parola di dio Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/parola-di-dio/ Settimanale di informazione regionale Mon, 26 Aug 2024 12:32:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg parola di dio Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/parola-di-dio/ 32 32 La Rivelazione è evoluzione. Scienza e fede in dialogo https://www.lavoce.it/la-rivelazione-e-evoluzione-scienza-e-fede-in-dialogo/ Fri, 18 Jun 2021 10:54:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61071

Dei Verbum, n. 17: “La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente degli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza del tempo, il Verbo si fece carne ed abitò tra noi, pieno di grazia e di verità.

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e Se stesso e portò a compimento l’opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, e l’invio dello Spirito Santo. Sollevato in alto attira tutti a Sé, Lui che solo ha parole di vita eterna. Ma questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi Apostoli suoi e ai Profeti nello Spirito Santo, affinché predicassero l’Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore, e congregassero la Chiesa. Di tutto ciò, gli scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina”.

La Parola e la natura

Lo sguardo che rivolgiamo sul mondo, vede grandi miserie e sforzi immani per contrastare la deriva fatale: le emissioni nell’atmosfera, lo scempio dei mari, l’invasione della plastica... “Chi crede in Cristo ha tra le mani, anzi, nel cuore e sulle labbra una parola che, essendo di Dio, ha la stessa potenza manifestatasi al principio, quando il creatore “parlò e tutto fu fatto”; ha la medesima efficacia salvifica delle parole di grazia che uscivano dalla bocca del salvatore quando diceva “sii guarito”, e “i tuoi peccati sono perdonati” (Pietro Bovati, biblista). “Il Nuovo Testamento costituisce il vertice dei libri sacri e li illumina tutti. Questo, ovviamente, perché esso ci parla direttamente di Gesù Cristo, che è il centro e il vertice di tutta la rivelazione di Dio agli uomini: è lui, infatti, la parola di Dio dall’eternità per l’umanità. San Girolamo diceva: l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (card. Giuseppe Betori). Nei primi capitoli della Genesi, troviamo il “mito” della creazione, che ci fa intuire la sorgente dell’infinito fiume della storia. Negli ultimi capitoli dell’Apocalisse (“rivelazione”, ), è annunciata la foce misteriosa, la “nuova Gerusalemme”. Possiamo chiamare i due sguardi una profezia a parte ante, e una profezia a parte post. Questo cammino di millenni, gli scienziati lo chiamano “evoluzione”. “Il desiderio di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza, lo ha spinto a rivelarsi a Israele, così che esso lo facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti. Cristo ha compiuto e completato la rivelazione di Dio, così da attrarre a sé l’intera umanità, come aveva promesso: ‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Anzi, mediante Cristo e il suo Spirito, il Padre continua a condurre la storia verso di sé” (Franco Manzi, biblista). Teilhard De Chardin, prete, teologo, filosofo, scienziato, descrive in maniera suggestiva, poetica e scientifica, questo progredire della vita verso il Padre: dalla materia agli animali, all’uomo (il pensiero riflesso), fino a Gesù Cristo (“centro e vertice”, dice il Concilio; “Punto Omega”, dice Teilhard).

La fede e la scienza, dialogo possibile

E se invece del sospetto e del rifiuto da parte del Sant’Uffizio dell’epoca, ci fosse stato ascolto e accoglienza (come poi, grazie a Dio, ha fatto il Concilio, e il card. Casaroli, e lo stesso papa Paolo VI, e papa Benedetto), il dialogo fede-scienza avrebbe avuto un’altra storia. Peccato! Ma possiamo sempre riparare...]]>

Dei Verbum, n. 17: “La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente degli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza del tempo, il Verbo si fece carne ed abitò tra noi, pieno di grazia e di verità.

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e Se stesso e portò a compimento l’opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, e l’invio dello Spirito Santo. Sollevato in alto attira tutti a Sé, Lui che solo ha parole di vita eterna. Ma questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi Apostoli suoi e ai Profeti nello Spirito Santo, affinché predicassero l’Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore, e congregassero la Chiesa. Di tutto ciò, gli scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina”.

La Parola e la natura

Lo sguardo che rivolgiamo sul mondo, vede grandi miserie e sforzi immani per contrastare la deriva fatale: le emissioni nell’atmosfera, lo scempio dei mari, l’invasione della plastica... “Chi crede in Cristo ha tra le mani, anzi, nel cuore e sulle labbra una parola che, essendo di Dio, ha la stessa potenza manifestatasi al principio, quando il creatore “parlò e tutto fu fatto”; ha la medesima efficacia salvifica delle parole di grazia che uscivano dalla bocca del salvatore quando diceva “sii guarito”, e “i tuoi peccati sono perdonati” (Pietro Bovati, biblista). “Il Nuovo Testamento costituisce il vertice dei libri sacri e li illumina tutti. Questo, ovviamente, perché esso ci parla direttamente di Gesù Cristo, che è il centro e il vertice di tutta la rivelazione di Dio agli uomini: è lui, infatti, la parola di Dio dall’eternità per l’umanità. San Girolamo diceva: l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (card. Giuseppe Betori). Nei primi capitoli della Genesi, troviamo il “mito” della creazione, che ci fa intuire la sorgente dell’infinito fiume della storia. Negli ultimi capitoli dell’Apocalisse (“rivelazione”, ), è annunciata la foce misteriosa, la “nuova Gerusalemme”. Possiamo chiamare i due sguardi una profezia a parte ante, e una profezia a parte post. Questo cammino di millenni, gli scienziati lo chiamano “evoluzione”. “Il desiderio di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza, lo ha spinto a rivelarsi a Israele, così che esso lo facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti. Cristo ha compiuto e completato la rivelazione di Dio, così da attrarre a sé l’intera umanità, come aveva promesso: ‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Anzi, mediante Cristo e il suo Spirito, il Padre continua a condurre la storia verso di sé” (Franco Manzi, biblista). Teilhard De Chardin, prete, teologo, filosofo, scienziato, descrive in maniera suggestiva, poetica e scientifica, questo progredire della vita verso il Padre: dalla materia agli animali, all’uomo (il pensiero riflesso), fino a Gesù Cristo (“centro e vertice”, dice il Concilio; “Punto Omega”, dice Teilhard).

La fede e la scienza, dialogo possibile

E se invece del sospetto e del rifiuto da parte del Sant’Uffizio dell’epoca, ci fosse stato ascolto e accoglienza (come poi, grazie a Dio, ha fatto il Concilio, e il card. Casaroli, e lo stesso papa Paolo VI, e papa Benedetto), il dialogo fede-scienza avrebbe avuto un’altra storia. Peccato! Ma possiamo sempre riparare...]]>
La “traduzione” della Parola: con il dizionario dello Spirito. https://www.lavoce.it/la-traduzione-della-parola-con-il-dizionario-dello-spirito/ Fri, 21 May 2021 10:52:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60746

Dei Verbum, n. 13: “Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta la mirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e quanto Egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo”. È lo stesso stupore del Natale, allora: Dio si è fatto come noi - canta la liturgia - perché noi potessimo diventare come lui! Dio parla le nostre parole perché noi potessimo imparare a parlare le sue. E così, tra tutte le parole che gli uomini parlano e ascoltano - quelle quotidiane, e quelle dei “maestri” -, può trovare spazio quella che viene dal Cielo. È la risposta alla preghiera del Salmo: “mostraci il tuo volto, Signore!”. È come il passaggio di Dio nella vita del profeta Elia, quando, rifugiato nella grotta, sentì il fragore del vento e dell’uragano, e alla fine “il sussurro di una brezza leggera” (o “un sottile suono di silenzio”, come alcuni traducono in 1Re 19,9 ss). È il desiderio espresso nella poesia di Mario Luzi (1914-2005):
“Non startene nascosto nella tua onnipresenza. Mostrati, vorrebbero dirgli, ma non osano. Il roveto in fiamme lo rivela, però è anche il suo impenetrabile nascondiglio. E poi l’incarnazione si ripara dalla sua eternità sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo verso l’uomo, nell’uomo… sì, ma il figlio dell’uomo in cui deflagra lo manifesta e lo cela… così avanzano nella loro storia”.
“Questo processo di traduzione del messaggio divino in umano giunge fino al punto di far sì che le parole dette da Dio all’autore ispirato possono legittimamente arrivare all’uomo in veste di parole dell’uomo (ebraico, aramaico e greco) e proporzionatamente tramite le lingue attuali dell’uomo; quel che Dio non ha disdegnato di fare, non possiamo sottovalutarlo noi” (Paolo Martuccelli, teologo). Quando si parla di “traduzione”, sappiamo bene che non è una questione solo linguistica, di termini, ma di concetti e di messaggio. Se è vero che Gesù promette di rimanere con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi; e dona lo Spirito alla Chiesa perché le ricordi e le insegni ogni cosa, allora si può parlare di “aggiornamento” - un termine così caro a Papa Giovanni, e al Concilio, che è stato accolto in italiano così come nelle altre lingue. Un po’ come le indicazioni sugli spartiti di musica. Quanti esempi di questo procedimento! Che non è il “relativismo” da cui ci mette in guardia Papa Benedetto, come se non ci fosse più una “stella polare” nella rivelazione. È invece l’unico modo perché la Parola del Cielo si immerga nella nostra terra, nella storia concreta che ogni generazione sta vivendo. Esempio: il mito della creazione era interpretato come dominio dell’uomo sulla natura; la traduzione per il nostro oggi la offre la Laudato si’ del Papa. Le differenze delle culture (e delle religioni) sono diventate “ponti, e non muri” nell’enciclica Fratelli tutti. Parleremo “lingue nuove”! “Luce ai miei passi è la tua parola, Signore” canta il Salmo. La luce è dono suo, i passi sono la nostra stupenda fatica quotidiana: mai da soli!]]>

Dei Verbum, n. 13: “Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta la mirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e quanto Egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo”. È lo stesso stupore del Natale, allora: Dio si è fatto come noi - canta la liturgia - perché noi potessimo diventare come lui! Dio parla le nostre parole perché noi potessimo imparare a parlare le sue. E così, tra tutte le parole che gli uomini parlano e ascoltano - quelle quotidiane, e quelle dei “maestri” -, può trovare spazio quella che viene dal Cielo. È la risposta alla preghiera del Salmo: “mostraci il tuo volto, Signore!”. È come il passaggio di Dio nella vita del profeta Elia, quando, rifugiato nella grotta, sentì il fragore del vento e dell’uragano, e alla fine “il sussurro di una brezza leggera” (o “un sottile suono di silenzio”, come alcuni traducono in 1Re 19,9 ss). È il desiderio espresso nella poesia di Mario Luzi (1914-2005):
“Non startene nascosto nella tua onnipresenza. Mostrati, vorrebbero dirgli, ma non osano. Il roveto in fiamme lo rivela, però è anche il suo impenetrabile nascondiglio. E poi l’incarnazione si ripara dalla sua eternità sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo verso l’uomo, nell’uomo… sì, ma il figlio dell’uomo in cui deflagra lo manifesta e lo cela… così avanzano nella loro storia”.
“Questo processo di traduzione del messaggio divino in umano giunge fino al punto di far sì che le parole dette da Dio all’autore ispirato possono legittimamente arrivare all’uomo in veste di parole dell’uomo (ebraico, aramaico e greco) e proporzionatamente tramite le lingue attuali dell’uomo; quel che Dio non ha disdegnato di fare, non possiamo sottovalutarlo noi” (Paolo Martuccelli, teologo). Quando si parla di “traduzione”, sappiamo bene che non è una questione solo linguistica, di termini, ma di concetti e di messaggio. Se è vero che Gesù promette di rimanere con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi; e dona lo Spirito alla Chiesa perché le ricordi e le insegni ogni cosa, allora si può parlare di “aggiornamento” - un termine così caro a Papa Giovanni, e al Concilio, che è stato accolto in italiano così come nelle altre lingue. Un po’ come le indicazioni sugli spartiti di musica. Quanti esempi di questo procedimento! Che non è il “relativismo” da cui ci mette in guardia Papa Benedetto, come se non ci fosse più una “stella polare” nella rivelazione. È invece l’unico modo perché la Parola del Cielo si immerga nella nostra terra, nella storia concreta che ogni generazione sta vivendo. Esempio: il mito della creazione era interpretato come dominio dell’uomo sulla natura; la traduzione per il nostro oggi la offre la Laudato si’ del Papa. Le differenze delle culture (e delle religioni) sono diventate “ponti, e non muri” nell’enciclica Fratelli tutti. Parleremo “lingue nuove”! “Luce ai miei passi è la tua parola, Signore” canta il Salmo. La luce è dono suo, i passi sono la nostra stupenda fatica quotidiana: mai da soli!]]>
Seguire, per vedere oltre https://www.lavoce.it/seguire-per-vedere-oltre/ Fri, 19 Mar 2021 14:48:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59622 logo reubrica commento al Vangelo

La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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Novità che dona speranza https://www.lavoce.it/novita-che-dona-speranza/ Fri, 12 Mar 2021 11:58:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59511 logo reubrica commento al Vangelo

Dal tempio di pietra distrutto al nuovo tempio, ricostruito in tre giorni (Gv 2,19), a partire dalla pietra rotolata via dal sepolcro (Gv 20,1). Questo passaggio tra la terza e la quarta domenica di Quaresima ci apre lo sguardo sulla Pasqua ormai vicina, come ricorda la “colletta” che introduce la celebrazione eucaristica: “O Dio, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”. Abbiamo bisogno proprio della speranza della Pasqua: essere consolati dalla tristezza per i nostri lutti e rianimati dalla fatica di vivere.

La vita più forte della morte

Per un attimo proviamo a immaginare la distruzione del tempio come le nostre città terremotate. Queste distruzioni sono simili alla morte che distrugge ogni speranza. Ma dalle macerie, dopo un po’, appaiono dei fili d’erba che sembrano rinascere proprio da quelle pietre fredde, avamposto della morte.

Un filo di vita distrugge la coltre di morte che sembrava aver sigillato ogni speranza, come la pietra rotolata su quella tomba a Gerusalemme nel 33 d. C., come i sassi dei nostri paesi terremotati, come questa pandemia che sembra non avere fine. Un alito di vita, come un dono che viene dall’alto, se trova il terreno delle fede, “macerato” dalla speranza, rimane fertile e questo consente ancora una volta, lo sbocciare di un germoglio. Dall’alto della croce viene il dono che salva, così come ci ricorda il Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14).

La fede in una persona viva, che è il Signore risorto, consente di non lasciare alla morte l’ultima parola, e non rende le morti del presente ‘carceriere’ della speranza del futuro. Questa fede è ben riposta, perché la gratuità della salvezza non dipende dalle nostre opere, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura : “Per grazia infatti siamo stati salvati mediante la fede” (Ef 2,8-9). La fede è l’unica speranza, capace di rimuovere quelle macerie; altro che atteggiamento passivo! È il motore che può sbloccare la nostra accidia pastorale e può aprire il nostro sguardo sul futuro delle nostre chiese e dell’umanità stessa.

La fede ci dona la vita

È la fede in Gesù Cristo che ci fa alzare lo sguardo su quella croce e intravedere oltre il sangue e la morte, l’amore appassionato del motivo di quella morte: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lui non ci salva solo dalla perdita definitiva perché si è scelto il rifiuto dell’amore. Credere in Lui significa non perdere l’opportunità di amare ogni giorno, di camminare ogni giorno nella speranza, di cambiare le situazioni di morte che assillano il nostro tempo.

La condizione del popolo d’Israele narrata in Cronache (prima lettura) può aiutarci al leggere anche il nostro tempo. L’esilio sembra essere la costante condizione causata dalla infedeltà (2Cr 36,14). Ma non è una questione morale, come certi “profeti di sventura” sembrano giustificare l’attuale situazione. Costoro si fanno interpreti della volontà di Dio decretando sentenze e invocando punizioni, costruendo confini morali e qualche volta geografici, sentendosi al sicuro a motivo delle loro certezze. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17), ci ricorda l’evangelista Giovanni.

Il testo della prima lettura può chiarire meglio anche il brano della purificazione del Tempio compiuta da Gesù, ascoltato domenica scorsa (Gv 2,15-16).

Cosa significa "infedeltà a Dio"

L’infedeltà a Dio è fossilizzare lo sguardo sulle modalità della sua rivelazione nel tempo; che invece hanno continuamente bisogno di essere purificate per far emergere la perenne novità della sua Persona. Lui si accompagna in modo sempre nuovo all’umanità di ogni tempo. La distruzione del Tempio è una punizione divina o una purificazione? Quale è la vera causa (2 Cr 36,19)? È perché Israele ha sbeffeggiato i messaggeri di Dio e schernito i suoi profeti (v. 16)?

Anche oggi è più comodo ascoltare i “profeti di sventura” che propinano le loro certezze. Anche oggi necessita una purificazione dei nostri “templi” di certezze granitiche; forse alcuni vanno abbattuti. Forse questo è il tempo dell’esilio che il Signore vuole trasformare in esodo di salvezza, per farci riscoprire la perenne novità della sua presenza. La fraternità riproposta da Papa Francesco è una profezia dell’umanità rinnovata che cammina verso la Gerusalemme celeste. Umanità a cui non si chiede il passaporto di provenienza, ma se si cammina verso la stessa “montagna”, dove costruire insieme la “tenda dell’incontro”.

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Dal tempio di pietra distrutto al nuovo tempio, ricostruito in tre giorni (Gv 2,19), a partire dalla pietra rotolata via dal sepolcro (Gv 20,1). Questo passaggio tra la terza e la quarta domenica di Quaresima ci apre lo sguardo sulla Pasqua ormai vicina, come ricorda la “colletta” che introduce la celebrazione eucaristica: “O Dio, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”. Abbiamo bisogno proprio della speranza della Pasqua: essere consolati dalla tristezza per i nostri lutti e rianimati dalla fatica di vivere.

La vita più forte della morte

Per un attimo proviamo a immaginare la distruzione del tempio come le nostre città terremotate. Queste distruzioni sono simili alla morte che distrugge ogni speranza. Ma dalle macerie, dopo un po’, appaiono dei fili d’erba che sembrano rinascere proprio da quelle pietre fredde, avamposto della morte.

Un filo di vita distrugge la coltre di morte che sembrava aver sigillato ogni speranza, come la pietra rotolata su quella tomba a Gerusalemme nel 33 d. C., come i sassi dei nostri paesi terremotati, come questa pandemia che sembra non avere fine. Un alito di vita, come un dono che viene dall’alto, se trova il terreno delle fede, “macerato” dalla speranza, rimane fertile e questo consente ancora una volta, lo sbocciare di un germoglio. Dall’alto della croce viene il dono che salva, così come ci ricorda il Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14).

La fede in una persona viva, che è il Signore risorto, consente di non lasciare alla morte l’ultima parola, e non rende le morti del presente ‘carceriere’ della speranza del futuro. Questa fede è ben riposta, perché la gratuità della salvezza non dipende dalle nostre opere, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura : “Per grazia infatti siamo stati salvati mediante la fede” (Ef 2,8-9). La fede è l’unica speranza, capace di rimuovere quelle macerie; altro che atteggiamento passivo! È il motore che può sbloccare la nostra accidia pastorale e può aprire il nostro sguardo sul futuro delle nostre chiese e dell’umanità stessa.

La fede ci dona la vita

È la fede in Gesù Cristo che ci fa alzare lo sguardo su quella croce e intravedere oltre il sangue e la morte, l’amore appassionato del motivo di quella morte: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lui non ci salva solo dalla perdita definitiva perché si è scelto il rifiuto dell’amore. Credere in Lui significa non perdere l’opportunità di amare ogni giorno, di camminare ogni giorno nella speranza, di cambiare le situazioni di morte che assillano il nostro tempo.

La condizione del popolo d’Israele narrata in Cronache (prima lettura) può aiutarci al leggere anche il nostro tempo. L’esilio sembra essere la costante condizione causata dalla infedeltà (2Cr 36,14). Ma non è una questione morale, come certi “profeti di sventura” sembrano giustificare l’attuale situazione. Costoro si fanno interpreti della volontà di Dio decretando sentenze e invocando punizioni, costruendo confini morali e qualche volta geografici, sentendosi al sicuro a motivo delle loro certezze. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17), ci ricorda l’evangelista Giovanni.

Il testo della prima lettura può chiarire meglio anche il brano della purificazione del Tempio compiuta da Gesù, ascoltato domenica scorsa (Gv 2,15-16).

Cosa significa "infedeltà a Dio"

L’infedeltà a Dio è fossilizzare lo sguardo sulle modalità della sua rivelazione nel tempo; che invece hanno continuamente bisogno di essere purificate per far emergere la perenne novità della sua Persona. Lui si accompagna in modo sempre nuovo all’umanità di ogni tempo. La distruzione del Tempio è una punizione divina o una purificazione? Quale è la vera causa (2 Cr 36,19)? È perché Israele ha sbeffeggiato i messaggeri di Dio e schernito i suoi profeti (v. 16)?

Anche oggi è più comodo ascoltare i “profeti di sventura” che propinano le loro certezze. Anche oggi necessita una purificazione dei nostri “templi” di certezze granitiche; forse alcuni vanno abbattuti. Forse questo è il tempo dell’esilio che il Signore vuole trasformare in esodo di salvezza, per farci riscoprire la perenne novità della sua presenza. La fraternità riproposta da Papa Francesco è una profezia dell’umanità rinnovata che cammina verso la Gerusalemme celeste. Umanità a cui non si chiede il passaporto di provenienza, ma se si cammina verso la stessa “montagna”, dove costruire insieme la “tenda dell’incontro”.

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La peggiore delle idolatrie https://www.lavoce.it/la-peggiore-delle-idolatrie/ Thu, 04 Mar 2021 10:42:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59449 logo reubrica commento al Vangelo

Le prime due domeniche di Quaresima, ogni anno, seppur con evangelisti diversi, ci presentano un passaggio obbligato per raggiungere la Pasqua: il brano delle tentazioni e il Vangelo della Trasfigurazione. Dalla terza domenica, ogni anno segue un suo percorso. Quest’anno ci viene proposta, dall’evangelista Giovanni, la prima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua (Gv 2,13-25). Questa prima Pasqua di Gesù, raccontata dal Vangelo di questa domenica, è identificata con la purificazione del Tempio.

Gesù caccia i mercanti del tempio

Fa un certo scalpore leggere e immaginare la scena in cui Gesù caccia i mercanti del tempio (Gv 2,15-16). Un fatto che troviamo narrato in tutti e quattro i Vangeli. Matteo, Marco e Luca collocano questa scena dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Giovanni nel contesto della prima Pasqua.

A segnare una certa continuità con il Vangelo di domenica scorsa è il rimando a dopo la Risurrezione, la comprensione di alcuni fatti e alcune affermazioni di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, Gesù chiede ai suoi di parlare di quanto hanno visto solo “dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9).

Nel brano di questa domenica i discepoli ricordano le parole di Gesù riguardo l’identificazione del suo corpo con il tempio, ma solo dopo che “fu risuscitato dai morti” (Gv 2,22). È evidente che l’evento della Risurrezione è la chiave di lettura e di comprensione della vita di Gesù. Ogni suo gesto, ogni sua parola escono dal buio della contingenza del presente per mezzo della luce che sconfigge le tenebre. Alla Sua luce vediamo la luce, ci ricorda il Salmo (36,10) e con essa possiamo leggere l’intera storia della salvezza.

Le profezie, la Legge preparano e anticipano la venuta del Messia e in lui trovano compimento. Abbiamo riscontrato nel racconto della Trasfigurazione, domenica scorsa, quanto appena enunciato: Gesù è trasfigurato e conversa con Mosè ed Elia (Mc 9,4).

Il Concilio Vaticano II stesso insegna nella Costituzione Dei Verbum che il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo, è nascosto nell’Antico Testamento e che quest’ultimo è svelato nel Nuovo (DV 16).

La legge, parte della Rivelazione

La Legge, che ci viene presentata nella prima lettura, è parte della Rivelazione. Dio parla al suo popolo tramite Mosè, lo libera dalla schiavitù dell’Egitto, gli ridona la libertà e gli fa dono della legge.

Le “dieci parole” (Decalogo) non sono privazione della libertà, ma custodia del dono che è la libertà, la quale si traduce nella possibilità di amare l’unico e vero Dio (Es 20,2-5). Infatti, lo sguardo del popolo d’Israele su questo dono è cantato nel Salmo: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore” (Sal 19,9).

I comandamenti superano la vendetta, seppur già regolata dall’antica legge dell’“occhio per occhio e dente per dente”. Anzi, la stessa legge rivelata nelle “dieci parole” è superata dalla legge dell’amore. Quest’ultima sintesi non è un nuovo testo, ma è la vita stessa di Gesù: lui è la parola definitiva, declinata nel Vangelo delle beatitudini. Gesù dirà di sé che non è venuto ad abolire la legge e i profeti, né ad abolire i comandamenti, ma a dare compimento (Mt 5,17).

Dai 10 comandamenti al comandamento dell'amore

Dai comandamenti si passa al comandamento dell’amore. E la via di accesso è la via crucis, come ci ricorda Paolo nella prima lettura : la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Gesù è uno scandalo per chi non si “sintonizza” sulla lunghezza d’onda del suo insegnamento, fatto di parole e di gesti rivelativi. È uno scandalo la sua azione purificatrice del tempio di Gersalemme narrato questa domenica, è uno scandalo la sua morte in croce, è un assurdo la sua risurrezione.

Paolo ad Atene, nell’aeropago, ha tentato di annunciare la resurrezione di Cristo ai sapienti, ma “quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: ‘Su questo ti sentiremo un’altra volta’” (At 17,32). La stoltezza dei pagani di Atene è in qualche modo meno grave dello scandalo degli ebrei, che immaginano ancora un Messia trionfante e di parte. Non lo comprendono nella logica di colui che prende le parti di deboli e poveri, non lo accettano perché sovverte il potere religioso, che tra l’altro si accompagna a quello politico e ne trova giovamento economico. Ecco il significato della purificazione del Tempio, divenuto un mercato. Gesù dirà: “Non fate della casa del Padre mio un mercato” (Gv 2,16), ed è questa la vera idolatria. Il Decalogo inizia proprio con questa parola: “Non avrai altri dèi di fronte a me, non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra”.

Non c’è peggior idolatria di quella “religiosa”, ossia divinizzare ciò che è transitorio. Vale per i nostri dogmi pastorali, vale per i nostri confini parrocchiali, vale anche, forse, per i confini diocesani della nostra Chiesa umbra.

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Le prime due domeniche di Quaresima, ogni anno, seppur con evangelisti diversi, ci presentano un passaggio obbligato per raggiungere la Pasqua: il brano delle tentazioni e il Vangelo della Trasfigurazione. Dalla terza domenica, ogni anno segue un suo percorso. Quest’anno ci viene proposta, dall’evangelista Giovanni, la prima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua (Gv 2,13-25). Questa prima Pasqua di Gesù, raccontata dal Vangelo di questa domenica, è identificata con la purificazione del Tempio.

Gesù caccia i mercanti del tempio

Fa un certo scalpore leggere e immaginare la scena in cui Gesù caccia i mercanti del tempio (Gv 2,15-16). Un fatto che troviamo narrato in tutti e quattro i Vangeli. Matteo, Marco e Luca collocano questa scena dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Giovanni nel contesto della prima Pasqua.

A segnare una certa continuità con il Vangelo di domenica scorsa è il rimando a dopo la Risurrezione, la comprensione di alcuni fatti e alcune affermazioni di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, Gesù chiede ai suoi di parlare di quanto hanno visto solo “dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9).

Nel brano di questa domenica i discepoli ricordano le parole di Gesù riguardo l’identificazione del suo corpo con il tempio, ma solo dopo che “fu risuscitato dai morti” (Gv 2,22). È evidente che l’evento della Risurrezione è la chiave di lettura e di comprensione della vita di Gesù. Ogni suo gesto, ogni sua parola escono dal buio della contingenza del presente per mezzo della luce che sconfigge le tenebre. Alla Sua luce vediamo la luce, ci ricorda il Salmo (36,10) e con essa possiamo leggere l’intera storia della salvezza.

Le profezie, la Legge preparano e anticipano la venuta del Messia e in lui trovano compimento. Abbiamo riscontrato nel racconto della Trasfigurazione, domenica scorsa, quanto appena enunciato: Gesù è trasfigurato e conversa con Mosè ed Elia (Mc 9,4).

Il Concilio Vaticano II stesso insegna nella Costituzione Dei Verbum che il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo, è nascosto nell’Antico Testamento e che quest’ultimo è svelato nel Nuovo (DV 16).

La legge, parte della Rivelazione

La Legge, che ci viene presentata nella prima lettura, è parte della Rivelazione. Dio parla al suo popolo tramite Mosè, lo libera dalla schiavitù dell’Egitto, gli ridona la libertà e gli fa dono della legge.

Le “dieci parole” (Decalogo) non sono privazione della libertà, ma custodia del dono che è la libertà, la quale si traduce nella possibilità di amare l’unico e vero Dio (Es 20,2-5). Infatti, lo sguardo del popolo d’Israele su questo dono è cantato nel Salmo: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore” (Sal 19,9).

I comandamenti superano la vendetta, seppur già regolata dall’antica legge dell’“occhio per occhio e dente per dente”. Anzi, la stessa legge rivelata nelle “dieci parole” è superata dalla legge dell’amore. Quest’ultima sintesi non è un nuovo testo, ma è la vita stessa di Gesù: lui è la parola definitiva, declinata nel Vangelo delle beatitudini. Gesù dirà di sé che non è venuto ad abolire la legge e i profeti, né ad abolire i comandamenti, ma a dare compimento (Mt 5,17).

Dai 10 comandamenti al comandamento dell'amore

Dai comandamenti si passa al comandamento dell’amore. E la via di accesso è la via crucis, come ci ricorda Paolo nella prima lettura : la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Gesù è uno scandalo per chi non si “sintonizza” sulla lunghezza d’onda del suo insegnamento, fatto di parole e di gesti rivelativi. È uno scandalo la sua azione purificatrice del tempio di Gersalemme narrato questa domenica, è uno scandalo la sua morte in croce, è un assurdo la sua risurrezione.

Paolo ad Atene, nell’aeropago, ha tentato di annunciare la resurrezione di Cristo ai sapienti, ma “quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: ‘Su questo ti sentiremo un’altra volta’” (At 17,32). La stoltezza dei pagani di Atene è in qualche modo meno grave dello scandalo degli ebrei, che immaginano ancora un Messia trionfante e di parte. Non lo comprendono nella logica di colui che prende le parti di deboli e poveri, non lo accettano perché sovverte il potere religioso, che tra l’altro si accompagna a quello politico e ne trova giovamento economico. Ecco il significato della purificazione del Tempio, divenuto un mercato. Gesù dirà: “Non fate della casa del Padre mio un mercato” (Gv 2,16), ed è questa la vera idolatria. Il Decalogo inizia proprio con questa parola: “Non avrai altri dèi di fronte a me, non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra”.

Non c’è peggior idolatria di quella “religiosa”, ossia divinizzare ciò che è transitorio. Vale per i nostri dogmi pastorali, vale per i nostri confini parrocchiali, vale anche, forse, per i confini diocesani della nostra Chiesa umbra.

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Con Abramo fino al Calvario https://www.lavoce.it/con-abramo-fino-al-calvario/ Thu, 25 Feb 2021 20:38:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59358 logo reubrica commento al Vangelo

Dal deserto di Giuda al monte Tabor in Galliea. Un percorso geografico che è anche un cammino interiore: dallo scendere agli “inferi” della nostra umanità, tentati dal Menzognero, alla contemplazione della gloria, destino ultimo di ogni credente. Gesù va da solo nel deserto e lì viene tentato; ma trova nell’abbandono al Padre, guidato dallo Spirito, la pace e la consolazione.

Letture di Domenica 28 febbraio 2021, seconda di Quaresima

Gesù ora sale “su un alto monte”, anche stavolta “in disparte”, ma non è da solo, porta con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e il testo sottolinea “loro soli” (9,2). Un riferimento che richiama la condizione di intimità che Gesù ricerca continuamente dopo l’incontro con le folle, e ogni qualvolta la folla vuole portarlo in trionfo (Mc 1,35.45). In questa occasione l’esperienza di intimità è vissuta insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, anzi possiamo dire che è “costruita” per loro. Infatti la Trasfigurazione può essere considerata l’esperienza “mistica” che rafforza la fede degli apostoli, dopo che Gesù aveva annunciato loro che il cammino verso Gerusalemme non sarebbe stata una marcia gloriosa. I miracoli, il successo, gli applausi sarebbero ben presto scomparsi per far posto a incomprensioni, rifiuti, fino alla morte in croce (Mc 8,31).

Ad aggravare la situazione sarà la previsione che ciò che sarebbe accaduto a lui avrebbe coinvolto anche i suoi seguaci: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Una prospettiva che i discepoli faranno fatica a comprendere; una logica che i cristiani di ogni tempo cercheranno sempre di escludere.

Il racconto della Trasfigurazione è narrato dall’evangelista Marco dopo l’annuncio della Passione. Il cammino verso Gerusalemme attesterà, passo dopo passo, quanto Gesù aveva anticipato. Nonostante la visione di luce del Tabor, i discepoli non saranno in grado di salire insieme a lui sull’altro monte che attende Gesù: il Calvario. “Tutti lo abbandonarono e fuggirono” (Mc 14,50), sottolinea l’evangelista all’inizio della passione di Gesù. I monti evocano la vicinanza a Dio; l’esperienza mistica di tanti “uomini di Dio” sarà segnata dalla solitudine e dall’altitudine.

L’ascesa di Abramo sul monte Mòira, descritta dalla prima lettura, esprime il dramma dell’uomo credente provato fino alle estreme conseguenze.

Non è a rischio la sua vita, la tragedia è lo scambio con la vita del figlio Isacco: “Prendi il tuo figlio, il tuo primogenito che ami e offrilo in olocausto” (Gen 22,2). Il testo descrive un cammino di ascesa simile al cammino di Gesù verso il Calvario. Ma chi è la vittima sacrificale? Chi è il carnefice? Nel dialogo con Dio, Abramo è sottoposto a una lacerazione indicibile tra l’amore per il figlio e la fede in Dio.

Il dramma è aggravato dalle domande di ID sacco, che diventano come una lama che fende il costato di Abramo: “Padre mio, ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” (v. 7).

La vera vittima sacrificale non è Isacco, ignaro di tutto fino all’ultimo, ma Abramo stesso. È lui che muore interiormente per l’atto che dovrà compiere. Ma la sua morte è l’inizio di una nuova vita, la sua e quella di suo figlio Isacco: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo figlio unigenito” (Gen 22,12). Dio risparmierà Isacco, il figlio della promessa, promessa fatta ad Abramo che verrà riconfermata con una voce dal cielo: “Io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza” (v. 17). 

Ma Dio non risparmierà il suo figlio Gesù, l’unigenito, l’amato. Egli “lo ha consegnato per tutti noi” (Rm 8,32). I due termini: l’unigenito e l’amato, identificano sia Isacco (Gen 22,2.12) che Gesù (Mc 1,11; 9,7), entrambi sono così chiamati da Dio. I Padri della Chiesa hanno visto in Isacco la figura di Cristo, il figlio innocente offerto in olocausto. Il monte Mòira sarà il luogo della conferma dell’alleanza, che porta Dio a giurare su se stesso, commosso dalla fede di Abramo (Gen 22,16; Eb 11,17). Il monte Calvario sarà il luogo della indissolubilità dell’alleanza, suggellata nel sangue del Figlio di Dio.

Il Tabor, che oggi saliamo, è la sintesi avanzata, che apre profeticamente la prospettiva della nuova condizione dell’umanità, che ha attraversato la grande tribolazione della vita. Elia e Mosè attestano il cammino dell’antica alleanza fino a Gesù, la Trasfigurazione mostra la novità della risurrezione e la nuova condizione dei credenti, cittadini della Gerusalemme celeste. Il cammino della nostra Quaresima è anche un’ascesa faticosa, a motivo del peso della nostra umanità segnata dal peccato; ma la Pasqua entrata nella nostra vita con il battesimo, e sostiene il cammino come il Cireneo ha sorretto la croce di Gesù.

Don Andrea Rossi

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Dal deserto di Giuda al monte Tabor in Galliea. Un percorso geografico che è anche un cammino interiore: dallo scendere agli “inferi” della nostra umanità, tentati dal Menzognero, alla contemplazione della gloria, destino ultimo di ogni credente. Gesù va da solo nel deserto e lì viene tentato; ma trova nell’abbandono al Padre, guidato dallo Spirito, la pace e la consolazione.

Letture di Domenica 28 febbraio 2021, seconda di Quaresima

Gesù ora sale “su un alto monte”, anche stavolta “in disparte”, ma non è da solo, porta con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e il testo sottolinea “loro soli” (9,2). Un riferimento che richiama la condizione di intimità che Gesù ricerca continuamente dopo l’incontro con le folle, e ogni qualvolta la folla vuole portarlo in trionfo (Mc 1,35.45). In questa occasione l’esperienza di intimità è vissuta insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, anzi possiamo dire che è “costruita” per loro. Infatti la Trasfigurazione può essere considerata l’esperienza “mistica” che rafforza la fede degli apostoli, dopo che Gesù aveva annunciato loro che il cammino verso Gerusalemme non sarebbe stata una marcia gloriosa. I miracoli, il successo, gli applausi sarebbero ben presto scomparsi per far posto a incomprensioni, rifiuti, fino alla morte in croce (Mc 8,31).

Ad aggravare la situazione sarà la previsione che ciò che sarebbe accaduto a lui avrebbe coinvolto anche i suoi seguaci: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Una prospettiva che i discepoli faranno fatica a comprendere; una logica che i cristiani di ogni tempo cercheranno sempre di escludere.

Il racconto della Trasfigurazione è narrato dall’evangelista Marco dopo l’annuncio della Passione. Il cammino verso Gerusalemme attesterà, passo dopo passo, quanto Gesù aveva anticipato. Nonostante la visione di luce del Tabor, i discepoli non saranno in grado di salire insieme a lui sull’altro monte che attende Gesù: il Calvario. “Tutti lo abbandonarono e fuggirono” (Mc 14,50), sottolinea l’evangelista all’inizio della passione di Gesù. I monti evocano la vicinanza a Dio; l’esperienza mistica di tanti “uomini di Dio” sarà segnata dalla solitudine e dall’altitudine.

L’ascesa di Abramo sul monte Mòira, descritta dalla prima lettura, esprime il dramma dell’uomo credente provato fino alle estreme conseguenze.

Non è a rischio la sua vita, la tragedia è lo scambio con la vita del figlio Isacco: “Prendi il tuo figlio, il tuo primogenito che ami e offrilo in olocausto” (Gen 22,2). Il testo descrive un cammino di ascesa simile al cammino di Gesù verso il Calvario. Ma chi è la vittima sacrificale? Chi è il carnefice? Nel dialogo con Dio, Abramo è sottoposto a una lacerazione indicibile tra l’amore per il figlio e la fede in Dio.

Il dramma è aggravato dalle domande di ID sacco, che diventano come una lama che fende il costato di Abramo: “Padre mio, ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” (v. 7).

La vera vittima sacrificale non è Isacco, ignaro di tutto fino all’ultimo, ma Abramo stesso. È lui che muore interiormente per l’atto che dovrà compiere. Ma la sua morte è l’inizio di una nuova vita, la sua e quella di suo figlio Isacco: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo figlio unigenito” (Gen 22,12). Dio risparmierà Isacco, il figlio della promessa, promessa fatta ad Abramo che verrà riconfermata con una voce dal cielo: “Io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza” (v. 17). 

Ma Dio non risparmierà il suo figlio Gesù, l’unigenito, l’amato. Egli “lo ha consegnato per tutti noi” (Rm 8,32). I due termini: l’unigenito e l’amato, identificano sia Isacco (Gen 22,2.12) che Gesù (Mc 1,11; 9,7), entrambi sono così chiamati da Dio. I Padri della Chiesa hanno visto in Isacco la figura di Cristo, il figlio innocente offerto in olocausto. Il monte Mòira sarà il luogo della conferma dell’alleanza, che porta Dio a giurare su se stesso, commosso dalla fede di Abramo (Gen 22,16; Eb 11,17). Il monte Calvario sarà il luogo della indissolubilità dell’alleanza, suggellata nel sangue del Figlio di Dio.

Il Tabor, che oggi saliamo, è la sintesi avanzata, che apre profeticamente la prospettiva della nuova condizione dell’umanità, che ha attraversato la grande tribolazione della vita. Elia e Mosè attestano il cammino dell’antica alleanza fino a Gesù, la Trasfigurazione mostra la novità della risurrezione e la nuova condizione dei credenti, cittadini della Gerusalemme celeste. Il cammino della nostra Quaresima è anche un’ascesa faticosa, a motivo del peso della nostra umanità segnata dal peccato; ma la Pasqua entrata nella nostra vita con il battesimo, e sostiene il cammino come il Cireneo ha sorretto la croce di Gesù.

Don Andrea Rossi

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Il Risorto mantiene le promesse https://www.lavoce.it/il-risorto-mantiene-le-promesse/ Fri, 29 May 2020 17:47:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57245 logo rubrica domande sulla liturgia

Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
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Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
La vera discepola e apostola https://www.lavoce.it/vera-discepola-apostola/ Fri, 13 Mar 2020 15:23:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56474 logo reubrica commento al Vangelo

Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Una perfezione senza confini https://www.lavoce.it/perfezione-senza-confini/ Fri, 21 Feb 2020 10:30:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56335 logo reubrica commento al Vangelo

L’anno liturgico, oltre a essere la celebrazione del Mistero pasquale manifestato nella Pasqua settimanale della domenica, è anche una lectio continua sulla Parola di Dio. Il Vangelo proclamato nella liturgia interpreta l’intera storia della salvezza, tramite un “esegeta” d’eccezione: Gesù Cristo, “colui che dà origine alla nostra fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). L’incontro domenicale si configura come una vera catechesi per la nostra vita, un percorso di grazia che in queste domeniche è particolarmente evidente.

"Siate perfetti..."

Il Discorso della montagna, iniziato con le Beatitudini, si conclude questa domenica con un’affermazione inaudita: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). È interessante cogliere il passaggio che Gesù ci propone: passare dalla prima Rivelazione, che ha dato origine alla prima Alleanza con il popolo d’Israele, alla seconda e definitiva Alleanza, di natura universale, che non cancella ma dà compimento.

Il Signore attua la sua pedagogia divina con una prossimità che non “violenta” la capacità di accogliere la Sua grandezza. Egli accompagna la comprensione della inaudita rivelazione del suo mistero a un popolo che si è scelto perché “il più piccolo”, attraverso profeti e mediatori, con gesti e parole comprensibili dentro quel contesto, in quel tempo, a quelle persone.

Quella che gli studiosi chiamano “economia della salvezza” è un vero cammino di comprensione di quel mistero descritto domenica scorsa nella seconda lettura: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate coloro che lo amano”.

Tale progressione della comprensione si esplicita proprio nella successione della storia fino alla pienezza raggiunta in Gesù Cristo, culmine della rivelazione. Ecco perché Gesù afferma: “Vi è stato detto… Ma io vi dico…”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Levitico 19,1-2.17-18

SALMO RESPONSORIALE Salmo 102 (103)

SECONDA LETTURA I Lettera di San Paolo ai Corinzi 3,16-23

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48

Figli dello stesso Padre

Queste domeniche, ascoltando questa parola, noi cogliamo l’essenziale della novità di Cristo. Se il “ma io vi dico” pone un limite a quanto proposto dalla “pedagogia divina” fino a Cristo, il successivo percorso non ha confini, né geografici né storici né tantomeno umani. Il riferimento è l’uomo nuovo Gesù Cristo, perché, come lui, apparteniamo allo stesso Padre (1Cor 3,21-23) e abbiamo la medesima meta: “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

La liturgia odierna orienta la comprensione di “perfezione” non in senso morale o, peggio, moralistico, ma di pienezza e di realizzazione del progetto di Dio, le cui radici le troviamo già nella legge di santità descritta nel libro del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio sono santo” (Lv 19,2), un testo quello del Levitico che ripresenta il Decalogo di Esodo 20, con ulteriori specificazioni e ad uso morale e cultuale.

Le antitesi della domenica precedente e di quella odierna evidenziano un parallelismo, e nello stesso tempo un superamento. “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

Giustizia umana e giustizia divina

Superare la giustizia umana-religiosa per abbracciare quella divina! Così si potrebbero sintetizzare le sei antitesi di queste due domeniche. L’orizzonte sconfinato della misericordia di Dio non cancella i presupposti di giustizia della Legge espressa nei Comandamenti, e potremmo dire che non si sostituisce nemmeno alle esigenze della giustizia civile, ma conferma la fiducia di Dio in un’umanità redenta, capace di riorientare la propria vita al bene.

L’immagine che portiamo impressa di Dio nel nostro cuore può essere concepita come il “Dna della santità” in noi, che il virus del peccato non può cancellare - a meno di una ferrea volontà orientata al male, che rifiuta ogni perdono. Per questo c’è speranza, e il Signore è il primo a fidarsi della sua creatura.

Iperboli d'amore

Le “iperboli” che Gesù usa sono il tentativo dialettico di farci comprendere il cuore del messaggio d’amore del Padre, esplicitato attraverso alcune narrazioni riassunte nelle parabole della misericordia: la pecora perduta (Lc 15,1-79), la dramma perduta (Lc 15,8-10) e, in particolare, il padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Un amore sconfinato che non ha più riferimenti geografici riferiti a un popolo, quello d’Israele, ma l’umanità intera, come ci ricorda la parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37).

Nessuno è straniero nella “patria della fede”, anzi, la fede ci spinge a riconoscere in ogni essere umano la scintilla di Dio, anche se non esplicitata nella professione della fede. Se apriamo gli occhi, scorgiamo uomini e donne “delle beatitudini”, che vivono le esigenze del Vangelo espresse nelle opere di misericordia, anche se si dicono non credenti.

Don Andrea Rossi

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L’anno liturgico, oltre a essere la celebrazione del Mistero pasquale manifestato nella Pasqua settimanale della domenica, è anche una lectio continua sulla Parola di Dio. Il Vangelo proclamato nella liturgia interpreta l’intera storia della salvezza, tramite un “esegeta” d’eccezione: Gesù Cristo, “colui che dà origine alla nostra fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). L’incontro domenicale si configura come una vera catechesi per la nostra vita, un percorso di grazia che in queste domeniche è particolarmente evidente.

"Siate perfetti..."

Il Discorso della montagna, iniziato con le Beatitudini, si conclude questa domenica con un’affermazione inaudita: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). È interessante cogliere il passaggio che Gesù ci propone: passare dalla prima Rivelazione, che ha dato origine alla prima Alleanza con il popolo d’Israele, alla seconda e definitiva Alleanza, di natura universale, che non cancella ma dà compimento.

Il Signore attua la sua pedagogia divina con una prossimità che non “violenta” la capacità di accogliere la Sua grandezza. Egli accompagna la comprensione della inaudita rivelazione del suo mistero a un popolo che si è scelto perché “il più piccolo”, attraverso profeti e mediatori, con gesti e parole comprensibili dentro quel contesto, in quel tempo, a quelle persone.

Quella che gli studiosi chiamano “economia della salvezza” è un vero cammino di comprensione di quel mistero descritto domenica scorsa nella seconda lettura: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate coloro che lo amano”.

Tale progressione della comprensione si esplicita proprio nella successione della storia fino alla pienezza raggiunta in Gesù Cristo, culmine della rivelazione. Ecco perché Gesù afferma: “Vi è stato detto… Ma io vi dico…”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Levitico 19,1-2.17-18

SALMO RESPONSORIALE Salmo 102 (103)

SECONDA LETTURA I Lettera di San Paolo ai Corinzi 3,16-23

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48

Figli dello stesso Padre

Queste domeniche, ascoltando questa parola, noi cogliamo l’essenziale della novità di Cristo. Se il “ma io vi dico” pone un limite a quanto proposto dalla “pedagogia divina” fino a Cristo, il successivo percorso non ha confini, né geografici né storici né tantomeno umani. Il riferimento è l’uomo nuovo Gesù Cristo, perché, come lui, apparteniamo allo stesso Padre (1Cor 3,21-23) e abbiamo la medesima meta: “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

La liturgia odierna orienta la comprensione di “perfezione” non in senso morale o, peggio, moralistico, ma di pienezza e di realizzazione del progetto di Dio, le cui radici le troviamo già nella legge di santità descritta nel libro del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio sono santo” (Lv 19,2), un testo quello del Levitico che ripresenta il Decalogo di Esodo 20, con ulteriori specificazioni e ad uso morale e cultuale.

Le antitesi della domenica precedente e di quella odierna evidenziano un parallelismo, e nello stesso tempo un superamento. “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

Giustizia umana e giustizia divina

Superare la giustizia umana-religiosa per abbracciare quella divina! Così si potrebbero sintetizzare le sei antitesi di queste due domeniche. L’orizzonte sconfinato della misericordia di Dio non cancella i presupposti di giustizia della Legge espressa nei Comandamenti, e potremmo dire che non si sostituisce nemmeno alle esigenze della giustizia civile, ma conferma la fiducia di Dio in un’umanità redenta, capace di riorientare la propria vita al bene.

L’immagine che portiamo impressa di Dio nel nostro cuore può essere concepita come il “Dna della santità” in noi, che il virus del peccato non può cancellare - a meno di una ferrea volontà orientata al male, che rifiuta ogni perdono. Per questo c’è speranza, e il Signore è il primo a fidarsi della sua creatura.

Iperboli d'amore

Le “iperboli” che Gesù usa sono il tentativo dialettico di farci comprendere il cuore del messaggio d’amore del Padre, esplicitato attraverso alcune narrazioni riassunte nelle parabole della misericordia: la pecora perduta (Lc 15,1-79), la dramma perduta (Lc 15,8-10) e, in particolare, il padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Un amore sconfinato che non ha più riferimenti geografici riferiti a un popolo, quello d’Israele, ma l’umanità intera, come ci ricorda la parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37).

Nessuno è straniero nella “patria della fede”, anzi, la fede ci spinge a riconoscere in ogni essere umano la scintilla di Dio, anche se non esplicitata nella professione della fede. Se apriamo gli occhi, scorgiamo uomini e donne “delle beatitudini”, che vivono le esigenze del Vangelo espresse nelle opere di misericordia, anche se si dicono non credenti.

Don Andrea Rossi

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Maestro della nuova sapienza https://www.lavoce.it/maestro-nuova-sapienza/ Thu, 13 Feb 2020 17:21:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56284 logo reubrica commento al Vangelo

Queste domeniche il Vangelo ci ha preso per mano accompagnandoci sul “monte delle Beatitudini”, probabilmente una collina in prossimità di Cafarnao, dalla quale Gesù, secondo la versione di Matteo, presenta il suo discorso programmatico. Il capitolo 5 è introdotto dalle Beatitudini. Gli esegeti attestano che Gesù si presenta come il “nuovo legislatore”, in riferimento a Mosè che riceve le “dieci parole” sul monte Sinai.

La nuova legge

In queste domeniche l’evangelista Matteo compone una stupenda sintesi del rapporto tra la nuova legge, che permea il Regno inaugurato da Gesù, e la legge che segna la prima rivelazione di un Dio che è venuto a dialogare con l’uomo.

Tre termini: Dio, l’uomo, la legge. Intorno a questi tre concetti ruota la riflessone che ci propone la Parola di Dio questa settimana e la prossima. In questa domenica il Vangelo ci mostra il rapporto tra Gesù e la legge data a Mosè. Alcuni interrogativi sottointesi sono alla base delle parole di Gesù (Mt 5,17-25) che introducono una serie di antitesi, che approfondiremo la domenica successiva.

La legge data a Mosè è superata con la novità di Gesù? Cosa aggiunge la sua presenza alla tradizione ebraica? Quale è il valore della legge mosaica dopo la venuta di Gesù? Questi interrogativi erano al centro del dibattito tra farisei, dottori della Legge, rabbini, ma anche nelle prime comunità cristiane, tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal mondo pagano.

La legge di Dio non segue la logica umana

Ma non è forse anche un dibattito aperto nella Chiesa di oggi, che si contrappone di fronte all’interpretazione del Concilio Vaticano II? E si contrappone di fronte al percorso avviato da Papa Francesco? Dio e la sua legge è un binomio che non segue la logica umana sovrano sudditi- obbedienza / disobbedienza- premio / reato-pena.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 15,15-20, NV 15,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 118 (119)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di san Paolo ai Corinzi 2,6-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,17-37

Il “se vuoi” introduce la prima lettura ( Sir15,15), con un approccio liberante per l’uomo. Di fronte alla fedeltà di Dio a se stesso e al suo progetto relazionale, l’umanità è posta di fronte a una scelta: “il fuoco e l’acqua, la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Sir 15,16-17).

Molto spesso immaginiamo un Dio giudice che controlla la nostra vita, un ispettore di polizia o un pubblico ministero che procede a indagini accusatorie, infliggendo una pena senza possibilità di appello. Invece scopriamo un Dio che fin dall’Antico Testamento “propone ma non dispone”, che ha gli occhi su coloro che lo riconoscono facendosi piccoli (Sir 15,19).

Un amore libero e liberante

La Sua libertà però non è indifferente, Egli si rivela perché l’uomo conosca la bellezza del suo sguardo e del suo volere; non mette sullo stesso piano il bene e il male, né tantomeno indica la via del male. Il suo amore, proprio perché libero, è anche liberante, per questo è impegnativo. Non ama per il bisogno di essere riamato, ma ama e basta. Per questo il rifiuto non ha come conseguenza la pena, ma la ricerca costante e fantasiosa - da parte di Dio - di nuovi appostamenti ai crocevia della vita dell’uomo.

La beatitudine descritta nel Salmo (119,1-2) non si trasforma in maledizione per chi non accetta il Suo insegnamento, ma fa disvelare pienamente la bellezza della Sua proposta. Dio non attende la richiesta del salmista, che chiede l’apertura dei nostri occhi sulla bellezza della Sua legge (Sal 119,17-18), ma ci offre gli strumenti necessari per camminare sulle Sue vie. Perché allora alcune volte si sceglie una via diversa e ci si ritrova nel fango della vita?

La sapienza della croce

Può aiutarci, in questo, san Paolo nella seconda lettura, quando ci parla di una sapienza misteriosa, che non è di questo mondo ma divina (1Cor 2,8), e ci fa comprendere quelle cose “che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo”, quelle cose che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

È quella sapientia crucis che si apprende dal magistero della vita, permeato dall’amore motivato dalla fede, capace di scrutare le profondità del Mistero pasquale che illumina anche la “notte oscura”. Questa sapienza non è accessibile ai “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,6), ma è rivelata a quanti hanno accolto il Vangelo delle beatitudini senza preclusioni, a quanti si lasciano plasmare dalla novità di Cristo, crocifisso e risorto.

Questa sapienza, frutto dello Spirito, compone in una stupenda continuità l’antico e il nuovo, collocando la legge di Mosè a fondamento di un’umanità in cammino, che trova la sintesi nel comandamento dell’amore. Si comprende che Dio non lo puoi imprigionare dentro la norma, perché è Lui che la interpreta, e la rende piena in ogni tempo, affinché lo Spirito che guida la Chiesa e i suoi Pastori la interpretino sapientemente per l’umanità di ogni tempo.

Don Andrea Rossi

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Queste domeniche il Vangelo ci ha preso per mano accompagnandoci sul “monte delle Beatitudini”, probabilmente una collina in prossimità di Cafarnao, dalla quale Gesù, secondo la versione di Matteo, presenta il suo discorso programmatico. Il capitolo 5 è introdotto dalle Beatitudini. Gli esegeti attestano che Gesù si presenta come il “nuovo legislatore”, in riferimento a Mosè che riceve le “dieci parole” sul monte Sinai.

La nuova legge

In queste domeniche l’evangelista Matteo compone una stupenda sintesi del rapporto tra la nuova legge, che permea il Regno inaugurato da Gesù, e la legge che segna la prima rivelazione di un Dio che è venuto a dialogare con l’uomo.

Tre termini: Dio, l’uomo, la legge. Intorno a questi tre concetti ruota la riflessone che ci propone la Parola di Dio questa settimana e la prossima. In questa domenica il Vangelo ci mostra il rapporto tra Gesù e la legge data a Mosè. Alcuni interrogativi sottointesi sono alla base delle parole di Gesù (Mt 5,17-25) che introducono una serie di antitesi, che approfondiremo la domenica successiva.

La legge data a Mosè è superata con la novità di Gesù? Cosa aggiunge la sua presenza alla tradizione ebraica? Quale è il valore della legge mosaica dopo la venuta di Gesù? Questi interrogativi erano al centro del dibattito tra farisei, dottori della Legge, rabbini, ma anche nelle prime comunità cristiane, tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal mondo pagano.

La legge di Dio non segue la logica umana

Ma non è forse anche un dibattito aperto nella Chiesa di oggi, che si contrappone di fronte all’interpretazione del Concilio Vaticano II? E si contrappone di fronte al percorso avviato da Papa Francesco? Dio e la sua legge è un binomio che non segue la logica umana sovrano sudditi- obbedienza / disobbedienza- premio / reato-pena.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 15,15-20, NV 15,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 118 (119)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di san Paolo ai Corinzi 2,6-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,17-37

Il “se vuoi” introduce la prima lettura ( Sir15,15), con un approccio liberante per l’uomo. Di fronte alla fedeltà di Dio a se stesso e al suo progetto relazionale, l’umanità è posta di fronte a una scelta: “il fuoco e l’acqua, la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Sir 15,16-17).

Molto spesso immaginiamo un Dio giudice che controlla la nostra vita, un ispettore di polizia o un pubblico ministero che procede a indagini accusatorie, infliggendo una pena senza possibilità di appello. Invece scopriamo un Dio che fin dall’Antico Testamento “propone ma non dispone”, che ha gli occhi su coloro che lo riconoscono facendosi piccoli (Sir 15,19).

Un amore libero e liberante

La Sua libertà però non è indifferente, Egli si rivela perché l’uomo conosca la bellezza del suo sguardo e del suo volere; non mette sullo stesso piano il bene e il male, né tantomeno indica la via del male. Il suo amore, proprio perché libero, è anche liberante, per questo è impegnativo. Non ama per il bisogno di essere riamato, ma ama e basta. Per questo il rifiuto non ha come conseguenza la pena, ma la ricerca costante e fantasiosa - da parte di Dio - di nuovi appostamenti ai crocevia della vita dell’uomo.

La beatitudine descritta nel Salmo (119,1-2) non si trasforma in maledizione per chi non accetta il Suo insegnamento, ma fa disvelare pienamente la bellezza della Sua proposta. Dio non attende la richiesta del salmista, che chiede l’apertura dei nostri occhi sulla bellezza della Sua legge (Sal 119,17-18), ma ci offre gli strumenti necessari per camminare sulle Sue vie. Perché allora alcune volte si sceglie una via diversa e ci si ritrova nel fango della vita?

La sapienza della croce

Può aiutarci, in questo, san Paolo nella seconda lettura, quando ci parla di una sapienza misteriosa, che non è di questo mondo ma divina (1Cor 2,8), e ci fa comprendere quelle cose “che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo”, quelle cose che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

È quella sapientia crucis che si apprende dal magistero della vita, permeato dall’amore motivato dalla fede, capace di scrutare le profondità del Mistero pasquale che illumina anche la “notte oscura”. Questa sapienza non è accessibile ai “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,6), ma è rivelata a quanti hanno accolto il Vangelo delle beatitudini senza preclusioni, a quanti si lasciano plasmare dalla novità di Cristo, crocifisso e risorto.

Questa sapienza, frutto dello Spirito, compone in una stupenda continuità l’antico e il nuovo, collocando la legge di Mosè a fondamento di un’umanità in cammino, che trova la sintesi nel comandamento dell’amore. Si comprende che Dio non lo puoi imprigionare dentro la norma, perché è Lui che la interpreta, e la rende piena in ogni tempo, affinché lo Spirito che guida la Chiesa e i suoi Pastori la interpretino sapientemente per l’umanità di ogni tempo.

Don Andrea Rossi

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Sale che fa gustare Cristo https://www.lavoce.it/sale-gustare-cristo/ Fri, 07 Feb 2020 10:22:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56225 logo reubrica commento al Vangelo

La luce sembra essere il tema dominante anche di questa prima parte del Tempo ordinario. Il vecchio Simeone la contemplava nel bambino Gesù presentato al tempio, mentre lo offriva a noi. Il tempo di Natale, come una cometa, ha accompagnato la nostra vita di credenti. Questa luce non è un entità astratta, è “Cristo luce del mondo”, come ci ricorda il sacro ministro che apre la grande Veglia pasquale.

Gesù è la luce

Il Vangelo di questa domenica è introdotto dal versetto dell’alleluia: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Questa autorivelazione di Gesù, come ci ricorda il Vangelo di questa domenica, è trasmessa a coloro che lo seguono: “Voi siete la luce del mondo” (Lc 5,14). Una trasmissione che avviene per contatto.

È ancora la Veglia pasquale a rappresentare visibilmente questo passaggio, quando il ministro si ferma nel buio della chiesa e lascia accendere le candele dei fedeli. Il Cristo “Luce da Luce” è Luce per le genti, che partecipano della medesima luce per essere luce del mondo e per il mondo. È compito della luce illuminare, per questo è posta in alto e non viene coperta da un recipiente rovesciato (moggio) per impedirle di fare luce (Lc 5,15).

La similitudine con la città posta sul monte rende ancora più evidente il ruolo di guida e di attrazione verso l’alto. Non è un paradosso questa immagine dei cristiani così descritti da questo Vangelo?

Questo protagonismo non si contrappone all’umiltà e mitezza propostaci da Gesù? Sì, lo diventa ogni volta che leggiamo le parole isolandole dalla Parola, che è Gesù Cristo, dal suo volto tracciato dal Vangelo delle Beatitudini e dalla totalità del Mistero pasquale espresso nel Triduo santo e annunciato nel giorno dell’Epifania: “Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto”. Se l’immagine della luce e della città alta sul monte rivela la necessità della testimonianza, l’immagine del sale esprime la modalità di essere testimoni.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 58,7-10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 111 (112)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 2,1-5

VANGELO Dal Vangelo di Matteo 5,13-16

Sale della terra

Quale è il sale che non perde sapore, che non diventa insipido (Lc 5,13)? Quello che fa il sale: sciogliersi per dare sapore, lasciarsi assorbire per far risaltare il sapore dei cibi. Se il sale si fa “superbo” pensando di essere lui il sapore, viene gettato via insieme ai cibi divenuti immangiabili. Oppure, se non si lascia sciogliere, rimane inutilizzato e, ormai vecchio, non sarà più capace di dare sapore, ha perso la sua sapidità e quindi verrà gettato via.

Il Vangelo di questa domenica in pochi versetti e con alcune immagini ci mette al riparo da ogni parziale interpretazione sull’identità del credente: si è luce solo passando attraverso la capacità di perdere se stessi (sale), perché si vedano le opere buone, rese possibili dalla macerazione del nostro egoismo (Lc 5,16).

Il Vangelo ci spinge ancora oltre: le buone opere sono possibili perché il nostro “spossessarci” rende possibile la dimora di Cristo in noi, unico Signore ai cui rendere gloria. Ne è ben consapevole Paolo, che nell’annunciare il mistero di Dio non si appoggiò alle sue doti umane (1Cor2, 1-2) ma il suo annuncio fu una sola cosa con il Signore Gesù: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Se il Vangelo delle beatitudini, mirabilmente sintetizzato in questa domenica, si legge in sovrapposizione al Vangelo delle opere di misericordia (Mt 25,3148) e declinato nella concretezza della prima lettura (Is 58,7-10), allora la luce sorgerà come l’aurora: solo tali gesti brilleranno nelle tenebre, non la nostra voce che proclama.

Annuncio e testimonianza

Il Vangelo è una persona, la voce è un annuncio, ma la vita è la Parola. Gesti e parole intimamente connessi (Dei Verbum, n. 2) sono la sintesi che rende credibile la nuova evangelizzazione, o meglio l’evangelizzazione di sempre, così come ci ricorda san Paolo VI nella Evangelii nuntiandi al n. 41: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

Non si può separare l’annuncio dalla testimonianza, e quest’ultima passa quasi sempre dal Venerdì santo della vita. Non esistono “scorciatoie” per contemplare il mattino di Pasqua, che nella sua bellezza mostra anche le ferite del Venerdì santo. Questo è il Mistero pasquale da annunciare; e se diviene criterio di lettura della nostra vita, abbiamo la certezza che ogni Venerdì santo avrà il suo mattino di Pasqua.

Solo il nostro egoismo prolungherebbe la notte del dolore senza un’aurora di salvezza.

Don Andrea Rossi

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La luce sembra essere il tema dominante anche di questa prima parte del Tempo ordinario. Il vecchio Simeone la contemplava nel bambino Gesù presentato al tempio, mentre lo offriva a noi. Il tempo di Natale, come una cometa, ha accompagnato la nostra vita di credenti. Questa luce non è un entità astratta, è “Cristo luce del mondo”, come ci ricorda il sacro ministro che apre la grande Veglia pasquale.

Gesù è la luce

Il Vangelo di questa domenica è introdotto dal versetto dell’alleluia: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Questa autorivelazione di Gesù, come ci ricorda il Vangelo di questa domenica, è trasmessa a coloro che lo seguono: “Voi siete la luce del mondo” (Lc 5,14). Una trasmissione che avviene per contatto.

È ancora la Veglia pasquale a rappresentare visibilmente questo passaggio, quando il ministro si ferma nel buio della chiesa e lascia accendere le candele dei fedeli. Il Cristo “Luce da Luce” è Luce per le genti, che partecipano della medesima luce per essere luce del mondo e per il mondo. È compito della luce illuminare, per questo è posta in alto e non viene coperta da un recipiente rovesciato (moggio) per impedirle di fare luce (Lc 5,15).

La similitudine con la città posta sul monte rende ancora più evidente il ruolo di guida e di attrazione verso l’alto. Non è un paradosso questa immagine dei cristiani così descritti da questo Vangelo?

Questo protagonismo non si contrappone all’umiltà e mitezza propostaci da Gesù? Sì, lo diventa ogni volta che leggiamo le parole isolandole dalla Parola, che è Gesù Cristo, dal suo volto tracciato dal Vangelo delle Beatitudini e dalla totalità del Mistero pasquale espresso nel Triduo santo e annunciato nel giorno dell’Epifania: “Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto”. Se l’immagine della luce e della città alta sul monte rivela la necessità della testimonianza, l’immagine del sale esprime la modalità di essere testimoni.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 58,7-10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 111 (112)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 2,1-5

VANGELO Dal Vangelo di Matteo 5,13-16

Sale della terra

Quale è il sale che non perde sapore, che non diventa insipido (Lc 5,13)? Quello che fa il sale: sciogliersi per dare sapore, lasciarsi assorbire per far risaltare il sapore dei cibi. Se il sale si fa “superbo” pensando di essere lui il sapore, viene gettato via insieme ai cibi divenuti immangiabili. Oppure, se non si lascia sciogliere, rimane inutilizzato e, ormai vecchio, non sarà più capace di dare sapore, ha perso la sua sapidità e quindi verrà gettato via.

Il Vangelo di questa domenica in pochi versetti e con alcune immagini ci mette al riparo da ogni parziale interpretazione sull’identità del credente: si è luce solo passando attraverso la capacità di perdere se stessi (sale), perché si vedano le opere buone, rese possibili dalla macerazione del nostro egoismo (Lc 5,16).

Il Vangelo ci spinge ancora oltre: le buone opere sono possibili perché il nostro “spossessarci” rende possibile la dimora di Cristo in noi, unico Signore ai cui rendere gloria. Ne è ben consapevole Paolo, che nell’annunciare il mistero di Dio non si appoggiò alle sue doti umane (1Cor2, 1-2) ma il suo annuncio fu una sola cosa con il Signore Gesù: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Se il Vangelo delle beatitudini, mirabilmente sintetizzato in questa domenica, si legge in sovrapposizione al Vangelo delle opere di misericordia (Mt 25,3148) e declinato nella concretezza della prima lettura (Is 58,7-10), allora la luce sorgerà come l’aurora: solo tali gesti brilleranno nelle tenebre, non la nostra voce che proclama.

Annuncio e testimonianza

Il Vangelo è una persona, la voce è un annuncio, ma la vita è la Parola. Gesti e parole intimamente connessi (Dei Verbum, n. 2) sono la sintesi che rende credibile la nuova evangelizzazione, o meglio l’evangelizzazione di sempre, così come ci ricorda san Paolo VI nella Evangelii nuntiandi al n. 41: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

Non si può separare l’annuncio dalla testimonianza, e quest’ultima passa quasi sempre dal Venerdì santo della vita. Non esistono “scorciatoie” per contemplare il mattino di Pasqua, che nella sua bellezza mostra anche le ferite del Venerdì santo. Questo è il Mistero pasquale da annunciare; e se diviene criterio di lettura della nostra vita, abbiamo la certezza che ogni Venerdì santo avrà il suo mattino di Pasqua.

Solo il nostro egoismo prolungherebbe la notte del dolore senza un’aurora di salvezza.

Don Andrea Rossi

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Il vero culto portato da Cristo https://www.lavoce.it/vero-culto-cristo/ Fri, 31 Jan 2020 12:29:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56172 logo reubrica commento al Vangelo

La celebrazione di questa domenica (Presentazione del Signore al tempio) interrompe il ciclo ordinario delle letture, ma non distoglie dal percorso avviato domenica scorsa. I temi dell’introduzione del Messia nella storia concreta di Israele, che Giovanni Battista attesta, non sono infatti lontani dall’icona biblica presentata questa settimana.

Due figure profetiche, Simeone e Anna, attestano la “realtà” del Bambino e la sua missione. Il vecchio Simeone, “uomo giusto e pio”, attendeva “la consolazione d’Israele” (Lc 2,25); lui e la profetessa Anna, quasi una intera vita consacrata alla preghiera e alla penitenza (v. 37), hanno il privilegio di contemplare “la consolazione d’Israele” e “il vero culto gradito a Dio”. L’indicazione geografica del Tempio, luogo della presenza dello Spirito di Dio, ora, per un attimo, è abitato anche dal Cristo Signore, atteso Consolatore d’Israele e sua gloria, e “luce per illuminare le genti” (v. 32).

Il Cantico di Simeone

Simeone e Anna appaiono come i custodi della sapienza d’Israele e nello stesso tempo i custodi della speranza, certi della realizzazione delle promesse di Dio. La loro fede è premiata con la possibilità di vedere ciò che attendevano; come Giovanni Battista, possono indicare a Israele e al mondo il “Dio con noi” e per noi. Al cuore del testo biblico di questa domenica giganteggia il cantico di Simeone, anticipato dal gesto benedicente con il Bambino in braccio. Il Nunc dimittis, così come il Magnificat e ilBenedictus, eleva a inno i sentimenti personali dei personaggi sulla cui bocca è posto, e nello stesso tempo si fanno voce di un intero popolo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Malachia 3,1-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23 (24)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli Ebrei 2,14-18

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 2,22-32

 

L’ingresso nel tempio di Gerusalemme del Cristo Signore, anche se può identificarsi con una sorta di “presa di possesso”, è ben lontano dalle processioni trionfali di coloro che hanno vinto la loro battaglia con gli eserciti. È ancora lontano anche dal compimento, cantato in un inno inserito nell’Apocalisse : “Alleluja, ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente” (19,6-8).

Da parte sua, il profeta Malachia solennizza il gesto della Sacra Famiglia che entra nel tempio (Ml 3,1) attribuendo a quel Bambino, entrato mestamente tra le braccia dei genitori, una potenza che incute rispetto e paura: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?” (v. 2).

La sua azione purificatrice ha uno scopo ben definito,discernere, vagliare e setacciare i puri di cuore, perché solo la loro offerta sarà gradita (v. 3). Solo coloro che non “inciamperanno” sullo scandalo di un Dio onnipotente che si fa Servo sofferente, e accetteranno la stoltezza di un Dio che decide di essere sconfitto salendo su una croce (1Cor 1,23), celebreranno il vero culto. Il profeta Malachia, in sintonia con gli altri Profeti, chiamerà profanatori coloro che elevano culto a Dio ma dimenticandosi dell’uomo ridotto in miseria. Quale è il vero culto?

Il vero culto

Gli incensi, i noviluni, moltiplicare le preghiere? Con lo stesso tono di Malachia, il profeta Isaia indica una precondizione: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (1,16-17).

I “piccoli di Dio” intonano il Salmo di questa domenica e alzano le porte per agevolare l’ingresso del loro Signore, riconoscendolo al di là di ogni umana attesa. Tutti costoro sono passati attraverso la spada che divide la verità dalla menzogna e che trafiggerà anche Maria, come profetizza Simeone, prefigurando il dolore della madre (Lc 2,35).

Un martirio interiore che costringe all’uscita da se stessi, per permettere l’ingresso di Cristo Signore; che può significare, alcune volte, anche il sangue versato. Un corpo donato e un sangue versato sono il paradigma di ogni vero culto, un unico sacrificio con quello di Cristo, che il Padre accoglie.

Testimoni della vittoria di Cristo

In altre parole: ogni volta che “ci mettiamo la faccia” pagando di persona, attestiamo la verità del sacrificio di Cristo e testimoniamo la sua vittoria sulla morte. Proprio perché Lui l’ha fatto prima di noi, “prendendosi cura non degli angeli” ma di noi, come attesta la seconda lettura, abbiamo la forza di farci suoi imitatori; e ogni volta che ci dimentichiamo di noi stessi per amore, stendiamo un tappeto d’onore al suo venire continuamente nella storia.

Allora la sua venuta sarà veramente trionfale, ma con l’incedere dell’Agnello immolato, che ha vinto il peccato e la morte e continuerà ad essere vittorioso ogni giorno, nella liturgia quotidiana della vita.

Don Andrea Rossi

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La celebrazione di questa domenica (Presentazione del Signore al tempio) interrompe il ciclo ordinario delle letture, ma non distoglie dal percorso avviato domenica scorsa. I temi dell’introduzione del Messia nella storia concreta di Israele, che Giovanni Battista attesta, non sono infatti lontani dall’icona biblica presentata questa settimana.

Due figure profetiche, Simeone e Anna, attestano la “realtà” del Bambino e la sua missione. Il vecchio Simeone, “uomo giusto e pio”, attendeva “la consolazione d’Israele” (Lc 2,25); lui e la profetessa Anna, quasi una intera vita consacrata alla preghiera e alla penitenza (v. 37), hanno il privilegio di contemplare “la consolazione d’Israele” e “il vero culto gradito a Dio”. L’indicazione geografica del Tempio, luogo della presenza dello Spirito di Dio, ora, per un attimo, è abitato anche dal Cristo Signore, atteso Consolatore d’Israele e sua gloria, e “luce per illuminare le genti” (v. 32).

Il Cantico di Simeone

Simeone e Anna appaiono come i custodi della sapienza d’Israele e nello stesso tempo i custodi della speranza, certi della realizzazione delle promesse di Dio. La loro fede è premiata con la possibilità di vedere ciò che attendevano; come Giovanni Battista, possono indicare a Israele e al mondo il “Dio con noi” e per noi. Al cuore del testo biblico di questa domenica giganteggia il cantico di Simeone, anticipato dal gesto benedicente con il Bambino in braccio. Il Nunc dimittis, così come il Magnificat e ilBenedictus, eleva a inno i sentimenti personali dei personaggi sulla cui bocca è posto, e nello stesso tempo si fanno voce di un intero popolo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Malachia 3,1-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23 (24)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli Ebrei 2,14-18

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 2,22-32

 

L’ingresso nel tempio di Gerusalemme del Cristo Signore, anche se può identificarsi con una sorta di “presa di possesso”, è ben lontano dalle processioni trionfali di coloro che hanno vinto la loro battaglia con gli eserciti. È ancora lontano anche dal compimento, cantato in un inno inserito nell’Apocalisse : “Alleluja, ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente” (19,6-8).

Da parte sua, il profeta Malachia solennizza il gesto della Sacra Famiglia che entra nel tempio (Ml 3,1) attribuendo a quel Bambino, entrato mestamente tra le braccia dei genitori, una potenza che incute rispetto e paura: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?” (v. 2).

La sua azione purificatrice ha uno scopo ben definito,discernere, vagliare e setacciare i puri di cuore, perché solo la loro offerta sarà gradita (v. 3). Solo coloro che non “inciamperanno” sullo scandalo di un Dio onnipotente che si fa Servo sofferente, e accetteranno la stoltezza di un Dio che decide di essere sconfitto salendo su una croce (1Cor 1,23), celebreranno il vero culto. Il profeta Malachia, in sintonia con gli altri Profeti, chiamerà profanatori coloro che elevano culto a Dio ma dimenticandosi dell’uomo ridotto in miseria. Quale è il vero culto?

Il vero culto

Gli incensi, i noviluni, moltiplicare le preghiere? Con lo stesso tono di Malachia, il profeta Isaia indica una precondizione: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (1,16-17).

I “piccoli di Dio” intonano il Salmo di questa domenica e alzano le porte per agevolare l’ingresso del loro Signore, riconoscendolo al di là di ogni umana attesa. Tutti costoro sono passati attraverso la spada che divide la verità dalla menzogna e che trafiggerà anche Maria, come profetizza Simeone, prefigurando il dolore della madre (Lc 2,35).

Un martirio interiore che costringe all’uscita da se stessi, per permettere l’ingresso di Cristo Signore; che può significare, alcune volte, anche il sangue versato. Un corpo donato e un sangue versato sono il paradigma di ogni vero culto, un unico sacrificio con quello di Cristo, che il Padre accoglie.

Testimoni della vittoria di Cristo

In altre parole: ogni volta che “ci mettiamo la faccia” pagando di persona, attestiamo la verità del sacrificio di Cristo e testimoniamo la sua vittoria sulla morte. Proprio perché Lui l’ha fatto prima di noi, “prendendosi cura non degli angeli” ma di noi, come attesta la seconda lettura, abbiamo la forza di farci suoi imitatori; e ogni volta che ci dimentichiamo di noi stessi per amore, stendiamo un tappeto d’onore al suo venire continuamente nella storia.

Allora la sua venuta sarà veramente trionfale, ma con l’incedere dell’Agnello immolato, che ha vinto il peccato e la morte e continuerà ad essere vittorioso ogni giorno, nella liturgia quotidiana della vita.

Don Andrea Rossi

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Dalla periferia, la Salvezza https://www.lavoce.it/dalla-periferia-salvezza/ Fri, 24 Jan 2020 08:03:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56081 logo reubrica commento al Vangelo

La terza domenica del tempo ordinario segna il definitivo passaggio dalla profezia sul Regno alla realizzazione del Regno. Un tempo nuovo inizia: “Inizio della buona notizia (Evangelo) che è Gesù Cristo (Mc 1,1), questa buona novella può essere finalmente ascoltata dalla bocca stessa di Colui che è la Parola fatta carne. Questo passo parallelo dell’Evangelista Marco può fare da introduzione a questa domenica: Gesù Cristo è il Regno (Lc 17,21), questa è la vera buona notizia. Dopo il battesimo di Gesù e il compimento della missione profetica di Giovanni, “l’avvento” lascia il posto alla presenza della Parola incarnata che si fa Parola salvifica e sanante. Con L’uscita di scena gioiosa di Giovanni, amico dello sposo, (Gv 3,29-30) si apre la strada alla gioia del “popolo che abitava nelle tenebre”, la luce che è Cristo viene ad illuminare coloro che “abitavano in regione di morte” (Mt 4,16). È interessante cogliere l’indicazione temporale con cui inizia il Vangelo di questa settimana: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea”(Mt 4,12), perché sembra esprimere un certo atteggiamento rinunciatario da parte di Gesù motivato dal dolore per l’amico, ma in realtà sta germogliando il “Virgulto del tronco di Iesse” (Is 11,1) che spunta dalla dalla morte del chicco di grano, (Gv 12,24) macerato dalla testimonianza alla Verità. Non si può tralasciare nemmeno il riferimento geografico: il suo ritorno in Galilea, a Nazareth; non per sostare ma per ripartire ancora verso nord, verso la sua nuova dimora: Cafarnao. L’orizzonte della salvezza si sposta dai luoghi celebrati e cantati dai sacri testi, Gerusalemme e Betlemme, alla “via del mare, al di là del Giordano” (Mt 4,15), perché si adempisse la profezia di Isaia descritta al capitolo 9, un testo che abbiamo ascoltato per intero nella notte di Natale. La via del mare è illuminata dalla luce del Messia, un territorio sconosciuto, considerato al tempo di Gesù bisognoso di purificazione, perché “infestato” dalla promiscuità con altri popoli.  La terra di Zabulon e di Neftali, soggetta a continue invasioni e passaggio di popoli perché terra di confine, di periferia, non solo geograficamente, ma anche lontana dal cuore della fede d’Israele. A Nazareth, luogo “malfamato” e insignificante, come descritto da Natanaele (Gv 1,46) non giungono le melodie dei salmi cantati nel tempio di Gerusalemme, tantomeno raggiungono la città di Cafarnao, la cui melodia si compone delle voci del “compra e vendi” del commercio. Eppure Gesù sceglie come luogo delle sua residenza la città sul Mare di Galilea, anche se il suo domicilio risulterà sconosciuto a motivo del suo continuo peregrinare, senza la certezze di dove posare il capo (Lc 9,58). Un territorio che ci ricorda  Isaia “il Signore ha umiliato nel passato” (Is 8,23) ma ora renderà glorioso. Non sarà la liturgia del tempio di Gerusalemme a santificare quella terra, ma la presenza stessa di Colui che perennemente celebra il culto in Spirito e Verità. Non sarà nemmeno la memoria di antichi re come Davide di Betlemme, figure del Messia a garantire la traditio delle fede d’Israele, ma il “contaminarsi” con i peccatori e i pagani del Figlio di Dio, che porterà a compimento la storia della salvezza preannunciata dai profeti. La terra dei gentili diviene il luogo privilegiato da Dio, non solo per l’inizio dell’annuncio della buona notizia della venuta del Messia, ma lo diventa anche per la missione della Chiesa. Il Signore risorto attende i suoi in Galilea per essere inviati in tutto il mondo; il luogo della “ferialità” diviene il luogo della rivelazione del mistero della salvezza, dove la fede rende possibile i miracoli, dove la fede è accolta da cuori non incrostati da “superfetazioni teologiche” che rischiano di separare Dio dall’uomo. È qui, nella ferialità, luogo della vita quotidiana, che la risposta di fede all’incontro con il risorto, si trasforma nell’eccomi delle scelte della vita. Nelle “incursioni” del Risorto nella vita quotidiana dell’uomo, si celebra l’incontro d’amore di chi si è fatto dono e quando trova un cuore assetato d’amore e di giustizia, questo incontro genera un dinamismo che spinge al dono di sé. Solo un cuore semplice, non sopraffatto dagli egoismi, del potere, dei soldi, della sessualità smodata, consente di giocare la propria libertà investendola nel protagonismo della vita. Se l’alveo della risposta ad una chiamata all’amore che si fa dono, è il luogo della vita quotidiana e il contesto della ferialità, allora l’appello vocazionale non riguarda solo il singolo, ma le nostre stesse comunità affinché diventino grembo fecondo di umanità. Un importante insegnamento per le nostre comunità forse troppo assetate di preti e di culto, ma meno disposte a lasciarsi convertire da ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese. È una comunità credente e credibile che è capace di generare vocazioni all’amore e quindi anche al sacerdozio, non è un prete in più che che può cambiare il contesto.

Don Andrea Rossi

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La terza domenica del tempo ordinario segna il definitivo passaggio dalla profezia sul Regno alla realizzazione del Regno. Un tempo nuovo inizia: “Inizio della buona notizia (Evangelo) che è Gesù Cristo (Mc 1,1), questa buona novella può essere finalmente ascoltata dalla bocca stessa di Colui che è la Parola fatta carne. Questo passo parallelo dell’Evangelista Marco può fare da introduzione a questa domenica: Gesù Cristo è il Regno (Lc 17,21), questa è la vera buona notizia. Dopo il battesimo di Gesù e il compimento della missione profetica di Giovanni, “l’avvento” lascia il posto alla presenza della Parola incarnata che si fa Parola salvifica e sanante. Con L’uscita di scena gioiosa di Giovanni, amico dello sposo, (Gv 3,29-30) si apre la strada alla gioia del “popolo che abitava nelle tenebre”, la luce che è Cristo viene ad illuminare coloro che “abitavano in regione di morte” (Mt 4,16). È interessante cogliere l’indicazione temporale con cui inizia il Vangelo di questa settimana: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea”(Mt 4,12), perché sembra esprimere un certo atteggiamento rinunciatario da parte di Gesù motivato dal dolore per l’amico, ma in realtà sta germogliando il “Virgulto del tronco di Iesse” (Is 11,1) che spunta dalla dalla morte del chicco di grano, (Gv 12,24) macerato dalla testimonianza alla Verità. Non si può tralasciare nemmeno il riferimento geografico: il suo ritorno in Galilea, a Nazareth; non per sostare ma per ripartire ancora verso nord, verso la sua nuova dimora: Cafarnao. L’orizzonte della salvezza si sposta dai luoghi celebrati e cantati dai sacri testi, Gerusalemme e Betlemme, alla “via del mare, al di là del Giordano” (Mt 4,15), perché si adempisse la profezia di Isaia descritta al capitolo 9, un testo che abbiamo ascoltato per intero nella notte di Natale. La via del mare è illuminata dalla luce del Messia, un territorio sconosciuto, considerato al tempo di Gesù bisognoso di purificazione, perché “infestato” dalla promiscuità con altri popoli.  La terra di Zabulon e di Neftali, soggetta a continue invasioni e passaggio di popoli perché terra di confine, di periferia, non solo geograficamente, ma anche lontana dal cuore della fede d’Israele. A Nazareth, luogo “malfamato” e insignificante, come descritto da Natanaele (Gv 1,46) non giungono le melodie dei salmi cantati nel tempio di Gerusalemme, tantomeno raggiungono la città di Cafarnao, la cui melodia si compone delle voci del “compra e vendi” del commercio. Eppure Gesù sceglie come luogo delle sua residenza la città sul Mare di Galilea, anche se il suo domicilio risulterà sconosciuto a motivo del suo continuo peregrinare, senza la certezze di dove posare il capo (Lc 9,58). Un territorio che ci ricorda  Isaia “il Signore ha umiliato nel passato” (Is 8,23) ma ora renderà glorioso. Non sarà la liturgia del tempio di Gerusalemme a santificare quella terra, ma la presenza stessa di Colui che perennemente celebra il culto in Spirito e Verità. Non sarà nemmeno la memoria di antichi re come Davide di Betlemme, figure del Messia a garantire la traditio delle fede d’Israele, ma il “contaminarsi” con i peccatori e i pagani del Figlio di Dio, che porterà a compimento la storia della salvezza preannunciata dai profeti. La terra dei gentili diviene il luogo privilegiato da Dio, non solo per l’inizio dell’annuncio della buona notizia della venuta del Messia, ma lo diventa anche per la missione della Chiesa. Il Signore risorto attende i suoi in Galilea per essere inviati in tutto il mondo; il luogo della “ferialità” diviene il luogo della rivelazione del mistero della salvezza, dove la fede rende possibile i miracoli, dove la fede è accolta da cuori non incrostati da “superfetazioni teologiche” che rischiano di separare Dio dall’uomo. È qui, nella ferialità, luogo della vita quotidiana, che la risposta di fede all’incontro con il risorto, si trasforma nell’eccomi delle scelte della vita. Nelle “incursioni” del Risorto nella vita quotidiana dell’uomo, si celebra l’incontro d’amore di chi si è fatto dono e quando trova un cuore assetato d’amore e di giustizia, questo incontro genera un dinamismo che spinge al dono di sé. Solo un cuore semplice, non sopraffatto dagli egoismi, del potere, dei soldi, della sessualità smodata, consente di giocare la propria libertà investendola nel protagonismo della vita. Se l’alveo della risposta ad una chiamata all’amore che si fa dono, è il luogo della vita quotidiana e il contesto della ferialità, allora l’appello vocazionale non riguarda solo il singolo, ma le nostre stesse comunità affinché diventino grembo fecondo di umanità. Un importante insegnamento per le nostre comunità forse troppo assetate di preti e di culto, ma meno disposte a lasciarsi convertire da ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese. È una comunità credente e credibile che è capace di generare vocazioni all’amore e quindi anche al sacerdozio, non è un prete in più che che può cambiare il contesto.

Don Andrea Rossi

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Il Servo della volontà di Dio https://www.lavoce.it/servo-volonta-dio/ Thu, 16 Jan 2020 17:18:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56040 logo reubrica commento al Vangelo

“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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Il coraggio di credere ai segni https://www.lavoce.it/coraggio-credere-segni/ Thu, 19 Dec 2019 17:13:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55950 logo reubrica commento al Vangelo

La quarta domenica di Avvento è come una terrazza dalla quale affacciarsi per cogliere l’evento stupendo del compiersi della salvezza: non la pioggia rumorosa di una perturbazione, ma la rugiada silenziosa, che feconda una terra pronta ad accogliere il seme della grazia creatrice. L’antifona di ingresso può ispirare questa lettura sintetica della celebrazione odierna.

Rorate coeli desuper, et nubes pluant iustum: aperiatur terra, et germinet Salvatorem dice il testo di Isaia 45,8, sottolineando l’azione creatrice di Dio nel mistero dell’Incarnazione che scende dall’alto, così come si rivela nell’Annunciazione. La redenzione ha inizio in quell’incontro, una rugiada che scende: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore”.

La creazione ha inizio con quella stessa rugiada che feconda le acque, grembo da cui scaturisce la vita. La creazione germoglia senza l’opera dell’uomo; la redenzione è resa possibile dall’“eccomi” umano di Maria e Giuseppe, così come l’evangelista Matteo ci narra nel Vangelo di oggi. L’annunciazione matteana, diversamente da Luca, sposta l’obiettivo su Giuseppe, l’uomo giusto, custode di Gesù e di Maria.

L’evangelista Matteo scrivendo alle comunità di lingua ebraica che conoscono i testi dell’Antico Testamento, presenta la nascita di Gesù come realizzazione delle profezie di “Colui che deve venire” (Mt 11,3), applicando a Maria il brano di Isaia 7,14: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. Il testo evangelico preciserà che Emmanuele “significa: Dio con noi” (Mt 1,23).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 7,10-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 1,1-7

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 1,18-24

Il brano inizia in modo narrativo ma repentino, con una sorta di titolo: “Così fu generato Gesù Cristo” (Mt 1,18). Il termine “generazione” usato in questo versetto si collega al verbo “generò” che percorre tutta la genealogia dei primi versetti, e non può non richiamare il termine Genesi, che rimanda agli inizi dell’intervento divino nella creazione.

Il brano per un attimo si sofferma su Maria, su quanto è accaduto dopo l’Annunciazione dell’angelo; poi entra nella vicenda di Giuseppe, che diventerà il personaggio principale della scena. Con poche righe il testo fa emergere l’inquietudine di Giuseppe: la sua promessa sposa, che non aveva fatto ancora il suo ingresso nella sua casa, attende un bambino. Il matrimonio ebraico considerava valido il vincolo matrimoniale, con tutte le conseguenze, fin dalla promessa, in attesa dell’ingresso della sposa in casa dello sposo.

È interessante l’atteggiamento di Giuseppe. Molti commenti descrivono questo turbamento, io vorrei introdurre questa chiave di lettura: Giuseppe di trova di fronte a un fatto, il figlio che Maria porta nel grembo non è suo... ma può Maria averlo tradito?

I fatti e la Legge producono delle conseguenze, e la successione prevede la denuncia e la pena. Non c’è spazio per l’azione di Dio in questa successione consequenziale. Giuseppe però si fida di Maria, ne conosce la rettitudine, si apre a un’altra possibilità. E dentro questo spazio di intimità, l’uomo giusto attende un segno, che arriva in sogno: gli parla “un angelo del Signore” (un altro, non Gabriele).

Alcuni studiosi fanno coincidere questa locuzione con l’intervento diretto di Dio: la Paternità divina conforta colui che sarà padre secondo la legge. Infatti, grazie a Giuseppe, Gesù entrerà nella discendenza davidica. Giuseppe darà il nome, lui ne sarà il custode, e il suo insegnamento forgerà l’umanità di Gesù. È grazie a questa paternità umana, nella casa di Nazareth, che Gesù saprà esercitare una “paternità” a immagine della paternità divina. Il segno atteso da Giuseppe, forse invocato più volte nella fede, esprime il totale abbandono alla volontà di Dio.

Il re Acaz, nel rispetto della Legge, non chiese un segno (Is 7,11), come dice Deuteronomio 6,16: “Non tenterete JHWH vostro Dio”. Ma quello di Acaz era rispetto della Legge, o incapacità di fidarsi del “Legislatore”, che è ben più della legge?

“È sua infatti la terra e quanto contiene… egli otterrà benedizione dal Signore”: il Salmo 23 può essere applicato alla fede di Giuseppe, che sa distinguere la legge, che passa, dalla fedeltà del Signore, che rimane per sempre. I fatti successivi dimostreranno che, al “segno” divino, Acaz preferisce le sicurezze umane, confidando nelle alleanze militari.

Chi invoca continuamente la legge rischia di farne un idolo, perché non lascia spazio alla creatività di Dio. Solo la fede sa riconoscere la Sua novità, e proverà a rispondere con qualche “balbettio”; ma il Signore può fare risuonare quel balbettio nell’eternità.

Don Andrea Rossi

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La quarta domenica di Avvento è come una terrazza dalla quale affacciarsi per cogliere l’evento stupendo del compiersi della salvezza: non la pioggia rumorosa di una perturbazione, ma la rugiada silenziosa, che feconda una terra pronta ad accogliere il seme della grazia creatrice. L’antifona di ingresso può ispirare questa lettura sintetica della celebrazione odierna.

Rorate coeli desuper, et nubes pluant iustum: aperiatur terra, et germinet Salvatorem dice il testo di Isaia 45,8, sottolineando l’azione creatrice di Dio nel mistero dell’Incarnazione che scende dall’alto, così come si rivela nell’Annunciazione. La redenzione ha inizio in quell’incontro, una rugiada che scende: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore”.

La creazione ha inizio con quella stessa rugiada che feconda le acque, grembo da cui scaturisce la vita. La creazione germoglia senza l’opera dell’uomo; la redenzione è resa possibile dall’“eccomi” umano di Maria e Giuseppe, così come l’evangelista Matteo ci narra nel Vangelo di oggi. L’annunciazione matteana, diversamente da Luca, sposta l’obiettivo su Giuseppe, l’uomo giusto, custode di Gesù e di Maria.

L’evangelista Matteo scrivendo alle comunità di lingua ebraica che conoscono i testi dell’Antico Testamento, presenta la nascita di Gesù come realizzazione delle profezie di “Colui che deve venire” (Mt 11,3), applicando a Maria il brano di Isaia 7,14: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. Il testo evangelico preciserà che Emmanuele “significa: Dio con noi” (Mt 1,23).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 7,10-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 1,1-7

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 1,18-24

Il brano inizia in modo narrativo ma repentino, con una sorta di titolo: “Così fu generato Gesù Cristo” (Mt 1,18). Il termine “generazione” usato in questo versetto si collega al verbo “generò” che percorre tutta la genealogia dei primi versetti, e non può non richiamare il termine Genesi, che rimanda agli inizi dell’intervento divino nella creazione.

Il brano per un attimo si sofferma su Maria, su quanto è accaduto dopo l’Annunciazione dell’angelo; poi entra nella vicenda di Giuseppe, che diventerà il personaggio principale della scena. Con poche righe il testo fa emergere l’inquietudine di Giuseppe: la sua promessa sposa, che non aveva fatto ancora il suo ingresso nella sua casa, attende un bambino. Il matrimonio ebraico considerava valido il vincolo matrimoniale, con tutte le conseguenze, fin dalla promessa, in attesa dell’ingresso della sposa in casa dello sposo.

È interessante l’atteggiamento di Giuseppe. Molti commenti descrivono questo turbamento, io vorrei introdurre questa chiave di lettura: Giuseppe di trova di fronte a un fatto, il figlio che Maria porta nel grembo non è suo... ma può Maria averlo tradito?

I fatti e la Legge producono delle conseguenze, e la successione prevede la denuncia e la pena. Non c’è spazio per l’azione di Dio in questa successione consequenziale. Giuseppe però si fida di Maria, ne conosce la rettitudine, si apre a un’altra possibilità. E dentro questo spazio di intimità, l’uomo giusto attende un segno, che arriva in sogno: gli parla “un angelo del Signore” (un altro, non Gabriele).

Alcuni studiosi fanno coincidere questa locuzione con l’intervento diretto di Dio: la Paternità divina conforta colui che sarà padre secondo la legge. Infatti, grazie a Giuseppe, Gesù entrerà nella discendenza davidica. Giuseppe darà il nome, lui ne sarà il custode, e il suo insegnamento forgerà l’umanità di Gesù. È grazie a questa paternità umana, nella casa di Nazareth, che Gesù saprà esercitare una “paternità” a immagine della paternità divina. Il segno atteso da Giuseppe, forse invocato più volte nella fede, esprime il totale abbandono alla volontà di Dio.

Il re Acaz, nel rispetto della Legge, non chiese un segno (Is 7,11), come dice Deuteronomio 6,16: “Non tenterete JHWH vostro Dio”. Ma quello di Acaz era rispetto della Legge, o incapacità di fidarsi del “Legislatore”, che è ben più della legge?

“È sua infatti la terra e quanto contiene… egli otterrà benedizione dal Signore”: il Salmo 23 può essere applicato alla fede di Giuseppe, che sa distinguere la legge, che passa, dalla fedeltà del Signore, che rimane per sempre. I fatti successivi dimostreranno che, al “segno” divino, Acaz preferisce le sicurezze umane, confidando nelle alleanze militari.

Chi invoca continuamente la legge rischia di farne un idolo, perché non lascia spazio alla creatività di Dio. Solo la fede sa riconoscere la Sua novità, e proverà a rispondere con qualche “balbettio”; ma il Signore può fare risuonare quel balbettio nell’eternità.

Don Andrea Rossi

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Il Mistero supera le attese https://www.lavoce.it/mistero-supera-attese/ Thu, 12 Dec 2019 13:55:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55849 logo reubrica commento al Vangelo

Il cammino liturgico dell’Avvento, con questa terza domenica, subisce un’accelerazione tematica verso il Natale. Il testo della colletta all’inizio della messa ci ricorda la prossimità della celebrazione “del grande mistero della salvezza” e l’antifona, quindi, invita l’assemblea a rallegrarsi perché “il Signore è vicino”.

Il testo che ci invita a gioire contagia anche il colore liturgico dell’abito del celebrante, con la possibilità di vestire la casula rosacea della domenica chiamata Gaudete.

Il clima ormai natalizio è invece tradotto nella liturgia, in particolare nel testo evangelico, con molti interrogativi. Il primo è posto sulla bocca di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3), altri sulla bocca di Gesù, che per ben tre volte scuote la folla chiedendo spiegazioni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? (Mt 11,7-9).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 35,1-6a.8a 10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 145 (146)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Giacomo 5,7-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 11,2-11

Una situazione paradossale: mentre tutto intorno a noi ci dice la certezza del Natale (quale Natale?), la liturgia ci costringe a riflettere su Chi stiamo aspettando, su cosa stiamo aspettando, e quindi sulla qualità dell’attesa.

I personaggi biblici di queste domeniche, Maria e Giovanni Battista, incarnano quanto la Parola ci propone: l’attesa, la mitezza, la pazienza (Gc 5,7-8), la piccolezza, perfino il dubbio. Sì, anche il dubbio è foriero di certezza se si accetta la sfida di una ricerca; sì, anche il dubbio è un elemento della fede, che esso cerca, e la trova in una relazione confidenziale che non ha timore di chiedere ed è paziente nell’attendere una riposta.

Sa attendere come il contadino che, dopo aver rimosso la certezza del raccolto dell’anno precedente, accetta la sfida del nuovo anno: rimuovere la terra, seminare, concimare, innaffiare e attendere… (Gc 5,7).

Nonostante il lungo cammino, tracciato dalle certezze confermate, la fede del contadino, la fede del Battista, la fede di Maria - la nostra fede, aggiungerei -, la fede dei Magi, la fede degli apostoli, non è mai data per acquisita una volta per tutte. Per rimanere fedeli è necessario accettare il rischio di cercare attraverso i segni, alcune volte ambigui, che la Provvidenza disvela sul nostro cammino.

È strana la risposta che riceve Giovanni attraverso i sui discepoli. Non un’affermazione, ma una profezia a cui rimandare, una profezia da decifrare (Is 35,5), che solo l’intima relazione con la “Parola” consente di leggere come risposta; e solo l’intima relazione con Lui consente di entrare dentro quella Parola che si è fatta carne.

Qui scorgiamo quell’intimità amicale tra Gesù e Giovanni. Un legame che rende superflua la risposta esplicita, perché gli amici trovano le certezze nelle confidenze, e la confidenza rende superfluo l’esplicito, che “costringe”, rispetto a un “implicito” che invece apre a una profondità che sa di eterno.

Lo “sposo” e l’“amico dello sposo”, incontratisi, per mezzo dello Spirito, nell’esultanza delle madri, rinnovano un dialogo amicale a distanza, confermandosi vicendevolmente nelle loro identità. Giovanni comprende che colui che ha annunciato è Colui che deve venire, è colui che ha indicato al fiume Giordano dopo il battesimo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Giovanni dal “Golgota” della sua prigione attesta la sua ultima testimonianza alla verità. Lui scompare per fare strada a Colui che è la Via, si lascia illuminare totalmente dalla Luce che rende superflua la lampada; come vero amico dello sposo, lascia la scena allo Sposo. Questo diminuire, che ha l’apparenza della morte, non è accompagnato dal “rito funebre” per il fallimento di una vita, ma dall’esultanza del compimento, che trasforma in speranza ciò che la disperazione aveva soggiogato (Is 35,15).

Ora Giovanni scopre ciò che aveva atteso, ma, soprattutto, scopre che ciò che attendeva ha superato le sue aspettative. La sua morte diventa un inno alla vita, da spendere senza nulla trattenere, nemmeno le sue “certezze” sulla fede, perché la fede non si lascia costringere nemmeno dalle “sante convinzioni”.

Una bella sfida anche per noi. Giovanni al termine della sua vita può pronunciare il suo nunc dimittis: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), i suoi occhi hanno veramente contemplato la salvezza. Questo appaga il senso di una vita, la cui gioia non dipende dalla durata ma dalla pienezza con cui si vive, costruita sull’“eccomi” trasformante, pronunciato come risposta a quella Parola che si è fatta carne.

Don Andrea Rossi

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Il cammino liturgico dell’Avvento, con questa terza domenica, subisce un’accelerazione tematica verso il Natale. Il testo della colletta all’inizio della messa ci ricorda la prossimità della celebrazione “del grande mistero della salvezza” e l’antifona, quindi, invita l’assemblea a rallegrarsi perché “il Signore è vicino”.

Il testo che ci invita a gioire contagia anche il colore liturgico dell’abito del celebrante, con la possibilità di vestire la casula rosacea della domenica chiamata Gaudete.

Il clima ormai natalizio è invece tradotto nella liturgia, in particolare nel testo evangelico, con molti interrogativi. Il primo è posto sulla bocca di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3), altri sulla bocca di Gesù, che per ben tre volte scuote la folla chiedendo spiegazioni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? (Mt 11,7-9).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 35,1-6a.8a 10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 145 (146)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Giacomo 5,7-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 11,2-11

Una situazione paradossale: mentre tutto intorno a noi ci dice la certezza del Natale (quale Natale?), la liturgia ci costringe a riflettere su Chi stiamo aspettando, su cosa stiamo aspettando, e quindi sulla qualità dell’attesa.

I personaggi biblici di queste domeniche, Maria e Giovanni Battista, incarnano quanto la Parola ci propone: l’attesa, la mitezza, la pazienza (Gc 5,7-8), la piccolezza, perfino il dubbio. Sì, anche il dubbio è foriero di certezza se si accetta la sfida di una ricerca; sì, anche il dubbio è un elemento della fede, che esso cerca, e la trova in una relazione confidenziale che non ha timore di chiedere ed è paziente nell’attendere una riposta.

Sa attendere come il contadino che, dopo aver rimosso la certezza del raccolto dell’anno precedente, accetta la sfida del nuovo anno: rimuovere la terra, seminare, concimare, innaffiare e attendere… (Gc 5,7).

Nonostante il lungo cammino, tracciato dalle certezze confermate, la fede del contadino, la fede del Battista, la fede di Maria - la nostra fede, aggiungerei -, la fede dei Magi, la fede degli apostoli, non è mai data per acquisita una volta per tutte. Per rimanere fedeli è necessario accettare il rischio di cercare attraverso i segni, alcune volte ambigui, che la Provvidenza disvela sul nostro cammino.

È strana la risposta che riceve Giovanni attraverso i sui discepoli. Non un’affermazione, ma una profezia a cui rimandare, una profezia da decifrare (Is 35,5), che solo l’intima relazione con la “Parola” consente di leggere come risposta; e solo l’intima relazione con Lui consente di entrare dentro quella Parola che si è fatta carne.

Qui scorgiamo quell’intimità amicale tra Gesù e Giovanni. Un legame che rende superflua la risposta esplicita, perché gli amici trovano le certezze nelle confidenze, e la confidenza rende superfluo l’esplicito, che “costringe”, rispetto a un “implicito” che invece apre a una profondità che sa di eterno.

Lo “sposo” e l’“amico dello sposo”, incontratisi, per mezzo dello Spirito, nell’esultanza delle madri, rinnovano un dialogo amicale a distanza, confermandosi vicendevolmente nelle loro identità. Giovanni comprende che colui che ha annunciato è Colui che deve venire, è colui che ha indicato al fiume Giordano dopo il battesimo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Giovanni dal “Golgota” della sua prigione attesta la sua ultima testimonianza alla verità. Lui scompare per fare strada a Colui che è la Via, si lascia illuminare totalmente dalla Luce che rende superflua la lampada; come vero amico dello sposo, lascia la scena allo Sposo. Questo diminuire, che ha l’apparenza della morte, non è accompagnato dal “rito funebre” per il fallimento di una vita, ma dall’esultanza del compimento, che trasforma in speranza ciò che la disperazione aveva soggiogato (Is 35,15).

Ora Giovanni scopre ciò che aveva atteso, ma, soprattutto, scopre che ciò che attendeva ha superato le sue aspettative. La sua morte diventa un inno alla vita, da spendere senza nulla trattenere, nemmeno le sue “certezze” sulla fede, perché la fede non si lascia costringere nemmeno dalle “sante convinzioni”.

Una bella sfida anche per noi. Giovanni al termine della sua vita può pronunciare il suo nunc dimittis: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), i suoi occhi hanno veramente contemplato la salvezza. Questo appaga il senso di una vita, la cui gioia non dipende dalla durata ma dalla pienezza con cui si vive, costruita sull’“eccomi” trasformante, pronunciato come risposta a quella Parola che si è fatta carne.

Don Andrea Rossi

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Amore e fedeltà di Dio … e di Maria https://www.lavoce.it/amore-fedelta-dio-maria/ Fri, 06 Dec 2019 08:07:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55794 logo reubrica commento al Vangelo

Il tempo di Avvento, attestano gli studiosi, è il vero “tempo mariano”. La tradizione popolare del mese di maggio dedicato alla Madonna è superata teologicamente nella sua “marianità” dal tempo di Avvento, dove giganteggia il Vangelo dell’Annunciazione.

È proposto nella solennità dell’Immacolata Concezione nella versione di Luca, e nella quarta domenica nella versione di Matteo. Una splendida sintesi della coloritura mariana del tempo di Avvento emerge dal prefazio II/A della liturgia di Avento: “Dall’antico avversario venne la rovina, / dal grembo verginale della figlia di Sion / è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli / ed è scaturita per tutto il genere umano / la salvezza e la pace. / La grazia che Eva ci tolse / ci è ridonata in Maria. / In lei, madre di tutti gli uomini, / la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, / si apre al dono della vita nuova”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 3,9-15.20

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 (98)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli Efesini 1,3-6.11-12

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38

Una vera sintesi teologica da cui emerge la profondità del mistero della Theotòkos, la Madre di Dio, così divinamente cantata da Dante nel XXXIII canto del Paradiso : “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio…” . La devozione mariana della Chiesa che è in Italia rende così popolare tale profondità teologica da sovvertire le norme liturgiche delle priorità celebrative: ogni volta che la solennità dell’Immacolata Concezione coincide con la domenica di Avvento, la prima precede liturgicamente la domenica propria.

Quest’anno, quindi, ci lasciamo guidare nella riflessione della II domenica di Avvento dai testi liturgici della solennità mariana. L’invocazione benedicente che introduce il testo di Paolo nella Lettera agli Efesini ha la sua radice nell’azione di benedizione del Padre, ricolmandoci di ogni grazia in Cristo. Il testo ci colloca tra i “prescelti prima della creazione”: una condizione, in un certo modo, non distante da quella dei nostri progenitori. La narrazione di Genesi quindi ci riguarda da vicino: la nostra umanità, il nostro essere uomini e donne porta dentro di sé il Dna del Creatore e, nello stesso tempo, il virus della sua negazione.

Il “dove sei?” di Dio (Gen 3,9) non indica l’incapacità del Creatore di ritrovare la sua creatura, ma la condizione da desaparecidos della creatura, che ha perso se stessa perché ha perso Dio, “via, verità e vita”. La paura scaturisce dalla nuova immagine che l’uomo si è fatto del suo Dio, un Dio a sua immagine che punisce, che si vendica per il torto subito.

Il “dove sei” sul versante del Creatore - che è Padre e “Consolatore” - indica il desiderio di Dio di andare a riprendere l’umanità là dove si è persa, e tale volontà inaugura il progetto di redenzione. La “tremenda vendetta” di Dio (per usare un linguaggio umano), invece, è il definitivo giudizio sull’uomo, Sua creatura, a cui viene ridonata la “libertà possibile” ferita dal peccato, e nello stesso tempo viene sancita la scelta irrevocabile del Tentatore, a cui non viene più concesso il potere di nuocere in modo irreparabile. La suprema giustizia diviene così sinonimo di misericordia.

Il cosiddetto “protovangelo” (Gen 3,15) anticipa l’alba di redenzione descritta nell’Annunciazione, a cui fa eco il canto nuovo del Salmo 98, che profeticamente vede il mistero dell’Incarnazione come suprema manifestazione di Dio. Amore e fedeltà non sono un atto ma un processo, una via che Dio traccia verso l’uomo, una via illuminata dalla Pasqua, visibile all’umanità per ricostruire la sua dignità e non consentire al virus del peccato di distruggere il Dna della santità.

La pienezza di grazia constatata dall’angelo in Maria (Lc 1,28) è la conferma che la libertà è la prima a essere ferita quando si apre la porta al peccato, lasciandoci convincere dalla tentazione. In Maria il progetto del Creatore trova invece la conferma, negata dai nostri progenitori, al progetto di una pienezza di vita in armonia con tutto il creato.

Dio, ricominciando daccapo, ha trovato una fanciulla nella quale ha voluto ricreare il prezioso giardino dell’Eden, dal quale far rinascere l’Uomo nuovo, il nuovo Adamo.

L’“eccomi” di Maria è il culmine di una fedeltà quotidiana che ha consentito la fedeltà di Dio annunciata nel libro della Genesi. Una fedeltà che spinge il Creatore alla contemplazione della sua opera: l’uomo a sua immagine e somiglianza. La fedeltà di Dio è stupendamente cantata nel Preconio pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, / che è stato distrutto con la morte del Cristo. / Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”.

Don Andrea Rossi

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Il tempo di Avvento, attestano gli studiosi, è il vero “tempo mariano”. La tradizione popolare del mese di maggio dedicato alla Madonna è superata teologicamente nella sua “marianità” dal tempo di Avvento, dove giganteggia il Vangelo dell’Annunciazione.

È proposto nella solennità dell’Immacolata Concezione nella versione di Luca, e nella quarta domenica nella versione di Matteo. Una splendida sintesi della coloritura mariana del tempo di Avvento emerge dal prefazio II/A della liturgia di Avento: “Dall’antico avversario venne la rovina, / dal grembo verginale della figlia di Sion / è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli / ed è scaturita per tutto il genere umano / la salvezza e la pace. / La grazia che Eva ci tolse / ci è ridonata in Maria. / In lei, madre di tutti gli uomini, / la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, / si apre al dono della vita nuova”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 3,9-15.20

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 (98)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli Efesini 1,3-6.11-12

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38

Una vera sintesi teologica da cui emerge la profondità del mistero della Theotòkos, la Madre di Dio, così divinamente cantata da Dante nel XXXIII canto del Paradiso : “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio…” . La devozione mariana della Chiesa che è in Italia rende così popolare tale profondità teologica da sovvertire le norme liturgiche delle priorità celebrative: ogni volta che la solennità dell’Immacolata Concezione coincide con la domenica di Avvento, la prima precede liturgicamente la domenica propria.

Quest’anno, quindi, ci lasciamo guidare nella riflessione della II domenica di Avvento dai testi liturgici della solennità mariana. L’invocazione benedicente che introduce il testo di Paolo nella Lettera agli Efesini ha la sua radice nell’azione di benedizione del Padre, ricolmandoci di ogni grazia in Cristo. Il testo ci colloca tra i “prescelti prima della creazione”: una condizione, in un certo modo, non distante da quella dei nostri progenitori. La narrazione di Genesi quindi ci riguarda da vicino: la nostra umanità, il nostro essere uomini e donne porta dentro di sé il Dna del Creatore e, nello stesso tempo, il virus della sua negazione.

Il “dove sei?” di Dio (Gen 3,9) non indica l’incapacità del Creatore di ritrovare la sua creatura, ma la condizione da desaparecidos della creatura, che ha perso se stessa perché ha perso Dio, “via, verità e vita”. La paura scaturisce dalla nuova immagine che l’uomo si è fatto del suo Dio, un Dio a sua immagine che punisce, che si vendica per il torto subito.

Il “dove sei” sul versante del Creatore - che è Padre e “Consolatore” - indica il desiderio di Dio di andare a riprendere l’umanità là dove si è persa, e tale volontà inaugura il progetto di redenzione. La “tremenda vendetta” di Dio (per usare un linguaggio umano), invece, è il definitivo giudizio sull’uomo, Sua creatura, a cui viene ridonata la “libertà possibile” ferita dal peccato, e nello stesso tempo viene sancita la scelta irrevocabile del Tentatore, a cui non viene più concesso il potere di nuocere in modo irreparabile. La suprema giustizia diviene così sinonimo di misericordia.

Il cosiddetto “protovangelo” (Gen 3,15) anticipa l’alba di redenzione descritta nell’Annunciazione, a cui fa eco il canto nuovo del Salmo 98, che profeticamente vede il mistero dell’Incarnazione come suprema manifestazione di Dio. Amore e fedeltà non sono un atto ma un processo, una via che Dio traccia verso l’uomo, una via illuminata dalla Pasqua, visibile all’umanità per ricostruire la sua dignità e non consentire al virus del peccato di distruggere il Dna della santità.

La pienezza di grazia constatata dall’angelo in Maria (Lc 1,28) è la conferma che la libertà è la prima a essere ferita quando si apre la porta al peccato, lasciandoci convincere dalla tentazione. In Maria il progetto del Creatore trova invece la conferma, negata dai nostri progenitori, al progetto di una pienezza di vita in armonia con tutto il creato.

Dio, ricominciando daccapo, ha trovato una fanciulla nella quale ha voluto ricreare il prezioso giardino dell’Eden, dal quale far rinascere l’Uomo nuovo, il nuovo Adamo.

L’“eccomi” di Maria è il culmine di una fedeltà quotidiana che ha consentito la fedeltà di Dio annunciata nel libro della Genesi. Una fedeltà che spinge il Creatore alla contemplazione della sua opera: l’uomo a sua immagine e somiglianza. La fedeltà di Dio è stupendamente cantata nel Preconio pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, / che è stato distrutto con la morte del Cristo. / Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”.

Don Andrea Rossi

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È ora di svegliarsi! https://www.lavoce.it/ora-svegliarsi/ Fri, 29 Nov 2019 12:47:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55757 logo reubrica commento al Vangelo

[caption id="attachment_55760" align="alignleft" width="200"] Don Andrea Rossi[/caption]

Da questa settimana, a scrivere per noi il commento alla Parola di Dio domenicale sarà don Andrea Rossi. Nel salutarlo con affetto, ospitando il suo primo contributo, ringraziamo Giuseppina Bruscolotti che ci ha aiutato a meditare i due Testamenti in questi ultimi anni.

Qualche nota biografica su don Andrea Rossi. Nato a Orvieto il 19 gennaio 1968, fin da giovanissimo è stato particolarmente attivo nella vita ecclesiale e sociale del suo paese di origine, Baschi, dove è stato anche consigliere comunale (oltre che un ottimo giocatore di calcio!). Consegue il diploma in Ragioneria ed esercita la professione fino all’età di 28 anni, quando decide di entrare in Seminario.Il 29 giugno 2002 viene ordinato sacerdote da mons. Decio Lucio Grandoni.

Presso il Seminario regionale di Assisi è anche stato per due volte vice rettore, molto stimato dai seminaristi e responsabile propedeutico, mentre nella diocesi di Orvieto-Todi ha diretto per diverso tempo gli uffici di Pastoralegiovanile e vocazionale. Molto importanti nel suo cammino umano e spirituale sono sicuramente stati la missione della Chiesa di Orvieto-Todi in Albania, alla quale ha partecipato con zelo ed entusiasmo più volte, e l’Azione cattolica, di cui oggi è assistente unitario sia a livello diocesano che regionale.

Attualmente vive a Collepepe insieme al giovane sacerdote don Lorenzo Romagna. Ai due presbiteri è affidata la guida di sei parrocchie: Collepepe, Collazzone, Gaglietole, Ripabianca, Casalalta-Canalicchio ed Ammeto. Don Andrea è anche moderatore dell’Unità pastorale San Cassiano e vicario foraneo del Vicariato di San Terenziano. Dal dicembre 2013, il vescovo Benedetto Tuzia lo ha nominato presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero; ruolo da subito svolto con competenza e con notevole impegno, lo stesso che sempre profonde in ogni ambito del suo ministero presbiterale.

L’inizio dell’Avvento è preceduto da alcuni gesti: il cambio del volume del breviario, la sostituzione del lezionario, la ricollocazione delle “strisce di stoffa” del messale sul “Proprio” della celebrazione e dei prefazi specifici. Gesti semplici, pratici, forse banali, che non richiedono, per la loro strumentalità, una particolare riflessione. Eppure ci consentono di riaprire l’orizzonte sul significato del tempo. Il tempo nuovo che ci propone la liturgia e, con un po’ di attenzione, anche un esame di coscienza sul tempo trascorso.

Ogni anno ci troviamo a celebrare l’Avvento: una ripetitività alienante che spinge a trovare surrogati di straordinarietà, o consapevolezza dell’attimo che segna il presente in modo unico e irripetibile? Un “eterno ritorno” o un incedere fatto di tornanti che ci portano alla sommità dell’eternità?

Il Vangelo di Matteo, che ci accompagnerà per tutto questo anno liturgico, ci mostra attraverso le parole di Gesù, narrandoci fatti passati, come nella quotidianità eventi straordinari segnano il presente e ipotecano il futuro: “Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti...”.

L’attenzione sul momento contingente non chiude lo sguardo sul presente, ma, a partire dalla situazione concreta della vita, il profeta ci insegna - guidati dallo Spirito - che è possibile allargare lo sguardo sul futuro, addirittura squarciare il velo che ci separa dall’eternità.

“Alla fine dei giorni”: così il testo del profeta Isaia ci introduce nel tempo di Avvento e dà senso a un’attesa che va oltre il contesto storico - il suo e del popolo d’Israele - , ma nello stesso tempo anche al nostro attendere, perché la liturgia ha questa potenza.

La parola del profeta risuona con parole simili anche in Michea 4,1-5: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno i popoli”.

Una visione rivelativa che un altro veggente svilupperà in altro libro biblico: l’ Apocalisse, dove la persecuzione cristiana non genera disperazione, e la testimonianza rivela una piena e totale identificazione con Cristo.

È un altro testo fondamentale per misurare la qualità della nostra vita di fede, che attraverso continue sovrapposizioni di immagine ci dà il senso e il fine della storia.

Le nostre attese, le nostre speranze hanno una prospettiva nella fede che appaga le nostre aspirazioni di pace, di giustizia, perché solo il Signore sarà il giudice, e solo la sua giustizia è foriera di pace - così ci indica ancora Gesù in questa pagina di Vangelo. La qualità del nostro attendere dipende dalla qualità di ciò che attendiamo e da quanto siamo disposti a lottare per costruire il futuro già scritto dalla vittoria di Cristo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 2,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 121

SECONDA LETTURA Dalla lettera di Paolo ai Romani 13,11-14a

VANGELO Dal vangelo di Matteo 24,37-44

C’è una visione in Isaia che ci fa sognare: un cammino di popoli disposti a uscire dai propri egoismi, in cui le identità non si trasformano in un grigiore indistinto, ma rendono visibile tutte le cromie della creazione, e in cammino ricercano la pienezza, coerente con il progetto dell’inizio, ma che la storia ha deviato. Camminando sui sentieri del Signore, si riscoprono figli di un unico Padre.

La pace diviene allora non solo un progetto ma il dinamismo trasformante la realtà stessa: ciò che è servito per la guerra si fa strumento di equità, perché tutti abbiano il necessario raggiungendo la giustizia, condizione indispensabile per la pace. Un dono, e nello stesso tempo una conquista.

Un dono da chiedere, che non ci esime dall’essere costruttori di pace. Una conquista che richiede una disponibilità alla lotta, nell’umile atteggiamento del mite che non si piega, ma è disposto a pagare di persona per realizzarla. Dalla visione di Isaia all’imperativo di Paolo di “svegliarsi dal sonno”, motivato dalla prossimità della salvezza. Il passo sembra breve, per sottolineare che l’avvicendarsi dei giorni avvicina al momento dell’incontro con il Signore, di cui non si conosce l’effettiva realizzazione. Nessuno conosce il tempo e l’ora, ma è certo che verrà.

Da qui l’invito alla prontezza che ci rivolge il Vangelo, come il padrone che non conosce l’ora in cui il ladro “visiterà” la sua casa. Dalla similitudine alla realtà, Paolo ci invita a “comportarci onestamente, come in pieno giorno”, alla luce del sole, perché le tenebre sono il luogo del male dove impera il signore delle tenebre.

Ma noi siamo “figli della luce”, chiamati a rinnegare le tenebre perché abbiamo conosciuto colui che è “Luce da Luce”, venuto nella carne. Lo attendiamo nella sua seconda venuta, e lo contempliamo e lo accogliamo ora nel sacramento della sua presenza: quella liturgica, e soprattutto in coloro che lo rivelano nella povertà della condizione umana, verso i quali ogni cosa che facciamo l’abbiamo fatta a Lui.

Don Andrea Rossi

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[caption id="attachment_55760" align="alignleft" width="200"] Don Andrea Rossi[/caption]

Da questa settimana, a scrivere per noi il commento alla Parola di Dio domenicale sarà don Andrea Rossi. Nel salutarlo con affetto, ospitando il suo primo contributo, ringraziamo Giuseppina Bruscolotti che ci ha aiutato a meditare i due Testamenti in questi ultimi anni.

Qualche nota biografica su don Andrea Rossi. Nato a Orvieto il 19 gennaio 1968, fin da giovanissimo è stato particolarmente attivo nella vita ecclesiale e sociale del suo paese di origine, Baschi, dove è stato anche consigliere comunale (oltre che un ottimo giocatore di calcio!). Consegue il diploma in Ragioneria ed esercita la professione fino all’età di 28 anni, quando decide di entrare in Seminario.Il 29 giugno 2002 viene ordinato sacerdote da mons. Decio Lucio Grandoni.

Presso il Seminario regionale di Assisi è anche stato per due volte vice rettore, molto stimato dai seminaristi e responsabile propedeutico, mentre nella diocesi di Orvieto-Todi ha diretto per diverso tempo gli uffici di Pastoralegiovanile e vocazionale. Molto importanti nel suo cammino umano e spirituale sono sicuramente stati la missione della Chiesa di Orvieto-Todi in Albania, alla quale ha partecipato con zelo ed entusiasmo più volte, e l’Azione cattolica, di cui oggi è assistente unitario sia a livello diocesano che regionale.

Attualmente vive a Collepepe insieme al giovane sacerdote don Lorenzo Romagna. Ai due presbiteri è affidata la guida di sei parrocchie: Collepepe, Collazzone, Gaglietole, Ripabianca, Casalalta-Canalicchio ed Ammeto. Don Andrea è anche moderatore dell’Unità pastorale San Cassiano e vicario foraneo del Vicariato di San Terenziano. Dal dicembre 2013, il vescovo Benedetto Tuzia lo ha nominato presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero; ruolo da subito svolto con competenza e con notevole impegno, lo stesso che sempre profonde in ogni ambito del suo ministero presbiterale.

L’inizio dell’Avvento è preceduto da alcuni gesti: il cambio del volume del breviario, la sostituzione del lezionario, la ricollocazione delle “strisce di stoffa” del messale sul “Proprio” della celebrazione e dei prefazi specifici. Gesti semplici, pratici, forse banali, che non richiedono, per la loro strumentalità, una particolare riflessione. Eppure ci consentono di riaprire l’orizzonte sul significato del tempo. Il tempo nuovo che ci propone la liturgia e, con un po’ di attenzione, anche un esame di coscienza sul tempo trascorso.

Ogni anno ci troviamo a celebrare l’Avvento: una ripetitività alienante che spinge a trovare surrogati di straordinarietà, o consapevolezza dell’attimo che segna il presente in modo unico e irripetibile? Un “eterno ritorno” o un incedere fatto di tornanti che ci portano alla sommità dell’eternità?

Il Vangelo di Matteo, che ci accompagnerà per tutto questo anno liturgico, ci mostra attraverso le parole di Gesù, narrandoci fatti passati, come nella quotidianità eventi straordinari segnano il presente e ipotecano il futuro: “Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti...”.

L’attenzione sul momento contingente non chiude lo sguardo sul presente, ma, a partire dalla situazione concreta della vita, il profeta ci insegna - guidati dallo Spirito - che è possibile allargare lo sguardo sul futuro, addirittura squarciare il velo che ci separa dall’eternità.

“Alla fine dei giorni”: così il testo del profeta Isaia ci introduce nel tempo di Avvento e dà senso a un’attesa che va oltre il contesto storico - il suo e del popolo d’Israele - , ma nello stesso tempo anche al nostro attendere, perché la liturgia ha questa potenza.

La parola del profeta risuona con parole simili anche in Michea 4,1-5: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno i popoli”.

Una visione rivelativa che un altro veggente svilupperà in altro libro biblico: l’ Apocalisse, dove la persecuzione cristiana non genera disperazione, e la testimonianza rivela una piena e totale identificazione con Cristo.

È un altro testo fondamentale per misurare la qualità della nostra vita di fede, che attraverso continue sovrapposizioni di immagine ci dà il senso e il fine della storia.

Le nostre attese, le nostre speranze hanno una prospettiva nella fede che appaga le nostre aspirazioni di pace, di giustizia, perché solo il Signore sarà il giudice, e solo la sua giustizia è foriera di pace - così ci indica ancora Gesù in questa pagina di Vangelo. La qualità del nostro attendere dipende dalla qualità di ciò che attendiamo e da quanto siamo disposti a lottare per costruire il futuro già scritto dalla vittoria di Cristo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 2,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 121

SECONDA LETTURA Dalla lettera di Paolo ai Romani 13,11-14a

VANGELO Dal vangelo di Matteo 24,37-44

C’è una visione in Isaia che ci fa sognare: un cammino di popoli disposti a uscire dai propri egoismi, in cui le identità non si trasformano in un grigiore indistinto, ma rendono visibile tutte le cromie della creazione, e in cammino ricercano la pienezza, coerente con il progetto dell’inizio, ma che la storia ha deviato. Camminando sui sentieri del Signore, si riscoprono figli di un unico Padre.

La pace diviene allora non solo un progetto ma il dinamismo trasformante la realtà stessa: ciò che è servito per la guerra si fa strumento di equità, perché tutti abbiano il necessario raggiungendo la giustizia, condizione indispensabile per la pace. Un dono, e nello stesso tempo una conquista.

Un dono da chiedere, che non ci esime dall’essere costruttori di pace. Una conquista che richiede una disponibilità alla lotta, nell’umile atteggiamento del mite che non si piega, ma è disposto a pagare di persona per realizzarla. Dalla visione di Isaia all’imperativo di Paolo di “svegliarsi dal sonno”, motivato dalla prossimità della salvezza. Il passo sembra breve, per sottolineare che l’avvicendarsi dei giorni avvicina al momento dell’incontro con il Signore, di cui non si conosce l’effettiva realizzazione. Nessuno conosce il tempo e l’ora, ma è certo che verrà.

Da qui l’invito alla prontezza che ci rivolge il Vangelo, come il padrone che non conosce l’ora in cui il ladro “visiterà” la sua casa. Dalla similitudine alla realtà, Paolo ci invita a “comportarci onestamente, come in pieno giorno”, alla luce del sole, perché le tenebre sono il luogo del male dove impera il signore delle tenebre.

Ma noi siamo “figli della luce”, chiamati a rinnegare le tenebre perché abbiamo conosciuto colui che è “Luce da Luce”, venuto nella carne. Lo attendiamo nella sua seconda venuta, e lo contempliamo e lo accogliamo ora nel sacramento della sua presenza: quella liturgica, e soprattutto in coloro che lo rivelano nella povertà della condizione umana, verso i quali ogni cosa che facciamo l’abbiamo fatta a Lui.

Don Andrea Rossi

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Il tempo è vicino https://www.lavoce.it/tempo-vicino/ Fri, 15 Nov 2019 17:29:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55728 logo reubrica commento al Vangelo

“Io ho progetti di pace e non di sventura, voi mi invocherete e io vi esaudirò”, annuncia l’Antifona d’ingresso anticipando il messaggio luminoso anziché tenebroso come potrebbe risultare ad un ascolto superficiale della liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo ordinario.

Prima lettura

La prima lettura tratta dal libro del profeta Malachia parla infatti di “superbi” che verranno resi come “paglia”, bruciati, privi di “radice” e di “germoglio”. Malachia riflette il clima del suo tempo caratterizzato da apatia e da disinteresse e sfiducia nei riguardi del divino. Probabilmente la sua attività viene esercitata tra il periodo della ricostruzione del tempio (515) e quello della riforma di Esdra e Neemia, una fase in cui l’entusiasmo del ‘ritorno’ aveva ceduto il passo all’appiattimento morale e religioso.

Soprattutto viene messa in discussione la logica retributiva, come se Dio non tenesse conto delle azioni degli uomini e delle loro conseguenze. Ma il Signore tramite Malachia addita agli scettici il ‘giorno del giudizio’ che tuttavia per quanti temono il suo nome non sarà di sventura perché per essi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale (97) ci presenta il Signore in qualità di giudice. La liturgia ci propone l’ascolto degli ultimi versetti, là dove il salmista menziona gli strumenti utilizzati per la lode tributata nel tempio (cetra, strumenti a corde, tromba, corno) abbinandoli alla vivace festa che la natura fa “davanti al re che viene a giudicare la terra”.

Parla di mare che risuona, di fiumi che battono le mani, di montagne che esultano, insomma gli elementi della natura si ‘umanizzano’ e producono una lode cosmica che esalta il Signore il cui giudizio dei popoli è giusto e retto.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Malachia 3,19-20a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II lettera di Paolo ai tessalonicesi 3,7-12

VANGELO Vangelo di Luca 21,5-19

 

Seconda lettura

La seconda Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi affronta una questione un po’ delicata cui l’autore cerca di riparare con paterna ed autorevole direzione. Si è infatti resa nota la vita disordinata che alcuni membri della comunità conducono consistente nella trascuratezza degli impegni lavorativi e nella perdita di tempo in attività inutili.

Mentre in altri ambiti della stessa Lettera questa devianza è dovuta alla convinzione dell’imminenza del ‘giorno del Signore’ per cui è vano darsi da fare, in questo caso è da attribuire ad un vero e proprio stato di pigrizia che ha coinvolto anche alcuni credenti e che turba la convivenza civile e religiosa. L’apostolo interviene intimando ai lettori di vivere onestamente, abbandonando agitazioni e allarmismi e soprattutto di “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca è tratta dal cap. 21, capitolo immediatamente precedente quello del racconto della Passione. Gesù si trova infatti nel Tempio e tiene l’ultimo discorso pubblico che questa volta verte intorno ai tempi escatologici. Il pretesto è proprio il tempio, “ornato di belle pietre”, ma per il quale Gesù ‘annuncia’ la fine imminente verificatasi poi nel 70 d.C. ad opera del (futuro imperatore) Tito Flavio Vespasiano. 

Alla domanda posta da alcuni “quando?”, Gesù risponde elencando alcuni segni, ma soprattutto proponendo un atteggiamento da osservare: stare in guardia dai falsi maestri!

Al tempo di Gesù si presentavano di tanto in tanto sedicenti messia che trasmettevano timore e ansia tra il popolo annunciando l’arrivo della fine del mondo. Eventi come guerre o carestie potevano essere interpretati come conferma delle funeste profezie. Anche Gesù si rifà al linguaggio apocalittico annunciando sconvolgenti fenomeni celesti, ma lo scopo del suo insegnamento non è quello di incutere paura ma di assicurare che il corso degli eventi naturali e sociali, è nelle mani di Dio.

Nel seguito del testo il messaggio si fa più evidente. Gesù parla esplicitamente di “sinagoghe”, di “re e governanti”, di difese nei “tribunali”, di persecuzioni non solo dall’esterno ma anche all’interno della comunità e delle famiglie. Ma sta proprio qui la chiave di tutto! Come è nello stile di Gesù, le situazioni si rovesciano: ciò che apparentemente segna la sconfitta, la fine di tutto, si trasforma in fecondità e nascita!

In questo contesto tribolato, la perseveranza nella fede letteralmente- “guadagna” le vite: è quanto la storia del cristianesimo ha poi costatato, ovvero che “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani” (Tertulliano). La perseveranza del credente, specie nel momento della prova, produce una testimonianza di inaudita fecondità spirituale.

La pagina del Vangelo ci chiede di non pensare solo a noi stessi ma di dare una coerente testimonianza di fede che giova anche a chi ci osserva certi che anche il più minimo atto che offriamo per amore ha un valore infinito perché è la parola di Gesù ad assicurarcelo: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

Giuseppina Bruscolotti

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“Io ho progetti di pace e non di sventura, voi mi invocherete e io vi esaudirò”, annuncia l’Antifona d’ingresso anticipando il messaggio luminoso anziché tenebroso come potrebbe risultare ad un ascolto superficiale della liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo ordinario.

Prima lettura

La prima lettura tratta dal libro del profeta Malachia parla infatti di “superbi” che verranno resi come “paglia”, bruciati, privi di “radice” e di “germoglio”. Malachia riflette il clima del suo tempo caratterizzato da apatia e da disinteresse e sfiducia nei riguardi del divino. Probabilmente la sua attività viene esercitata tra il periodo della ricostruzione del tempio (515) e quello della riforma di Esdra e Neemia, una fase in cui l’entusiasmo del ‘ritorno’ aveva ceduto il passo all’appiattimento morale e religioso.

Soprattutto viene messa in discussione la logica retributiva, come se Dio non tenesse conto delle azioni degli uomini e delle loro conseguenze. Ma il Signore tramite Malachia addita agli scettici il ‘giorno del giudizio’ che tuttavia per quanti temono il suo nome non sarà di sventura perché per essi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale (97) ci presenta il Signore in qualità di giudice. La liturgia ci propone l’ascolto degli ultimi versetti, là dove il salmista menziona gli strumenti utilizzati per la lode tributata nel tempio (cetra, strumenti a corde, tromba, corno) abbinandoli alla vivace festa che la natura fa “davanti al re che viene a giudicare la terra”.

Parla di mare che risuona, di fiumi che battono le mani, di montagne che esultano, insomma gli elementi della natura si ‘umanizzano’ e producono una lode cosmica che esalta il Signore il cui giudizio dei popoli è giusto e retto.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Malachia 3,19-20a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II lettera di Paolo ai tessalonicesi 3,7-12

VANGELO Vangelo di Luca 21,5-19

 

Seconda lettura

La seconda Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi affronta una questione un po’ delicata cui l’autore cerca di riparare con paterna ed autorevole direzione. Si è infatti resa nota la vita disordinata che alcuni membri della comunità conducono consistente nella trascuratezza degli impegni lavorativi e nella perdita di tempo in attività inutili.

Mentre in altri ambiti della stessa Lettera questa devianza è dovuta alla convinzione dell’imminenza del ‘giorno del Signore’ per cui è vano darsi da fare, in questo caso è da attribuire ad un vero e proprio stato di pigrizia che ha coinvolto anche alcuni credenti e che turba la convivenza civile e religiosa. L’apostolo interviene intimando ai lettori di vivere onestamente, abbandonando agitazioni e allarmismi e soprattutto di “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca è tratta dal cap. 21, capitolo immediatamente precedente quello del racconto della Passione. Gesù si trova infatti nel Tempio e tiene l’ultimo discorso pubblico che questa volta verte intorno ai tempi escatologici. Il pretesto è proprio il tempio, “ornato di belle pietre”, ma per il quale Gesù ‘annuncia’ la fine imminente verificatasi poi nel 70 d.C. ad opera del (futuro imperatore) Tito Flavio Vespasiano. 

Alla domanda posta da alcuni “quando?”, Gesù risponde elencando alcuni segni, ma soprattutto proponendo un atteggiamento da osservare: stare in guardia dai falsi maestri!

Al tempo di Gesù si presentavano di tanto in tanto sedicenti messia che trasmettevano timore e ansia tra il popolo annunciando l’arrivo della fine del mondo. Eventi come guerre o carestie potevano essere interpretati come conferma delle funeste profezie. Anche Gesù si rifà al linguaggio apocalittico annunciando sconvolgenti fenomeni celesti, ma lo scopo del suo insegnamento non è quello di incutere paura ma di assicurare che il corso degli eventi naturali e sociali, è nelle mani di Dio.

Nel seguito del testo il messaggio si fa più evidente. Gesù parla esplicitamente di “sinagoghe”, di “re e governanti”, di difese nei “tribunali”, di persecuzioni non solo dall’esterno ma anche all’interno della comunità e delle famiglie. Ma sta proprio qui la chiave di tutto! Come è nello stile di Gesù, le situazioni si rovesciano: ciò che apparentemente segna la sconfitta, la fine di tutto, si trasforma in fecondità e nascita!

In questo contesto tribolato, la perseveranza nella fede letteralmente- “guadagna” le vite: è quanto la storia del cristianesimo ha poi costatato, ovvero che “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani” (Tertulliano). La perseveranza del credente, specie nel momento della prova, produce una testimonianza di inaudita fecondità spirituale.

La pagina del Vangelo ci chiede di non pensare solo a noi stessi ma di dare una coerente testimonianza di fede che giova anche a chi ci osserva certi che anche il più minimo atto che offriamo per amore ha un valore infinito perché è la parola di Gesù ad assicurarcelo: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

Giuseppina Bruscolotti

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“Io credo: risorgerò” https://www.lavoce.it/io-credo-risorgero/ Fri, 08 Nov 2019 18:16:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55710 logo reubrica commento al Vangelo

“Il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna”, ascoltiamo domenica - XXXII del Tempo ordinario - dal Secondo libro dei Maccabei.

Prima lettura

Ad affermarlo è uno dei “sette fratelli” martirizzati per la causa del Signore Dio d’Israele. L’episodio è collocato nel periodo in cui la Giudea è stata dominata dal crudele Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), sovrano seleucide che ha promosso un’azione politica finalizzata a distruggere le tradizioni religiose giudaiche. Questo il contesto.

Avendo vista fallire la conquista dell’Egitto (168 a.C.), Antioco IV si dirige a Gerusalemme, la devasta, comincia a perseguitare gli ebrei, fa bruciare le sacre Scritture, depreda e profana il Tempio, vieta - sotto minaccia di morte - la circoncisione, l’alimentazione kasher e l’osservanza del sabato.

In questa fase, e prima della riconquista da parte di Giuda Maccabeo, si pone la narrazione relativa a una donna e ai suoi sette figli, colpevoli di non aver voluto mangiare carni suine per fedeltà ai loro princìpi religiosi.

Viene quindi descritto il processo in tutta la sua atrocità perché, via via, ognuno dei sette figli viene istigato a profanare la Legge con torture e mutilazioni corporali. Ma, sorretti dall’eroica fede della madre, tutti e sette accettano di morire, certi che “è preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale Salmo 16 riguarda la supplica di un perseguitato.

Si tratta di David, in fuga dalla violenta crisi di gelosia impadronitasi del cuore e della mente di re Saul, che lo cerca per ucciderlo.

David allora si affida consapevolmente al Signore, che lo “ascolta”: il nemico non può prevalere, anche perché il Signore custodisce il Suo consacrato “come pupilla degli occhi”, espressione per dire che il Signore ne ha una cura paragonabile a quella che si ha per gli occhi, gli organi più delicati e più preziosi del corpo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei maccabei 7,1-2.9-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 16

Seconda lettura

Circa la pagina della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (il seguito di quella ascoltata domenica scorsa), è interessante notare che questa volta sono i mittenti a chiedere ai destinatari di pregare per loro, e il motivo è sempre la causa del Vangelo, perché “la parola del Signore corra e sia glorificata”.

Come nella I lettura e nel Salmo, anche qui l’autore menziona gli “uomini corrotti e malvagi” probabilmente gli oppositori del Vangelo - dalle minacce dei quali auspica di essere liberato. Per sé e per i lettori, l’Apostolo annuncia tuttavia l’esito vittorioso perché fonda la certezza sul Signore che “è fedele” e per questo li “custodirà dal maligno”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci presenta l’incontro di Gesù con i sadducei intorno alla questione della risurrezione. I sadducei erano gli aristocratici della ‘casta’ sacerdotale e la loro peculiarità era quella di ritenere autorevole solo la parte della Bibbia coincidente con il Pentateuco.

In virtù di questo, non credevano nella risurrezione dei morti, ambito teologico che riguarderebbe altri libri della Bibbia, ma non il Pentateuco. Ciò che chiedono a Gesù in merito al caso della donna sposata sette volte, e al suo destino oltre la morte, non è mosso da sincero interesse, ma dalla volontà di ridicolizzare Gesù.

La questione è anche posta in modo preciso perché i sadducei si appellano al precetto del ‘levirato’ (Dt 25), secondo cui se un uomo muore senza aver generato figli, la vedova deve sposarsi con il fratello di lui e dare alla luce dei figli, dei quali il primogenito continuerà legalmente la discendenza del defunto.

Qui si pone il caso particolare di una donna sposata con sette fratelli, uno dopo l’altro, per ottenere da almeno uno di loro la continuità legale del primo marito defunto, ma non riesce ad avere figli. Dunque, “alla risurrezione, di chi sarà moglie?”.

La risposta di Gesù che ammutolisce i sadducei, e che conferma la risurrezione, viene fondata proprio su uno di quei libri studiati dai sadducei. Gesù cita infatti l’ Esodo (3,15) che presenta il Signore come “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” ovvero il Signore della vita che ha stretto un’alleanza eterna con quanti hanno risposto alla Sua chiamata.

Gesù non fa altro che additare la Scrittura, e i libri del Pentateuco in particolare, come punto di partenza per la verità sulla risurrezione. E il testo continua: “Dissero alcuni degli scribi: ‘Maestro, hai detto bene’”.

Il dialogo è iniziato con la provocazione dei sadducei e concluso con l’approvazione degli scribi. Non che Gesù abbia bisogno di esperti in sacra Scrittura (scribi) per confermare il più importante dei suoi insegnamenti - che è anche il fondamento del cristianesimo - , ma sembra volerci condurre ad apprezzare il fatto che già ‘da lontano’ nella Scrittura, ‘prima’ di lui, è annunciata la risurrezione dalla morte, seppure in modo velato.

“Dio ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nell’Antico e l’Antico fosse svelato nel Nuovo” (DV 14).

Giuseppina Bruscolotti

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“Il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna”, ascoltiamo domenica - XXXII del Tempo ordinario - dal Secondo libro dei Maccabei.

Prima lettura

Ad affermarlo è uno dei “sette fratelli” martirizzati per la causa del Signore Dio d’Israele. L’episodio è collocato nel periodo in cui la Giudea è stata dominata dal crudele Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), sovrano seleucide che ha promosso un’azione politica finalizzata a distruggere le tradizioni religiose giudaiche. Questo il contesto.

Avendo vista fallire la conquista dell’Egitto (168 a.C.), Antioco IV si dirige a Gerusalemme, la devasta, comincia a perseguitare gli ebrei, fa bruciare le sacre Scritture, depreda e profana il Tempio, vieta - sotto minaccia di morte - la circoncisione, l’alimentazione kasher e l’osservanza del sabato.

In questa fase, e prima della riconquista da parte di Giuda Maccabeo, si pone la narrazione relativa a una donna e ai suoi sette figli, colpevoli di non aver voluto mangiare carni suine per fedeltà ai loro princìpi religiosi.

Viene quindi descritto il processo in tutta la sua atrocità perché, via via, ognuno dei sette figli viene istigato a profanare la Legge con torture e mutilazioni corporali. Ma, sorretti dall’eroica fede della madre, tutti e sette accettano di morire, certi che “è preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale Salmo 16 riguarda la supplica di un perseguitato.

Si tratta di David, in fuga dalla violenta crisi di gelosia impadronitasi del cuore e della mente di re Saul, che lo cerca per ucciderlo.

David allora si affida consapevolmente al Signore, che lo “ascolta”: il nemico non può prevalere, anche perché il Signore custodisce il Suo consacrato “come pupilla degli occhi”, espressione per dire che il Signore ne ha una cura paragonabile a quella che si ha per gli occhi, gli organi più delicati e più preziosi del corpo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei maccabei 7,1-2.9-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 16

Seconda lettura

Circa la pagina della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (il seguito di quella ascoltata domenica scorsa), è interessante notare che questa volta sono i mittenti a chiedere ai destinatari di pregare per loro, e il motivo è sempre la causa del Vangelo, perché “la parola del Signore corra e sia glorificata”.

Come nella I lettura e nel Salmo, anche qui l’autore menziona gli “uomini corrotti e malvagi” probabilmente gli oppositori del Vangelo - dalle minacce dei quali auspica di essere liberato. Per sé e per i lettori, l’Apostolo annuncia tuttavia l’esito vittorioso perché fonda la certezza sul Signore che “è fedele” e per questo li “custodirà dal maligno”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci presenta l’incontro di Gesù con i sadducei intorno alla questione della risurrezione. I sadducei erano gli aristocratici della ‘casta’ sacerdotale e la loro peculiarità era quella di ritenere autorevole solo la parte della Bibbia coincidente con il Pentateuco.

In virtù di questo, non credevano nella risurrezione dei morti, ambito teologico che riguarderebbe altri libri della Bibbia, ma non il Pentateuco. Ciò che chiedono a Gesù in merito al caso della donna sposata sette volte, e al suo destino oltre la morte, non è mosso da sincero interesse, ma dalla volontà di ridicolizzare Gesù.

La questione è anche posta in modo preciso perché i sadducei si appellano al precetto del ‘levirato’ (Dt 25), secondo cui se un uomo muore senza aver generato figli, la vedova deve sposarsi con il fratello di lui e dare alla luce dei figli, dei quali il primogenito continuerà legalmente la discendenza del defunto.

Qui si pone il caso particolare di una donna sposata con sette fratelli, uno dopo l’altro, per ottenere da almeno uno di loro la continuità legale del primo marito defunto, ma non riesce ad avere figli. Dunque, “alla risurrezione, di chi sarà moglie?”.

La risposta di Gesù che ammutolisce i sadducei, e che conferma la risurrezione, viene fondata proprio su uno di quei libri studiati dai sadducei. Gesù cita infatti l’ Esodo (3,15) che presenta il Signore come “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” ovvero il Signore della vita che ha stretto un’alleanza eterna con quanti hanno risposto alla Sua chiamata.

Gesù non fa altro che additare la Scrittura, e i libri del Pentateuco in particolare, come punto di partenza per la verità sulla risurrezione. E il testo continua: “Dissero alcuni degli scribi: ‘Maestro, hai detto bene’”.

Il dialogo è iniziato con la provocazione dei sadducei e concluso con l’approvazione degli scribi. Non che Gesù abbia bisogno di esperti in sacra Scrittura (scribi) per confermare il più importante dei suoi insegnamenti - che è anche il fondamento del cristianesimo - , ma sembra volerci condurre ad apprezzare il fatto che già ‘da lontano’ nella Scrittura, ‘prima’ di lui, è annunciata la risurrezione dalla morte, seppure in modo velato.

“Dio ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nell’Antico e l’Antico fosse svelato nel Nuovo” (DV 14).

Giuseppina Bruscolotti

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