Regioni Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/regioni/ Settimanale di informazione regionale Fri, 26 Jul 2024 10:40:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Regioni Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/regioni/ 32 32 Autonomia differenziata … non per ora https://www.lavoce.it/autonomia-differenziata-non-per-ora/ https://www.lavoce.it/autonomia-differenziata-non-per-ora/#respond Fri, 26 Jul 2024 10:40:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77205

I partiti di opposizione, e i movimenti (sindacati, associazioni) che li fiancheggiano, si sono coalizzati per promuovere un referendum abrogativo contro la legge n. 86 del 26 giugno scorso, sull’autonomia differenziata delle regioni. Una legge che, secondo gli oppositori, minaccia di “spaccare l’Italia” e cancellare valori quali la solidarietà nazionale e l’uguaglianza dei cittadini.

Il tema è complesso; cerchiamo ora di fare un po’ di chiarezza. L’autonomia differenziata delle regioni esiste già, da quando esiste la Repubblica. Ne godono – in forme diverse ma in ogni caso con benefici anche sul piano finanziario – cinque regioni: la Sicilia (prima in ordine di tempo e anche per l’eccezionale ampiezza dei poteri autonomi), la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia.

Sarebbe curioso vedere che cosa ne abbiano fatto a vantaggio dei rispettivi cittadini, ma non possiamo farlo qui. Ad un certo punto intere zone del Veneto e della Lombardia hanno cominciato a chiedersi perché non possano avere anche loro gli stessi benefici – connessi all’autonomia – che hanno i loro confinanti delle regioni a statuto speciale. Qualche valle alpina anzi è riuscita a passare dal Veneto al Friuli e altre lo chiedono da tempo. Questo e altri problemi indussero i governi di centro-sinistra del quinquennio 1996-2001 a varare la riforma del Titolo V della Costituzione.

Il nuovo testo espande parecchio (e forse troppo) l’autonomia delle regioni a statuto ordinario; e in più concede a ciascuna la possibilità di trasformarsi – in pratica – in una regione a statuto speciale, patteggiando con il parlamento nazionale l’attribuzione di maggiori competenze sulla base delle proprie richieste. Sin qui – per sommi capi – la riforma costituzionale del 2001, elaborata dai governi D’Alema e Amato, e approvata con un referendum (io votai contro). Per quanto riguarda altri contenuti, essa è da allora diritto vigente; quanto all’autonomia differenziata, è invece rimasta sulla carta e ci resterà ancora, perché la legge n. 86 di quest’anno si limita a precisare meglio le complicate procedure attraverso le quali le regioni che lo chiederanno potranno delineare il loro sistema di autonomia, nel rispetto di quelle cautele che sono previste per non far mancare l’aiuto delle finanze statali alle regioni che hanno meno risorse proprie. È il caso di farne una battaglia di principio?

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I partiti di opposizione, e i movimenti (sindacati, associazioni) che li fiancheggiano, si sono coalizzati per promuovere un referendum abrogativo contro la legge n. 86 del 26 giugno scorso, sull’autonomia differenziata delle regioni. Una legge che, secondo gli oppositori, minaccia di “spaccare l’Italia” e cancellare valori quali la solidarietà nazionale e l’uguaglianza dei cittadini.

Il tema è complesso; cerchiamo ora di fare un po’ di chiarezza. L’autonomia differenziata delle regioni esiste già, da quando esiste la Repubblica. Ne godono – in forme diverse ma in ogni caso con benefici anche sul piano finanziario – cinque regioni: la Sicilia (prima in ordine di tempo e anche per l’eccezionale ampiezza dei poteri autonomi), la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia.

Sarebbe curioso vedere che cosa ne abbiano fatto a vantaggio dei rispettivi cittadini, ma non possiamo farlo qui. Ad un certo punto intere zone del Veneto e della Lombardia hanno cominciato a chiedersi perché non possano avere anche loro gli stessi benefici – connessi all’autonomia – che hanno i loro confinanti delle regioni a statuto speciale. Qualche valle alpina anzi è riuscita a passare dal Veneto al Friuli e altre lo chiedono da tempo. Questo e altri problemi indussero i governi di centro-sinistra del quinquennio 1996-2001 a varare la riforma del Titolo V della Costituzione.

Il nuovo testo espande parecchio (e forse troppo) l’autonomia delle regioni a statuto ordinario; e in più concede a ciascuna la possibilità di trasformarsi – in pratica – in una regione a statuto speciale, patteggiando con il parlamento nazionale l’attribuzione di maggiori competenze sulla base delle proprie richieste. Sin qui – per sommi capi – la riforma costituzionale del 2001, elaborata dai governi D’Alema e Amato, e approvata con un referendum (io votai contro). Per quanto riguarda altri contenuti, essa è da allora diritto vigente; quanto all’autonomia differenziata, è invece rimasta sulla carta e ci resterà ancora, perché la legge n. 86 di quest’anno si limita a precisare meglio le complicate procedure attraverso le quali le regioni che lo chiederanno potranno delineare il loro sistema di autonomia, nel rispetto di quelle cautele che sono previste per non far mancare l’aiuto delle finanze statali alle regioni che hanno meno risorse proprie. È il caso di farne una battaglia di principio?

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Dalle elezioni alle riforme. Sistema da migliorare https://www.lavoce.it/dall-riforme-alle-elezioni/ Wed, 05 Oct 2022 16:58:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=68850 Logo rubrica Il punto

I risultati hanno messo in evidenza una serie di criticità e di oscurità del sistema elettorale con il quale abbiamo votato. Se è stato subito chiaro chi avesse vinto ottenendo però una maggioranza parlamentare esagerata rispetto alle percentuali di voto - è stato più difficile e incerto scoprire i nomi degli eletti nelle varie circoscrizioni. Segno di un sistema poco trasparente.

Tornano in primo piano anche le perplessità sull’utilità di avere due Camere delle quali l’una è la fotocopia dell’altro. Alle origini del sistema parlamentare, nelle monarchie liberali del secolo XIX, le Camere erano due perché una era di nomina regia e l’altra elettiva, e questa era la sola che con il voto di fiducia (o di sfiducia) avesse il potere di far nascere e cadere i governi.

Nelle democrazie moderne la seconda camera (detta anche camera alta, ma è quella che conta di meno) spesso si distingue come espressione dei territori mentre l’altra - la sola eletta con voto popolare diretto - rispecchia la varietà delle tendenze politiche presenti nel Paese ed ha il monopolio della funzione di indirizzo politico nei confronti del governo.

La riforma costituzionale proposta da Renzi voleva appunto ridisegnare il Senato secondo il modello francese e tedesco; fu bocciata nel referendum con l’argomento (errato e pretestuoso) che togliere l’elezione diretta del Senato sarebbe stata una diminuzione della sovranità popolare. Invece è proprio il bicameralismo perfetto e paritario che abbiamo ora, che contribuisce a rendere pesante e confuso ogni passaggio parlamentare.

Se si vuol fare una riforma costituzionale, bisognerebbe pensare a questo; e anche a ridimensionare l’autonomia delle regioni, malamente ampliata nel 2001 con norme bizantine che ingorgano la Corte costituzionale con cause per conflitto di competenze fra Stato e Regioni.

Per vero, la nuova maggioranza politica dichiara di voler fare una riforma costituzionale ancora più impegnativa, quella verso un sistema presidenziale, dove l’elezione diretta del Capo dello Stato comporti anche la scelta di un indirizzo politico determinato. Però la storia del nostro Paese dimostra piuttosto l’utilità di avere un Capo dello Stato arbitro imparziale con funzioni di garanzia. Non ci rinuncerei tanto facilmente.

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I risultati hanno messo in evidenza una serie di criticità e di oscurità del sistema elettorale con il quale abbiamo votato. Se è stato subito chiaro chi avesse vinto ottenendo però una maggioranza parlamentare esagerata rispetto alle percentuali di voto - è stato più difficile e incerto scoprire i nomi degli eletti nelle varie circoscrizioni. Segno di un sistema poco trasparente.

Tornano in primo piano anche le perplessità sull’utilità di avere due Camere delle quali l’una è la fotocopia dell’altro. Alle origini del sistema parlamentare, nelle monarchie liberali del secolo XIX, le Camere erano due perché una era di nomina regia e l’altra elettiva, e questa era la sola che con il voto di fiducia (o di sfiducia) avesse il potere di far nascere e cadere i governi.

Nelle democrazie moderne la seconda camera (detta anche camera alta, ma è quella che conta di meno) spesso si distingue come espressione dei territori mentre l’altra - la sola eletta con voto popolare diretto - rispecchia la varietà delle tendenze politiche presenti nel Paese ed ha il monopolio della funzione di indirizzo politico nei confronti del governo.

La riforma costituzionale proposta da Renzi voleva appunto ridisegnare il Senato secondo il modello francese e tedesco; fu bocciata nel referendum con l’argomento (errato e pretestuoso) che togliere l’elezione diretta del Senato sarebbe stata una diminuzione della sovranità popolare. Invece è proprio il bicameralismo perfetto e paritario che abbiamo ora, che contribuisce a rendere pesante e confuso ogni passaggio parlamentare.

Se si vuol fare una riforma costituzionale, bisognerebbe pensare a questo; e anche a ridimensionare l’autonomia delle regioni, malamente ampliata nel 2001 con norme bizantine che ingorgano la Corte costituzionale con cause per conflitto di competenze fra Stato e Regioni.

Per vero, la nuova maggioranza politica dichiara di voler fare una riforma costituzionale ancora più impegnativa, quella verso un sistema presidenziale, dove l’elezione diretta del Capo dello Stato comporti anche la scelta di un indirizzo politico determinato. Però la storia del nostro Paese dimostra piuttosto l’utilità di avere un Capo dello Stato arbitro imparziale con funzioni di garanzia. Non ci rinuncerei tanto facilmente.

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Regioni: un bel pasticcio https://www.lavoce.it/regioni-un-bel-pasticcio/ Thu, 16 Dec 2021 17:30:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64132 Logo rubrica Il punto

La settimana scorsa ho dedicato queste righe a un confronto fra lo stile, e lo spirito, della vita politica italiana e di quella tedesca, a tutto favore di quest’ultima (dal dopoguerra in poi, si capisce).

Questa volta non parlo più della politica tedesca, non ne so abbastanza; parlo di quella italiana. Prendo lo spunto da un recente editoriale del Corriere della Sera, scritto dallo storico Ernesto Galli Della Loggia. Si riferiva ai danni che alla vita pubblica italiana ha portato la riforma costituzionale del 2001, la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha allargato in modo sconsiderato l’autonomia delle Regioni e degli enti locali e indebolito il Governo centrale. L’analisi dello studioso è impietosa, ma è condivisa da molti e - per quello che vale il mio pensiero - la condivido anch’io.

Voglio però fare due aggiunte relative ad aspetti non toccati dal prof. Galli. La prima è che quelle nuove norme, oltre che improvvide, sono anche scritte male tecnicamente, cosicché da allora la Corte costituzionale spreca la maggior parte del suo tempo a risolvere i conflitti di competenze fra Stato e Regioni.

La seconda è un segreto di Pulcinella: quelli che hanno proposto, scritto e sostenuto in Parlamento quella riforma costituzionale - il centrosinistra al governo fra il 1996 e il 2001 - non lo hanno fatto perché pensassero che fosse la cosa giusta per l’Italia: non lo era, e lo sapevano Il fatto è che erano terrorizzati dai successi della Lega di Bossi - che in quegli anni si batteva per il cosiddetto federalismo - e avevano studiato una furbata: scavalcare la Lega di Bossi sul suo terreno (il federalismo, appunto), per toglierle spazio politico ed elettorato. Un’altra delle “furbate” di quel periodo: c’era già stata quella di Bertinotti che, togliendogli il voto, aveva fatto cadere il primo governo Prodi. Ma la furbizia è una cattiva consigliera. Infatti il centrosinistra ha poi perso le elezioni politiche del 2001.

Quindi, se lo scopo della riforma del Titolo V era elettorale, non ha funzionato. Ma all’Italia è rimasta una riforma mal fatta, che non è il minore fra i suoi tanti problemi. Non si dovrebbero mai fare le cose per un calcolo opportunistico; ma se poi si sbagliano anche i calcoli, è una tragedia.

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La settimana scorsa ho dedicato queste righe a un confronto fra lo stile, e lo spirito, della vita politica italiana e di quella tedesca, a tutto favore di quest’ultima (dal dopoguerra in poi, si capisce).

Questa volta non parlo più della politica tedesca, non ne so abbastanza; parlo di quella italiana. Prendo lo spunto da un recente editoriale del Corriere della Sera, scritto dallo storico Ernesto Galli Della Loggia. Si riferiva ai danni che alla vita pubblica italiana ha portato la riforma costituzionale del 2001, la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha allargato in modo sconsiderato l’autonomia delle Regioni e degli enti locali e indebolito il Governo centrale. L’analisi dello studioso è impietosa, ma è condivisa da molti e - per quello che vale il mio pensiero - la condivido anch’io.

Voglio però fare due aggiunte relative ad aspetti non toccati dal prof. Galli. La prima è che quelle nuove norme, oltre che improvvide, sono anche scritte male tecnicamente, cosicché da allora la Corte costituzionale spreca la maggior parte del suo tempo a risolvere i conflitti di competenze fra Stato e Regioni.

La seconda è un segreto di Pulcinella: quelli che hanno proposto, scritto e sostenuto in Parlamento quella riforma costituzionale - il centrosinistra al governo fra il 1996 e il 2001 - non lo hanno fatto perché pensassero che fosse la cosa giusta per l’Italia: non lo era, e lo sapevano Il fatto è che erano terrorizzati dai successi della Lega di Bossi - che in quegli anni si batteva per il cosiddetto federalismo - e avevano studiato una furbata: scavalcare la Lega di Bossi sul suo terreno (il federalismo, appunto), per toglierle spazio politico ed elettorato. Un’altra delle “furbate” di quel periodo: c’era già stata quella di Bertinotti che, togliendogli il voto, aveva fatto cadere il primo governo Prodi. Ma la furbizia è una cattiva consigliera. Infatti il centrosinistra ha poi perso le elezioni politiche del 2001.

Quindi, se lo scopo della riforma del Titolo V era elettorale, non ha funzionato. Ma all’Italia è rimasta una riforma mal fatta, che non è il minore fra i suoi tanti problemi. Non si dovrebbero mai fare le cose per un calcolo opportunistico; ma se poi si sbagliano anche i calcoli, è una tragedia.

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