Pinacoteca civica “Bruno Molajoli” di Fabriano, dove la pala è conservata.

Il prestito alla Galleria si spiega con la concessione a sua volta da parte della Galleria stessa di quattro opere importanti per una mostra in corso nella Pinacoteca fabrianese dal titolo “Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano tra Due e Trecento” curata da Vittorio Sgarbi. Tra le opere prestate una “Madonna con bambino e angeli” di Gentile da Fabriano e una preziosa tempera su pergamena raffigurante la Crocifissione e la “Madonna con bambino” attribuita a Puccio Capanna.

Un’iniziativa – spiega il soprintendente Fabio de Chirico – finalizzata alla più ampia conoscenza del patrimonio artistico, favorendo la valorizzazione di quei capolavori che il più delle volte vengono esclusi dal turismo mordi e fuggi. La Galleria conferma ancora la sua vocazione alla diffusione della cultura e della conoscenza”.

L’opera deve ancora essere studiata a fondo, dalla committenza alla data – ha proseguito De Chirico – che oscilla tra il 1613 e il 1618. Il tema della Madonna con il rosario è di quelli molto sfruttati, così come istituita in ambiente domenicano, in base a quanto deciso da Pio V dopo la vittoria di Lepanto (1571). Ma questa non è una stanca ripetizione del tema, non c’è una costruzione piramidale, anche se al centro vi è la Madonna con Bambino.

“Gentileschi – spiega la responsabile delle collezioni della Galleria nazionale Federica Zalabra – sviluppa infatti in orizzontale la scena affiancando al gruppo della Madonna con Bambino i due angeli reggicortina e dipingendo i santi domenicani (Domenico e Caterina) in primo piano. La pala dovrebbe risalire agli ultimi anni del suo rapporto con Fabriano quando il pittore aveva già iniziato a cercare nuove e fruttuose commissioni a Venezia e a Roma. Ogni angolo della scena è occupato da dettagli e elementi decorativi figli di un horror vacui (la paura del vuoto) che raramente il pittore manifesta, a riprova che la committenza ebbe un ruolo non marginale nelle scelte artistiche”. Bellissima santa Caterina da Siena (a destra della Madonna con Bambino) che si piega per baciare il rosario e a sinistra san Domenico inginocchiati su un tappeto finemente decorato. In alto la colomba dello Spirito santo e quattro angeli. In basso, ai piedi del trono un fanciullo odora una rosa, simbolo mariano per eccellenza.

Il 1° agosto per i Venerdì al museo promossi dal Mibact, è stata proposta una conferenza su “Orazio Gentileschi. La conversione a Caravaggio di un pittore di maniera” con Federica Zalabra in cui si è parlato della lungimiranza dell’artista che si convertì al caravaggismo in età avanzata e affrontata la cause célèbre del ’600, tra Artemisia, sua figlia, (anche lei artista) e Agostino Tassi.

Ingresso libero con il biglietto della Galleria: intero 6.50, ridotto 3,25. Apertura fino alle 22.

A settembre la Galleria ospiterà inoltre due opere del Canaletto grazie al prestito predisposto dal museo francese Jacquemartre Andrè.

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Celebrato ad Assisi il 75° anniversario della proclamazione del Poverello a patrono d’Italia https://www.lavoce.it/celebrato-ad-assisi-il-75-anniversario-della-proclamazione-del-poverello-a-patrono-ditalia/ Thu, 26 Jun 2014 15:47:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25856 san-francesco-patrono-bnStoria locale e storia nazionale, storia politica e storia religiosa. Questa tessitura, somigliante a un tappeto sapientemente ricamato, è stata distesa e offerta dai relatori – presentati, in qualità di moderatrice, da Anna Mossuto – durante il convegno organizzato dalla diocesi di Assisi-Nocera-Gualdo Tadino in occasione del 75° anniversario della proclamazione di san Francesco a patrono d’Italia. Risale infatti al 18 giugno 1939 il “breve” con il quale Pio XII concesse al Santo di Assisi l’eminente onorificenza, estesa anche a santa Caterina da Siena.

La manifestazione si è svolta presso la sala della Conciliazione, luogo particolarmente adatto, come rimarcato dal sindaco di Assisi Claudio Ricci, in quanto coniugato al desiderio di pacificazione.

“È auspicabile che l’anniversario contribuisca a far maturare i valori più nobili dello spirito”: questo il commento di padre Mauro Gambetti, custode del Sacro Convento, che ha dato lettura di una missiva inviata per la circostanza dalla presidente della Camera Laura Boldrini. Francesco e Caterina: “santi dell’accoglienza e della fraternità… figure care a tanti italiani e italiane, credenti o no…”.

Tracciando il quadro storico in cui si è verificata la proclamazione “patronale”, Andrea Riccardi (Comunità di S. Egidio) con la consueta competenza ha ripercorso le interpretazioni date alla figura di san Francesco, recuperata nella sua autenticità, “nonostante approssimazioni”, da Paul Sabatier che lo sottrasse a una cultura puramente ecclesiastica. Riconosciuti i meriti di Arnaldo Fortini che, attraverso vari e validi interlocutori, ampliò la proiezione della figura, proponendo Assisi come luogo francescano per eccellenza, fino a ricevere una delegazione della Società delle nazioni.

Un sobbalzo avrà colto qualcuno dei presenti quando il citato relatore ha ricordato che il “giovane” Benito Mussolini, rivoluzionario e anticlericale, riservava una sua ammirazione al Santo di Assisi. Successivamente la propaganda del regime instaurato dal Duce trasformò il francescanesimo in una espressione culturale a sostegno della espansione coloniale, supportata da un corteggiamento penetrante in settori del mondo cattolico. In cerca di consenso, astutamente e paradossalmente, il Duce si dichiarava “cattolico e anticristiano”: così ha specificato Riccardi, affrontando il tema del lessico francescano nella fase del regime: “Il più italiano dei santi e il più santo degli italiani”, archetipo della patria nonché esempio di obbedienza. La disaffezione cattolica al fascismo si sviluppò dopo le leggi razziali.

Nell’epoca post-fascista, contraddistinta da una svolta e da un netto cambiamento di rotta, ritornò in auge san Francesco poverello, uomo della letizia, della pace, dell’amore.

E oggi? Egli rappresenta un punto di riferimento esistenziale, una presenza con la quale anche chi è lontano dalle spiritualità religiosa, o tale si sente, deve comunque confrontarsi. Continua a camminare nella storia, e in questa si impolvera per risorgere sempre con il suo nitido messaggio profetico.

Stimolante l’intervento di Francesco Santucci che con certificata esperienza ha sondato la documentazione conservata nell’archivio vescovile curato tanti anni fa da don Otello Migliosi.

Con solerte attenzione il relatore ha ricostruito l’iter diplomatico-procedurale sfociato poi nella “proclamazione”, perseguita e preparata con accortezza dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini, capace di interpretare l’umore popolare già stimolato dalla ricorrenza del VII centenario della morte del Santo (1926); perspicace nell’intuire l’attenzione del mondo culturale laico e cattolico; sollecito nel recepire l’interesse del contesto politico. Illustrate le fasi del cammino verso l’atto ufficiale di proclamazione – dal documento che mons. Nicolini inviò a tutti i Vescovi italiani alla “petizione” diretta al Pontefice, redatta insieme a padre Ilarino da Milano – ha esposto incomprensioni e divisioni insorte nell’ambito prelatizio tra quanti favorevoli (la maggioranza) a Francesco patrono d’Italia e quanti favorevoli (una significativa minoranza) a Caterina da Siena. Scontata la compattezza entusiastica delle famiglie francescane circa la candidatura del proprio padre spirituale. Non è un caso pertanto se il “breve” promulgato da Pio XII costituì patroni primari d’Italia san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena. Proprio un benedettino, ha rilevato il relatore, si rese protagonista del prestigioso titolo offerto a san Francesco.

All’indomani della emanazione del “breve” il vescovo Nicolini, secondo quanto riportato dallo stesso Santucci, così scriveva: “San Francesco pareva aleggiasse con il suo spirito in tutti i paesi e le città della Patria… la gloria di san Francesco si sarebbe riflessa di conseguenza anche su Assisi”. A conclusione del convegno il vescovo Sorrentino si è premurato di spiegare i motivi che hanno ispirato il 75° anniversario: non una esaltazione celebrativa ma una esigenza di riflessione e di approfondimento storico; un atteggiamento di preghiera coerente al Sinodo diocesano; un “dovere politico” verso la nazione e anzi l’intera umanità ferita da piaghe – come ha evidenziato Papa Francesco durante la sua visita in Assisi, “innestando” registri sconvolgenti nella chiave del Vangelo.

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A 75 anni dalla proclamazione di san Francesco e santa Caterina da Siena a patroni d’Italia https://www.lavoce.it/a-75-anni-dalla-proclamazione-di-san-francesco-e-santa-caterina-da-siena-a-patroni-ditalia/ Fri, 20 Jun 2014 13:39:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25677 San-Francesco-CimabueUna data storica: il 18 giugno 2014 ricorre il 75° anniversario della proclamazione di san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena Patroni d’Italia. La decisione fu presa da Pio XII (2 marzo 1939 – 9 ottobre 1958) pochi mesi dopo la sua elezione, con un solenne documento, Breve pontificio, firmato dal cardinale segretario di Stato Luigi Maglione.

Siamo in piena epoca fascista, al culmine della sua tracotante sicurezza. In Germania domina Hitler, che il 1 settembre 1939 decreta l’aggressione della Polonia e determina a catena la Seconda guerra mondiale che farà milioni di morti e disastrose rovine in tutta Europa. Anche l’Italia, dopo circa due anni di incertezze, sciaguratamente si lascia trascinare nella guerra a fianco della Germania. Sembra che per un presagio celeste il Papa abbia sentito il bisogno di chiamare in causa due grandi santi come patroni e difensori della patria. Sapeva che san Francesco e santa Caterina avevano fama e ammirazione da parte di tutti, anche dei fascisti che in queste figure vedono una gloria dell’Italia sia per la santità sia per il lustro che recano al Paese presso tutte le nazioni del mondo cattolico ed anche per la loro opera letteraria e per l’arte che hanno suscitato. È stata più volte ripetuta, ad esempio, la frase attribuita contemporaneamente a Pio XII e a Mussolini secondo cui san Francesco è ”il più santo degli italiani e il più italiano dei santi”. Per Pio XII però era più importante additare queste due straordinarie figure, nella eccezionalità della loro esperienze religiosa, come veri patrocinatori della causa della pace e del benessere per l’Italia e come modelli di vita per tutti, perché cresca il fervore religioso e la pietà nel popolo cristiano.

Secondo l’intenzione di Papa Pacelli i Patroni assegnati alle “genti d’Italia”, ai “nostri connazionali, presso il Signore” hanno la funzione di “custodi e difensori” del popolo. Non esiste d’altra parte nessuna nazione che sia orfana di patroni e protettori.

In antico il clero e il popolo, d’accordo con i pubblici poteri, si preoccupavano anche di avere i corpi dei santi o almeno le loro reliquie da custodire devotamente in santuari posti ai confini del territorio della città per svolgere la funzione di difensori della sicurezza e della pace contro gli assalti dei nemici. È evidente che la fede cattolica e la santità non hanno confini e soffrono ad essere ristretti in una dimensione nazionale. Sappiamo dello spirito e della vocazione universalistica di Francesco che va dal sultano d’Egitto, scrive una lettera ai reggitori del mondo e a tutti i fedeli della terra e così santa Caterina che si adopera e riesce a convincere Papa Gregorio XI a lasciare la sede di Avignone e ritornare a Roma. Ma è pur vero che Francesco e Caterina sono esempi di lingua e letteratura italiana, appartenevano ad un città e ad un territorio e si adoperavano per la pace tra le città e le fazioni cittadine.

Per quanto riguarda Francesco e il suo essere dichiarato Patrono d’Italia per noi umbri è un vanto e un motivo di adesione concreta al suo insegnamento e al suo esempio.

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Il diritto di avere diritti. Il dovere…? https://www.lavoce.it/il-diritto-di-avere-diritti-il-dovere/ Thu, 02 May 2013 13:28:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=16530 Se è vero che a ogni diritto corrisponde un dovere, la stagione fervida delle proclamazioni e rivendicazioni (vedi Rodotà a Che tempo che fa di domenica sera con Fabio Fazio, sommersi da applausi a non finire) dovrebbe avere una corrispondente proclamazione e specifica indicazione circa chi e come tradurre in concreto nella pratica quel diritto. Tra i diritti, oggi si includono le richieste più discutibili e strane da quello dell’aborto a quello di farsi tatuaggi, a quello di sporcare i muri delle città e così via. Per paradosso, poi, alcuni difensori di diritti reclamano il dovere del medico di procurare l’aborto richiesto come dovere di servizio, negandogli il diritto all’obiezione di coscienza. Non è certamente il caso di mettere in discussione il diritto di avere diritti, nel senso che la persona umana è soggetto di diritti nativi in quanto persona e che ciò debba essere reclamato in quelle nazioni e in quei sistemi nei quali non c’è spazio per la libertà personale se non quella di obbedire al regime. Nella nostra società oggi, tuttavia, siamo di fronte alla tirannia del relativismo (Ratzinger), dell’individualismo, dell’arbitrio di compiere ogni scelta che passa per la testa. Ci si dovrebbe soffermare per stabilire a chi spetta di soddisfare certi diritti anche sacrosanti. Faccio l’esempio del lavoro. Chi ha il dovere di dare lavoro a chi non ce l’ha? Come si fa a creare lavoro? Basta un decreto del Governo? Lo Stato può favorire le condizioni, le strutture, gli strumenti. Ma se non c’è il senso del dovere, di chi ha potere e risorse, la voglia di vivere e creare qualcosa di utile per sé e per gli altri, nessuna legge sarà capace di dare risposte effettive. Domande che si pongono oggi in modo ancora più angosciante per la globalizzazione in atto. Oggi alcuni dei tanti Soloni (non saloni) che predicano il diritto di tutti a tutto, ora e sempre, farebbero bene a fare qualcosa di concreto. Queste osservazioni vogliono e intendono richiamare alla complessità e problematicità della questione sociale, che è oggetto di studio e di tentativi da tempo, anche se qualcuno vi si affaccia per la prima volta. Per i cristiani ha un riferimento sicuro in quello che chiamiamo insegnamento sociale della Chiesa, che è stato aggiornato lungo il corso dei decenni a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891) fino alla Deus caritas est di Benedetto XVI (2005). A questo insegnamento nelle pagine de La Voce ci siamo ispirati nei sessanta anni dalla fondazione ad oggi. Per tale motivo ci sentiamo nel “diritto” di esprimere le critiche a quanto si grida nella piazza mediatica che sembra spesso stonato, eccessivo, infondato, pericoloso e inutile per il futuro della società. Con grande libertà e senza tema di essere considerati di parte, i cristiani e gli uomini di buona volontà, riprendendo in mano, per esempio, a 50 anni di distanza la Pacem in terris, dovrebbero richiamare all’attenzione quel saggio pensiero radicato sul concetto di persona umana e della sua dignità, di diritti umani fondamentali, di valori, di solidarietà e di sussidiarietà, di limiti del potere finanziario, con indicazioni anche pratiche e immediate che coinvolgono i singoli, le famiglie, i gruppi intermedi, l’intera società nella equilibrata progettazione di esercizio della libertà e di responsabilità, precisando i soggetti, i confini e il potere delle pubbliche autorità. Mentre scrivo, guardando il calendario mi accorgo che oggi è la festa di santa Caterina da Siena, morta a 33 anni nel 1380, una vergine, mistica e operatrice sociale di prim’ordine, tanto che è stata acclamata come patrona d’Italia. Il nostro ragionare ha una radice antica. Auguri all’Italia!

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Benedetto e Francesco “provocano” l’Umbria https://www.lavoce.it/benedetto-e-francesco-provocano-lumbria/ Thu, 21 Mar 2013 10:56:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=15786 San-Francesco-CimabueNessun dubbio. Siamo lieti e contenti di questo nuovo Papa. Non lo mettiamo in contrasto con l’emerito e non facciamo paragoni. La rinuncia di Benedetto e l’accettazione di Francesco ci vanno bene comunque, e ciò vale anche se andiamo indietro a Giovanni Paolo II e così via. Fin dove possiamo arrivare impunemente senza avere dubbi e problemi di coscienza? La storia della Chiesa e del Papato in particolare rappresenta per tutti gli storici serie difficoltà di sintesi, perché è storia lunga e complessa, storia di santità e anche di incoerenze e peccati. Chi non ricorda, dopo il tradimento di Pietro: “e subito il gallo cantò” ? Ma il gallo tace quando la Chiesa, madre dei santi, soffre, combatte e prega (Manzoni). Anche oggi.

La santità, il martirio, l’onestà e la vita della carità ordinaria della grandi masse di gente comune rimane sotto un velo di inconoscenza e di silenzio. Con lo sguardo della fede e con quello di san Francesco e di santa Caterina da Siena i cristiani riconoscono nel Papa, ed insieme nei vescovi e nei preti, strumenti di grazia e dispensatori di misericordia e perdono a prescindere dalla loro condotta personale. Va da sé che quando il papa ha anche doti umane e spiccate virtù cristiane aumenta l’adesione, l’affetto e l’entusiasmo per la persona e la sua missione.

Ciò detto, per un giornale come il nostro a diffusione regionale, non sarà fuori luogo ricordare che i due ultimi papi si chiamano Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi, senza attenuazioni ed equivoci. Noi umbri dovremmo avere un soprassalto di curiosità e di sorpresa. Sono santi che ci appartengono e non è cosa di poco conto per la nostra terra.

Gli umbri dovrebbero avvertire il peso che questi due personaggi hanno avuto in passato ed hanno riassunto nel presente sul piano della storia universale, rendendosi conto che non basta invitare il Papa in Umbria, né intestare a san Francesco l’aeroporto per rilanciare il turismo religioso e neppure fregiarsi dello “spirito di Assisi” creato da papa Wojtyla. Si dovrebbe realisticamente maturare la consapevolezza di avere un compito storico da sostenere e portare avanti. Ciò non è avvenuto e si ha l’impressione che la comunità umbra nel suo complesso, non cammini in questa direzione.

Il caso rimasto emblematico è quello dello Statuto regionale, nel quale non si è voluto inserire neppure di sfuggita il nome di Benedetto e quello di Francesco. Se n’è discusso molto, a suo tempo.

Nel gennaio 2004 è stata presentata una proposta da parte dei vescovi umbri che al n. 6 affermava l’opportunità di trasmettere alle future generazioni valori quali la difesa dei diritti umani, la cultura della pace, l’integrazione e la cooperazione tra i popoli, il rafforzamento dell’Unione europea, il pluralismo culturale ed economico, la difesa della qualità del proprio ambiente ed “il patrimonio morale e civile e spirituale, ricco dell’apporto dei suoi grandi protagonisti, in particolare i santi Benedetto e Francesco, per opera dei quali l’Umbria è conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo”. Non c’è stato verso, nulla da fare. Non è passata. Non passerà. Vi sono dei tabù anticristiani che resistono con tenacia e tanta ignoranza.

Con un Papa che si chiama Francesco, dopo quello che si è chiamato e si chiama ancora Benedetto e dopo le molteplici visite di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII l’Umbria non può far finta di niente, mascherandosi con presunte culture “altre” dimenticando la propria.

Non potrà e non dovrà mai scrollarsi di dosso l’immagine di una terra chiamata ad essere modello di una vita buona, pacifica e onesta, benedettina e francescana, non perché porta il saio o la cocolla, ma perché è accogliente, giusta, sobria, lieta e operosa. Non pare che sia quella attuale, dove trasgressioni, inciviltà, balordaggini, incuria e droga mortifera “sporcano” la vita di tutti ogni giorno.

Bergoglio con il suo nome di papa Francesco e i suoi gesti fuori dagli schemi ci provoca e ci aiuta ad imitarne lo spirito.

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Il 1861 dei cattolici https://www.lavoce.it/il-1861-dei-cattolici/ Thu, 09 Dec 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8967 I cattolici sono “soci fondatori” del nostro Paese, e l’Unità d’Italia “resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile”. Sono questi i due binari principali attorno a cui si è articolato il saluto con cui il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aperto il 2 dicembre il X Forum del progetto culturale, che si è tenuto a Roma (fino al 4 dicembre), sul tema: “Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto”. “Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese – ha ammonito il Presidente della Cei – richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi”. Da san Francesco d’Assisi, cui “si lega il ripetuto uso del termine Italia”, e santa Caterina da Siena, sono “innumerevoli le figure” che hanno dato “un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola”, segno che “l’unico sentimento che accomunava gli italiani era quello religioso e cattolico”.Nel 1861 “veniva generato un popolo”, e soprattutto veniva dimostrato che “lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comunità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale. Ma se l’anima si corrompe, allora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura”, ha denunciato il card. Bagnasco, secondo il quale ciò accade “quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale”. Di qui la tesi centrale del Presidente dei Vescovi italiani: “Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento a preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva”. “Quanto più l’uomo si ripiega su se stesso, egocentrico o pauroso, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano. Ma è anche vero – ha puntualizzato il Cardinale – che quanto più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ritrovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo”. In questo scenario, “la religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e sono fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. Sono patrimonio che ispira un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità ecclesiale, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato”. La fede, cioè, “non può essere mai ridotta a religione civile” ma “è innegabile la sua ricaduta nella vita personale e pubblica”. Partendo da queste premesse, il card. Bagnasco ha tracciato una sorta di identikit della buona politica, rinnovando l’auspicio che “possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti. L’autocoscienza di una società, che si esprime anche nei suoi ordinamenti giuridici e statuali – ha aggiunto il Cardinale – è conseguenza dell’autocoscienza dell’uomo, e senza la prospettiva di una vita oltre la morte, la vita politica tenderà a farsi semplicemente organizzazione delle cose materiali, equilibrio di interessi, freno di appetiti individuali o corporativi, amministrazione e burocrazia. La dignità della persona – ha quindi ribadito – trova la sua incondizionatezza solo nella trascendenza”, che “fonda e garantisce il valore dell’uomo e il suo agire morale”, in quanto “il rispetto e la promozione di questa dignità” sono “il nucleo del bene comune, scopo di ogni vero Stato”. Di qui il primato del “vivere retto”, “sia dei cittadini che dei loro rappresentanti”: “Non sono le strutture in quanto tali né il semplice proceduralismo delle leggi a garantire ipso facto il retto vivere, ma la vita di persone rette che intendono lasciarsi plasmare dalla giustizia”. Anche il tema del federalismo, per la Chiesa italiana, rientra nell’“impegno a favore dell’unità nazionale, che resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile”. A questo proposito, gli Orientamenti pastorali della Cei per questo decennio, dedicati all’educazione, “rappresentano una opportunità per mantenere o ricostituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post-moderno”, a partire dalla consapevolezza che “l’annuncio integrale del Vangelo di Gesù Cristo è ciò che di più caro e prezioso la Chiesa ha da offrire perché non si smarrisca l’identità personale e sociale, e anche il miglior antidoto a certo individualismo che mette a dura prova la coesistenza e il raggiungimento del bene comune”.

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La riconciliazione nel nome di Francesco https://www.lavoce.it/la-riconciliazione-nel-nome-di-francesco/ Thu, 30 Sep 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8768 La breccia che le truppe piemontesi aprirono presso Porta Pia, con la conseguente presa di Roma, se materialmente faceva cadere delle mura, innalzava – o anche solo rafforzava – uno steccato tra la realtà nazionale dell’Italia e la Chiesa. Le mura erano state infrante, ma la nuova divisione divenne il Tevere, tanto che bastava dire “l’Oltretevere” per denominare una realtà ritenuta come ostile alla nuova istituzione vigente, ossia lo Stato italiano con Roma capitale. Tra gli avvenimenti che hanno segnato questa storia certamente vi sono i Patti lateranensi, la loro ricezione nella Costituzione repubblicana e la loro revisione nel 1984. Ma in tutto ciò un ruolo non secondario hanno avuto certamente san Francesco e Assisi. Già nel 1918 ci fu la ricorrenza del primo centenario del ritrovamento del corpo di san Francesco, tuttavia a causa della guerra la celebrazione fu rimandata al 4 ottobre 1920 e per tale occasione Benedetto XV inviò ad Assisi il card. Raffaele Merry del Val. Lo stesso Benedetto XV nella lettera enciclica Sacra propediem del 1921 in occasione del settimo centenario della fondazione del Terzo ordine francescano, scrive: “Innanzi tutto conviene che ognuno abbia un’idea esatta della figura di san Francesco, in quanto taluni, secondo l’invenzione dei modernisti, presentano l’uomo di Assisi poco obbediente a questa Cattedra apostolica, come il campione di una vaga religiosità, tanto che egli può essere correttamente chiamato né Francesco d’Assisi né santo”. Successivamente, il 19 settembre 1921, sempre Benedetto XV richiamò il ruolo di san Francesco nella costruzione della pace: “Donde deriva tanta enormità di mali? Dipende dall’oblio dell’ordine che deve regnare nel mondo… Ma a questi errori dell’intelletto, a questi vizii del cuore si oppone direttamente lo spirito di san Francesco, opportunamente definito ‘spirito di concordia, di amore e di pace’”. Il settimo centenarioNel 1924, in occasione del settimo centenario delle sacre stimmate, una lettera enciclica del Papa riaffermò il carattere soprannaturale dell’evento, mentre la rivista Vita e pensiero in un numero monografico diede la risposta cattolica alle svalutazioni che da un cinquantennio le mettevano in dubbio. Il settimo centenario della morte di san Francesco, che si celebrò dalla festa del Perdono (2 agosto) 1926 alla festa del Perdono 1927, fu preparato con grande cura per l’interessamento sia di Pio XI che del Governo italiano presieduto da Benito Mussolini. Al centro vi fu la festa del 4 ottobre 1926, dichiarata festa nazionale; per facilitare la partecipazione vi furono sconti speciali sui treni per i pellegrini diretti ad Assisi e nella cittadina umbra si aprirono nuovi alberghi. Il legato pontificio era il card. Raffaele Merry del Val, che giunse in treno da Roma il 3 ottobre. Importante fu il ricevimento in suo onore organizzato il 4 ottobre pomeriggio nel palazzo del comune dal sindaco Arnaldo Fortini. In questa occasione egli incontrò il delegato del Governo italiano, ossia Pietro Fedele; questi fu ministro della Pubblica istruzione dal 5 gennaio 1925 al 9 luglio 1928 e tale incarico gli fu conferito da Mussolini perché gradito dai cattolici. Il 4 ottobre 1927 fu sempre lui a rappresentare il Governo italiano nel momento della restituzione ai Frati minori conventuali del Sacro Convento di San Francesco. Tutto ciò era di concerto con Mussolini e quindi non meraviglia che il 7 febbraio 1927 il sindaco di Assisi, avvocato Arnaldo Fortini, fosse ricevuto dal presidente del Consiglio, on. Benito Mussolini, assieme appunto al ministro Fedele: fu un vero e proprio rendiconto delle celebrazioni del centenario francescano. Il 24 marzo 1927 Fortini viene nominato potestà di Assisi: sarà il primo ad assumere tale carica nella cittadina umbra. Tuttavia, che la ricorrenza francescana potesse diventare la celebrazione di un san Francesco diverso da quello della Chiesa cattolica l’aveva già avvertito il segretario di Stato vaticano, il card. Pietro Gasparri in una nota apparsa su una delle riviste del centenario Frate Francesco. D’atro canto, già nel discorso ai quaresimalisti di Roma, il Papa aveva avvertito di tale pericolo. Tuttavia l’intervento più autorevole del Centenario fu quello di Pio XI: infatti nel 1926, in occasione del settimo centenario della morte, il Pontefice scrisse l’enciclica Rite expiatis in cui, dopo aver elencato le virtù di san Francesco scrive: “Ma specialmente ai nostri giorni […] l’ammirazione verso san Francesco divenne fra i contemporanei smisurata, quantunque non sempre ben intesa. […] Ma gli uni si guardino per lo smoderato amore verso la propria nazione, di vantarlo quasi segno e vessillo di questo acceso amore nazionale, rimpicciolendo il ‘campione cattolico’; gli altri si guardino dal gabellarlo per un precursore e patrono di errori, dal che egli era lontano, quant’altri mai”. Un Santo da non ridurreImportante il richiamo a non ridurre la cattolicità di san Francesco esaltandone l’italianità; questo richiamo è stato ripreso dal card. Raffaele Merry del Val, legato pontificio di Pio XI all’apertura del settimo centenario della morte di san Francesco ad Assisi il 4 ottobre 1926. Infatti la stampa del tempo ricorda che nel pomeriggio della solennità, durante un ricevimento in suo onore nel palazzo comunale alla presenza dell’onorevole Fedele, ministro della Pubblica istruzione e rappresentante del Governo, “nel discorso di ringraziamento il card. Legato ricordando gli onori tributati a Francesco dai Sommi Pontefici, da Innocenzo ed Onorio che ne confermarono la missione sublime, a Pio XI che richiamandone gli esempi di santità a lui aveva rivolto tutti i fedeli, rivendicò alla Chiesa cattolica, di cui è gloria purissima, questo Santo. Ciò però non toglie che sia pure una gloria speciale di Assisi, dell’Umbria, dell’Italia”. Nel 1929 ci fu la firma dei Patti lateranensi, e per ricordare l’importanza di Assisi e san Francesco in tutto ciò l’aula di rappresentaza del palazzo comunale ancora oggi si chiama “sala della Conciliazione” e vi fa bella mostra un ritratto del card. Raffele Merry Del Val. Nel febbraio 1939 Pio XI morì e il suo successore Pio XII nell’autunno dello stesso anno, pochi mesi dopo l’elezione, dichiarò san Francesco patrono d’Italia assieme a santa Caterina da Siena. Una decisione che veniva da lontano e in cui un ruolo non secondario ebbe Pio XI con i suoi richiami a non disgiungere l’amor di patria alla cattolicità, ossia universalità della fede. Una cosa non da poco, se si tiene conto delle ideologie nazionaliste imperanti nel periodo.

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Il dialogo dopo Padovese https://www.lavoce.it/il-dialogo-dopo-padovese/ Thu, 10 Jun 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8517 C’è stato subito un coro quasi unanime nel dichiarare che l’assassinio di mons. Luigi Padovese era stato compiuto da un soggetto disturbato mentalmente, in preda a depressione, e comunque che abbia commesso l’orrendo delitto solo per suoi motivi o impulsi personali, senza intenzioni politiche o religiose di alcun genere. Il ricorso a spiegazioni di questo tipo sè classico, in vicende tragiche che potrebbero mettere in discussione e squilibrare assetti e interessi politici. La paura delle reazioni e di conseguenze negative porta a delimitare il fatto entro la sfera individuale, magari della malattia mentale. Per quanto riguarda la Chiesa di Roma e la comunità cattolica locale, la delimitazione del tragico assassinio è legata al desiderio di conservare grandi valori che si sono conquistati con innumerevoli sforzi e fatiche nel campo della pace, della riconciliazione tra i popoli, dell’azzeramento delle antiche inimicizie tra cristiani e musulmani, della libertà religiosa e del dialogo tra religioni e culture, in vista di un mondo dove maggioranze e minoranze vivano in contesti di integrazione, rispetto e concordia. Non possiamo non essere d’accordo, per il bene di tutti e per non impedirci di guardare al futuro. Con l’aumento delle notizie si viene a sapere che non di squilibrio mentale si tratta ma di sacrificio rituale a sfondo religioso, o di tutte due le motivazioni messe insieme. Saranno gli esperti a vagliare questo terreno. A noi sembra che si debba tenere conto dell’oggettività delle azioni e delle connessioni tra fatti e idee. Senza scomodare Hegel e la sua famosissima “astuzia della ragione” si potrebbe dire che mai come in questo caso essa sarebbe in azione, avendo colpito nel momento più significativo e politicamente efficace, secondo una logica di interesse di parte, la persona più attiva e significativa, più in vista, l’uomo simbolo di una politica di dialogo con l’islam e con il potere turco locale, ed insieme dell’affermazione e rivendicazione dell’identità cristiana e dei suoi santi luoghi, nel Paese dove il cristianesimo ha messo le sue prime radici. Sembra disegnata in filigrana un’antica storia di riappropriazione e difesa dei luoghi santi. Mons. Padovese era protagonista di questa politica ecclesiastica di apertura, dialogo su un piano di legittimo riconoscimento dei diritti della comunità cristiana. Era lieto di accogliere i pellegrini, voleva aperta al culto la casa di Paolo a Tarso, aveva partecipato alla stesura dell’Instrumentum laboris per il Sinodo delle Chiese cattoliche d’Oriente per un risveglio del cristianesimo in Turchia, voleva proseguire il dialogo con l’islam in modo franco e sincero. Un uomo di punta del cristianesimo in Medio Oriente, dinamico, gioioso, cordiale, intelligente e molto preparato nella cultura storica teologica. Ha insegnato patristica all’Antonianum di Roma. In più, frate cappuccino che portava con sé il fascino della leggenda francescana. Questo delitto disturba anche la politica di Ankara, che aspira ad entrare in Europa, ma risponde alle profonde pulsioni religiose di grandi masse musulmane che, per fede, ritengono la scomparsa del cristianesimo dalla faccia della terra un destino decretato dalla divina volontà. Il cristianesimo, infatti, secondo la fede musulmana, si invera nell’islam, nel quale trova il suo esito e compimento. Abbiamo celebrato da poco la Pentecoste: molti cristiani non hanno neppure sospettato che, secondo la fede musulmana, il Paraclito promesso di Gesù è semplicemente Maometto. Quando nell’intervista al Sir del 26 maggio scorso Padovese ha affermato di voler favorire lo sviluppo del cristianesimo in Turchia attraverso il Sinodo che si terrà in ottobre, alla ragione oggettiva di cui sopra, astuta e nemica dell’uomo, e alla coscienza collettiva di un certo modo di vivere la fede islamica, è apparso come un nemico da abbattere. A questo punto al dialogo con l’islam si va ad aggiungere una motivazione ulteriore a quelle finora riconosciute, segnate anche nella dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, quella della necessità. Se non siamo portati dall’amore ad incontrare il fratello, anche quello che è nell’errore, siamo costretti a farlo per necessità, perché non esiste un’altra via in un modo globalizzato e con tutte le frontiere aperte. In una situazione diversa ma con qualche analogia vale quanto affermava santa Caterina da Siena a proposito della riforma della Chiesa alla fine del Trecento: “Quello che non siete disposti a fare per amore, sarete costretti a farlo per necessità”. A questo punto però il dialogo sarà una cosa molto seria e impegnativa, che non si limita ad un vago embrassons nous.

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Il tempio di Dio che siamo noi https://www.lavoce.it/il-tempio-di-dio-che-siamo-noi/ Thu, 06 Nov 2008 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=7080 Oggi è la festa della Cattedrale di Roma, che è anche la cattedrale del mondo, la chiesa di riferimento di tutta la cristianità, segno di unità per i cattolici che vedono nel Papa il dolce “Cristo in terra”, come lo chiamava santa Caterina da Siena. La chiesa di San Giovanni in Laterano fu fondata dall’imperatore Costantino nel 324 nel luogo dell’antico palazzo dei Laterani. La festa di fondazione fu celebrata per molti secoli solo a Roma e solo nel 1556, a conclusione del Concilio di Trento, Pio IV la estese a tutta la cattolicità che sembrava aver ritrovato la sua unità dopo lo scisma protestante. Quella chiesa era segno della chiesa cattolica fatta di pietre vive, un edificio spirituale più che materiale, dove tutti rendono a Dio il “culto in spirito e verità”.

Con questa festa non intendiamo commemorare o celebrare l’edificio materiale romano, ma vogliamo riscoprire l’edificio spirituale del tempio di Dio che siamo tutti noi battezzati, costruiti sulla roccia di Pietro e destinati formare un solo corpo, il vero luogo dove Dio abita e vuole essere adorato. Si impone a noi una doppia verifica: quella dell’unità della fede e quella dell’unico culto autentico e sincero da tributare a Dio. Tanti sono coloro che si dicono cristiani perché battezzati, ma pochi sono i convertiti che praticano consapevolmente la propria fede. Molti si sono costruiti una religione “fai da te”, selezionando il Vangelo e scegliendo ciò che piace; una religione privata, da vivere solo dentro come pensiero talvolta ricorrente, senza nessuna pratica esteriore. Scoprono che c’è una chiesa vicino casa solo nelle grandi ricorrenze pubbliche, come Natale e Pasqua, o nelle ricorrenze familiari come i battesimi, i matrimoni e i funerali. Per il resto dell’anno, l’edificio sacro fa solo parte di un panorama abituale che lascia indifferenti, un sovrappiù dell’edilizia residenziale.

Il brano del Vangelo di Giovanni che abbiamo appena letto ci porta a Gerusalemme, nel Tempio, dove si svolgeva la vita religiosa degli ebrei. Siamo nei giorni che precedono la grande festa di Pasqua, che attirava pellegrini da tutto il mondo. Fin da quando era adolescente, a dodici anni, Gesù era stato iniziato a quel solenne pellegrinaggio (Lc 2,41-50). In quella prima volta si era trattenuto nel tempio all’insaputa dei suoi genitori, affascinato dalla bellezza e dalla sacralità di quel luogo che egli sentiva come la “casa” sua, la casa di suo Padre. Maria e Giuseppe lo avevano cercato per tre giorni prima di ritrovarlo nei cortili del tempio, alla scuola dei grandi maestri di Gerusalemme che in quei giorni davano lezioni all’aperto sotto i portici. Sì, perché il tempio includeva tre cortili in successione: il primo era detto il cortile dei pagani, perché vi potevano accedere anche i non ebrei; il secondo cortile era il cortile delle donne, e vi potevano accedere per pregare e conversare le donne ebree: il terzo cortile, il più interno, era il cortile degli uomini e dei sacerdoti. Vi entravano solo gli uomini ebrei circoncisi e i sacerdoti addetti al culto.

Il primo dei tre cortili, nelle grandi feste, si trasformava in una piazza del mercato, dove si vendevano animali da offrire in sacrificio (vitelli, pecore, capre e colombe) e dove erano collocati i tavoli per il cambio delle monete. Infatti era necessario cambiare le monete romane e greche, che portavano l’immagine del divino imperatore o degli dèi. Sarebbe stata una profanazione inaccettabile introdurre quelle immagini nel tesoro sacro del tempio. Gesù, entrando in quella bolgia, doveva aver più volte provato indignazione e rabbia per quello scempio. Quello non era più un luogo di preghiera, era un mercato; non era possibile pregare in quelle condizioni. Nei precedenti pellegrinaggi aveva tenuto dentro la sua irritazione, ma questa volta non regge più e dà sfogo a tutta la sua rabbia interiore. Raccoglie in terra alcune corde e ne fa una frusta con la quale inizia a colpire uomini e animali. Nel tempio non era consentito introdurre i bastoni e gli unici sassi erano quelli del selciato, che bisogna cavare. Possiamo immaginare la confusione e il fuggi fuggi di quel momento di estrema concitazione.

La furia di Gesù travolge i banchi dei cambiavalute e le gabbie dei venditori di colombe. Tutti sono costretti a cambiare posto e tornare fuori del tempio, ai piedi del monte degli Ulivi, dove era collocata normalmente la sede del mercato. È la prima e l’ultima volta che vediamo Gesù così arrabbiato fino a diventare furioso e menare colpi a destra e a manca. Fa paura, in un uomo mansueto e paziente come lui. La ragione la rivela lui stesso ai venditori di colombe che spinge fuori con più garbo: “Non fate della casa di mio Padre un luogo di mercato”. L’evangelista commenta che era lo zelo per la casa di Dio a “divorare” (kataphàgein) Cristo, una passione e un amore incontrollabili capaci di fagocitarlo e di consumarlo. Infatti sarà una delle cause che lo poteranno alla condanna a morte, quando alcuni testimoni, chiamati a deporre contro di lui, lo accuseranno di aver minacciato di distruggere il tempio (Mc 14,58).

L’avvenimento non può mancare di richiamare l’attenzione delle guardie del tempio, la polizia dei leviti, che gli chiedono con che autorità stia agendo in quel luogo gestito dalle grandi famiglie sacerdotali. Vogliono che esibisca loro un documento di legittimazione del suo agire inconsueto; magari un miracolo, visto che gode fama di taumaturgo. Gesù li rimanda a quel suo ultimo grande miracolo che è la sua risurrezione dai morti, con una linguaggio simbolico di facile comprensione per i suoi seguaci specie dopo la Pasqua cristiana: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere”. Dovette esser facile la sorpresa, il fraintendimento: “Questo tempio è in costruzione da 46 anni e tu lo rifaresti in tre giorni?”. Erode aveva cominciato i lavori nel 19 a.C. e nel 27 d.C., quando Gesù parla, quei lavori si potevano già dire conclusi, almeno nelle strutture più importanti.

L’evangelista ci spiega che Gesù intendeva parlare del tempio del suo corpo. Con la Pasqua di morte e di resurrezione, è Gesù risorto il nuovo tempio. In lui, con lui e per mezzo di lui sale a Dio la nostra preghiera e il nostro culto sacramentale e spirituale. Avremo sempre bisogno di una chiesa materiale dove raccoglierci come famiglia di Dio in preghiera, ma il vero tempio è e resta Gesù, il nostro mediatore che ci mette in comunicazione con il Padre. Nelle sue mani deponiamo le nostre suppliche quando le concludiamo dicendo: “per Gesù Cristo nostro Signore”. A lui affidiamo i nostri problemi, le nostre difficoltà, le nostre sofferenze, che diventano nelle sue mani un sacrificio spirituale gradito a Dio. Sulle sue labbra risuona la preghiera che lui stesso ci ha insegnato, il Padre nostro. Attraverso lui passa la grazia dei sacramenti che riceviamo e dell’eucaristia che consumiamo.

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