PD Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/pd/ Settimanale di informazione regionale Thu, 11 Nov 2021 14:24:10 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg PD Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/pd/ 32 32 Al premier Giuseppe Conte adesso però non chiedete la luna https://www.lavoce.it/politica-al-premier-giuseppe-conte-adesso-pero-non-chiedete-la-luna/ https://www.lavoce.it/politica-al-premier-giuseppe-conte-adesso-pero-non-chiedete-la-luna/#comments Fri, 29 May 2020 18:52:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57259 m5s

Non si può chiedere la luna, a Giuseppe Conte. Avvocato, senza una storia politica alle spalle, a capo di una maggioranza precaria, il cui unico punto di stabilità è l’incertezza. E la debolezza, se non l’assoluta evanescenza, delle possibili alternative al momento su piazza. Se non fosse che dalle scelte di oggi dipenderà l’assetto della società italiana dei prossimi anni, il Governo guidato da Conte potrebbe durare all’infinito. Ma l’incertezza e la mancanza di alternative terranno saldo Conte in mezzo al guado fino a che i numeri dell’economia - con il crollo della produzione industriale e la disoccupazione di massa - non diventeranno molto peggiori di quelli della pandemia. Allora forse verrà in mente a più di qualcuno di chiedersi se questa classe politica, che ora - a causa anche di una burocrazia arretrata nelle metodologie e indolente nell’approccio all’emergenza - non riesce neanche a distribuire gli aiuti che servono a evitare la rivolta sociale, potrà essere all’altezza di una reale ed efficace ricostruzione del Paese.

Politica senza visione di futuro?

Ma la luna - cioè una visione di futuro per l’Italia - non si può pretendere che arrivi dall’attuale Governo, per la distanza di obiettivi e ideali delle forze che lo compongono. Né tanto meno dal nocchiero che ne sta guidando la precaria zattera nel mezzo di un mare in tempesta. Conte non viene dalla politica ma, alla guida prima del governo M5s-Lega e poi di quello M5s-Pd-Leu (con la rissosa appendice renziana di Italia viva), sta dimostrando di aver imparato a conoscerla. Almeno quello che attualmente dimostra di essere, la politica. Visto dall’esterno, potrebbe sembrare politicamente poco ‘coperto’ proprio dai quei cinquestelle che alla guida dell’esecutivo gialloverde lo avevano voluto, tornando a imporlo anche per il Governo in carica. L’autodefinitosi ‘avvocato del popolo’ ha trasformato questa apparente debolezza in un suo punto di forza: il dimostrarsi, cioè, esterno alle logiche politiche prevalenti lo ha reso popolare e ben accetto a molti italiani. Nel Conte 1, è passato con sufficiente scaltrezza da una prima fase di quasi anonimato, subissato dalla preponderanza politico-mediatica dei due vice premier Salvini e Di Maio, a una seconda fase di pedissequo mediatore tra le istanze grilline e quelle leghiste. Dopo il ‘suicidio’ politico del capo leghista con l’auto-esclusione dalla maggioranza, Conte non ha esitato a vestire i panni del censore politico di colui che fino a pochi giorni prima era stato il suo principale alleato nonché ministro dell’Interno.

Tensioni nella maggioranza

Trasformismo? Viene più che altro in mente una frase di Giuseppe Prezzolini, secondo cui “in Italia nulla è più definitivo del provvisorio”. Sta di fatto che, passando con invidiabile disinvoltura alla guida di un nuovo Governo con dentro quel Pd che fino al giorno prima lo aveva aspramente criticato, Conte è riuscito a diventare proprio per il partito ex-nemico “un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste” (parole del segretario Dem, Zingaretti). Un ‘innamoramento’ - quello del Pd per il premier - che non riguarda tutto il partito, dove negli ultimi tempi, quelli segnati dalla pandemia. si sono levate diverse voci critiche sull’approccio di Conte, che molti ritengono abbia confuso il presenzialismo (con i suoi decreti per gestire la crisi, e le sue conferenze stampa in tv) con il presidenzialismo. Non minori contestazioni gli continuano ad arrivare dall’ala dei ‘duri e puri’ pentastellati, in contrapposizione a quella quota governista sulla quale il premier conta per restare in sella il più a lungo possibile. Ma se questo è - come pare - il suo obiettivo, non gli si prospetta un cammino facile.

Popolarità in bilico nel dopo Covid

Perché, se ora la sua popolarità è alta grazie al fatto che la maggioranza degli italiani, nel mezzo del contagio, ha cercato nel Governo e nel suo timoniere un punto di riferimento, quando la coda di disperazione sociale del coronavirus si mostrerà in tutta la sua virulenza, non basteranno le mediazioni tra opposte ricette, le elargizioni di fondi a pioggia sulla base di spinte corporative e i rinvii delle scelte per prendere un tempo che non sarà più concesso, a tenere a galla premier e Governo. Servirebbe, appunto, un di più: una visione di futuro, con la responsabile capacità di prendere decisioni. Ma anche un diverso approccio alla politica. Fatto di passione e impegno messi al servizio dell’interesse generale. È la luna. Ma non si può chiedere a Conte. Daris Giancarlini]]>
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Non si può chiedere la luna, a Giuseppe Conte. Avvocato, senza una storia politica alle spalle, a capo di una maggioranza precaria, il cui unico punto di stabilità è l’incertezza. E la debolezza, se non l’assoluta evanescenza, delle possibili alternative al momento su piazza. Se non fosse che dalle scelte di oggi dipenderà l’assetto della società italiana dei prossimi anni, il Governo guidato da Conte potrebbe durare all’infinito. Ma l’incertezza e la mancanza di alternative terranno saldo Conte in mezzo al guado fino a che i numeri dell’economia - con il crollo della produzione industriale e la disoccupazione di massa - non diventeranno molto peggiori di quelli della pandemia. Allora forse verrà in mente a più di qualcuno di chiedersi se questa classe politica, che ora - a causa anche di una burocrazia arretrata nelle metodologie e indolente nell’approccio all’emergenza - non riesce neanche a distribuire gli aiuti che servono a evitare la rivolta sociale, potrà essere all’altezza di una reale ed efficace ricostruzione del Paese.

Politica senza visione di futuro?

Ma la luna - cioè una visione di futuro per l’Italia - non si può pretendere che arrivi dall’attuale Governo, per la distanza di obiettivi e ideali delle forze che lo compongono. Né tanto meno dal nocchiero che ne sta guidando la precaria zattera nel mezzo di un mare in tempesta. Conte non viene dalla politica ma, alla guida prima del governo M5s-Lega e poi di quello M5s-Pd-Leu (con la rissosa appendice renziana di Italia viva), sta dimostrando di aver imparato a conoscerla. Almeno quello che attualmente dimostra di essere, la politica. Visto dall’esterno, potrebbe sembrare politicamente poco ‘coperto’ proprio dai quei cinquestelle che alla guida dell’esecutivo gialloverde lo avevano voluto, tornando a imporlo anche per il Governo in carica. L’autodefinitosi ‘avvocato del popolo’ ha trasformato questa apparente debolezza in un suo punto di forza: il dimostrarsi, cioè, esterno alle logiche politiche prevalenti lo ha reso popolare e ben accetto a molti italiani. Nel Conte 1, è passato con sufficiente scaltrezza da una prima fase di quasi anonimato, subissato dalla preponderanza politico-mediatica dei due vice premier Salvini e Di Maio, a una seconda fase di pedissequo mediatore tra le istanze grilline e quelle leghiste. Dopo il ‘suicidio’ politico del capo leghista con l’auto-esclusione dalla maggioranza, Conte non ha esitato a vestire i panni del censore politico di colui che fino a pochi giorni prima era stato il suo principale alleato nonché ministro dell’Interno.

Tensioni nella maggioranza

Trasformismo? Viene più che altro in mente una frase di Giuseppe Prezzolini, secondo cui “in Italia nulla è più definitivo del provvisorio”. Sta di fatto che, passando con invidiabile disinvoltura alla guida di un nuovo Governo con dentro quel Pd che fino al giorno prima lo aveva aspramente criticato, Conte è riuscito a diventare proprio per il partito ex-nemico “un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste” (parole del segretario Dem, Zingaretti). Un ‘innamoramento’ - quello del Pd per il premier - che non riguarda tutto il partito, dove negli ultimi tempi, quelli segnati dalla pandemia. si sono levate diverse voci critiche sull’approccio di Conte, che molti ritengono abbia confuso il presenzialismo (con i suoi decreti per gestire la crisi, e le sue conferenze stampa in tv) con il presidenzialismo. Non minori contestazioni gli continuano ad arrivare dall’ala dei ‘duri e puri’ pentastellati, in contrapposizione a quella quota governista sulla quale il premier conta per restare in sella il più a lungo possibile. Ma se questo è - come pare - il suo obiettivo, non gli si prospetta un cammino facile.

Popolarità in bilico nel dopo Covid

Perché, se ora la sua popolarità è alta grazie al fatto che la maggioranza degli italiani, nel mezzo del contagio, ha cercato nel Governo e nel suo timoniere un punto di riferimento, quando la coda di disperazione sociale del coronavirus si mostrerà in tutta la sua virulenza, non basteranno le mediazioni tra opposte ricette, le elargizioni di fondi a pioggia sulla base di spinte corporative e i rinvii delle scelte per prendere un tempo che non sarà più concesso, a tenere a galla premier e Governo. Servirebbe, appunto, un di più: una visione di futuro, con la responsabile capacità di prendere decisioni. Ma anche un diverso approccio alla politica. Fatto di passione e impegno messi al servizio dell’interesse generale. È la luna. Ma non si può chiedere a Conte. Daris Giancarlini]]>
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POLITICA. Che succede in casa di M5s e Pd https://www.lavoce.it/politica-che-m5s-pd/ Sun, 09 Feb 2020 16:01:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56257 m5s

di Daris Giancarlini

Mediazione non è cercare un punto d’equilibrio tra due punti estremi: in politica, è spesso un modo per andare avanti non risolvendo ma posticipando la soluzione del problema. Un vero ‘principe’ di questo tipo di mediazione, mirata soprattutto a restare in sella, si sta rivelando l’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Si era presentato da capo del Governo Lega-cinquestelle, di derivazione grillina, come “avvocato del popolo” e come garante del cosiddetto ‘contratto’ fra i due partner della maggioranza. Figura risultata dalla scarsa consistenza politica, a fronte della straripante prevalenza mediatica dei due vice premier Salvini e Di Maio.

Poi, con la crisi innescata dal segretario leghista nell’estate scorsa, il premier ‘impalpabile’ si era eretto a censore delle esuberanze salviniane, fino a consolidarsi - anche agli occhi del Pd, nuovo alleato di governo dei 5s come successore di se stesso a capo di una maggioranza del tutto opposta a quella da lui stesso guidata per più di un anno.

Mediare, mediare e ancora mediare: la funzione del premier, che la Costituzione definisce “responsabile” della politica del Governo, in Giuseppe Conte ha trovato una vera sublimazione. Una mediazione che riguarda soprattutto i toni (più dei contenuti) del confronto tra quanti, dopo essere

stati acerrimi avversari prima delle elezioni, si trovano a condividere responsabilità di governo, mantenendo comunque riserve e punti di vista opposti rispetto al temporaneo alleato. Come dimostra il confronto sul progetto del ministro della Giustizia (Bonafede, M5s) che mira a cancellare la prescrizione.

La figura del Conte mediatore deriva soprattutto da una fase politica in cui, ancora in presenza di una legge elettorale parzialmente maggioritaria, lo storico bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra si è ritrovato con la ‘novità’ rappresentata da quel terzo imprevisto che sono i cinquestelle. 

Un tripolarismo che, anche se con i grillini in calo evidente di consensi, sta facendo orientare gran parte della classe politica verso una (ennesima) legge elettorale, stavolta totalmente proporzionale. Un’evoluzione che, stando ai più attenti politologi, avrà come conseguenza principale quella dello sbriciolamento degli schieramenti, con i partiti impegnati a correre da soli.

Senza sbilanciarsi, prima del voto, sulle future alleanze di governo, che si faranno in Parlamento. D’altronde, la Lega di Salvini prima delle elezioni del marzo 2018 aveva fatto fronte comune con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi era andata da sola al governo con i cinquestelle. Riposizionandosi non soltanto, secondo il nuovo credo salviniano, come forza non più limitata al Nord ma sempre più nazionale e nazionalista, ma anche e soprattutto come polo d’attrazione principale, se non unico, del centrodestra.

Sul fronte opposto, il Pd di Zingaretti non sembra ancora avere le idee chiare su come approcciare il proprio riposizionamento in vista della nuova fase politica. Il segretario parla di allargamento e di apertura a nuovi soggetti e movimenti, ma non si comprende se si tratterà di alleanze con soggetti alla propria sinistra o di assorbire voti in uscita da altre formazioni.

A partire da quei cinquestelle in cui la confusione regna sovrana, in attesa dell’annunciata riorganizzazione interna. Pare che il mediatore Conte guardi a questi giri di valzer con una certa preoccupazione, specie dopo gli attacchi di Matteo Renzi. Ma forse in futuro ci sarà ancora maggior necessità di un mediatore. Che magari interpreti questo ruolo in modo meno conservativo dello status quo.

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di Daris Giancarlini

Mediazione non è cercare un punto d’equilibrio tra due punti estremi: in politica, è spesso un modo per andare avanti non risolvendo ma posticipando la soluzione del problema. Un vero ‘principe’ di questo tipo di mediazione, mirata soprattutto a restare in sella, si sta rivelando l’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Si era presentato da capo del Governo Lega-cinquestelle, di derivazione grillina, come “avvocato del popolo” e come garante del cosiddetto ‘contratto’ fra i due partner della maggioranza. Figura risultata dalla scarsa consistenza politica, a fronte della straripante prevalenza mediatica dei due vice premier Salvini e Di Maio.

Poi, con la crisi innescata dal segretario leghista nell’estate scorsa, il premier ‘impalpabile’ si era eretto a censore delle esuberanze salviniane, fino a consolidarsi - anche agli occhi del Pd, nuovo alleato di governo dei 5s come successore di se stesso a capo di una maggioranza del tutto opposta a quella da lui stesso guidata per più di un anno.

Mediare, mediare e ancora mediare: la funzione del premier, che la Costituzione definisce “responsabile” della politica del Governo, in Giuseppe Conte ha trovato una vera sublimazione. Una mediazione che riguarda soprattutto i toni (più dei contenuti) del confronto tra quanti, dopo essere

stati acerrimi avversari prima delle elezioni, si trovano a condividere responsabilità di governo, mantenendo comunque riserve e punti di vista opposti rispetto al temporaneo alleato. Come dimostra il confronto sul progetto del ministro della Giustizia (Bonafede, M5s) che mira a cancellare la prescrizione.

La figura del Conte mediatore deriva soprattutto da una fase politica in cui, ancora in presenza di una legge elettorale parzialmente maggioritaria, lo storico bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra si è ritrovato con la ‘novità’ rappresentata da quel terzo imprevisto che sono i cinquestelle. 

Un tripolarismo che, anche se con i grillini in calo evidente di consensi, sta facendo orientare gran parte della classe politica verso una (ennesima) legge elettorale, stavolta totalmente proporzionale. Un’evoluzione che, stando ai più attenti politologi, avrà come conseguenza principale quella dello sbriciolamento degli schieramenti, con i partiti impegnati a correre da soli.

Senza sbilanciarsi, prima del voto, sulle future alleanze di governo, che si faranno in Parlamento. D’altronde, la Lega di Salvini prima delle elezioni del marzo 2018 aveva fatto fronte comune con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi era andata da sola al governo con i cinquestelle. Riposizionandosi non soltanto, secondo il nuovo credo salviniano, come forza non più limitata al Nord ma sempre più nazionale e nazionalista, ma anche e soprattutto come polo d’attrazione principale, se non unico, del centrodestra.

Sul fronte opposto, il Pd di Zingaretti non sembra ancora avere le idee chiare su come approcciare il proprio riposizionamento in vista della nuova fase politica. Il segretario parla di allargamento e di apertura a nuovi soggetti e movimenti, ma non si comprende se si tratterà di alleanze con soggetti alla propria sinistra o di assorbire voti in uscita da altre formazioni.

A partire da quei cinquestelle in cui la confusione regna sovrana, in attesa dell’annunciata riorganizzazione interna. Pare che il mediatore Conte guardi a questi giri di valzer con una certa preoccupazione, specie dopo gli attacchi di Matteo Renzi. Ma forse in futuro ci sarà ancora maggior necessità di un mediatore. Che magari interpreti questo ruolo in modo meno conservativo dello status quo.

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Politica. Lo scenario su cui si apre il 2020: l’ennesima “rifondazione” del Pd https://www.lavoce.it/politica-rifondazione-pd/ Sat, 18 Jan 2020 11:30:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56055 rifondazione

di Daris Giancarlini

I maggiorenti del Partito democratico chiusi in conclave dopo le feste di Natale in un’abbazia del Reatino: non per smaltire le scorie gastronomiche del periodo natalizio, ma per disegnare il Pd del futuro sull’onda di quanto annunciato dal segretario Nicola Zingaretti, che parla - per l’ennesima volta, a sinistra - di una ‘rifondazione’.

A partire dal nome, che forse, stando ad alcune anticipazioni, non comprenderà più la parola ‘partito’. A ulteriore conferma che ormai, nelle democrazie del nuovo millennio, leaderismo e movimentismo stanno soppiantando - con il sostegno più o meno consapevole dei mass media (che non mediano più) - quelli che erano i soggetti, classici e tradizionali, della mediazione; e che restano una delle colonne portanti di qualsiasi democrazia che si voglia proclamare in buona salute.

In realtà, l’intenzione di Zingaretti di cambiare nome al partito che capeggia viene motivata come volontà di apertura (a sinistra?) verso quei pezzi di società civile che stanno riempiendo le piazze italiane negli ultimi mesi, lanciando alla politica tutta sollecitazioni per un cambio di linguaggio e un impegno maggiore su temi meno ansiogeni e divisivi di quelli cavalcati finora dai leader di primo piano.

In pratica, il segretario del Pd, pur ribadendo di non voler mettere il cappello sul movimento delle Sardine, pensa proprio a questa fetta di elettorato per rinsanguare il suo partito. Ma finora ha ricevuto in risposta soltanto un “ancora è troppo presto” da parte dei vertici delle Sardine.

Renzi, che dal Pd è uscito da qualche mese fondando con Italia viva una forza che guarda all’ormai mitico - se non mitologico - centro moderato, avverte che un Pd spostato più a sinistralo potrebbe favorire. Ma i sondaggi danno la nuova creatura renziana ancora attorno al 5 per cento dei consensi.

Una quota, il 5 per cento, che i partiti di maggioranza (lo stesso Pd e i cinquestelle) hanno fissato come sbarramento minimo per entrare in Parlamento in base alla nuova, ennesima legge elettorale che ogni maggioranza cambia volendo cucirsi addosso il vestito che le permette con maggiore probabilità di restare in sella il più a lungo possibile.

La proposta di nuova legge elettorale presentata dalle due forze che sostengono il Conte 2 è totalmente proporzionale. Anche questa scelta suona come una sorta di pietra tombale sul Pd delle origini, che Walter Veltroni aveva immaginato a prevalente vocazione maggioritaria.

Ma tant’è, ormai la politica - tutta la politica, da sinistra a destra - si muove con il principale, se non unico, obiettivo di conseguire nell’immediato il massimo del consenso. In una perenne campagna elettorale. D’altronde, negli ultimi mesi si sono susseguite le elezioni europee e quelle regionali in Umbria.

Il 26 gennaio prossimo si vota in Emilia-Romagna e in Calabria, in maggio per altre sei Amministrazioni regionali e 20 capoluoghi. Tutto ciò non soltanto esaspera i toni del confronto politico, mandando in soffitta quel minimo di dialogo tra diversi che sarebbe necessario per conseguire obiettivi di comune interesse, ma crea una sorta di ‘surplace’, di sospensione delle decisioni da prendere.

Perché, in attesa del voto, meno si fa e meno si sbaglia. Così, aspettando la prossima votazione, l’Italia è un Paese fermo, bloccato, tenuto come in una sorta di limbo da una classe politica che non sa, o non vuole, vedere quelle che Papa Francesco ha definito “le inquietudini straripanti del tempo presente”. Tutta impegnata, la politica tutta, a dirimere le ricorrenti diatribe interne a ogni singola forza (vedi le fronde anti-Di Maio nei 5s) e a evitare anche soltanto di abbozzare risposte serie a quel senso di smarrimento dei valori che sta pervadendo la società italiana.

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rifondazione

di Daris Giancarlini

I maggiorenti del Partito democratico chiusi in conclave dopo le feste di Natale in un’abbazia del Reatino: non per smaltire le scorie gastronomiche del periodo natalizio, ma per disegnare il Pd del futuro sull’onda di quanto annunciato dal segretario Nicola Zingaretti, che parla - per l’ennesima volta, a sinistra - di una ‘rifondazione’.

A partire dal nome, che forse, stando ad alcune anticipazioni, non comprenderà più la parola ‘partito’. A ulteriore conferma che ormai, nelle democrazie del nuovo millennio, leaderismo e movimentismo stanno soppiantando - con il sostegno più o meno consapevole dei mass media (che non mediano più) - quelli che erano i soggetti, classici e tradizionali, della mediazione; e che restano una delle colonne portanti di qualsiasi democrazia che si voglia proclamare in buona salute.

In realtà, l’intenzione di Zingaretti di cambiare nome al partito che capeggia viene motivata come volontà di apertura (a sinistra?) verso quei pezzi di società civile che stanno riempiendo le piazze italiane negli ultimi mesi, lanciando alla politica tutta sollecitazioni per un cambio di linguaggio e un impegno maggiore su temi meno ansiogeni e divisivi di quelli cavalcati finora dai leader di primo piano.

In pratica, il segretario del Pd, pur ribadendo di non voler mettere il cappello sul movimento delle Sardine, pensa proprio a questa fetta di elettorato per rinsanguare il suo partito. Ma finora ha ricevuto in risposta soltanto un “ancora è troppo presto” da parte dei vertici delle Sardine.

Renzi, che dal Pd è uscito da qualche mese fondando con Italia viva una forza che guarda all’ormai mitico - se non mitologico - centro moderato, avverte che un Pd spostato più a sinistralo potrebbe favorire. Ma i sondaggi danno la nuova creatura renziana ancora attorno al 5 per cento dei consensi.

Una quota, il 5 per cento, che i partiti di maggioranza (lo stesso Pd e i cinquestelle) hanno fissato come sbarramento minimo per entrare in Parlamento in base alla nuova, ennesima legge elettorale che ogni maggioranza cambia volendo cucirsi addosso il vestito che le permette con maggiore probabilità di restare in sella il più a lungo possibile.

La proposta di nuova legge elettorale presentata dalle due forze che sostengono il Conte 2 è totalmente proporzionale. Anche questa scelta suona come una sorta di pietra tombale sul Pd delle origini, che Walter Veltroni aveva immaginato a prevalente vocazione maggioritaria.

Ma tant’è, ormai la politica - tutta la politica, da sinistra a destra - si muove con il principale, se non unico, obiettivo di conseguire nell’immediato il massimo del consenso. In una perenne campagna elettorale. D’altronde, negli ultimi mesi si sono susseguite le elezioni europee e quelle regionali in Umbria.

Il 26 gennaio prossimo si vota in Emilia-Romagna e in Calabria, in maggio per altre sei Amministrazioni regionali e 20 capoluoghi. Tutto ciò non soltanto esaspera i toni del confronto politico, mandando in soffitta quel minimo di dialogo tra diversi che sarebbe necessario per conseguire obiettivi di comune interesse, ma crea una sorta di ‘surplace’, di sospensione delle decisioni da prendere.

Perché, in attesa del voto, meno si fa e meno si sbaglia. Così, aspettando la prossima votazione, l’Italia è un Paese fermo, bloccato, tenuto come in una sorta di limbo da una classe politica che non sa, o non vuole, vedere quelle che Papa Francesco ha definito “le inquietudini straripanti del tempo presente”. Tutta impegnata, la politica tutta, a dirimere le ricorrenti diatribe interne a ogni singola forza (vedi le fronde anti-Di Maio nei 5s) e a evitare anche soltanto di abbozzare risposte serie a quel senso di smarrimento dei valori che sta pervadendo la società italiana.

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Dopo la “scossa” che ha colpito la Sanità umbra. Perché è successo proprio qui e ora? https://www.lavoce.it/scossa-sanita-umbra-perche/ Wed, 17 Apr 2019 15:15:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54410 scossa

di Daris Giancarlini

Perché è successo? E perché è successo qui, e adesso? Si suppone che queste due semplici domande se le stia ponendo in questi giorni il commissario del Partito democratico dell’Umbria, Walter Verini, nominato in questo ruolo dal nuovo segretario nazionale del partito, Nicola Zingaretti, dopo il deflagrare dell’inchiesta sui concorsi della sanità in Umbria.

Un’inchiesta definita di volta in volta dai commentatori come ‘bomba atomica’, ‘terremoto’, ‘tsunami’, ma che lo stesso Verini nella sua prima dichiarazione sulla vicenda ha derubricato a livello di semplice ‘scossa’, con l’intento, comprensibile, di suscitare una reazione nella “parte sana” (è sempre Verini a parlare) del partito.

È certo che il Pd umbro possa contare su una parte sana maggioritaria, ma il commissario mandato da Zingaretti dovrà trovare delle spiegazioni convincenti e delle motivazioni decisive per rassicurare iscritti e simpatizzanti in vista delle elezioni europee e amministrative del 26 maggio prossimo.

Perché è successo, e perché è successo qui e ora? Se lo chiede anche la base del Pd umbro, delusa e intristita dallo squarcio inferto dall’inchiesta alla tela costruita in questi decenni sul ‘buon governo’ della Sanità regionale. “L’Umbria non è una terra dove queste cose sono una prassi” ha notato ancora Verini: giusto, ma questa notazione casomai, per quello che è successo (stando alle carte), è piuttosto un’aggravante, non un elemento a discarico di chi dirige il partito erede di chi ha governato l’Umbria per l’intero dopoguerra.

Quello che è certo, tenendo conto di vicende analoghe accadute negli anni anche in altre parti d’Italia, è che quando interviene la magistratura su questioni che intersecano con la politica, c’è un pregresso di crisi politica a favorire questi esiti. Il Pd in Umbria, e in Italia, è in crisi evidente da qualche anno. Ha perso Terni e Perugia, inoltre alle regionali del 2015 il centrosinistra aveva vinto con un minimo scarto sul centrodestra. Le cronache politiche fanno risalire questa crisi principalmente alle divisioni interne allo stesso Pd, alle mai risolte diatribe verticistiche tra ex Dc-Margherita ed ex Pci-Pds.

Fu la cosiddetta ‘fusione fredda’, il peccato originale di una formazione politica che doveva raccogliere il lascito inclusivo dell’Ulivo, e che invece sembra aver conservato il peggio di Dc e Pci, senza trovare una sintesi ideologica e programmatica che potesse consolidarsi come cultura politica comune e inclusiva. Se manca una cultura, a latitare è anche una prospettiva, uno sguardo lungo sul futuro. “Il Pd - secondo il prof. Gianfranco Pasquino - si preoccupa di vincere le elezioni, non di convincere prima delle elezioni”.

Dopo l’avvio dell’inchiesta sulla sanità umbra, ha proposto un’analisi sul Pd anche Emanuele Macaluso, 95 anni, da sempre ‘coscienza critica’ della sinistra italiana. Secondo Macaluso, “il Pd non è un partito impegnato nelle lotte sociali e nelle battaglie politico-culturali che hanno costituito la fucina della formazione e dell’impegno dei militanti e dei dirigenti della sinistra.

Se un partito - è la convinzione di Macaluso - ha quadri dirigenti allenati solo alla gestione del potere locale, è inevitabile che si verifichino delle smagliature, dovute al fatto che in questo quadro bisogna costruire cordate elettorali e avere aderenti che aspirano comunque a essere favoriti nell’impiego e nella carriera”.

Fulminante, nella sua lucidità, l’analisi di Macaluso. Dovrebbe leggersela e mandarla a memoria, il commissario Verini, chiamato nei 40 giorni circa che precedono il voto europeo e amministrativo a risollevare il morale di una base Pd attonita e smarrita. Superando anche la paura, palpabile in ambiente Pd, che la Lega possa aprire in Umbria, dal 26 maggio in poi, una lunga fase di supremazia politica.

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scossa

di Daris Giancarlini

Perché è successo? E perché è successo qui, e adesso? Si suppone che queste due semplici domande se le stia ponendo in questi giorni il commissario del Partito democratico dell’Umbria, Walter Verini, nominato in questo ruolo dal nuovo segretario nazionale del partito, Nicola Zingaretti, dopo il deflagrare dell’inchiesta sui concorsi della sanità in Umbria.

Un’inchiesta definita di volta in volta dai commentatori come ‘bomba atomica’, ‘terremoto’, ‘tsunami’, ma che lo stesso Verini nella sua prima dichiarazione sulla vicenda ha derubricato a livello di semplice ‘scossa’, con l’intento, comprensibile, di suscitare una reazione nella “parte sana” (è sempre Verini a parlare) del partito.

È certo che il Pd umbro possa contare su una parte sana maggioritaria, ma il commissario mandato da Zingaretti dovrà trovare delle spiegazioni convincenti e delle motivazioni decisive per rassicurare iscritti e simpatizzanti in vista delle elezioni europee e amministrative del 26 maggio prossimo.

Perché è successo, e perché è successo qui e ora? Se lo chiede anche la base del Pd umbro, delusa e intristita dallo squarcio inferto dall’inchiesta alla tela costruita in questi decenni sul ‘buon governo’ della Sanità regionale. “L’Umbria non è una terra dove queste cose sono una prassi” ha notato ancora Verini: giusto, ma questa notazione casomai, per quello che è successo (stando alle carte), è piuttosto un’aggravante, non un elemento a discarico di chi dirige il partito erede di chi ha governato l’Umbria per l’intero dopoguerra.

Quello che è certo, tenendo conto di vicende analoghe accadute negli anni anche in altre parti d’Italia, è che quando interviene la magistratura su questioni che intersecano con la politica, c’è un pregresso di crisi politica a favorire questi esiti. Il Pd in Umbria, e in Italia, è in crisi evidente da qualche anno. Ha perso Terni e Perugia, inoltre alle regionali del 2015 il centrosinistra aveva vinto con un minimo scarto sul centrodestra. Le cronache politiche fanno risalire questa crisi principalmente alle divisioni interne allo stesso Pd, alle mai risolte diatribe verticistiche tra ex Dc-Margherita ed ex Pci-Pds.

Fu la cosiddetta ‘fusione fredda’, il peccato originale di una formazione politica che doveva raccogliere il lascito inclusivo dell’Ulivo, e che invece sembra aver conservato il peggio di Dc e Pci, senza trovare una sintesi ideologica e programmatica che potesse consolidarsi come cultura politica comune e inclusiva. Se manca una cultura, a latitare è anche una prospettiva, uno sguardo lungo sul futuro. “Il Pd - secondo il prof. Gianfranco Pasquino - si preoccupa di vincere le elezioni, non di convincere prima delle elezioni”.

Dopo l’avvio dell’inchiesta sulla sanità umbra, ha proposto un’analisi sul Pd anche Emanuele Macaluso, 95 anni, da sempre ‘coscienza critica’ della sinistra italiana. Secondo Macaluso, “il Pd non è un partito impegnato nelle lotte sociali e nelle battaglie politico-culturali che hanno costituito la fucina della formazione e dell’impegno dei militanti e dei dirigenti della sinistra.

Se un partito - è la convinzione di Macaluso - ha quadri dirigenti allenati solo alla gestione del potere locale, è inevitabile che si verifichino delle smagliature, dovute al fatto che in questo quadro bisogna costruire cordate elettorali e avere aderenti che aspirano comunque a essere favoriti nell’impiego e nella carriera”.

Fulminante, nella sua lucidità, l’analisi di Macaluso. Dovrebbe leggersela e mandarla a memoria, il commissario Verini, chiamato nei 40 giorni circa che precedono il voto europeo e amministrativo a risollevare il morale di una base Pd attonita e smarrita. Superando anche la paura, palpabile in ambiente Pd, che la Lega possa aprire in Umbria, dal 26 maggio in poi, una lunga fase di supremazia politica.

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Reagire si può. E si deve https://www.lavoce.it/reagire-si-puo-deve/ https://www.lavoce.it/reagire-si-puo-deve/#comments Wed, 17 Apr 2019 14:54:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54408 Questa giornata, martedì 16 aprile, si chiude con un atto, le dimissioni della presidente della Regione Catiuscia Marini, che si aggiunge alle tante notizie che in questi giorni hanno travolto il mondo politico regionale. E i cittadini seguono con apprensione, indignazione e disorientamento i fatti che le indagini stanno rivelando e le conseguenze che tutto questo porta nella vita istituzionale regionale, non ultimo nella sanità.

La Magistratura farà il suo corso per accertare le responsabilità personali degli indagati. Quello che colpisce dalle dichiarazioni dei magistrati è una parola: “sistema”. Messo in piedi per gestire le assunzioni a favore dei raccomandati e a discapito del merito, il “sistema” dice di una serie di comportamenti per cui tutti avevano qualcosa da guadagnare: consenso, potere, un lavoro… E tutti tacevano.

Ogni volta che emergono questi scandali ci si chiede se non siano da cambiare le leggi e aumentare i controlli. L’esperienza però dimostra che non c’è legge in grado di sostituire la moralità delle persone. Dove mancano principi morali come l’onestà, la giustizia, il rispetto per le istituzioni e la legge, la sobrietà, il vivere con il proprio guadagno, la corruzione si fa strada e tanto più è diffusa tanto meno la si avverte come un problema. È la rassegnazione del “funziona così, o ti adegui o sei fuori”.

In un articolo del 2015 dal titolo “Corrotti: chi e perché” (www.cercasiunfine.it), il filosofo politico don Rocco D’Ambrosio, docente di Etica della Pubblica amministrazione presso l’amministrazione del Ministero dell’Interno, autore di diversi libri sul tema della corruzione, sottolineava che se è vero che la questione morale esiste da sempre, oggi bisogna ricercarne la causa “non tanto in leggi e regolamenti (comunque da migliorare), ma in un deficit etico e professionale dell’attuale classe dirigente.

La storia dei due maggiori partiti italiani (la Dc e il Pci) mostra, con dati incontestabili, che nel momento in cui questi partiti (come altri) hanno smesso di preparare tecnicamente e moralmente i loro quadri, l’incompetenza, l’inefficienza e l’immoralità sono passate da fenomeno circoscritto a livello individuale, a vero e proprio sistema di vita”.

In questo “sistema” combattere la corruzione è un’impresa ma, aggiunge D’Ambrosio, “la corruzione si sconfigge ritornando ad interessarsi della cosa pubblica” e non a fuggirne, perché “i danni della cattiva politica li pagano i cittadini onesti”.

L’augurio che ci sentiamo di fare, in questa Pasqua di Risurrezione, è che alla desolazione del “sistema” i cittadini onesti reagiscano con un di più di politica impegnandosi per riportare nei partiti vecchi e nuovi la discussione su temi trascurati: “la questione morale, la formazione e selezione della classe dirigente, la militanza, la gratuità dell’impegno, la distinzione tra impegno di partito e istituzioni, il rispetto di queste, la sana laicità”.

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I silenzi di Zingaretti https://www.lavoce.it/silenzi-zingaretti/ Fri, 22 Mar 2019 10:00:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54238 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Nicola Zingaretti, nuovo segretario del Partito democratico, ha presentato il suo programma dicendo che nel suo partito “tutto deve cambiare”. Beh, è il meno che potesse dire dopo i disastri degli ultimi tempi: il Pd sconfitto alle elezioni politiche di un anno fa, estromesso dal governo, sconfitto anche in molte elezioni locali, autocongelato per un anno nella manifesta incapacità perfino di fare opposizione sfruttando le mille contraddizioni dell’alleanza che sta al governo.

Cambiare tutto, dunque. Ma che cosa in particolare, e come? Questo non lo ha detto. Se ci si aspettava che Zingaretti indicasse al suo partito - e all’Italia intera - un traguardo da raggiungere, non lo ha fatto, o almeno non ce ne siamo accorti.

Invece è proprio questo che dovrebbe fare un capo politico: assegnare al suo popolo un obiettivo, una meta, e trasmettergli il desiderio e l’entusiasmo di arrivarci, anche a costo di qualche sacrificio. Certo, la storia è piena di capi che in questa maniera hanno trascinato i loro popoli alla rovina. Ma non finisce sempre male: Mosè attraverso il deserto ha portato i suoi fino alla Terra promessa. Naturalmente sto scherzando: non si può dare come modello a Zingaretti, o a chiunque altro, Mosè.

Scendendo a livelli ben più bassi, però, resta il fatto che né al governo né all’opposizione si può campare alla giornata, bisogna avere un’idea del futuro e un progetto di società. In particolare, chi sta all’opposizione non può limitarsi a fare, giorno per giorno, critiche spicciole e improvvisate a quello che stano facendo i governanti, perché così fa il loro gioco.

Deve poter dire: “Adesso il Governo fa questo e quello, e magari sembra che lo faccia benino, ma ciò di cui il Paese ha bisogno è tutt’altro, e se a governare ci fossimo noi, lo faremmo, perché noi sappiamo che cosa fare e come, ne siamo capaci e ve lo spieghiamo”. Ma per poter fare questo discorso un partito deve avere molto chiare le idee sul Paese, sul mondo, e su se stesso. Il Partito democratico, se le ha, non le ha ancora dette.

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di Pier Giorgio Lignani

Nicola Zingaretti, nuovo segretario del Partito democratico, ha presentato il suo programma dicendo che nel suo partito “tutto deve cambiare”. Beh, è il meno che potesse dire dopo i disastri degli ultimi tempi: il Pd sconfitto alle elezioni politiche di un anno fa, estromesso dal governo, sconfitto anche in molte elezioni locali, autocongelato per un anno nella manifesta incapacità perfino di fare opposizione sfruttando le mille contraddizioni dell’alleanza che sta al governo.

Cambiare tutto, dunque. Ma che cosa in particolare, e come? Questo non lo ha detto. Se ci si aspettava che Zingaretti indicasse al suo partito - e all’Italia intera - un traguardo da raggiungere, non lo ha fatto, o almeno non ce ne siamo accorti.

Invece è proprio questo che dovrebbe fare un capo politico: assegnare al suo popolo un obiettivo, una meta, e trasmettergli il desiderio e l’entusiasmo di arrivarci, anche a costo di qualche sacrificio. Certo, la storia è piena di capi che in questa maniera hanno trascinato i loro popoli alla rovina. Ma non finisce sempre male: Mosè attraverso il deserto ha portato i suoi fino alla Terra promessa. Naturalmente sto scherzando: non si può dare come modello a Zingaretti, o a chiunque altro, Mosè.

Scendendo a livelli ben più bassi, però, resta il fatto che né al governo né all’opposizione si può campare alla giornata, bisogna avere un’idea del futuro e un progetto di società. In particolare, chi sta all’opposizione non può limitarsi a fare, giorno per giorno, critiche spicciole e improvvisate a quello che stano facendo i governanti, perché così fa il loro gioco.

Deve poter dire: “Adesso il Governo fa questo e quello, e magari sembra che lo faccia benino, ma ciò di cui il Paese ha bisogno è tutt’altro, e se a governare ci fossimo noi, lo faremmo, perché noi sappiamo che cosa fare e come, ne siamo capaci e ve lo spieghiamo”. Ma per poter fare questo discorso un partito deve avere molto chiare le idee sul Paese, sul mondo, e su se stesso. Il Partito democratico, se le ha, non le ha ancora dette.

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POLITICA. Il Partito democratico all’indomani dell’elezione di Zingaretti https://www.lavoce.it/partito-democratico-zingaretti/ https://www.lavoce.it/partito-democratico-zingaretti/#comments Thu, 07 Mar 2019 10:44:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54143 rifondazione

di Daris Giancarlini

Un anno esatto. Tanto è passato dalla sconfitta elettorale alle politiche del 4 marzo 2018 prima che il Partito democratico avesse un nuovo segretario, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. È stato eletto domenica 3 marzo scorso da quel milione e 800 mila persone (così riferisce lo stesso partito) che hanno fatto la fila ai gazebo nelle piazze o alle sedi delle sezioni Pd delle varie città italiane.

L’afflusso di iscritti, militanti e simpatizzanti a queste votazioni interne è stato salutato dalla dirigenza Dem come un primo successo del ‘nuovo’ partito. Questo anche se, negli anni da Veltroni in poi, il numero dei votanti alle primarie del Pd è in continua discesa (le scissioni, singole o organizzate, hanno di certo inciso su questo dato).

Ma per un partito tramortito dalla batosta di un anno fa, anche un milione di votanti sarebbe stato interpretato come una testimonianza inoppugnabile di esistenza in vita. Allo stesso modo sono stati interpretati anche i risultati alle elezioni regionali di Abruzzo e Sardegna, dominate dal centrodestra ma con un centrosinistra al di sopra del 30 per cento.

Dimostrare di non essere scomparsi: dopo nove mesi di governo Lega-cinquestelle, su questo si appuntano gli sforzi del centrosinistra. Ma, più che lo sforzo dei singoli partiti, questa è sembrata essere anche e soprattutto la preoccupazione principale di un’area ben definita della società italiana, al cospetto dell’onda sovranista e populista che pare caratterizzare - stando almeno alla rete dei media sociali ed a parte dei mezzi d’informazione - il sentimento della maggioranza degli italiani.

Così, anche i 250 mila che hanno sfilato a Milano al seguito delsindaco Giuseppe Sala, in un evento in cui i politici hanno lasciato la scena alle componenti più impegnate nell’accoglienza e nell’inclusione, sono stati l’emblema, più che altro, di un ritrovato senso di responsabilità a impegnarsi per riproporre valori e ideali che si percepiscono come momentaneamente oscurati. “Io ci sono” sembrava dire ognuno di quei manifestanti che hanno sfilato fino a piazza Duomo, cantando e ballando.

Ma “io ci sono” lo dicevano anche coloro che hanno votato alle primarie del Pd. La base di questo partito e del centrosinistra sembra fare di più e meglio di quanto facciano i suoi vertici. Quanto meno, i militanti sembrano indicare una strada diversa rispetto a quelle beghe e divisioni del passato che hanno caratterizzato la storia degli ultimi anni del Partito democratico. Starà ora al nuovo segretario raccogliere queste istanze, che sostanzialmente chiedono unità e stop divisioni.

A questo proposito, il fatto che l’ex segretario Matteo Renzi non abbia voluto rivelare, prima del voto ai gazebo, a chi andasse il suo voto, non tranquillizza sul fatto che l’ex premier possa assicurare un futuro tranquillo a Zingaretti. Non va dimenticato che la maggioranza dei parlamentari Dem attualmente in Senato a Camera sono stati eletti l’anno scorso in quota renziana.

Dicono che il nuovo segretario Dem abbia ottime doti di negoziatore: non sarebbe un esordio confortante, per chi lo ha votato e per tutto il Pd, se dovesse impegnare la gran parte del proprio impegno a sondare gli umori di Renzi, anziché a dare uno sbocco politico a quelle ‘prove di esistenza in vita’ che ultimamente il centrosinistra è riuscito a evidenziare.

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rifondazione

di Daris Giancarlini

Un anno esatto. Tanto è passato dalla sconfitta elettorale alle politiche del 4 marzo 2018 prima che il Partito democratico avesse un nuovo segretario, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. È stato eletto domenica 3 marzo scorso da quel milione e 800 mila persone (così riferisce lo stesso partito) che hanno fatto la fila ai gazebo nelle piazze o alle sedi delle sezioni Pd delle varie città italiane.

L’afflusso di iscritti, militanti e simpatizzanti a queste votazioni interne è stato salutato dalla dirigenza Dem come un primo successo del ‘nuovo’ partito. Questo anche se, negli anni da Veltroni in poi, il numero dei votanti alle primarie del Pd è in continua discesa (le scissioni, singole o organizzate, hanno di certo inciso su questo dato).

Ma per un partito tramortito dalla batosta di un anno fa, anche un milione di votanti sarebbe stato interpretato come una testimonianza inoppugnabile di esistenza in vita. Allo stesso modo sono stati interpretati anche i risultati alle elezioni regionali di Abruzzo e Sardegna, dominate dal centrodestra ma con un centrosinistra al di sopra del 30 per cento.

Dimostrare di non essere scomparsi: dopo nove mesi di governo Lega-cinquestelle, su questo si appuntano gli sforzi del centrosinistra. Ma, più che lo sforzo dei singoli partiti, questa è sembrata essere anche e soprattutto la preoccupazione principale di un’area ben definita della società italiana, al cospetto dell’onda sovranista e populista che pare caratterizzare - stando almeno alla rete dei media sociali ed a parte dei mezzi d’informazione - il sentimento della maggioranza degli italiani.

Così, anche i 250 mila che hanno sfilato a Milano al seguito delsindaco Giuseppe Sala, in un evento in cui i politici hanno lasciato la scena alle componenti più impegnate nell’accoglienza e nell’inclusione, sono stati l’emblema, più che altro, di un ritrovato senso di responsabilità a impegnarsi per riproporre valori e ideali che si percepiscono come momentaneamente oscurati. “Io ci sono” sembrava dire ognuno di quei manifestanti che hanno sfilato fino a piazza Duomo, cantando e ballando.

Ma “io ci sono” lo dicevano anche coloro che hanno votato alle primarie del Pd. La base di questo partito e del centrosinistra sembra fare di più e meglio di quanto facciano i suoi vertici. Quanto meno, i militanti sembrano indicare una strada diversa rispetto a quelle beghe e divisioni del passato che hanno caratterizzato la storia degli ultimi anni del Partito democratico. Starà ora al nuovo segretario raccogliere queste istanze, che sostanzialmente chiedono unità e stop divisioni.

A questo proposito, il fatto che l’ex segretario Matteo Renzi non abbia voluto rivelare, prima del voto ai gazebo, a chi andasse il suo voto, non tranquillizza sul fatto che l’ex premier possa assicurare un futuro tranquillo a Zingaretti. Non va dimenticato che la maggioranza dei parlamentari Dem attualmente in Senato a Camera sono stati eletti l’anno scorso in quota renziana.

Dicono che il nuovo segretario Dem abbia ottime doti di negoziatore: non sarebbe un esordio confortante, per chi lo ha votato e per tutto il Pd, se dovesse impegnare la gran parte del proprio impegno a sondare gli umori di Renzi, anziché a dare uno sbocco politico a quelle ‘prove di esistenza in vita’ che ultimamente il centrosinistra è riuscito a evidenziare.

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Il Pd verso il congresso nazionale. Pronti al rilancio: ma con chi? https://www.lavoce.it/pd-congresso-nazionale/ Sat, 24 Nov 2018 10:00:16 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53451 congresso

di Daris Giancarlini

Si dice che la sinistra sia in crisi in tutto il mondo: in Italia di più, a partire dal Partito democratico. Ammesso, e non concesso, che il Pd ‘trasfigurato’ da Matteo Renzi sia ancora un partito ‘di sinistra’ secondo i canoni politologici e storici che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra.

Comunque lo si voglia etichettare, un partito che dal 40 per cento precipita al 15-16 non può non essere definito in crisi. Dalla quale, in questi giorni, sembra stia cercando di venire fuori annunciando per il marzo prossimo il proprio congresso, innanzi tutto per individuare una nuova dirigenza.

Almeno tre sono i pretendenti: il segretario post-batosta del 4 marzo scorso, Maurizio Martina, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Tre candidature tutte rispettabili, di persone oneste e concrete; ma basterà per rilanciare il Pd? Un partito che terrà un congresso ‘rifondativo’ dopo un anno dalla sconfitta elettorale dimostra tempi troppo lenti di reazione, sui quali gli avversari hanno nel frattempo lucrato consensi e attenzione mediatica (che poi, alla fine, rischiano di essere la stessa cosa...).

E tutti questi mesi sono passati senza che nessun esponente democratico abbia fatto uno straccio di analisi critica - ma si dovrebbe pretendere autocritica - sulle ragioni del tracollo di consensi. Un fatto, questo, che peserà sul congresso e sul suo esito. Perché non si può guarire da una malattia se non se ne analizzano le cause, con sincerità e senza infingimenti.

Invece un po’ tutti i dirigenti del Pd, nazionali e periferici, hanno preferito defilarsi, in attesa di tempi migliori. Allora diventa ancora di più incomprensibile ascoltare, nei talk show politici, certi esponenti Dem prospettare un nuovo inizio andando a recuperare voti che dal Pd sono andati a Lega e cinquestelle.

Altri interrogativi sulla ‘ripartenza’ Dem sono il ruolo di Renzi (passato da mago dei consensi a male assoluto) ma soprattutto, andando oltre i personalismi, la capacità di un partito - che sembra ancora in coma poco vigile - di mettere insieme tre o quattro obiettivi programmatici che siano originali al punto di non costituire soltanto una critica alle scelte della maggioranza Salvini-Di Maio, e che siano trainanti per quella fetta, consistente, di elettorato di sinistra moderata che il 4 marzo aveva sostenuto le attuali forze di Governo.

Insomma, per il Pd del futuro il problema principale sarà, prima di ‘come’ parlare, a ‘chi’ rivolgersi. E non è una quisquilia.

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congresso

di Daris Giancarlini

Si dice che la sinistra sia in crisi in tutto il mondo: in Italia di più, a partire dal Partito democratico. Ammesso, e non concesso, che il Pd ‘trasfigurato’ da Matteo Renzi sia ancora un partito ‘di sinistra’ secondo i canoni politologici e storici che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra.

Comunque lo si voglia etichettare, un partito che dal 40 per cento precipita al 15-16 non può non essere definito in crisi. Dalla quale, in questi giorni, sembra stia cercando di venire fuori annunciando per il marzo prossimo il proprio congresso, innanzi tutto per individuare una nuova dirigenza.

Almeno tre sono i pretendenti: il segretario post-batosta del 4 marzo scorso, Maurizio Martina, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Tre candidature tutte rispettabili, di persone oneste e concrete; ma basterà per rilanciare il Pd? Un partito che terrà un congresso ‘rifondativo’ dopo un anno dalla sconfitta elettorale dimostra tempi troppo lenti di reazione, sui quali gli avversari hanno nel frattempo lucrato consensi e attenzione mediatica (che poi, alla fine, rischiano di essere la stessa cosa...).

E tutti questi mesi sono passati senza che nessun esponente democratico abbia fatto uno straccio di analisi critica - ma si dovrebbe pretendere autocritica - sulle ragioni del tracollo di consensi. Un fatto, questo, che peserà sul congresso e sul suo esito. Perché non si può guarire da una malattia se non se ne analizzano le cause, con sincerità e senza infingimenti.

Invece un po’ tutti i dirigenti del Pd, nazionali e periferici, hanno preferito defilarsi, in attesa di tempi migliori. Allora diventa ancora di più incomprensibile ascoltare, nei talk show politici, certi esponenti Dem prospettare un nuovo inizio andando a recuperare voti che dal Pd sono andati a Lega e cinquestelle.

Altri interrogativi sulla ‘ripartenza’ Dem sono il ruolo di Renzi (passato da mago dei consensi a male assoluto) ma soprattutto, andando oltre i personalismi, la capacità di un partito - che sembra ancora in coma poco vigile - di mettere insieme tre o quattro obiettivi programmatici che siano originali al punto di non costituire soltanto una critica alle scelte della maggioranza Salvini-Di Maio, e che siano trainanti per quella fetta, consistente, di elettorato di sinistra moderata che il 4 marzo aveva sostenuto le attuali forze di Governo.

Insomma, per il Pd del futuro il problema principale sarà, prima di ‘come’ parlare, a ‘chi’ rivolgersi. E non è una quisquilia.

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Il Partito democratico si prepara per la candidatura a sindaco di Perugia e per la segreteria regionale https://www.lavoce.it/partito-democratico-perugia-segreteria/ Thu, 22 Nov 2018 12:00:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53431 Perugia

In Umbria il Partito democratico è in fibrillazione per la prossima candidatura a sindaco di Perugia e per la corsa alla segreteria regionale, sullo sfondo dei nuovi equilibri nazionali e in vista del congresso.

Elezioni sindaco di Perugia

Per le amministrative nel capoluogo sembra aver trovato la strada spianata alla candidatura per il centrosinistra il giornalista Giuliano Giubilei. Non sarà probabilmente sotto l’etichetta ‘politica’ ma espressione della società civile.

Comunque Giubilei già si muove – anche se manca ancora l’ufficialità – come candidato in pectore . Allontana l’idea di personaggio piovuto dall’alto “perché – ha spiegato – non sono mai stato iscritto ad alcun partito. Ho svolto la mia vita professionale tra Perugia e Roma mantenendo un rapporto strettissimo con la città, e rivendico le mie radici popolari. E poi, aver lavorato fuori dovrebbe essere un arricchimento”.

Segreteria di partito

Nel frattempo ha ufficializzato la sua corsa verso la segreteria Gianpiero Bocci, sulla base di un accordo con la governatrice Catiuscia Marini. Alla presentazione non erano presenti i vecchi volti. Bocci si è circondato di giovani amministratori, anche per dimostrare che non si era in presenza di uno scontro “tra il vecchio e il nuovo”. C’erano, tra gli altri, i sindaci Cristian Betti (Corciano), Federico Gori (Montecchio), Letizia Michelini (Monte Santa Maria Tiberina).

Bocci ha annunciato che “in caso di vittoria non rimarrò in carica tutti e quattro gli anni: se sarò eletto, il mandato sarà breve. In poco tempo dirò che c’è una nuova classe dirigente alla quale affidare le sorti del partito, delle Amministrazioni e della Regione” (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Emilio Querini

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Perugia

In Umbria il Partito democratico è in fibrillazione per la prossima candidatura a sindaco di Perugia e per la corsa alla segreteria regionale, sullo sfondo dei nuovi equilibri nazionali e in vista del congresso.

Elezioni sindaco di Perugia

Per le amministrative nel capoluogo sembra aver trovato la strada spianata alla candidatura per il centrosinistra il giornalista Giuliano Giubilei. Non sarà probabilmente sotto l’etichetta ‘politica’ ma espressione della società civile.

Comunque Giubilei già si muove – anche se manca ancora l’ufficialità – come candidato in pectore . Allontana l’idea di personaggio piovuto dall’alto “perché – ha spiegato – non sono mai stato iscritto ad alcun partito. Ho svolto la mia vita professionale tra Perugia e Roma mantenendo un rapporto strettissimo con la città, e rivendico le mie radici popolari. E poi, aver lavorato fuori dovrebbe essere un arricchimento”.

Segreteria di partito

Nel frattempo ha ufficializzato la sua corsa verso la segreteria Gianpiero Bocci, sulla base di un accordo con la governatrice Catiuscia Marini. Alla presentazione non erano presenti i vecchi volti. Bocci si è circondato di giovani amministratori, anche per dimostrare che non si era in presenza di uno scontro “tra il vecchio e il nuovo”. C’erano, tra gli altri, i sindaci Cristian Betti (Corciano), Federico Gori (Montecchio), Letizia Michelini (Monte Santa Maria Tiberina).

Bocci ha annunciato che “in caso di vittoria non rimarrò in carica tutti e quattro gli anni: se sarò eletto, il mandato sarà breve. In poco tempo dirò che c’è una nuova classe dirigente alla quale affidare le sorti del partito, delle Amministrazioni e della Regione” (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Emilio Querini

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Resa suicida dei conti all’interno del Pd, tra strane “entità” e timori paralizzanti https://www.lavoce.it/politica-pd-commento/ Thu, 20 Sep 2018 13:47:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52896 pd calenda

di Daris Giancarlini

“Nel Pd c’è un’entità, che si chiama Renzi, che non si capisce cosa voglia fare e che va avanti per conto suo. È una roba un po’ singolare. È stato un presidente del Consiglio che all’inizio aveva veramente voglia di cambiare l’Italia e che ha fatto cose buone. È un grosso peccato”: parola di Carlo Calenda, che di Renzi è stato ministro, e di un dicastero di prima classe, quello dello Sviluppo economico, pur non essendo iscritto al Partito democratico.

La tessera di questo partito, Calenda (uomo di ottimo curriculum e altrettanto ottime entrature nel mondo economico e finanziario) l’ha presa dopo la sconfitta elettorale del Pd del 4 marzo. In questi mesi, da Calenda è arrivata la proposta di costituire un fronte democratico anti-sovranista.

Una decina di giorni fa, l’ex ministro aveva lanciato la proposta di discutere del futuro del Pd e del centrosinistra in una cena con lo stesso Renzi e con Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Proposta che Calenda ha cancellato qualche giorno dopo, dando spiegazioni molto politiche per questa sua marcia indietro. “L’unica cosa - ha detto Calenda - che vuole fare il Pd in questo momento è una resa dei conti fra renziani e antirenziani in vista di un congresso che doveva esserci, per me, settimane fa, e tutto sarà paralizzato in questa cosa di cui al Paese non frega nulla. Nel frattempo, l’opposizione si fa in ordine sparso”. Per Calenda, nel Pd ci sono “troppi ego e troppi conti da regolare”, tanto che, per il ruolo di segretario, “ci vorrebbe uno psichiatra”.

Amarissima l’analisi di Calenda, che denota tutta la delusione di una persona intellettualmente onesta ma forse poco avvezza ai contorcimenti e alle baruffe di un mondo politico, quello della sinistra, storicamente avvezzo più alla distruzione del compagno di partito che alla lotta contro l’avversario.

Meno normale che a formulare giudizi analoghi sul Pd sia lo stesso segretario dem, Maurizio Martina: “Adesso basta, chiedo a tutti più generosità e meno arroganza. Il Pd è l’unico argine al pericolo di questa destra”. Un segretario, Martina, con un timbro di transitorietà troppo forte addosso, se nel fare un appello in vista della mobilitazione del 30 settembre a Roma usa una formula che definire timorosa è eufemistico: “È possibile - scrive Martina sui social - chiedere a tutti i dirigenti nazionali del mio partito una mano perché la manifestazione del 30 sia grande, bella e partecipata?”. Nel frattempo, i sondaggi danno il Partito democratico al 16 per cento. C’è da stupirsi?

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pd calenda

di Daris Giancarlini

“Nel Pd c’è un’entità, che si chiama Renzi, che non si capisce cosa voglia fare e che va avanti per conto suo. È una roba un po’ singolare. È stato un presidente del Consiglio che all’inizio aveva veramente voglia di cambiare l’Italia e che ha fatto cose buone. È un grosso peccato”: parola di Carlo Calenda, che di Renzi è stato ministro, e di un dicastero di prima classe, quello dello Sviluppo economico, pur non essendo iscritto al Partito democratico.

La tessera di questo partito, Calenda (uomo di ottimo curriculum e altrettanto ottime entrature nel mondo economico e finanziario) l’ha presa dopo la sconfitta elettorale del Pd del 4 marzo. In questi mesi, da Calenda è arrivata la proposta di costituire un fronte democratico anti-sovranista.

Una decina di giorni fa, l’ex ministro aveva lanciato la proposta di discutere del futuro del Pd e del centrosinistra in una cena con lo stesso Renzi e con Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Proposta che Calenda ha cancellato qualche giorno dopo, dando spiegazioni molto politiche per questa sua marcia indietro. “L’unica cosa - ha detto Calenda - che vuole fare il Pd in questo momento è una resa dei conti fra renziani e antirenziani in vista di un congresso che doveva esserci, per me, settimane fa, e tutto sarà paralizzato in questa cosa di cui al Paese non frega nulla. Nel frattempo, l’opposizione si fa in ordine sparso”. Per Calenda, nel Pd ci sono “troppi ego e troppi conti da regolare”, tanto che, per il ruolo di segretario, “ci vorrebbe uno psichiatra”.

Amarissima l’analisi di Calenda, che denota tutta la delusione di una persona intellettualmente onesta ma forse poco avvezza ai contorcimenti e alle baruffe di un mondo politico, quello della sinistra, storicamente avvezzo più alla distruzione del compagno di partito che alla lotta contro l’avversario.

Meno normale che a formulare giudizi analoghi sul Pd sia lo stesso segretario dem, Maurizio Martina: “Adesso basta, chiedo a tutti più generosità e meno arroganza. Il Pd è l’unico argine al pericolo di questa destra”. Un segretario, Martina, con un timbro di transitorietà troppo forte addosso, se nel fare un appello in vista della mobilitazione del 30 settembre a Roma usa una formula che definire timorosa è eufemistico: “È possibile - scrive Martina sui social - chiedere a tutti i dirigenti nazionali del mio partito una mano perché la manifestazione del 30 sia grande, bella e partecipata?”. Nel frattempo, i sondaggi danno il Partito democratico al 16 per cento. C’è da stupirsi?

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Amministrative Umbria: Pd in sofferenza. Flop per il progetto di Ricci. Non sfonda il M5S https://www.lavoce.it/amministrative-umbria-pd-in-sofferenza-flop-per-il-progetto-di-ricci-non-sfonda-il-m5s/ Fri, 10 Jun 2016 14:23:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=46458 Assisi, piazza del Comune
Assisi, piazza del Comune

Voglia di votare. È stata alta l’affluenza dei cittadini umbri (il 70 per cento) negli 11 Comuni chiamati al voto per questo test amministrativo, anche rispetto al resto d’Italia. La tanto annunciata disaffezione per l’urna non si è registrata.

Più che le interpretazioni dei vari partiti e movimenti che cercano di trovare sempre un lato positivo e dimenticano, facilmente, i passi falsi, vanno rimarcati alcuni fatti. Innanzitutto il Pd è in sofferenza. A Città di Castello il Partito democratico ha tenuto nella coalizione dove il sindaco, socialista, Luciano Bacchetta , si è riconfermato in una maggioranza organica al centro sinistra. Ad Assisi è stato raggiunto il ballottaggio tra Giorgio Bartolini e Stefania Proietti , espressione della società civile ed appoggiata dal Pd. A Bevagna tre candidati vicini al Pd ma nessuno che lo rappresentasse ufficialmente. Per il resto ci sono sconfitte: Nocera Umbra , Bettona per giungere al risultato più cocente, ad Amelia , dove il giovane Riccardo Maraga è stato battuto dal centrodestra che riesce in maniera progressiva a rosicchiare territori al centrosinistra. Però ad Assisi questa coalizione (ultradivisa con quattro liste più o meno riconducibili a queste forze) ha portato al ballottaggio, che non si era più registrato dal 1997. E queste divisioni, più personali che politiche, potrebbero incidere molto anche al ballottaggio del 19 giugno.

Nel pianeta Assisi, ma non solo, va segnalata l’evaporazione del progetto di liste civiche, sostenuto da Claudio Ricci, sindaco per due legislature della città di san Francesco, candidato alla presidenza della Regione solo lo scorso anno e divenuto consigliere regionale. La ‘sua’ lista non ha toccato nemmeno il 4 per cento. È una dimostrazione che un solo anno di politica, in questo periodo, può significare il trionfo o il crollo di un movimento.

Altro dato da mettere in rilievo è che il Movimento 5 stelle non ha sfondato. Ha raccolto consensi, qua e là (soprattutto ad Assisi), ma non ha rappresentato un fattore trainante.

Il voto ha acuito le divisioni interne al Pd. La stessa presidente Catiuscia Marini che ritiene “positivi i risultati elettorali degli undici Comuni che sono andati al voto, che ci mostrano come il Partito democratico resti in Umbria il perno del progetto riformista alla guida delle amministrazioni della nostra regione”, trova il modo di osservare che l’esito delle amministrative “impone al Pd la necessità di aprire una riflessione che lo rimetta in sintonia con un elettorato di sinistra che fa fatica a riconoscersi nei progetti amministrativi proposti dal Pd”. E le divisioni del Pd sono tanto palesi che, dopo il trionfo, il sindaco di Città di Castello, Luciano Bacchetta, ha accusato apertamente alcuni esponenti del Pd di avere tramato ai suoi danni per non farlo vincere.

 

 

 

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Barberini lascia. È “scontro” con la Marini https://www.lavoce.it/barberini-lascia-e-scontro-con-la-marini/ Mon, 22 Feb 2016 09:34:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45520 nuova-giuntaCMYKIl confronto sulle nomine della sanità umbra si è trasformato in un braccio di ferro, tutto interno alla maggioranza di centrosinistra, vinto, al momento, daLla presidente Catiuscia Marini, contro l’assessore alla sanità, Luca Barberini. Quest’ultimo si è dimesso dall’esecutivo ma rimarrà in Consiglio, perché “è venuto meno il rapporto di fiducia con la presidente”, ha spiegato l’assessore uscente. In realtà, si è consumato un violento scontro di potere all’interno del Pd, al di là delle chiacchiere sul rinnovamento.

Ognuna delle due parti – la presidente Marini e l’assessore Barberini (esponente di spicco del Pd ma anche dell’area del sottosegretario Bocci) – non ha inteso arretrare dalle proprie posizioni. La prima ha fatto capire, a più riprese, la volontà di esercitare la prerogativa di nomina dei direttori generali. Il secondo, da tempo, aveva ribadito la necessità di rinnovare i vertici della sanità umbra. Il termine rinnovamento si presta, però, a diverse interpretazioni. E’ rinnovamento solo sostituire chi non è gradito? E il cambiamento si avvera nel momento in cui le proprie indicazioni vengono accolte? Sulle nomine della sanità si sono sempre registrate tensioni nel centrosinistra – la sanità assorbe quasi l’ottanta per cento del bilancio regionale – ma non si era sfiorata mai una crisi istituzionale di questo genere. Barberini ha detto esplicitamente che “è venuto meno un rapporto di reciproca fiducia e lealtà all’interno della giunta.

Non si possono fare scelte così importanti, come quelle dei direttori generali, senza ascoltare l’assessore delegato in materia sulle esigenze espresse dalla comunità: ricadono troppo direttamente sulla vita dei cittadini. Su sanità e sociale non possiamo più vivere di ricordi e risultati conseguiti nel passato: serve un cambio di passo. Ritengo che le prese di posizione arroganti, sia nella politica che nella vita, non paghino”.

Le parole sono pesanti e dimostrano il clima di rottura all’interno del Pd, tra le cosiddette ‘anime’. La presidente Marini si è detta “dispiaciuta e rammaricata della decisione di Barberini” ma ha anche fatto presente che la ricostruzione fatta dall’assessore uscente “sulla modalità dei criteri adottati per la definizione degli incarichi dei direttori generali non corrisponda alla verità del confronto di merito che si è tenuto all’interno della giunta regionale nella sua collegialità”. E parla di “volontà di salvaguardare l’autonomia della giunta regionale da ogni pressione o ingerenza esterna nelle scelte dei direttori”. La divisione pare netta e sarà difficile superare questo momento, considerato che ci sono altri consiglieri del Pd (Smacchi, Brega, Porzi e Guasticchi) che hanno apertamente criticato le nomine. In questo contesto l’opposizione chiede apertamente di tornare al voto.

 

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Renzi: punto di non-ritorno https://www.lavoce.it/renzi-punto-di-non-ritorno/ Fri, 13 Nov 2015 12:22:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=44374 puntoLo scenario politico italiano sta cambiando. Direte che ve ne siete accorti da un pezzo. Ma domenica 8 novembre si è toccato il punto di non-ritorno, anche se quello di arrivo è ancora lontano e incerto. Si sta completando la parabola di Renzi; dove il termine “parabola” non allude al Vangelo, e neppure alle antenne tv, ma alla figura geometrica che descrive il tragitto di una palla di cannone (e potrei andare oltre con la similitudine). È stato eletto sindaco di Firenze nel maggio 2009 come candidato del Pd (ma aveva sconfitto alle primarie il candidato ufficiale del partito) e da allora è stato un susseguirsi di successi incredibili: l’8 dicembre 2013 è stato plebiscitato segretario nazionale del Pd, avendo contro il gruppo dirigente del partito e non avendo mai fatto politica a livello nazionale. Nel febbraio 2014 diventa presidente del Consiglio (il più giovane nella storia). A maggio, alle elezioni per il Parlamento europeo, il suo partito supera il 40% e lui lo sbandiera come un suo trionfo personale (e magari è vero, ma lì finisce la fase ascendente della parabola). Sicuro di sé, si batte a lungo per far approvare un sistema elettorale e istituzionale tagliato su misura sullo scenario politico che appariva in quel momento. Ma fare le leggi elettorali su misura è sempre un azzardo. E infatti lo scenario è cambiato e cambia ancora. Domenica 8 una parte consistente del gruppo storico del Pd si è costituita in un partitino nuovo: Sinistra italiana. Non avrà una messe di voti, ma ne toglierà a Renzi quanti ne bastano per rendergli inevitabile (in vista della nuova legge elettorale) l’accorpamento con quella parte del centro-destra che un po’ per volta, da Alfano a Verdini, è passata dalla sua parte. Quindi il Pd perde definitivamente la sua identità – già malcerta – e con essa tutta quella massa di elettori che lo votava per attaccamento alla tradizione. Intanto i secessionisti di Sinistra italiana guardano verso il movimento di Grillo, e dunque lo scontro finale sarà tra un Renzi appoggiato a destra e un Grillo appoggiato a sinistra. Ci sarà da divertirsi.

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Ma Renzi da che parte sta? https://www.lavoce.it/ma-renzi-da-che-parte-sta/ Fri, 28 Nov 2014 12:04:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29187 matteo-renzi-a-solomeoNel conflitto sulla riforma del lavoro si sta sviluppando, tra gli altri, un dibattito un po’ surreale sulla sinistra, sull’idea di sinistra.

Sollecitato da un editoriale che gli ricordava non senza sarcasmo le relazioni con Berlusconi e Verdini, Matteo Renzi ha scritto a Repubblica una lettera di poco più di mille parole in cui ha spiegato le sue ragioni e ribadito la sua linea. Per spiegare il posizionamento a sinistra ha rivendicato l’inserimento del Pd nella famiglia dei socialisti europei, “jobs act” e “italicum”. Sinistra significa in fin dei conti situarsi “dalla parte dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme”.

In realtà Renzi è insofferente delle etichette. Così declina il suo “pantheon” più come galleria di ritratti, che come orientamento ideale e programmatico. “Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi” sono personalità diverse e anche non conciliabili politicamente tra loro. Eppure già Veltroni aveva provato a metterne insieme alcuni, per trasmettere un progetto politico, più che per affermare un’identità: comunisti e americani, indiani e africani, cattolici e laici, pacifisti, verdi e monaci.

Insomma, anche con questa galleria, Renzi tiene a dire che il passato non gli interessa, le ideologie possono essere rottamate, così come le vecchie appartenenze. Il presente gli appartiene. Quanto al futuro, appunto sinistra “è soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani”. Non solo, appunto, ma anche. Questo è il passaggio decisivo. C’è qui l’espressione del disegno espansivo e la caratteristica del fenomeno Renzi nella politica italiana. Per cui, appunto, contrariamente al famoso detto, gli fa gioco avere “nemici a sinistra”, proprio per conquistare il centro, dunque una durevole egemonia sul sistema politico italiano.

Questo in fine dei conti è il senso del dibattito sul giornale di riferimento del progressismo italiano. Repubblica gli pone la questione se gli giovi un conflitto con la sinistra che sta dentro il suo stesso partito, per fare una politica neo-centrista, quella cioè di fatto delineata dai vincoli europei, senza avere la certezza di ottenere anche quei voti. Renzi risponde riaffermando la sua volontà di andare avanti.

Oltre le dinamiche di realpolitik questo piccolo dibattito tuttavia può essere utile per ribadire un’esigenza. Certo la politica è cambiata. Eppure, in vista delle scadenze non eludibili che ci stanno davanti, occorre giustificare un quadro coerente, trovare il modo per andare in profondità, anche sul piano culturale e ideale: la questione dell’uguaglianza, una delle parole – chiave della politica, con giustizia e libertà infatti sta ritornando prepotentemente, nella concreta realtà della vita e delle attese del popolo, che ha bisogno di fatti.

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Pd umbro e riforma elettorale: nulla di fatto https://www.lavoce.it/pd-umbro-e-riforma-elettorale-nulla-di-fatto/ Fri, 07 Nov 2014 13:22:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28902 Pd umbro e riforma elettorale: nulla di fatto
Pd umbro e riforma elettorale: nulla di fatto

Con si riesce a modificare la legge elettorale per le prossime consultazioni di primavera, perché il Pd è profondamente diviso. Non è più un’indiscrezione, ma la conferma della profonda spaccatura in seno al Partito democratico umbro è evidenziata dallo stesso segretario regionale, Giacomo Leonelli, che, al termine di una riunione del gruppo Pd in Consiglio regionale, ha espresso “grande preoccupazione per l’esito della riunione, dalla quale è emersa la mancata condivisione su come modificare la legge elettorale, rispetto invece a quanto stabilito nel corso dell’ultima riunione della Direzione regionale del partito.

Dalla Direzione era infatti stato indicato un percorso ben preciso, che andava verso la scelta dell’introduzione della preferenza di genere, l’abolizione del ‘listino’, e indicava un’ampia prevalenza per il collegio unico regionale. Il ‘nulla di fatto’ della riunione, invece, rischia di minare la credibilità dell’intero Partito democratico dell’Umbria, che, attraverso i suoi organismi designati attraverso il meccanismo delle primarie, aveva largamente condiviso il percorso che stiamo portando avanti, anche tramite le riunioni dei Circoli, e l’introduzione di una legge elettorale con quelle precise caratteristiche.

Il tergiversare oltre, per di più nella non facile fase storica che sta attraversando la nostra regione, significherebbe di fatto assumersi la responsabilità di frenare le istanze di rinnovamento di cui il Partito democratico con i suoi organismi cerca da tempo di rendersi interprete”. Il problema che divide i democratici è tecnico, con un valore politico molto forte: il meccanismo dei “resti”. Se applicato in un certo modo, può salvaguardare i partiti alleati del Pd, altrimenti il Partito democratico diventerebbe padrone dei consensi, in termini di seggi, della quasi totalità della coalizione. Ma c’è anche la questione del turno unico che fa discutere i consiglieri regionali del partito di maggioranza, che dovrebbero portare un testo in Commissione e farlo approvare dall’aula entro pochi giorni. È indubbio che lo scarso tempo a disposizione non aiuta a ragionare freddamente, perché si mescola la necessità di varare una nuova legge elettorale con la possibilità per il singolo consigliere di rientrare o meno tra gli eventuali eletti.

È anche vero che essere arrivati a quattro mesi dalle elezioni senza un testo condiviso implica che, al di là delle tante chiacchiere, non si ha la volontà – tra l’altro – di dare un taglio alla “vergogna” del listino, che ha sempre consentito di sedere a palazzo Cesaroni a tanti che non avrebbero mai catturato consensi. Una legge elettorale dovrebbe garantire, al meglio, la governabilità della Regione. Non la presenza di qualche consigliere regionale.

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“L’Unità” chiude. Una fine annunciata https://www.lavoce.it/lunita-chiude-una-fine-annunciata/ Fri, 01 Aug 2014 14:22:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27373 Con il 1° di agosto, cioè oggi, L’Unità cessa le pubblicazioni. Il “quotidiano del Partito comunista italiano, fondato da Gramsci” era in situazione agonica da tempo e ora ha dato l’ultimo respiro. La notizia non cade come un fulmine a ciel sereno; ci sono state in passato altre crisi e interruzioni, e c’è chi spera in una rinascita… detto con rispetto: anche Rinascita, glorioso settimanale comunista, è morta da tempo (1991), per cui sarà meglio per i sostenitori dell’Unità parlare eventualmente di ripresa.

La notizia è stata diffusa con clamore mediatico e ha avuto un effetto shock sia per chi dice “meglio così, era ora”, sia per chi sostiene “L’Unità non deve morire, è come ammainare una bandiera”.

Per molti comunisti ancora presenti sotto diverse denominazioni, il quotidiano rappresenta il simbolo di una grande storia, la storia di una grande movimento di operai e di contadini, organo di stampa militante a sostegno delle ragioni della classe operaia, l’apripista di ogni manfestazione, sciopero, battaglia politica. Pur avendo attraversato varie fasi che lo hanno reso un giornale aperto al dialogo, informato, ben fatto dal punto di vista tecnico e con un’edizione digitale, per cui si può leggere anche su pc e su altri strumenti di ultima generazione, e nonostante il sostegno di una parte del Pd, che ora se la prende con Renzi, questo giornale muore.

“Perché ne parliamo con attenzione e vi dedichiamo questa riflessione, con le tante cose che avvengono ben più importanti?”. Qualche nostro vecchio amico, da sempre sospettoso che La Voce sia di sinistra – per altri siamo di destra! – vogliamo ricordare che nei 60 anni di vita del nostro settimanale cattolico regionale umbro, i contatti e gli scontri tra L’Unità e La Voce non sono mancati, soprattutto nel periodo che va dalla fondazione (1953) al nuovo corso iniziato nel 1984. Ho scritto “scontri”, in realtà erano attacchi e critiche che La Voce scagliava contro L’Unità, motivo evidente la polemica anticomunista. Succedeva che in Umbria, nei paesi o nelle città, ci fossero volontari comunisti che portavano L’Unità nelle case degli iscritti e simpatizzanti, e altri facevano altrettanto con La Voce, che portavano nelle case degli iscritti all’Azione cattolica.

Chi ha ricordi del 1948, in quelle elezioni, decisive per l’Italia, tra il fronte popolare egemonizzato dai comunisti di Togliatti e il fronte democristano di De Gasperi e Gedda, può capire di che cosa stiamo parlando. In modo ancora più specifico possiamo ricordare la figura del primo direttore de La Voce, Pietro Fiordelli, che, divenuto vescovo di Prato, si trovò al centro di una polemica aspra che costò a Fiordeli un condanna del tribunale di Prato. Con tutto ciò, non stiamo qui a dire “noi ci siamo ancora e loro vengono meno”. Non lo abbiamo fatto neppure quando Montanelli fondò La Voce (morta dopo pochi anni) commettendo uno sgarbo nei confronti del nostro giornale, che già esisteva ed esiste tuttora. Voglio piuttosto dire che al fondo della chiusura dell’Unità e della crisi della carta stampata, ci sono probemi economici.

Oggi resiste nel campo della comunicazione chi ha molte risorse economiche e riesce ad avere molti lettori stuzzicando anche forti interessi e passioni. Per un giornale militante però quello che conta è soprattutto la coesione di una comunità, partito o associazione che sia, che creda veramente in ciò che scrive. A sinistra c’è la frammentazione… non può resistere un organo che si chiama L’Unità. Attenti a noi, però, che ci chiamiamo La Voce: se non c’è una sola voce – polifonica e multisonora che sia, ma una – non ci sarà futuro neppure per noi.

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Le “regionali” all’orizzonte https://www.lavoce.it/le-regionali-allorizzonte/ Sat, 19 Jul 2014 08:59:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27182 Palazzo-Cesaroni-5 Non soffrire della ‘sindrome Boccali’ ed evitare, per la presidenza della Regione, una nuova, cocente, sconfitta per il Pd, dopo quella, storica, che ha portato un sindaco di centrodestra alla guida di Perugia. Per questo motivo si rincorrono voci sul fatto che la ricandidatura di Catiuscia Marini non sarebbe così scontata. Forse è troppo presto per fare previsioni, ma da più parti si stanno immaginando, per il centrosinistra, soluzioni diverse per la guida di palazzo Donini.

Probabilmente il tutto nasce anche perché si sta discutendo la nuova legge elettorale che dovrebbe essere approvata entro settembre. La commissione Statuto del Consiglio regionale si è riunita partendo da alcuni punti cardine: la garanzia della governabilità e la più ampia rappresentanza politico-territoriale. Il presidente della commissione Andrea Smacchi (Pd) ha indicato i principi da modificare o integrare e, tra questi, c’è l’abolizione del “listino” e l’elezione diretta del presidente.

Ma restano molti fronti aperti, in particolare sul numero dei collegi e sull’eventuale doppio turno. Quest’ultima opzione piace al centrodestra, che nei primi giorni di settembre dovrebbe presentare la sua proposta di legge: Zaffini (Fratelli d’Italia) è d’accordo, Nevi (FI) la preferirebbe nel caso in cui nessuna coalizione raggiungesse una soglia adeguata di voti. Sì al doppio turno anche da Mantovani (Ncd).

Nel centrosinistra invece il doppio turno non piace particolarmente. Brutti (Idv) lo evidenzia come ipotesi nel caso il vincitore si fermasse sotto al 40% – la stessa soglia indicata anche da Goracci -, proponendo in alternativa un’assegnazione puramente proporzionale dei seggi.

Poi c’è la questione relativa al premio di maggioranza. Per la maggior parte dei commissari, non dovrà superare il 60%. Gli altri capitoli che potrebbero essere fonte di fibrillazione riguardano il numero di collegi e la cosiddetta preferenza di genere. Uno, o al massimo due collegi è l’opzione preferita dal Ncd, mentre Stufara (Prc) ne vorrebbe uno solo.

Ma in questo periodo bisognerà ascoltare anche la voce dei territori. Molti sindaci del Pd hanno detto chiaramente che bisogna salvaguardare la rappresentanza (quindi niente collegio unico), mentre in altre zone – da Spoleto al Trasimeno fino all’alto Tevere – si vorrebbero almeno due collegi. Tra le altre proposte ci sono quelle di Nevi (FI), che oltre a una riduzione delle spese elettorali, insieme a Mantovani (Ncd), chiede la possibilità di nominare assessori esterni senza limitazioni. Per il leghista Cirignoni occorre inserire lo sbarramento al 3% vincolato al risultato della coalizione e l’obbligo, per tutti gli eletti, di dichiarare la propria appartenenza “ad associazioni segrete di ogni livello”.

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Unioni gay. Il Pd propone: stessi diritti delle famiglie tranne l’adozione https://www.lavoce.it/unioni-gay-il-pd-propone-stessi-diritti-delle-famiglie-tranne-ladozione/ Thu, 26 Jun 2014 16:11:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25864 Camera-dei-deputati-bnNei giorni scorsi L’Unità, quotidiano del Partito democratico, ha pubblicato in prima pagina con grande evidenza la notizia del varo, entro settembre, della legge sulle unioni gay. Esse avranno gli stessi diritti del matrimonio, esclusa l’adozione. I partner della nuova “unione civile”, che verrà registrata, potranno scegliere il regime patrimoniale comune, avranno il dovere di reciproca solidarietà, godranno dei diritti in campo sanitario, assistenziale, di successione, di reversibilità pensionistica. Per comprendere meglio i contenuti di questo disegno di legge, abbiamo intervistato la senatrice Pd Emma Fattorini, prima firmataria del testo depositato al Senato.

Quali sono gli elementi qualificanti della vostra iniziativa legislativa?

“Il primo è che si determina una distinzione netta tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, e quindi per queste ultime non si parla di matrimonio. La ratio giuridica di queste unioni è che si fondano su una stabilità che non discende dal matrimonio e non sono, al tempo stesso, un ‘simil-matrimonio’. Infatti vengono attribuiti tutti i diritti civili eccetto quello dell’adozione dei figli. Il concetto di ‘unione civile’ non va confuso con le ‘coppie di fatto’ etero, che hanno dei diritti molto più limitati rispetto al matrimonio. Queste coppie, se vogliono, possono sposarsi acquisendo i relativi diritti”.

Perché l’Italia dovrebbe arrivare al riconoscimento della coppie gay?

“Intanto perché è un discorso di fondo per la società: credo che noi tutti, laici e cattolici, dobbiamo incoraggiare le unioni stabili, impostate sulla solidarietà e la protezione dei deboli, rispetto a condizioni di precarietà esistenziale o non riconosciute. Le coppie gay ci sono, non è lassismo riconoscerle”.

Rispetto all’impalcatura dei diritti civili attualmente riconosciuti in ambito privato, cosa cambia con la nuova configurazione giuridica da voi ipotizzata?

“Il vero salto nel dibattito giuridico in questi ultimi tempi si è avuto con le due sentenze, una della Corte costituzionale del 2010 e l’altra della Cassazione del 2012, che ci indicano, su questo tema, la via maestra. Queste sentenze infatti dicono che, riguardo alle unioni omosessuali, i diritti non sono da intendere solo come diritti individuali ma come diritti di coppia. Aggiungono che però tali diritti di coppia non significano equiparazione al matrimonio. Direi che la cultura giuridica italiana ha cominciato ad affermare la necessità della tutela giuridica della coppia omosessuale, asserendo come essa sia titolare, oltreché del diritto individuale, riconosciuto all’art. 2 della Costituzione, anche del diritto di vivere liberamente una condizione di coppia”.

Non teme che una parte consistente dei cattolici italiani possa esprimere contrarietà alla proposta del Pd di legalizzare le unioni omosessuali?

“Ci sono indagini, sondaggi, studi recenti che ci dicono come gli italiani, e tra di essi i cattolici, non sono contrari a unioni riconosciute che abbiano diritti. Invece sono contrari al matrimonio omosessuale. Noi da qui siamo partiti per elaborare la nostra proposta, tenendo presente l’aspetto dei figli per i quali prevediamo la non possibilità di adozione, escluso quando uno dei soggetti della coppia gay possa adottare il figlio, anche adottivo, dell’altra parte della nuova unione. Ciò nello spirito della difesa dei diritti della parte debole, in questo caso rappresentata dal figlio che rimarrebbe, senza tale adozione, isolato e senza riferimenti”.

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Una delle ali che hanno spinto Romizi è stata la lista Progetto Perugia https://www.lavoce.it/una-delle-ali-che-hanno-spinto-romizi-e-stata-la-lista-progetto-perugia/ Sat, 14 Jun 2014 16:22:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25583 Alle elezioni del 25 maggio scorso la lista civica “Progetto Perugia” si è aggiudicata il 4,77% delle preferenze nella coalizione di centrodestra, al secondo posto dopo Forza Italia (11,72% dei voti) e prima di altri schieramenti partitici come Ncd (4,36%) e Fratelli d’Italia (4,29%). Un risultato che oggi vale tre posti in Consiglio comunale e la soddisfazione di aver contribuito nei fatti alla vittoria storica di Andrea Romizi. Ma l’influenza di Progetto Perugia nell’affermazione del nuovo primo cittadino non sta soltanto nei numeri e comincia da lontano.

Circa un anno fa, un gruppo di persone provenienti dal mondo cattolico decise di sedersi intorno ad un tavolo per ragionare su un possibile impegno politico o “pre-politico”, in vista delle elezioni. Nel confronto su diverse opzioni ed opinioni il gruppo non è giunto ad una scelta comune ma una parte dei partecipanti aveva maturato la determinazione a partecipare direttamente alla competizione elettorale, soprattutto quando il centro destra presentò Zaganelli come candidato sindaco.

Questo è stato l’evento che ha fatto “incrociare” il percorso di questi con quello del consigliere comunale Udc Otello Numerini “a cui – ricorda Maria Grazia Marcacci di Progetto Perugia – va dato atto di aver avuto profonda coerenza e il coraggio del momento”. Dopo la candidatura Zaganelli, infatti, Numerini aveva in un primo momento deciso di correre da solo per la poltrona di palazzo dei Priori con una lista centrista.

Una decisione che fu, ricorda Numerini “tra i motivi che spinsero poco dopo Zaganelli a rinunciare alla propria candidatura”, lasciando il posto al 35enne Romizi. “La scelta di Andrea – spiega Numerini – ci ha convinto ad abbandonare l’idea della corsa autonoma e a dare il nostro sostegno in coalizione. Conosco Romizi, ho stima di lui e ho potuto apprezzare le sue doti di amministratore nei dieci anni che ha trascorso in Consiglio comunale”.

La scommessa di Andrea Romizi ha convinto tutti dentro Progetto Perugia, anche chi non lo conosceva direttamente come Francesco Vignaroli. “Nonostante – afferma quest’ultimo – credessi fortemente nella possibilità dell’alternanza e, quindi, partissi dalla convinzione di sostenere comunque il candidato di centrodestra, Romizi mi ha conquistato, ho scoperto in lui una persona che ama veramente Perugia. È stata la sua persona uno dei fattori di successo più determinanti, stupendo tutti e catalizzando l’attenzione di chi voleva cambiare”. Giovane, ma non sprovveduto, “ha avuto l’intelligenza di dire a tutti che era necessario ‘cambiare testa’ per cambiare la città – sottolinea Maria Grazia Marcacci -, senza voti ideologici, ma aprendo un dialogo con tutte le parti, ricostruendo una serenità nei rapporto persa da anni”.

Nonostante gli entusiasmi, comunque, la salita verso palazzo dei Priori si prospettava tutt’altro che semplice. ‘Espugnare’ il potere decennale della Sinistra era una speranza che, in molti, ritenevano irrealizzabile. Anche alla luce dei risultati del 25 maggio che, nonostante il mancato superamento del 50%, avevano consegnato all’ex sindaco Wladimiro Boccali la certezza del 46,55% di voti, a circa 20 punti di distanza da quel 26,31% di preferenze andato a Romizi. “Eppure – ricorda Numerini – noi abbiamo percepito che c’era un piccolo segnale di vittoria. Se, infatti, a livello nazionale il Pd era andato molto bene, a livello locale la percentuale era stata molto più bassa. Inoltre, i voti ottenuti dalle liste erano di più di quelli dati al candidato sindaco, a dimostrazione di un giudizio negativo della città nei confronti di Boccali. Le due settimane che hanno preceduto il ballottaggio, soprattutto l’ultima, sono state poi, sempre più, la conferma di una svolta, visto anche l’entusiasmo e la partecipazione della gente alle varie manifestazioni, anche nelle periferie, da sempre roccaforti della Sinistra”.

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Elezioni: a Orvieto il centrosinistra si ricompatta su Germani e vince https://www.lavoce.it/elezioni-a-orvieto-il-centrosinistra-si-ricompatta-su-germani-e-vince/ Sat, 14 Jun 2014 16:03:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25573 palazzo_comune_orvieto-bnIl centrosinistra, con Germani, a Orvieto si ricompatta e strappa la Rupe a Concina. Su 16.765 iscritti nelle liste elettorali, al ballottaggio di domenica scorsa hanno votato 10.762 elettori, con un’affluenza del 64,13%. Germani ha raccolto 5.715 consensi ossia il 54,38% fermando l’uscente Concina a 4.794 voti pari al 45,62%, insufficienti per la rielezione a palazzo di città. I segnali al primo turno erano chiari.

La lista più votata al primo turno della coalizione di centrosinistra era stata quella del Pd con 3.359 voti pari al 28,56%; a seguire la lista civica “Per andare avanti” con 1.495 voti pari al 12,71%, “Sinistra ecologia e libertà” 520 voti pari al 4,42%, Partito dei comunisti italiani 356 voti pari al 3,02%, Scelta civica 206 voti pari all’1,75%. Per la coalizione di Concina la lista più votata era Forza Italia con 1.438 voti pari al 12,22%. La seconda lista più votata “Per Orvieto – Identità e territorio” con 1.299 voti pari all’11,04%. Come dicevamo, la coalizione che sosteneva Germani si è ricompattata, mentre Fratelli d’Italia, Forza Italia, “Orvieto libera” e “Identità e territorio”, a quanto pare, non hanno percepito la reale forza organizzativa che si muoveva contro.

“Dopo cinque lunghi anni – ha commentato il neo primo cittadino – siamo riusciti a riportare Orvieto nella giusta direzione. È una bella soddisfazione non solo per me ma per tutto il gruppo di giovani che insieme a me ha condiviso questa battaglia. L’unico rammarico, forse, è di qualche uscita un po’ fuori del seminato dell’ultima settimana, ma per il resto è stata una bella esperienza che ci ha portato fin qui per ridare alla città un progetto nuovo, diverso, e speriamo che già dalla prossima settimana dia i risultati che tutti ci aspettiamo”.

Gli orvietani ci sembra abbiano prestato ascolto anche ad Andrea Scopetti, segretario del Pd, che aveva promesso una sorta di partecipazione partecipata che ha chiamato “una grande rete civica orvietana, vale a dire una forma di confronto permanente e costante sui problemi e sulle decisioni fondamentali della nostra comunità, alla quale prenderanno parte il Sindaco e la Giunta, i consiglieri, i rappresentanti delle associazioni di categoria, del volontariato, del mondo produttivo, e i delegati delle Frazioni indicati direttamente dai cittadini.

A Orvieto decideremo insieme quali obiettivi prioritari mettere a bilancio, come realizzarli e con quali risorse, portando tra la nostra gente quelle decisioni che per troppo tempo si sono prese tra quattro mura”.

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