partiti Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/partiti/ Settimanale di informazione regionale Wed, 16 Oct 2024 13:56:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg partiti Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/partiti/ 32 32 Orticelli politici, pure esasperati https://www.lavoce.it/orticelli-politici-pure-esasperati/ https://www.lavoce.it/orticelli-politici-pure-esasperati/#respond Wed, 16 Oct 2024 13:39:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77996

Il nostro sistema politico a volte appare inadeguato ad affrontare le grandi sfide di questo tempo difficile e complesso. È un problema di regole e di procedure – e per questo il dibattito sulle riforme istituzionali merita la massima attenzione da parte dei cittadini –, ma anche e forse soprattutto di comportamenti. Pesa in particolare la tendenza dei partiti a concentrarsi sugli interessi di quelli che vengono considerati gli elettorati di riferimento.

La prima preoccupazione è fidelizzare i propri sostenitori. Compiacere chi sventola la stessa bandiera. Questa tendenza rende la politica angusta, asfittica. Impedisce di guardare oltre i confini del proprio orto ideologico. Intendiamoci, qualcosa di simile accadeva anche prima, si potrebbe perfino dire che in una certa misura sia sempre accaduto. Ma ora si è arrivati al paradosso che, anche quando si individuano e si percorrono strade più ampie e magari più corrispondenti agli interessi generali del Paese, quasi lo si nasconde con le armi della retorica. Come se ci si dovesse vergognare nell’anteporre il bene comune a quello della propria fazione. Ovviamente incorrono assai più facilmente in questa perversione le forze che devono misurarsi con le scelte di governo. La concretezza dei problemi lascia spesso intravedere soluzioni ragionevoli e tuttavia, nelle decisioni operative come nella comunicazione pubblica, il più delle volte finiscono per essere privilegiati i cavalli di battaglia che si presumono graditi ai propri sostenitori tradizionali.

Ma anche sul versante delle opposizioni i totem ideologici sono oggetto di una particolare venerazione. Anche a costo di tagliar fuori fasce di elettorato potenzialmente aperte a valutare proposte responsabili, e compromettere così la possibilità di costruire alternative agli attuali equilibri elettorali e parlamentari. Questa politica delle “curve” – nel senso degli stadi calcistici – è una delle cause dell’astensionismo crescente. Non l’unica, ma una delle più robuste.

Ci sono milioni di cittadini che restano alla finestra perché non si riconoscono nell’estremizzazione delle posizioni che caratterizza l’offerta politica in questa fase. Proprio l’esistenza di quest’area enormemente vasta – nelle europee dello scorso giugno l’affluenza non è arrivata alla metà degli aventi diritto – evidenzia gli spazi che si aprirebbero per una politica diversa da parte degli stessi soggetti attualmente in campo o di altri che eventualmente sopraggiungessero. Invece la polarizzazione esasperata ha finito per invadere anche l’ambito che per definizione dovrebbe essere tenuto al riparo dagli eccessi delle rispettive tifoserie, dalle forzature muscolari e revansciste e dalle reazioni aprioristicamente difensive: quello delle istituzioni e delle relative riforme.

A fronte di questa deriva vale la pena riportare le parole di Roberto Ruffilli che l’autorevole rivista Il Mulino, diretta da Paolo Pombeni, pone in testa all’ultimo numero, largamente dedicato proprio al tema delle riforme: “Bisogna impegnarsi nella sfida per costringere le forze politiche a esplicitare la portata effettiva dell’apertura a una ricerca in comune di ‘compromessi ragionevoli’ sulle priorità e le scadenze che consentano di dare gradualità e organicità al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni manovra strumentale”. Non si trattava di un innocuo auspicio. Il testo citato è dell’inizio del 1988. Poco dopo, il 16 aprile di quello stesso anno, Ruffilli veniva ucciso dalle Brigate rosse. La mediazione autentica ha sempre molti nemici.

Stefano De Martis
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Il nostro sistema politico a volte appare inadeguato ad affrontare le grandi sfide di questo tempo difficile e complesso. È un problema di regole e di procedure – e per questo il dibattito sulle riforme istituzionali merita la massima attenzione da parte dei cittadini –, ma anche e forse soprattutto di comportamenti. Pesa in particolare la tendenza dei partiti a concentrarsi sugli interessi di quelli che vengono considerati gli elettorati di riferimento.

La prima preoccupazione è fidelizzare i propri sostenitori. Compiacere chi sventola la stessa bandiera. Questa tendenza rende la politica angusta, asfittica. Impedisce di guardare oltre i confini del proprio orto ideologico. Intendiamoci, qualcosa di simile accadeva anche prima, si potrebbe perfino dire che in una certa misura sia sempre accaduto. Ma ora si è arrivati al paradosso che, anche quando si individuano e si percorrono strade più ampie e magari più corrispondenti agli interessi generali del Paese, quasi lo si nasconde con le armi della retorica. Come se ci si dovesse vergognare nell’anteporre il bene comune a quello della propria fazione. Ovviamente incorrono assai più facilmente in questa perversione le forze che devono misurarsi con le scelte di governo. La concretezza dei problemi lascia spesso intravedere soluzioni ragionevoli e tuttavia, nelle decisioni operative come nella comunicazione pubblica, il più delle volte finiscono per essere privilegiati i cavalli di battaglia che si presumono graditi ai propri sostenitori tradizionali.

Ma anche sul versante delle opposizioni i totem ideologici sono oggetto di una particolare venerazione. Anche a costo di tagliar fuori fasce di elettorato potenzialmente aperte a valutare proposte responsabili, e compromettere così la possibilità di costruire alternative agli attuali equilibri elettorali e parlamentari. Questa politica delle “curve” – nel senso degli stadi calcistici – è una delle cause dell’astensionismo crescente. Non l’unica, ma una delle più robuste.

Ci sono milioni di cittadini che restano alla finestra perché non si riconoscono nell’estremizzazione delle posizioni che caratterizza l’offerta politica in questa fase. Proprio l’esistenza di quest’area enormemente vasta – nelle europee dello scorso giugno l’affluenza non è arrivata alla metà degli aventi diritto – evidenzia gli spazi che si aprirebbero per una politica diversa da parte degli stessi soggetti attualmente in campo o di altri che eventualmente sopraggiungessero. Invece la polarizzazione esasperata ha finito per invadere anche l’ambito che per definizione dovrebbe essere tenuto al riparo dagli eccessi delle rispettive tifoserie, dalle forzature muscolari e revansciste e dalle reazioni aprioristicamente difensive: quello delle istituzioni e delle relative riforme.

A fronte di questa deriva vale la pena riportare le parole di Roberto Ruffilli che l’autorevole rivista Il Mulino, diretta da Paolo Pombeni, pone in testa all’ultimo numero, largamente dedicato proprio al tema delle riforme: “Bisogna impegnarsi nella sfida per costringere le forze politiche a esplicitare la portata effettiva dell’apertura a una ricerca in comune di ‘compromessi ragionevoli’ sulle priorità e le scadenze che consentano di dare gradualità e organicità al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni manovra strumentale”. Non si trattava di un innocuo auspicio. Il testo citato è dell’inizio del 1988. Poco dopo, il 16 aprile di quello stesso anno, Ruffilli veniva ucciso dalle Brigate rosse. La mediazione autentica ha sempre molti nemici.

Stefano De Martis
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Riforma: se i partiti non “funzionano” serve a poco https://www.lavoce.it/riforma-se-partiti-non-funzionano-serve-poco/ https://www.lavoce.it/riforma-se-partiti-non-funzionano-serve-poco/#respond Thu, 09 Nov 2023 16:51:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73934

Il Governo sta preparando una proposta di riforma costituzionale. Non è la prima volta: dal 1948 in poi ci sono state numerose modifiche alla Costituzione, approvate ed entrate in vigore. Cinque solo fra il 2020 e oggi, delle quali l’unica di una certa importanza è quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Fra le altre meno recenti merita di essere ricordata quella del 2001, che ha esteso l’autonomia delle regioni e dei comuni. Ma nessuna di queste ha cambiato veramente la fisionomia dello Stato.

Lo avrebbero fatto, se fossero entrate in vigore, quelle proposte rispettivamente da Berlusconi e da Renzi: entrambe avevano riportato l’approvazione del Parlamento (una nel 2005, l’altra nel 2016) ma dovevano passare per un referendum e furono bocciate dal voto popolare. Non si contano poi le proposte che in Parlamento sono state discusse ma non approvate. Fra le proposte andate a buon fine, come fra quelle che non ci sono andate, ve ne sono state alcune utili e opportune, altre dannose, altre irrilevanti, alcune infine addirittura bislacche.

Quella che ora è in fase di preparazione – per l’elezione popolare diretta del primo ministro – cambierebbe invece i rapporti di potere e gli equilibri fra i massimi organi dello Stato, molto più di quanto fosse previsto dalla riforma Renzi. Ma la riforma Renzi, lo ricordiamo, è stata respinta a furor di popolo al grido “la Costituzione non si tocca”; dovremmo dunque aspettarci che anche la riforma Meloni faccia la stessa fine? Io direi di no, ma è troppo presto per dirlo.

Il commento che voglio fare oggi è che per una volta di più si cade nell’illusione che per risolvere i problemi della politica italiana sia necessario, e anche sufficiente, ricorrere a quella che gli esperti chiamano “ingegneria istituzionale”: ossia cambiare qualcosa nei complesso sistema dei rapporti fra gli organi dello Stato. Che questo modo di ragionare sia illusorio, si dimostra facilmente osservando che i Paesi con i quali tendiamo a confrontarci (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna) hanno sistemi istituzionali molto diversi fra loro, ma ciascuno di loro ha un sistema politico democratico ben funzionante – se per “sistema politico” intendiamo l’insieme dei partiti, i rapporti fra loro, la loro alternanza ordinata al potere. Se i partiti non funzionano bene, cambiare le regole costituzionali serve a poco.

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Il Governo sta preparando una proposta di riforma costituzionale. Non è la prima volta: dal 1948 in poi ci sono state numerose modifiche alla Costituzione, approvate ed entrate in vigore. Cinque solo fra il 2020 e oggi, delle quali l’unica di una certa importanza è quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Fra le altre meno recenti merita di essere ricordata quella del 2001, che ha esteso l’autonomia delle regioni e dei comuni. Ma nessuna di queste ha cambiato veramente la fisionomia dello Stato.

Lo avrebbero fatto, se fossero entrate in vigore, quelle proposte rispettivamente da Berlusconi e da Renzi: entrambe avevano riportato l’approvazione del Parlamento (una nel 2005, l’altra nel 2016) ma dovevano passare per un referendum e furono bocciate dal voto popolare. Non si contano poi le proposte che in Parlamento sono state discusse ma non approvate. Fra le proposte andate a buon fine, come fra quelle che non ci sono andate, ve ne sono state alcune utili e opportune, altre dannose, altre irrilevanti, alcune infine addirittura bislacche.

Quella che ora è in fase di preparazione – per l’elezione popolare diretta del primo ministro – cambierebbe invece i rapporti di potere e gli equilibri fra i massimi organi dello Stato, molto più di quanto fosse previsto dalla riforma Renzi. Ma la riforma Renzi, lo ricordiamo, è stata respinta a furor di popolo al grido “la Costituzione non si tocca”; dovremmo dunque aspettarci che anche la riforma Meloni faccia la stessa fine? Io direi di no, ma è troppo presto per dirlo.

Il commento che voglio fare oggi è che per una volta di più si cade nell’illusione che per risolvere i problemi della politica italiana sia necessario, e anche sufficiente, ricorrere a quella che gli esperti chiamano “ingegneria istituzionale”: ossia cambiare qualcosa nei complesso sistema dei rapporti fra gli organi dello Stato. Che questo modo di ragionare sia illusorio, si dimostra facilmente osservando che i Paesi con i quali tendiamo a confrontarci (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna) hanno sistemi istituzionali molto diversi fra loro, ma ciascuno di loro ha un sistema politico democratico ben funzionante – se per “sistema politico” intendiamo l’insieme dei partiti, i rapporti fra loro, la loro alternanza ordinata al potere. Se i partiti non funzionano bene, cambiare le regole costituzionali serve a poco.

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