palestinesi Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/palestinesi/ Settimanale di informazione regionale Fri, 27 Sep 2024 12:24:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg palestinesi Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/palestinesi/ 32 32 Israele ha cacciato da Gaza gli osservatori inviati dall’Onu https://www.lavoce.it/israele-ha-cacciato-da-gaza-gli-osservatori-inviati-dallonu/ https://www.lavoce.it/israele-ha-cacciato-da-gaza-gli-osservatori-inviati-dallonu/#respond Fri, 27 Sep 2024 09:33:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77752 Il tavolo dei relatori e dietro dei giovani seduti

“A Gerusalemme – racconta a margine della giornata della Pace che si è svolta ad Assisi il 21 settembre Andrea De Domenico, ex direttore dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati (Ocha) – mi occupavo del coordinamento dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli aiuti al popolo palestinese: si parla di aiuti umanitari. Sono stato cinque anni in Palestina. Quando entrai dovetti chiedere il visto agli israeliani, e già qui ti rendi conto che è in corso un’occupazione. Non avermi rinnovato il visto non significa tanto prendersela con me direttamente, quanto con le Nazioni Unite”.

Di cosa si occupava e si occupa ancora l’Ocha?

“Come prima cosa, sul campo, facciamo una ‘fotografia’ dei bisogni del Paese, cercando poi di mettere insieme tutti gli attori – governativi e non governativi – che si occupano di fornire delle risposte ai bisogni delle persone. Poi c’è una seconda parte, di tipo istituzionale e internazionale, che consiste nell’intervenire con il nostro portavoce al Consiglio di sicurezza dell’Onu, cercando di scuotere le coscienze degli Stati membri”.

Come vi coordinavate con l’Onu quando eravate sul posto?

“Io rispondo sempre che di fatto le Nazioni Unite… non esistono, nel senso che sono l’espressione e la volontà dei 193 Stati membri che la compongono. Non è che il funzionario decide cosa fare, sono gli Stati membri che dicono cosa possiamo fare, e solo dentro quei limiti possiamo muoverci. Prima del 7 ottobre 2023, data in cui è scoppiato il conflitto israelopalestinese, nessuno ci ascoltava, era un problema parlarne. Dopo quella data, c’è stata molta più attenzione”.

Qual è la situazione attuale?

“Si parla molto di Gaza, e quello che ancora sta accadendo è atroce, ma c’è anche la Cisgiordania: parliamo di 770 morti e 180 bambini solo in quel territorio. Israele dovrebbe mantenere l’ordine pubblico; in verità sono operazioni militari, ma in teoria dovrebbero essere operazioni di polizia, perché non c’è la guerra in Cisgiordania. A Gaza la situazione è ancora peggiore: gli Stati membri ci hanno dato il mandato per esercitare il nostro lavoro, tuttavia ci hanno supportato solo a parole. Prima che io fossi mandato via, dovevamo spostarci in continuazione, senza mai poterci stabilire in una sede fissa per portare avanti il nostro lavoro. L’Onu ha perso potere, ma gli Stati membri dovrebbero esercitare più potere per lasciarci fare il nostro lavoro. Non possiamo lasciare che tutti facciano ciò che vogliono, non solo contro le persone, ma anche per quanto riguarda le loro azioni e decisioni politiche”.

Emanuela Marotta

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Il tavolo dei relatori e dietro dei giovani seduti

“A Gerusalemme – racconta a margine della giornata della Pace che si è svolta ad Assisi il 21 settembre Andrea De Domenico, ex direttore dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati (Ocha) – mi occupavo del coordinamento dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli aiuti al popolo palestinese: si parla di aiuti umanitari. Sono stato cinque anni in Palestina. Quando entrai dovetti chiedere il visto agli israeliani, e già qui ti rendi conto che è in corso un’occupazione. Non avermi rinnovato il visto non significa tanto prendersela con me direttamente, quanto con le Nazioni Unite”.

Di cosa si occupava e si occupa ancora l’Ocha?

“Come prima cosa, sul campo, facciamo una ‘fotografia’ dei bisogni del Paese, cercando poi di mettere insieme tutti gli attori – governativi e non governativi – che si occupano di fornire delle risposte ai bisogni delle persone. Poi c’è una seconda parte, di tipo istituzionale e internazionale, che consiste nell’intervenire con il nostro portavoce al Consiglio di sicurezza dell’Onu, cercando di scuotere le coscienze degli Stati membri”.

Come vi coordinavate con l’Onu quando eravate sul posto?

“Io rispondo sempre che di fatto le Nazioni Unite… non esistono, nel senso che sono l’espressione e la volontà dei 193 Stati membri che la compongono. Non è che il funzionario decide cosa fare, sono gli Stati membri che dicono cosa possiamo fare, e solo dentro quei limiti possiamo muoverci. Prima del 7 ottobre 2023, data in cui è scoppiato il conflitto israelopalestinese, nessuno ci ascoltava, era un problema parlarne. Dopo quella data, c’è stata molta più attenzione”.

Qual è la situazione attuale?

“Si parla molto di Gaza, e quello che ancora sta accadendo è atroce, ma c’è anche la Cisgiordania: parliamo di 770 morti e 180 bambini solo in quel territorio. Israele dovrebbe mantenere l’ordine pubblico; in verità sono operazioni militari, ma in teoria dovrebbero essere operazioni di polizia, perché non c’è la guerra in Cisgiordania. A Gaza la situazione è ancora peggiore: gli Stati membri ci hanno dato il mandato per esercitare il nostro lavoro, tuttavia ci hanno supportato solo a parole. Prima che io fossi mandato via, dovevamo spostarci in continuazione, senza mai poterci stabilire in una sede fissa per portare avanti il nostro lavoro. L’Onu ha perso potere, ma gli Stati membri dovrebbero esercitare più potere per lasciarci fare il nostro lavoro. Non possiamo lasciare che tutti facciano ciò che vogliono, non solo contro le persone, ma anche per quanto riguarda le loro azioni e decisioni politiche”.

Emanuela Marotta

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Si potrà riprendere il filo dei dialoghi di pace? https://www.lavoce.it/si-potra-riprendere-il-filo-dei-dialoghi-di-pace/ https://www.lavoce.it/si-potra-riprendere-il-filo-dei-dialoghi-di-pace/#respond Thu, 18 Apr 2024 14:36:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75715 In primo pian macerie causate dalle bombe a gaza, sullo sfondo palazzi distrutti

Tutti auguriamo – o comunque io auguro – una vita lunga e serena allo Stato di Israele. Ma purtroppo il suo attuale governo sembra che stia facendo di tutto per tirarsi addosso quelli che vogliono distruggerlo. Questo è il commento che ci sentiamo di fare alla sciagurata iniziativa di portare un attacco aereo mortale alla rappresentanza diplomatica dell’Iran in una paese terzo. Sapendo che è sin dal 1979 – quando l’ala estremista e fanatica dell’islamismo sciita ha preso il potere in Iran rovesciando il governo monarchico – che quel grande paese ha messo al primo posto del suo programma politico la distruzione di Israele.

Certo, venire a patti con il regime degli ayatollah era impossibile. Ma almeno non offritegli pretesti per scatenarsi. È impressionante ricordare che appena dieci anni fa – era l’8 giugno del 2014Papa Francesco chiese ed ottenne che l’allora presidente di Israele, Shimon Peres, e il capo dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, si incontrassero in Vaticano per pregare, con lui, per la pace; c’era anche Bartolomeo di Costantinopoli. La formula era di nuovo quella di Assisi: se non ci sentiamo ancora pronti per “pregare insieme” possiamo però trovarci “insieme per pregare”. Assistemmo a quell’incontro in diretta televisiva, e fu emozionante. Dunque era possibile che la ricerca della pace facesse un passo in avanti, sia pure solo simbolico. Che cosa non si pagherebbe oggi per tornare a quel momento?

Shimon Peres era agli ultimi giorni del suo mandato come capo dello Stato; capo del governo israeliano era Netanyahu; da allora quest’uomo e la sua politica hanno reso sempre più evanescente lo schema “due popoli, due stati” che pure era stato consacrato dagli accordi di Oslo nel 1993 e nell’anno successivo aveva meritato il premio Nobel per la pace allo stesso Peres, all’allora primo ministro Rabin e al capo palestinese Arafat.

Purtroppo quelle promesse non hanno portato (ancora) i loro frutti, come abbiamo visto tragicamente negli ultimi mesi. Ma lo straordinario episodio del 2014 ci ricorda che vi è stato un tempo in cui il cammino per la pace in Palestina era in corso, e ai due popoli venivano offerte occasioni che alcuni avevano saputo raccogliere e altri, dopo, hanno lasciato cadere. Sarà ancora possibile recuperare il filo di quel cammino?

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In primo pian macerie causate dalle bombe a gaza, sullo sfondo palazzi distrutti

Tutti auguriamo – o comunque io auguro – una vita lunga e serena allo Stato di Israele. Ma purtroppo il suo attuale governo sembra che stia facendo di tutto per tirarsi addosso quelli che vogliono distruggerlo. Questo è il commento che ci sentiamo di fare alla sciagurata iniziativa di portare un attacco aereo mortale alla rappresentanza diplomatica dell’Iran in una paese terzo. Sapendo che è sin dal 1979 – quando l’ala estremista e fanatica dell’islamismo sciita ha preso il potere in Iran rovesciando il governo monarchico – che quel grande paese ha messo al primo posto del suo programma politico la distruzione di Israele.

Certo, venire a patti con il regime degli ayatollah era impossibile. Ma almeno non offritegli pretesti per scatenarsi. È impressionante ricordare che appena dieci anni fa – era l’8 giugno del 2014Papa Francesco chiese ed ottenne che l’allora presidente di Israele, Shimon Peres, e il capo dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, si incontrassero in Vaticano per pregare, con lui, per la pace; c’era anche Bartolomeo di Costantinopoli. La formula era di nuovo quella di Assisi: se non ci sentiamo ancora pronti per “pregare insieme” possiamo però trovarci “insieme per pregare”. Assistemmo a quell’incontro in diretta televisiva, e fu emozionante. Dunque era possibile che la ricerca della pace facesse un passo in avanti, sia pure solo simbolico. Che cosa non si pagherebbe oggi per tornare a quel momento?

Shimon Peres era agli ultimi giorni del suo mandato come capo dello Stato; capo del governo israeliano era Netanyahu; da allora quest’uomo e la sua politica hanno reso sempre più evanescente lo schema “due popoli, due stati” che pure era stato consacrato dagli accordi di Oslo nel 1993 e nell’anno successivo aveva meritato il premio Nobel per la pace allo stesso Peres, all’allora primo ministro Rabin e al capo palestinese Arafat.

Purtroppo quelle promesse non hanno portato (ancora) i loro frutti, come abbiamo visto tragicamente negli ultimi mesi. Ma lo straordinario episodio del 2014 ci ricorda che vi è stato un tempo in cui il cammino per la pace in Palestina era in corso, e ai due popoli venivano offerte occasioni che alcuni avevano saputo raccogliere e altri, dopo, hanno lasciato cadere. Sarà ancora possibile recuperare il filo di quel cammino?

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Gaza, Calvario dei cristiani https://www.lavoce.it/gaza-calvario-dei-cristiani/ https://www.lavoce.it/gaza-calvario-dei-cristiani/#respond Wed, 27 Mar 2024 10:12:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75482 Un bambino viene recuperato tra le macerie di un edificio residenziale raso al suolo da un attacco aereo israeliano. Sta in braccio ad un uomo di spalle, tutto introno ci sono altri soccorritori. Striscia di Gaza

Il Calvario di Gaza è pieno di croci. Il “luogo del cranio” è tornato a essere luogo di morte. Il sangue di migliaia di persone che sono cadute in questa guerra continua a insanguinare, ancora una volta, questa terra benedetta. Benedetta perché un giorno ha bevuto il sangue innocente e redentore dell’Agnello immacolato, Gesù Cristo. Benedetta perché quella stessa terra, dalle sue viscere, è stata costretta a restituire quel sangue al corpo glorioso del Signore Gesù risorto.

E così, da quel benedetto Venerdì santo la terra, questa terra, sa che il sangue innocente, come quello dei bambini innocenti degli ebrei uccisi dal crudele Erode, diventa misteriosamente segno e pegno di benedizione e risurrezione.

Ma intanto, sul Calvario di Gaza, le croci continuano a sanguinare, e i martellanti bombardamenti e gli spari continuano a mettere in croce migliaia e migliaia di persone. C’è chi schernisce, c’è chi si volta dall’altra parte per non vedere la sofferenza altrui… Com’è difficile prendersi cura di un malato o di un ferito senza avere il necessario per curarlo! Sì, è difficile essere testimoni della croce degli altri. È difficile, è noioso, è desolante. È difficile pensare alle sofferenze di prigionieri e ostaggi, ai morti, ai feriti, alle violenze di ogni genere. Eppure è proprio ciò che sta accadendo.

Sul Calvario di Gaza arriva anche la carestia. Non c’è mai stata una situazione del genere, i bambini muoiono di fame. Sembra impossibile che il cibo arrivi alle bocche affamate, ma non è impossibile che le bombe e i proiettili raggiungano le case di migliaia e migliaia di civili, la maggior parte delle vittime.

Anche la comunità cristiana è sul Calvario di Gaza. Questa comunità, che contava 1.017 membri all’inizio della guerra (135 cattolici e 882 grecoortodossi), ha perso 31 membri: 18 sono morti in un bombardamento israeliano di fronte alla chiesa ortodossa che ha causato la distruzione di un edificio parrocchiale che ospitava dei rifugiati cristiani che stavano dormendo; due donne, rifugiate cattoliche, sono state assassinate all’interno della parrocchia latina da un cecchino delle Forze di difesa israeliane (come riporta una nota del Patriarcato latino di Gerusalemme del dicembre 2023). E altri 11 cristiani sono morti per mancanza di assistenza ospedaliera. Nella parrocchia cattolica ci sono circa 600 parrocchiani rifugiati, in quella ortodossa 250.

La gente vaga in questa ‘Via crucis’ da una parte all’altra in cerca di tutto: riparo, una coperta, acqua, qualcosa da mangiare, vaga da una parte all’altra cercando di schivare i bombardamenti. Migliaia e migliaia di persone così bisognose! Soprattutto hanno bisogno di essere trattate con un po’ di umanità.

I cristiani che hanno deciso di rimanere “accanto a Gesù in ciò che Gesù ha vissuto” soffrono come il resto della popolazione e chiedono a Dio e a sua Madre la cessazione immediata e permanente delle ostilità, la liberazione dei prigionieri, gli urgentissimi aiuti umanitari in tutta la Striscia (Nord e Sud) e assistenza per migliaia e migliaia di feriti. Gaza vive un Calvario. E sul suo Calvario c’è morte e ci sono ombre di morte. Ma, al tempo stesso, sappiamo che vicino al Calvario c’è la Tomba vuota. La morte non ha l’ultima parola. Preghiamo e lavoriamo per essere testimoni di speranza in mezzo a tanto dolore. Continuiamo a pregare per la pace in Palestina e Israele.

Padre Gabriel Romanelli parroco latino di Gaza  
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Un bambino viene recuperato tra le macerie di un edificio residenziale raso al suolo da un attacco aereo israeliano. Sta in braccio ad un uomo di spalle, tutto introno ci sono altri soccorritori. Striscia di Gaza

Il Calvario di Gaza è pieno di croci. Il “luogo del cranio” è tornato a essere luogo di morte. Il sangue di migliaia di persone che sono cadute in questa guerra continua a insanguinare, ancora una volta, questa terra benedetta. Benedetta perché un giorno ha bevuto il sangue innocente e redentore dell’Agnello immacolato, Gesù Cristo. Benedetta perché quella stessa terra, dalle sue viscere, è stata costretta a restituire quel sangue al corpo glorioso del Signore Gesù risorto.

E così, da quel benedetto Venerdì santo la terra, questa terra, sa che il sangue innocente, come quello dei bambini innocenti degli ebrei uccisi dal crudele Erode, diventa misteriosamente segno e pegno di benedizione e risurrezione.

Ma intanto, sul Calvario di Gaza, le croci continuano a sanguinare, e i martellanti bombardamenti e gli spari continuano a mettere in croce migliaia e migliaia di persone. C’è chi schernisce, c’è chi si volta dall’altra parte per non vedere la sofferenza altrui… Com’è difficile prendersi cura di un malato o di un ferito senza avere il necessario per curarlo! Sì, è difficile essere testimoni della croce degli altri. È difficile, è noioso, è desolante. È difficile pensare alle sofferenze di prigionieri e ostaggi, ai morti, ai feriti, alle violenze di ogni genere. Eppure è proprio ciò che sta accadendo.

Sul Calvario di Gaza arriva anche la carestia. Non c’è mai stata una situazione del genere, i bambini muoiono di fame. Sembra impossibile che il cibo arrivi alle bocche affamate, ma non è impossibile che le bombe e i proiettili raggiungano le case di migliaia e migliaia di civili, la maggior parte delle vittime.

Anche la comunità cristiana è sul Calvario di Gaza. Questa comunità, che contava 1.017 membri all’inizio della guerra (135 cattolici e 882 grecoortodossi), ha perso 31 membri: 18 sono morti in un bombardamento israeliano di fronte alla chiesa ortodossa che ha causato la distruzione di un edificio parrocchiale che ospitava dei rifugiati cristiani che stavano dormendo; due donne, rifugiate cattoliche, sono state assassinate all’interno della parrocchia latina da un cecchino delle Forze di difesa israeliane (come riporta una nota del Patriarcato latino di Gerusalemme del dicembre 2023). E altri 11 cristiani sono morti per mancanza di assistenza ospedaliera. Nella parrocchia cattolica ci sono circa 600 parrocchiani rifugiati, in quella ortodossa 250.

La gente vaga in questa ‘Via crucis’ da una parte all’altra in cerca di tutto: riparo, una coperta, acqua, qualcosa da mangiare, vaga da una parte all’altra cercando di schivare i bombardamenti. Migliaia e migliaia di persone così bisognose! Soprattutto hanno bisogno di essere trattate con un po’ di umanità.

I cristiani che hanno deciso di rimanere “accanto a Gesù in ciò che Gesù ha vissuto” soffrono come il resto della popolazione e chiedono a Dio e a sua Madre la cessazione immediata e permanente delle ostilità, la liberazione dei prigionieri, gli urgentissimi aiuti umanitari in tutta la Striscia (Nord e Sud) e assistenza per migliaia e migliaia di feriti. Gaza vive un Calvario. E sul suo Calvario c’è morte e ci sono ombre di morte. Ma, al tempo stesso, sappiamo che vicino al Calvario c’è la Tomba vuota. La morte non ha l’ultima parola. Preghiamo e lavoriamo per essere testimoni di speranza in mezzo a tanto dolore. Continuiamo a pregare per la pace in Palestina e Israele.

Padre Gabriel Romanelli parroco latino di Gaza  
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Fratelli: gli ebrei e tutti https://www.lavoce.it/fratelli-gli-ebrei-e-tutti/ https://www.lavoce.it/fratelli-gli-ebrei-e-tutti/#respond Wed, 24 Jan 2024 18:24:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74667

È inutile negare che la celebrazione della Giornata della Memoria della Shoah quest’anno assume un significato particolarissimo. Non vi sia nemmeno l’ombra di un’incertezza nella condanna dell’antisemitismo in tutte le sue espressioni!  Oggi più che mai, occorre vigilare per arginare la vigliaccheria o l’ignoranza di ogni negazionismo. Così come bisogna continuare a mostrarsi inflessibili verso ogni discriminazione che si abbatte contro uno specifico gruppo sociale o etnico, religioso o nazionale.

La feroce guerra in corso a Gaza non solo non deve attenuare la condanna dello sterminio degli ebrei pianificato da Hitler e dal nazismo, semmai deve radicarci nella condanna di ogni violenza, specie quando è condotta su vasta scala e soprattutto contro una specifica popolazione, come in questo caso i palestinesi.

Se adottiamo il paradigma del dolore e dello sguardo delle vittime al di là della loro appartenenza, non possiamo che chiedere di cessare il fuoco. Sempre. “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza” ci ricorda Liliana Segre. Ed è per questo che, proprio coltivando la memoria dello sterminio del popolo ebraico nei campi di concentramento nazisti, riterremmo una colpa grave voltarci dall’altra parte mentre si continuano a bombardare le case e la vita degli abitanti della Striscia di Gaza.

Dobbiamo esorcizzare dall’umanità l’idea della punizione collettiva a causa delle responsabilità e delle nefandezze inenarrabili compiute da un gruppo o per le colpe presunte che i suoi antenati avrebbero commesso. Come non ricordare a questo proposito il commento di Papa Benedetto al dialogo/intercessione di Abramo con Dio (Genesi 18)? “Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia ‘superiore’, offrendo loro una possibilità di salvezza” (Benedetto XVI, udienza generale del 18 maggio 2011).

Ecco, trattare i colpevoli come innocenti per non correre il rischio di far cadere sugli innocenti la punizione destinata ai colpevoli. Gli ebrei ci sono cari per mille e mille ragioni, al punto da sentirli “fratelli maggiori”, secondo la bella definizione di san Giovanni Paolo II. Ma ogni vita ci è cara, perché custodisce e manifesta il palpito dell’universo intero, l’immagine stessa di Dio.

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È inutile negare che la celebrazione della Giornata della Memoria della Shoah quest’anno assume un significato particolarissimo. Non vi sia nemmeno l’ombra di un’incertezza nella condanna dell’antisemitismo in tutte le sue espressioni!  Oggi più che mai, occorre vigilare per arginare la vigliaccheria o l’ignoranza di ogni negazionismo. Così come bisogna continuare a mostrarsi inflessibili verso ogni discriminazione che si abbatte contro uno specifico gruppo sociale o etnico, religioso o nazionale.

La feroce guerra in corso a Gaza non solo non deve attenuare la condanna dello sterminio degli ebrei pianificato da Hitler e dal nazismo, semmai deve radicarci nella condanna di ogni violenza, specie quando è condotta su vasta scala e soprattutto contro una specifica popolazione, come in questo caso i palestinesi.

Se adottiamo il paradigma del dolore e dello sguardo delle vittime al di là della loro appartenenza, non possiamo che chiedere di cessare il fuoco. Sempre. “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza” ci ricorda Liliana Segre. Ed è per questo che, proprio coltivando la memoria dello sterminio del popolo ebraico nei campi di concentramento nazisti, riterremmo una colpa grave voltarci dall’altra parte mentre si continuano a bombardare le case e la vita degli abitanti della Striscia di Gaza.

Dobbiamo esorcizzare dall’umanità l’idea della punizione collettiva a causa delle responsabilità e delle nefandezze inenarrabili compiute da un gruppo o per le colpe presunte che i suoi antenati avrebbero commesso. Come non ricordare a questo proposito il commento di Papa Benedetto al dialogo/intercessione di Abramo con Dio (Genesi 18)? “Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia ‘superiore’, offrendo loro una possibilità di salvezza” (Benedetto XVI, udienza generale del 18 maggio 2011).

Ecco, trattare i colpevoli come innocenti per non correre il rischio di far cadere sugli innocenti la punizione destinata ai colpevoli. Gli ebrei ci sono cari per mille e mille ragioni, al punto da sentirli “fratelli maggiori”, secondo la bella definizione di san Giovanni Paolo II. Ma ogni vita ci è cara, perché custodisce e manifesta il palpito dell’universo intero, l’immagine stessa di Dio.

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Cosa aspetta il mondo? https://www.lavoce.it/cosa-aspetta-il-mondo/ https://www.lavoce.it/cosa-aspetta-il-mondo/#respond Thu, 14 Dec 2023 09:23:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74286 Palazzi a Gaza distrutti dai bombardamenti

Siamo sempre più vicini a un Natale che quest’anno è assai difficile da vivere e che ci porta con il cuore in tutti quei luoghi dove la Natività è coperta dalle macerie, dalla violenza e dalla guerra.

Il nostro pensiero ricorrente va all’amata Terra Santa e alla catastrofe umanitaria che si traduce in decine di migliaia di morti, in un numero imprecisato di feriti e in milioni di persone in grave difficoltà, con poche aspettative di futuro. Il pensiero più straziante è quello per i tanti bambini innocenti e indifesi che stanno subendo tutto questo.

Chi ha seguito in presenza o attraverso i mezzi di comunicazione la giornata di riflessione e di marcia per la pace di domenica scorsa, ha potuto ascoltare parole soffocate in gola e autentica commozione in vari momenti della manifestazione. Vi confesso che lo scoraggiamento - pensando al fronte mediorientale, a quello russo-ucraino e ai tanti conflitti dimenticati nel mondo - spesso prende il sopravvento anche su chi vi scrive queste poche righe.

Proprio domenica scorsa, in parallelo con il corteo assisano dei costruttori di pace, il Sacro Convento francescano ha ospitato la maratona televisiva delle emittenti locali del circuito Corallo Tv. Tra gli ospiti dello speciale “Pace in terra” c’era anche il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il card. Pierbattista Pizzaballa.

Commentando le ultime notizie da Gaza e il veto degli Stati Uniti alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu sul cessate il fuoco umanitario, la domanda ci è uscita d’impeto. Cosa sta aspettando il mondo? Come si può scorgere e ritrovare il Bambino Gesù in mezzo alle macerie e alle distruzioni di Gaza?

“Gli occhi della fede non ci devono aiutare solo a guardare la realtà che ci circonda - ci ha risposto Pizzaballa - ma la fede ci deve aiutare anche a guardare oltre. Se restiamo solo dentro al dolore che ci circonda, all’odio che ci inonda, non riusciremo ad andare oltre. La fede è un’esperienza di perdono e di salvezza che ci tocca il cuore e ci cambia la prospettiva. Dove c’è ancora qualcuno cristiano, ebreo o musulmano che è capace di dare la vita per l’altro, lì è Natale”.

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Palazzi a Gaza distrutti dai bombardamenti

Siamo sempre più vicini a un Natale che quest’anno è assai difficile da vivere e che ci porta con il cuore in tutti quei luoghi dove la Natività è coperta dalle macerie, dalla violenza e dalla guerra.

Il nostro pensiero ricorrente va all’amata Terra Santa e alla catastrofe umanitaria che si traduce in decine di migliaia di morti, in un numero imprecisato di feriti e in milioni di persone in grave difficoltà, con poche aspettative di futuro. Il pensiero più straziante è quello per i tanti bambini innocenti e indifesi che stanno subendo tutto questo.

Chi ha seguito in presenza o attraverso i mezzi di comunicazione la giornata di riflessione e di marcia per la pace di domenica scorsa, ha potuto ascoltare parole soffocate in gola e autentica commozione in vari momenti della manifestazione. Vi confesso che lo scoraggiamento - pensando al fronte mediorientale, a quello russo-ucraino e ai tanti conflitti dimenticati nel mondo - spesso prende il sopravvento anche su chi vi scrive queste poche righe.

Proprio domenica scorsa, in parallelo con il corteo assisano dei costruttori di pace, il Sacro Convento francescano ha ospitato la maratona televisiva delle emittenti locali del circuito Corallo Tv. Tra gli ospiti dello speciale “Pace in terra” c’era anche il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il card. Pierbattista Pizzaballa.

Commentando le ultime notizie da Gaza e il veto degli Stati Uniti alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu sul cessate il fuoco umanitario, la domanda ci è uscita d’impeto. Cosa sta aspettando il mondo? Come si può scorgere e ritrovare il Bambino Gesù in mezzo alle macerie e alle distruzioni di Gaza?

“Gli occhi della fede non ci devono aiutare solo a guardare la realtà che ci circonda - ci ha risposto Pizzaballa - ma la fede ci deve aiutare anche a guardare oltre. Se restiamo solo dentro al dolore che ci circonda, all’odio che ci inonda, non riusciremo ad andare oltre. La fede è un’esperienza di perdono e di salvezza che ci tocca il cuore e ci cambia la prospettiva. Dove c’è ancora qualcuno cristiano, ebreo o musulmano che è capace di dare la vita per l’altro, lì è Natale”.

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Piccoli semi di speranza gettati da israeliani e palestinesi https://www.lavoce.it/piccoli-semi-di-speranza-gettati-da-israeliani-e-palestinesi/ https://www.lavoce.it/piccoli-semi-di-speranza-gettati-da-israeliani-e-palestinesi/#respond Fri, 03 Nov 2023 15:01:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73887

Non ci resta che raccogliere frammenti di speranza – colligere fragmenta – per seminarli in attesa di un altro tempo. Questo tempo sembra infatti ormai perduto. Un gesto che sembra uno spreco, quello compiuto da Yocheved Lifshitz, 85 anni, una delle due donne ostaggio liberate da Hamas il 23 ottobre scorso. Al momento del rilascio, si è rivolta ai miliziani di Hamas regalandogli uno shalom e una stretta di mano. È un segno inatteso di apertura e di speranza.

Quando possono, come possono, i Parents Circle continuano a riunirsi almeno via Internet. Sono madri e padri che hanno perso i figli in un attentato o in conflitto, sono genitori israeliani e palestinesi uniti dal medesimo dolore. Una di loro è ostaggio di Hamas. E loro continuano a sostenersi vicendevolmente e a progettare percorsi di educazione alla pace con in più giovani.

E poi ci sono alcune comunità cristiane che, come sempre è avvenuto in tutti questi anni, riescono a farsi ponte tra arabi musulmani ed ebrei israeliani. Sono i frati della Custodia di Terra Santa, i Patriarcati a Gerusalemme e tante piccole comunità disseminate in quello scampolo di lievito madre che ha fecondato le tre fedi nell’unico Dio di Abramo. Si sa, i semi sono piccola cosa, quasi invisibili rispetto alle bombe e al loro fragore… ma guai se non ci fossero.

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Non ci resta che raccogliere frammenti di speranza – colligere fragmenta – per seminarli in attesa di un altro tempo. Questo tempo sembra infatti ormai perduto. Un gesto che sembra uno spreco, quello compiuto da Yocheved Lifshitz, 85 anni, una delle due donne ostaggio liberate da Hamas il 23 ottobre scorso. Al momento del rilascio, si è rivolta ai miliziani di Hamas regalandogli uno shalom e una stretta di mano. È un segno inatteso di apertura e di speranza.

Quando possono, come possono, i Parents Circle continuano a riunirsi almeno via Internet. Sono madri e padri che hanno perso i figli in un attentato o in conflitto, sono genitori israeliani e palestinesi uniti dal medesimo dolore. Una di loro è ostaggio di Hamas. E loro continuano a sostenersi vicendevolmente e a progettare percorsi di educazione alla pace con in più giovani.

E poi ci sono alcune comunità cristiane che, come sempre è avvenuto in tutti questi anni, riescono a farsi ponte tra arabi musulmani ed ebrei israeliani. Sono i frati della Custodia di Terra Santa, i Patriarcati a Gerusalemme e tante piccole comunità disseminate in quello scampolo di lievito madre che ha fecondato le tre fedi nell’unico Dio di Abramo. Si sa, i semi sono piccola cosa, quasi invisibili rispetto alle bombe e al loro fragore… ma guai se non ci fossero.

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Il silenzio dei potenti sulla pace nella Striscia di Gaza https://www.lavoce.it/il-silenzio-dei-potenti-sulla-pace-nella-striscia-di-gaza/ https://www.lavoce.it/il-silenzio-dei-potenti-sulla-pace-nella-striscia-di-gaza/#respond Thu, 26 Oct 2023 09:12:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73806 Una donna reagisce disperataaccanto alle macerie di un edificio in seguito agli attacchi israeliani su Rafah nel sud della Striscia di Gaza

di padre Ibrahim Faltas*

Ancora morti innocenti, ancora sofferenze del corpo e dell’anima, ancora voci inascoltate. Quando si fermeranno le armi? Chi sta usando l’arma del dialogo e della pace? In questi giorni abbiamo visto arrivare e ripartire governanti, leader e personaggi importanti, che analizzano, consigliano, parteggiano… ma purtroppo tacciono e non intervengono per porre fine a questa guerra. È giunto il momento per tutti i potenti, che hanno un ruolo importante, di far cessare il fuoco, di far deporre le armi, di tirare fuori il coraggio di uomini che siano degni dell’importante ruolo che rivestono.

Purtroppo le nostre speranze sono state deluse perché non abbiamo sentito voci che chiedono il rispetto della vita umana, non abbiamo sentito implorare con forza la pace. Solo da Papa Francesco abbiamo udito parole forti, equilibrate e portatrici di verità. Perché i suoi appelli non ricevono ancora una risposta concreta? Perché il suo affermare con forza che la guerra è una sconfitta per l’umanità non spinge a comprendere che bisogna bloccare questa spirale di violenza? Sono certo che, se potesse, Papa Francesco verrebbe di persona a parlare ai cuori dei governanti, verrebbe a fermare le mani armate, verrebbe a portare una carezza ai bambini oltraggiati e indifesi. Noi, uomini di buona volontà, abbiamo solo il potere di parole e di azioni in difesa della vita. Tutti avremo sulla coscienza e dovremo rispondere a Dio e alla Storia di tanti innocenti morti, perché non siamo stati capaci di difendere il bene prezioso di ogni singola vita umana.

Sono arrivati in questi giorni in Terra Santa molti giornalisti e televisioni a documentare la brutalità della guerra. Anche i media possono fare molto in questo momento storico. La comunicazione è fondamentale: vogliamo un’informazione corretta, che non dia notizie non verificate che poi diventano strumenti di incitamento all’odio. Ciò è dannoso e non aiuta a salvare vite umane. L’obiettivo primario per tutti deve essere solo di fermare questa guerra, per il bene dell’umanità intera. La coscienza di ognuno si risvegli per porre fine a questa disumanità che sta colpendo tante vite, e che rischia di coinvolgere il mondo.  Facciamoci tutti strumenti di pace, perché non vogliamo la guerra.

* vicario custodiale della Custodia francescana di Terra Santa

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Una donna reagisce disperataaccanto alle macerie di un edificio in seguito agli attacchi israeliani su Rafah nel sud della Striscia di Gaza

di padre Ibrahim Faltas*

Ancora morti innocenti, ancora sofferenze del corpo e dell’anima, ancora voci inascoltate. Quando si fermeranno le armi? Chi sta usando l’arma del dialogo e della pace? In questi giorni abbiamo visto arrivare e ripartire governanti, leader e personaggi importanti, che analizzano, consigliano, parteggiano… ma purtroppo tacciono e non intervengono per porre fine a questa guerra. È giunto il momento per tutti i potenti, che hanno un ruolo importante, di far cessare il fuoco, di far deporre le armi, di tirare fuori il coraggio di uomini che siano degni dell’importante ruolo che rivestono.

Purtroppo le nostre speranze sono state deluse perché non abbiamo sentito voci che chiedono il rispetto della vita umana, non abbiamo sentito implorare con forza la pace. Solo da Papa Francesco abbiamo udito parole forti, equilibrate e portatrici di verità. Perché i suoi appelli non ricevono ancora una risposta concreta? Perché il suo affermare con forza che la guerra è una sconfitta per l’umanità non spinge a comprendere che bisogna bloccare questa spirale di violenza? Sono certo che, se potesse, Papa Francesco verrebbe di persona a parlare ai cuori dei governanti, verrebbe a fermare le mani armate, verrebbe a portare una carezza ai bambini oltraggiati e indifesi. Noi, uomini di buona volontà, abbiamo solo il potere di parole e di azioni in difesa della vita. Tutti avremo sulla coscienza e dovremo rispondere a Dio e alla Storia di tanti innocenti morti, perché non siamo stati capaci di difendere il bene prezioso di ogni singola vita umana.

Sono arrivati in questi giorni in Terra Santa molti giornalisti e televisioni a documentare la brutalità della guerra. Anche i media possono fare molto in questo momento storico. La comunicazione è fondamentale: vogliamo un’informazione corretta, che non dia notizie non verificate che poi diventano strumenti di incitamento all’odio. Ciò è dannoso e non aiuta a salvare vite umane. L’obiettivo primario per tutti deve essere solo di fermare questa guerra, per il bene dell’umanità intera. La coscienza di ognuno si risvegli per porre fine a questa disumanità che sta colpendo tante vite, e che rischia di coinvolgere il mondo.  Facciamoci tutti strumenti di pace, perché non vogliamo la guerra.

* vicario custodiale della Custodia francescana di Terra Santa

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Conflitto Israele – Palestina. La prima cosa da restituire sono i volti https://www.lavoce.it/conflitto-israele-palestina-prima-cosa-restituire-sono-volti/ https://www.lavoce.it/conflitto-israele-palestina-prima-cosa-restituire-sono-volti/#respond Wed, 18 Oct 2023 14:16:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73702

È molto difficile in queste ore ascoltare qualche considerazione sul conflitto israelo-palestinese, fosse pure un’analisi geopolitica, che non sia la replica più o meno aggiornata di ciò che è stato già ripetuto altre volte. Le modalità con cui si sta realizzando quella carneficina è piuttosto la conferma che non sarebbe possibile metterla in atto senza aver prima disumanizzato il nemico, ovvero il proprio sguardo sull’altro.

Da una parte e dall’altra si cercano pretesti irragionevoli e giustificazioni improbabili sulla decisione di coinvolgere i civili, gli innocenti, i bambini in questo conflitto, e per commettere crimini efferati. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto: “Non è vera la retorica secondo cui i civili non sono consapevoli e coinvolti. Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza”.

Pertanto i civili, secondo Herzog, non sono più considerati “danni collaterali” ma sono piuttosto corresponsabili delle efferatezze commesse da Hamas. Nello stesso tempo i terroristi di Hamas considerano i civili israeliani colpevoli di essere cittadini di uno Stato che quotidianamente e continuativamente vessa la popolazione civile palestinese. D’altra parte, non c’è niente di più esplicito di quanto ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano: “Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”.

Tragica ironia della Storia, si tratta delle stesse teorie prodotte da Hitler e dall’ideologia nazista a proposito degli ebrei. Sono le medesime tragiche conseguenze vissute nei campi di sterminio, in cui ogni persona era ridotta a un numero di matricola tatuato sull’avambraccio sinistro. Disumanizzare il nemico è assolutamente necessario per poter usare ogni sorta di violenza contro di lui senza convivere con alcun senso di colpa. È così che si arriva a fare scempio perfino del corpo dei bambini o a togliere l’energia elettrica anche agli ospedali, che non possono più alimentare le incubatrici e assistono impotenti alla morte dei neonati.

Nell’unica volta che mi è stato consentito di visitare Gaza, ho incontrato un medico psichiatra palestinese che curava i traumi causati dagli attacchi quotidiani e dai bombardamenti. Tra le altre cose, diceva che aveva studiato in un’università israeliana, e di conservare bellissime amicizie israeliane, al punto da saper distinguere tra questi e i governanti o gli appartenenti alle forze armate. Dopo che i palestinesi sono stati rinchiusi nella Striscia, gli unici israeliani che hanno conosciuto sono quelli che hanno imparato a definire come nemici. È questo che genera l’odio, il conflitto violento e la disumanizzazione.

È per questo che lo sforzo della comunità internazionale deve essere orientato a una pacificazione che restituisca un volto all’altro. È la via maestra per sottrare consenso al terrorismo d’ogni tipo, e restituire una dignità alle vittime. È la strada indicata dal Vangelo e praticata da Gesù di Nazareth. È ciò per cui tutti oggi dovremmo impegnarci.

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È molto difficile in queste ore ascoltare qualche considerazione sul conflitto israelo-palestinese, fosse pure un’analisi geopolitica, che non sia la replica più o meno aggiornata di ciò che è stato già ripetuto altre volte. Le modalità con cui si sta realizzando quella carneficina è piuttosto la conferma che non sarebbe possibile metterla in atto senza aver prima disumanizzato il nemico, ovvero il proprio sguardo sull’altro.

Da una parte e dall’altra si cercano pretesti irragionevoli e giustificazioni improbabili sulla decisione di coinvolgere i civili, gli innocenti, i bambini in questo conflitto, e per commettere crimini efferati. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto: “Non è vera la retorica secondo cui i civili non sono consapevoli e coinvolti. Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza”.

Pertanto i civili, secondo Herzog, non sono più considerati “danni collaterali” ma sono piuttosto corresponsabili delle efferatezze commesse da Hamas. Nello stesso tempo i terroristi di Hamas considerano i civili israeliani colpevoli di essere cittadini di uno Stato che quotidianamente e continuativamente vessa la popolazione civile palestinese. D’altra parte, non c’è niente di più esplicito di quanto ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano: “Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”.

Tragica ironia della Storia, si tratta delle stesse teorie prodotte da Hitler e dall’ideologia nazista a proposito degli ebrei. Sono le medesime tragiche conseguenze vissute nei campi di sterminio, in cui ogni persona era ridotta a un numero di matricola tatuato sull’avambraccio sinistro. Disumanizzare il nemico è assolutamente necessario per poter usare ogni sorta di violenza contro di lui senza convivere con alcun senso di colpa. È così che si arriva a fare scempio perfino del corpo dei bambini o a togliere l’energia elettrica anche agli ospedali, che non possono più alimentare le incubatrici e assistono impotenti alla morte dei neonati.

Nell’unica volta che mi è stato consentito di visitare Gaza, ho incontrato un medico psichiatra palestinese che curava i traumi causati dagli attacchi quotidiani e dai bombardamenti. Tra le altre cose, diceva che aveva studiato in un’università israeliana, e di conservare bellissime amicizie israeliane, al punto da saper distinguere tra questi e i governanti o gli appartenenti alle forze armate. Dopo che i palestinesi sono stati rinchiusi nella Striscia, gli unici israeliani che hanno conosciuto sono quelli che hanno imparato a definire come nemici. È questo che genera l’odio, il conflitto violento e la disumanizzazione.

È per questo che lo sforzo della comunità internazionale deve essere orientato a una pacificazione che restituisca un volto all’altro. È la via maestra per sottrare consenso al terrorismo d’ogni tipo, e restituire una dignità alle vittime. È la strada indicata dal Vangelo e praticata da Gesù di Nazareth. È ciò per cui tutti oggi dovremmo impegnarci.

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Medio Oriente nel sangue https://www.lavoce.it/medio-oriente-nel-sangue/ https://www.lavoce.it/medio-oriente-nel-sangue/#respond Thu, 12 Oct 2023 12:22:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73619

La carneficina israelo-palestinese di questi giorni è il prodotto di una spirale di violenza che dura ormai da 75 anni. Sangue chiama sangue. L’attacco terroristico del 7 ottobre è da condannare senza esitazione, ma rispondere con la vendetta al terrorismo sanguinario e crudele di Hamas non risolve la questione, l’aggrava e serve esclusivamente a prolungare il conflitto. Se anche la risposta violenta riuscisse a neutralizzare tutte le cellule di terrorismo e a salvare il maggior numero di ostaggi, si porrebbero comunque le basi per l’odio e la violenza di domani. Sono ragioni sufficienti per far comprendere al mondo intero che non si può continuare a fare da spettatori, e che la comunità internazionale è l’unico soggetto con la titolarità e la forza per trarre quelle popolazioni fuori dalla logica della violenza e avviare a una soluzione pacifica. In questa direzione vanno gli appelli del Papa e le dichiarazioni dei Patriarchi e dei capi delle Chiese di Gerusalemme. E noi non possiamo che unirci alla preghiera, alimentare la speranza, sottrarci al linguaggio della violenza, e continuare a credere nel dialogo anche quando sembra lontano e difficile.]]>

La carneficina israelo-palestinese di questi giorni è il prodotto di una spirale di violenza che dura ormai da 75 anni. Sangue chiama sangue. L’attacco terroristico del 7 ottobre è da condannare senza esitazione, ma rispondere con la vendetta al terrorismo sanguinario e crudele di Hamas non risolve la questione, l’aggrava e serve esclusivamente a prolungare il conflitto. Se anche la risposta violenta riuscisse a neutralizzare tutte le cellule di terrorismo e a salvare il maggior numero di ostaggi, si porrebbero comunque le basi per l’odio e la violenza di domani. Sono ragioni sufficienti per far comprendere al mondo intero che non si può continuare a fare da spettatori, e che la comunità internazionale è l’unico soggetto con la titolarità e la forza per trarre quelle popolazioni fuori dalla logica della violenza e avviare a una soluzione pacifica. In questa direzione vanno gli appelli del Papa e le dichiarazioni dei Patriarchi e dei capi delle Chiese di Gerusalemme. E noi non possiamo che unirci alla preghiera, alimentare la speranza, sottrarci al linguaggio della violenza, e continuare a credere nel dialogo anche quando sembra lontano e difficile.]]>
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Conflitto israelo-palestinese. La soluzione non è schierarsi https://www.lavoce.it/conflitto-israelo-palestinese-la-soluzione-non-e-schierarsi/ https://www.lavoce.it/conflitto-israelo-palestinese-la-soluzione-non-e-schierarsi/#respond Thu, 12 Oct 2023 09:40:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73603

di Fra' Stefano Tondelli*

Cosa ci dice ciò che è successo nei territori israelo-palestinesi, con la sua violenza e crudezza? Ci dice anzitutto che la pace è l’unica soluzione, non c’è altra possibilità che cercare modalità di convivenza pacifica nel rispetto di tutti: imparare a vivere insieme. Senza questo, ogni soluzione politica sarà fragile. E dobbiamo agire in fretta! Papa Francesco nella Laudate Deum ci rimprovera per la lentezza nel promuovere il bene quando il male avanza così velocemente.

Una particolarità del conflitto da non trascurare è che i due popoli che si scontrano sono mescolati tra loro: già in Israele vive circa un 20% di arabi, inoltre i Territori palestinesi si intrecciano con lo Stato ebraico in modo inestricabile. Non è come la guerra tra due Paesi ben distinti in cui uno vince, l’altro perde, ma poi ognuno sta a casa sua a leccarsi le ferite. Qui no. Qui gli sconfitti covano vendetta accanto ai vincitori. Storicamente questo tipo di conflitti in cui i duellanti vivono nello stesso territorio si conclude solo con genocidi e deportazioni dei più forti contro i più deboli (vedi il genocidio armeno, la Shoah, hutu e tutsi, le foibe…). E questo va evitato a ogni costo.

Un’altra cosa che questi eventi ci insegnano è di stare attenti a schierarsi ideologicamente da una parte contro l’altra, spesso condizionati dai mass media o dalle simpatie politiche. Il conflitto arabo-israeliano è un coacervo tale di errori storici, violenze, intrighi politici e manovre occulte che individuare con certezza buoni e cattivi, ragione e torto, diventa quantomeno ingenuo, se non presuntuoso. Inoltre il vizio di schierarsi fa parte appunto di quella politica vecchia, eredità della guerra fredda, che ha portato alla guerra in Ucraina e in tante altre parti del mondo. Siamo in un mondo nuovo, e c’è bisogno di nuovi paradigmi che guidino le azioni della comunità internazionale.

E questo nuovo modo di approcciare i conflitti non è quello di schierarci con un popolo contro un altro, ma condannare le azioni, le ingiustizie. Questo sì possiamo farlo, anzi dobbiamo farlo, come esigenza umana ma anche biblica e profetica. Denunciare e intervenire contro l’ingiustizia. Questo è il ruolo della comunità internazionale, oltre che del cristiano.

In questo contesto i cristiani rappresentano circa l’1% della popolazione: pur essendo un piccolo numero, il loro ruolo è fondamentale perché agiscono come ponti di pace. In modo forte, Papa Francesco in questi giorni ha voluto farsi vicino ai cristiani di Terra Santa nominando cardinale il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che continua l’opera di riconciliazione: “Non basta non volere la guerra. Bisogna impegnarsi per favorire relazioni di buon vicinato”.

Così i cristiani, pur denunciando ogni ingiustizia, non si schierano per una delle due sponde e possono diventare “ponti” affinché gli avversari si incontrino per dialogare e imparare a convivere: se il ponte funziona, le due sponde opposte saranno unite e non diventeranno più due, ma una sola.

Questa metodologia i cristiani l’hanno imparata da Gesù stesso, come ci ricorda san Paolo: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14 ss).

Pace per tutti i popoli, pace per Gerusalemme!

*commissario di Terra Santa per l’Umbria
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di Fra' Stefano Tondelli*

Cosa ci dice ciò che è successo nei territori israelo-palestinesi, con la sua violenza e crudezza? Ci dice anzitutto che la pace è l’unica soluzione, non c’è altra possibilità che cercare modalità di convivenza pacifica nel rispetto di tutti: imparare a vivere insieme. Senza questo, ogni soluzione politica sarà fragile. E dobbiamo agire in fretta! Papa Francesco nella Laudate Deum ci rimprovera per la lentezza nel promuovere il bene quando il male avanza così velocemente.

Una particolarità del conflitto da non trascurare è che i due popoli che si scontrano sono mescolati tra loro: già in Israele vive circa un 20% di arabi, inoltre i Territori palestinesi si intrecciano con lo Stato ebraico in modo inestricabile. Non è come la guerra tra due Paesi ben distinti in cui uno vince, l’altro perde, ma poi ognuno sta a casa sua a leccarsi le ferite. Qui no. Qui gli sconfitti covano vendetta accanto ai vincitori. Storicamente questo tipo di conflitti in cui i duellanti vivono nello stesso territorio si conclude solo con genocidi e deportazioni dei più forti contro i più deboli (vedi il genocidio armeno, la Shoah, hutu e tutsi, le foibe…). E questo va evitato a ogni costo.

Un’altra cosa che questi eventi ci insegnano è di stare attenti a schierarsi ideologicamente da una parte contro l’altra, spesso condizionati dai mass media o dalle simpatie politiche. Il conflitto arabo-israeliano è un coacervo tale di errori storici, violenze, intrighi politici e manovre occulte che individuare con certezza buoni e cattivi, ragione e torto, diventa quantomeno ingenuo, se non presuntuoso. Inoltre il vizio di schierarsi fa parte appunto di quella politica vecchia, eredità della guerra fredda, che ha portato alla guerra in Ucraina e in tante altre parti del mondo. Siamo in un mondo nuovo, e c’è bisogno di nuovi paradigmi che guidino le azioni della comunità internazionale.

E questo nuovo modo di approcciare i conflitti non è quello di schierarci con un popolo contro un altro, ma condannare le azioni, le ingiustizie. Questo sì possiamo farlo, anzi dobbiamo farlo, come esigenza umana ma anche biblica e profetica. Denunciare e intervenire contro l’ingiustizia. Questo è il ruolo della comunità internazionale, oltre che del cristiano.

In questo contesto i cristiani rappresentano circa l’1% della popolazione: pur essendo un piccolo numero, il loro ruolo è fondamentale perché agiscono come ponti di pace. In modo forte, Papa Francesco in questi giorni ha voluto farsi vicino ai cristiani di Terra Santa nominando cardinale il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che continua l’opera di riconciliazione: “Non basta non volere la guerra. Bisogna impegnarsi per favorire relazioni di buon vicinato”.

Così i cristiani, pur denunciando ogni ingiustizia, non si schierano per una delle due sponde e possono diventare “ponti” affinché gli avversari si incontrino per dialogare e imparare a convivere: se il ponte funziona, le due sponde opposte saranno unite e non diventeranno più due, ma una sola.

Questa metodologia i cristiani l’hanno imparata da Gesù stesso, come ci ricorda san Paolo: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14 ss).

Pace per tutti i popoli, pace per Gerusalemme!

*commissario di Terra Santa per l’Umbria
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Israeliani e palestinesi, fate goal, non fate la guerra! https://www.lavoce.it/israeliani-palestinesi-goal/ Thu, 06 Jun 2019 10:55:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54651 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

A molti sembrerà una notizia marginale rispetto a tutto ciò che si muove e ci preoccupa oltre i confini di casa nostra.

Eppure la scelta di due società di serie A, Fiorentina e Cagliari, di costruire un campo sportivo in erba sintetica di calcio a 5, provvisto di spogliatoi e tribune, a Betlemme, è un segno di speranza. Soprattutto considerando la missione dello sport di promuovere l’incontro tra i popoli e costruire la fiducia e un clima di pace.

Quel campo sportivo è la realizzazione dell’impegno assunto dalle due società per ricordare nei fatti Davide Astori, giovane campione che ha sempre giocato pulito e ha vissuto lo sport come segno di incontro e mai di scontro.

Assist For Peaceprogetto internazionale che promuove il sogno dell’integrazione in Israele e Palestina, conta in questo modo di favorire la conoscenza e l’incontro tra giovani arabi palestinesi ed ebrei israeliani non attorno al tavolo del confronto delle idee ma nella frequentazione congiunta dello sport.

Perché è soltanto attraverso la conoscenza dell’altro che si superano le paure irrazionali del diverso; e interagendo con lui si scopre che l’altro magari è un “avversario”, ma mai un nemico.

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colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

A molti sembrerà una notizia marginale rispetto a tutto ciò che si muove e ci preoccupa oltre i confini di casa nostra.

Eppure la scelta di due società di serie A, Fiorentina e Cagliari, di costruire un campo sportivo in erba sintetica di calcio a 5, provvisto di spogliatoi e tribune, a Betlemme, è un segno di speranza. Soprattutto considerando la missione dello sport di promuovere l’incontro tra i popoli e costruire la fiducia e un clima di pace.

Quel campo sportivo è la realizzazione dell’impegno assunto dalle due società per ricordare nei fatti Davide Astori, giovane campione che ha sempre giocato pulito e ha vissuto lo sport come segno di incontro e mai di scontro.

Assist For Peaceprogetto internazionale che promuove il sogno dell’integrazione in Israele e Palestina, conta in questo modo di favorire la conoscenza e l’incontro tra giovani arabi palestinesi ed ebrei israeliani non attorno al tavolo del confronto delle idee ma nella frequentazione congiunta dello sport.

Perché è soltanto attraverso la conoscenza dell’altro che si superano le paure irrazionali del diverso; e interagendo con lui si scopre che l’altro magari è un “avversario”, ma mai un nemico.

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L’Ambasciata della discordia https://www.lavoce.it/lambasciata-della-discordia/ Mon, 18 Dec 2017 08:00:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50834 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Ma è davvero tanto importante che l’Ambasciata americana in Israele si sposti di poche decine di chilometri? Lo spostamento deciso da Trump, da Tel Aviv a Gerusalemme, ha valore solo sul piano simbolico, perché implica che gli Usa riconoscono che la capitale di Israele è Gerusalemme. In effetti, lo Stato di Israele dichiara che la sua capitale è Gerusalemme, e lì hanno sede tutte le autorità nazionali israeliane. In linea di principio, la scelta della sede della capitale è una questione interna di ciascuno Stato, e nessun altro ci dovrebbe mettere bocca. Ma la situazione di Israele non è ancora definita dal punto di vista del Diritto internazionale. Molti Paesi perlopiù quelli arabi - non considerano legittima l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Gli altri - fra i quali gli Usa e gli Stati europei riconoscono bensì lo Stato di Israele, ma con riserva: non considerano definitivamente accettati i suoi confini, e lo faranno solo nel momento in cui israeliani e palestinesi firmeranno la pace e decideranno, di comune accordo, come regolare i rapporti fra le due comunità o i due Stati – in modo da convivere pacificamente. Quando gli Stati che riconoscono Israele (fra cui l’Italia) hanno stabilito di non tenere le loro ambasciate a Gerusalemme ma a Tel Aviv, hanno inteso con ciò fare un gesto simbolico per sottolineare, appunto, che c’è ancora da discutere e da decidere il futuro di quei territori. Fra le questioni da decidere vi è al primo posto la sistemazione definitiva di Gerusalemme; e a deciderla non potranno essere unilateralmente gli israeliani. Lo status di Gerusalemme dovrà essere deciso da israeliani e palestinesi insieme – anche i palestinesi considerano Gerusalemme la loro capitale, pure se di fatto non lo è - ma l’accordo fra i due popoli, se mai ci sarà, dovrà salvaguardare e garantire i diritti delle Chiese cristiane di tutto il mondo. Per gli occidentali, tenere le Ambasciate fuori di Gerusalemme significa dunque avere una merce di scambio per trattare con Israele. Una merce simbolica, ma che ha valore. Trump ci ha rinunciato. Ecco perché il fatto è preoccupante.  ]]>
Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Ma è davvero tanto importante che l’Ambasciata americana in Israele si sposti di poche decine di chilometri? Lo spostamento deciso da Trump, da Tel Aviv a Gerusalemme, ha valore solo sul piano simbolico, perché implica che gli Usa riconoscono che la capitale di Israele è Gerusalemme. In effetti, lo Stato di Israele dichiara che la sua capitale è Gerusalemme, e lì hanno sede tutte le autorità nazionali israeliane. In linea di principio, la scelta della sede della capitale è una questione interna di ciascuno Stato, e nessun altro ci dovrebbe mettere bocca. Ma la situazione di Israele non è ancora definita dal punto di vista del Diritto internazionale. Molti Paesi perlopiù quelli arabi - non considerano legittima l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Gli altri - fra i quali gli Usa e gli Stati europei riconoscono bensì lo Stato di Israele, ma con riserva: non considerano definitivamente accettati i suoi confini, e lo faranno solo nel momento in cui israeliani e palestinesi firmeranno la pace e decideranno, di comune accordo, come regolare i rapporti fra le due comunità o i due Stati – in modo da convivere pacificamente. Quando gli Stati che riconoscono Israele (fra cui l’Italia) hanno stabilito di non tenere le loro ambasciate a Gerusalemme ma a Tel Aviv, hanno inteso con ciò fare un gesto simbolico per sottolineare, appunto, che c’è ancora da discutere e da decidere il futuro di quei territori. Fra le questioni da decidere vi è al primo posto la sistemazione definitiva di Gerusalemme; e a deciderla non potranno essere unilateralmente gli israeliani. Lo status di Gerusalemme dovrà essere deciso da israeliani e palestinesi insieme – anche i palestinesi considerano Gerusalemme la loro capitale, pure se di fatto non lo è - ma l’accordo fra i due popoli, se mai ci sarà, dovrà salvaguardare e garantire i diritti delle Chiese cristiane di tutto il mondo. Per gli occidentali, tenere le Ambasciate fuori di Gerusalemme significa dunque avere una merce di scambio per trattare con Israele. Una merce simbolica, ma che ha valore. Trump ci ha rinunciato. Ecco perché il fatto è preoccupante.  ]]>
Ricostruire non basta https://www.lavoce.it/ricostruire-non-basta/ Thu, 23 Jul 2015 09:56:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=39932 GazaPreceduta da un pesante lancio di razzi di Hamas dalla Striscia di Gaza e dagli attacchi aerei di risposta da parte dell’Aviazione israeliana, l’8 luglio 2014 Israele dava il via all’operazione “Margine protettivo”.

L’obiettivo era porre fine al lancio di razzi e distruggere i tunnel dei miliziani scavati da Gaza per penetrare in territorio ebraico e colpire i civili.

Cinquantuno giorni di guerra – la terza in sei anni – che provocarono, secondo il rapporto del Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu, la morte di 2.251 palestinesi, di cui 1.462 civili (tra i quali 299 donne e 551 bambini) e 789 combattenti. Diecimila i feriti.

Un anno dopo, le ferite di questo conflitto sono sotto gli occhi del mondo. Visibili come le macerie delle 18 mila strutture distrutte o severamente danneggiate. Poche le case riparate. Fonti locali e organismi internazionali operanti a Gaza stimano che siano almeno 100 mila i gazawi costretti a vivere in alloggi di fortuna e oltre 8 mila i senzatetto, circa il 5% dell’1,8 milioni di abitanti che sovrappopolano i 362 chilometri quadrati della Striscia.

Gaza vive una continua emergenza umanitaria. I finanziamenti (5 miliardi di dollari) promessi dai donatori internazionali durante la conferenza al Cairo dell’ottobre 2014 arrivano lentamente, così come i materiali per la ricostruzione, che Israele permette di far entrare attraverso il valico di Erez. Secondo la Banca mondiale, nella Striscia si registra il più alto tasso di disoccupazione al mondo, pari al 40%, che sale al 60% tra i giovani che sono la maggioranza della popolazione.

La produzione agricola è diminuita del 31% solamente nell’ultimo anno. Con il collasso economico dietro l’angolo, sono sempre di più i giovani che, in cerca di un lavoro rischiano la vita, scavalcando le recinzioni al confine con Israele. In totale sono oltre 300 mila i giovani e i bambini che attualmente hanno bisogno di assistenza psicologica per riuscire a superare i traumi e le sofferenze causate dai conflitti.

Save the Children ha diffuso in questi giorni uno studio sui bambini della regione. L’89% soffre ancora di forti paure; più del 70% dei piccoli teme un altro conflitto; e ancora: 7 bambini su 10 hanno incubi notturni, nelle zone più colpite, percentuale che raggiunge la quasi totalità nelle città di Beit Hanoun (96%) e Khuza (92%).

Stallo anche nel processo politico con Hamas che continua a governare la Striscia ma ora c’è lo Stato islamico (Isis) interessato a insediarsi a Gaza, come testimonierebbero alcuni attentati contro Hamas. Non si registrano sviluppi positivi nemmeno nel dialogo con l’Autorità palestinese (Anp) e con l’Egitto.

“Non è cambiato nulla – dice con amarezza padre Raed Abusahlia, direttore di Caritas Jerusalem – a Gaza si cammina tra le macerie e la delusione della gente è palpabile. Quartieri interi distrutti. Ci vorranno almeno 5 anni per rimettere in sesto quello che è stato distrutto in 51 giorni. Dei 5 miliardi di dollari promessi dai Paesi donatori, non si è visto nulla. E anche la solidarietà della gente comune è finita.

Come se la guerra fosse finita e tutto fosse tornato a posto. Ma non è così. Nessuno qui nutre più speranze per un futuro migliore. La nostra stessa comunità cristiana, circa 1.300 persone di cui poco meno di 200 cattolici, se mai dovessero aprire i valichi di confine, lascerebbe la Striscia subito… Serve aiuto soprattutto ai più piccoli. I bambini di Gaza sono malnutriti. La situazione è davvero difficile, e a questo si aggiunga il caldo, le precarie condizioni igieniche, la mancanza di acqua e di energia elettrica che viene erogata per circa 4 ore al giorno. Dopo un anno, non basta ricostruire Gaza, ma la speranza della sua gente, per evitare conflitti futuri”.

 

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Caritas Foligno: quattro storie per quattro fedi alla biblioteca “Mandela” https://www.lavoce.it/caritas-foligno-quattro-storie-per-quattro-fedi-alla-biblioteca-mandela/ Wed, 24 Jun 2015 12:23:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=36470 La biblioteca Multiculturale Mandela
Una sala della biblioteca “Mandela”

I loro nomi sono Albert, Kazan, Khaled e Zeid e sono i nomi dei quattro giovani protagonisti dell’incontro che si terrà sabato 27 giugno alle ore 16 tra gli scaffali della Biblioteca Multiculturale Mandela in piazza San Giacomo 11.

Quattro voci per quattro storie e fedi differenti che si intrecceranno con l’arte e con la storia di una terra senza Pace per un rendez-vous che vuole guardare in prima battuta ai giovani del territorio.

Un appuntamento – promosso dall’Ufficio Esu della diocesi di Foligno con la collaborazione della Caritas Diocesana – che vuole approfondire, attraverso il filtro degli occhi, della voce e della musica di quattro giovani palestinesi studenti a Perugia, le possibilità di dialogo interreligioso nella loro terra, il livello di istruzione in Palestina ma soprattutto l’unicità della loro esperienza umana.

L’appuntamento, che vedrà tracciare possibili scenari di cooperazione nell’ambito dell’Arca del Mediterraneo – il nuovo braccio operativo diocesano in tema di mondialità – verrà intermezzato dalla lettura di poesie palestinesi in arabo e in italiano nonché dall’esecuzione di brani ispirati alla Palestina composti ed eseguiti dal vivo al pianoforte dal giovane Khaled.

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Cuori desiderosi di unità https://www.lavoce.it/cuori-desiderosi-di-unita/ Fri, 03 Apr 2015 10:22:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31305 Padre Pierbattista Pizzaballa durante la celebrazione della Domenica delle Palme a Gerusalemme
Padre Pierbattista Pizzaballa durante la celebrazione della Domenica delle Palme a Gerusalemme

Il vero sepolcro da aprire è l’idea che non sia possibile cambiare nulla”. Ripercorre il passo evangelico di Marco 16, padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, per descrivere come le comunità cristiane di Terra Santa si apprestino a vivere la Pasqua. Gli echi, nemmeno troppo lontani, delle violenze in Siria, in Iraq, delle persecuzioni delle minoranze non solo cristiane, delle sofferenze dei milioni di rifugiati, ma anche gli annosi problemi che vessano la Terra Santa, il conflitto israelo-palestinese, l’esodo dei cristiani, la mancanza di lavoro e di prospettive future, le famiglie separate dall’occupazione militare: sono questi “i sepolcri da aprire per fare entrare la luce di Cristo e ridare così speranza e vita”. “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?”, dicevano le donne mentre andavano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù con olii aromatici. Ma “guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande”.

Chi aprirà tutti questi sepolcri di cui è piena la Terra Santa?

“La Pasqua ci insegna che Cristo ha consegnato la sua vita e consegnandola l’ha cambiata a tutti. È una forza che non è nostra e alla quale ci consegniamo. Deve essere questo il messaggio. Se contiamo solo sulle nostre forze, non ce la faremo”.

Il sepolcro che, da troppo tempo, racchiude la pace sembra inespugnabile…

“La Pasqua porti coraggio e visione a chi ha le responsabilità delle decisioni. Le strategie sono importanti, l’organizzazione anche, tutto quello che è necessario fare deve essere fatto. Dobbiamo impegnarci per la pace, guai a noi se non lo facessimo – è parte della nostra missione qui – ma non siamo solo noi. Se non alziamo lo sguardo, non riusciremo a leggere la Storia per poter poi superare le difficoltà che ci pone davanti. Alzare lo sguardo è avere una visione del ‘dopo’, pensare alle generazioni future. Non alzarlo è abdicare alla speranza”.

La mancanza di prospettive future per i giovani, l’emigrazione continua sono altri sepolcri dei quali far rotolare via la pietra. Ma come?

“La Terra Santa è luogo di Passione, ma guai a credere che sia solo questo. I giovani vanno esortati a impegnarsi perché ci sono tanti segni di luce, gente che prova a costruirsi percorsi di vita. I giovani devono dare forza a queste luci e a questa speranza, innanzitutto con fantasia, entusiasmo. L’emigrazione è un problema: sono tanti quelli che partono, ma sono molti quelli che restano. Temi come lavoro, casa, famiglia, futuro, vanno affrontati con realismo. I giovani devono scommettere, darsi da fare per conquistare ciò che è possibile, nella consapevolezza che non si può avere tutto. Il primo sepolcro da scardinare è l’idea che non sia possibile cambiare nulla”.

A soffrire non sono solo i giovani ma anche tante famiglie divise a causa dell’occupazione militare.

“La Terra Santa è piena di divisioni, e quella delle famiglie, soprattutto palestinesi, è una di queste. Le divisioni nascono proprio dall’incapacità di vedere l’uno i bisogni dell’altro. Si resta confinati dentro le proprie visioni. Anche in questo àmbito occorre avere la forza e la pazienza di lavorare, aiutare e, laddove non si riesce, di consolare”.

Le drammatiche condizioni in cui vivono associano i milioni di rifugiati siriani e iracheni alla Passione di Cristo. Come parlare loro di Risurrezione?

“Guai a noi a pensare che sia tutto finito! Se guardiamo alla storia della presenza cristiana in Medio Oriente, ci accorgiamo che non è la prima volta che si subiscono violenze. Penso al genocidio armeno di 100 anni fa. Dovevano morire tutti, erano due o tre milioni, oggi ce ne sono circa 20. Senza nulla togliere alla drammaticità del momento, non dobbiamo pensare che siamo alla fine della Storia. Questa la facciamo anche noi con la nostra vita, il nostro cuore, e soprattutto con la nostra forza interiore. Per questa gente bisogna darsi da fare, con la solidarietà certamente, ma anche con la vicinanza spirituale. Hanno una forza dentro che nessun terrorista potrà mai scalfire. La rabbia che si può covare nel vedere tanta violenza perpetrata contro le minoranze, non solo cristiane, deve diventare spinta a porre domande forti alle autorità politiche, alla comunità internazionale, ai media, perché tengano accesa l’attenzione su questa realtà drammatica”.

Solidarietà: le opere della Chiesa, le scuole, gli ospedali, la cura degli anziani, dei giovani, sono tante piccole luci che rischiarano le tenebre di questa terra. Cosa manca a queste fiammelle perché diventino luce forte?

“Manca un po’ di coordinamento, di conoscenza approfondita dei bisogni. In questo ambito il lavoro da fare è ancora molto. Tuttavia è bello vedere tanta solidarietà, che è l’antidoto più potente alla violenza dei terroristi, come lo Stato islamico che vuole troncare la vita delle nostre comunità. Ma non ci riuscirà”.

Un augurio personale per questa Pasqua?

“C’è un detto nella letteratura rabbinica che dice: ‘Un cuore integro è spezzato’. Perché un cuore spezzato è sempre desideroso di ricostituire la propria integrità perduta, è assetato e alla ricerca di unità. Il mio augurio è che in questa Pasqua il cuore di ciascuno si lasci spezzare”.

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La “riconquista” israeliana di Gerusalemme Est (palestinese) https://www.lavoce.it/la-riconquista-israeliana-di-gerusalemme-est-palestinese/ Fri, 14 Nov 2014 14:21:37 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29014 quartiere-musulmano-gerusalemmeLe tensioni e gli scontri tra polizia e palestinesi che stanno segnando in questi giorni la città santa di Gerusalemme sono l’espressione di “una rabbia che cova da molto più tempo, nata con la costruzione del muro di separazione, dalla fine del 2006, che ha bloccato di fatto la Gerusalemme palestinese, provocando la separazione dei suoi abitanti da quelli della Cisgiordania. Ne è conseguito un abbassamento delle condizioni di vita dei residenti palestinesi e la recrudescenza di proteste” anche violente. Ne è convinto il giornalista e scrittore israeliano Meron Rapoport, che punta l’indice contro quel fenomeno noto come “ebraicizzazione” della Città santa, cuore – non solo simbolico – dello scontro più ampio tra Israele e Palestina, che qui si combatte anche sul versante dello spazio urbano, con espropriazioni di terre e demolizioni di case palestinesi, e un rinascente fondamentalismo religioso legato all’estrema destra israeliana.

Costruire il terzo Tempio. Va letto anche in questo senso l’agguato a colpi d’arma da fuoco, il 29 ottobre, contro il rabbino Yehuda Glick, attivista dell’ultra-destra, noto per aver condotto in un raid sulla Spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani, coloni e attivisti ebrei, visti come provocazioni dai palestinesi. Glick aveva da poco partecipato con altri oratori – inclusi deputati della destra nazionalista ed esponenti del governo Netanyahu – a un dibattito sulle rivendicazioni ebraiche riguardo al Monte del tempio, o Spianata delle moschee. Da quando nel 1967 Israele ha occupato Gerusalemme Est, spiega lo scrittore, “ci sono sempre stati gruppi di ebrei nazionalisti che aspirano a rimuovere la moschea di Al Aqsa e la Cupola della roccia per edificare il terzo Tempio, dopo quello di Salomone e Erode, per tornarvi a pregare”.

Le case come avamposti. “I movimenti favorevoli alla costruzione del terzo Tempio sulla Spianata delle moschee – afferma ancora Rapoport – hanno guadagnato terreno soprattutto tra i religiosi ortodossi, nel mondo politico e in alcune fasce dell’opinione pubblica; i veti dei rabbini sembrano caduti nel silenzio. Questa è la vera novità. Sono sempre più frequenti le passeggiate di ebrei nazionalisti nei pressi delle due moschee, protetti da ingenti forze di polizia. Quest’ultima concede sempre più frequentemente il permesso per accedere al Monte del tempio agli ebrei che vogliono andarci; contestualmente sono diminuiti quelli concessi a musulmani. Durante l’ultimo Ramadan, i musulmani di meno di 50 anni non hanno potuto salire alla Spianata per pregare per cinque venerdì di seguito. Durante le ultime festività ebraiche, Rosh Hashanà (Nuovo anno) e Sukkot (Tabernacoli), finita circa due settimane fa, scontri con giovani palestinesi si sono registrati ogni giorno. Ci sono stati fitti lanci di pietre verso i visitatori ebrei”. Una situazione resa ancora più tesa dal tentativo di alcuni coloni ebrei di penetrare in appartamenti palestinesi nel quartiere di Silwan che dista poche centinaia di metri dalla moschea di Al Aqsa e quindi dalla Spianata. “Lo scopo dei coloni – dice lo scrittore – era chiaro: prendere possesso delle case e ampliare così i loro possedimenti nel quartiere arabo per farlo diventare avamposto ebraico”. Ma c’è anche chi, attraverso dei mediatori, la casa la acquista direttamente dai palestinesi, alimentando anche così l’ebraicizzazione di Gerusalemme Est. “Non sono molte le case vendute, forse una cinquantina in circa 20 anni”, tuttavia il valore della presenza ebraica in quartieri palestinesi ha il suo significato simbolico e peso politico. Il grosso del fenomeno, infatti, “si sviluppa attraverso l’occupazione di terre, permessi edilizi negati ai palestinesi dalla municipalità di Gerusalemme e concessi invece agli ebrei. Non c’è spazio per quartieri palestinesi, ma ce n’è per gli insediamenti ebraici”.

Rischio grave. Se questi tentativi di cambiare lo statu quo di Gerusalemme (stabilito in un atto che risale alla seconda metà dell’Ottocento) dovessero proseguire “la Città santa rischierebbe di esplodere e sarebbe una vera catastrofe” afferma Rapoport. Lo hanno ribadito, dal versante religioso, anche i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme che in una dichiarazione del 6 novembre hanno con forza condannato “le minacce di modifica dello statuto dei Luoghi santi, quali che siano le loro provenienze”.

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Conflitto israelo-palestinese. Solo la giustizia creerà la pace https://www.lavoce.it/conflitto-israelo-palestinese-solo-la-giustizia-creera-la-pace/ Fri, 18 Jul 2014 11:56:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27076 Gaza-lancio-bn
Il fumo dei razzi lanciati da Gaza verso Israele il 15 luglio

Nel momento in cui scriviamo [mercoledì pomeriggio] è salito a 205 morti il bilancio dei raid israeliani su Gaza, al nono giorno di offensiva militare.

“Israele ha ripreso le operazioni nella Striscia di Gaza dopo sei ore di attacchi unilaterali di Hamas che ha sparato 47 razzi”: così un portavoce dell’Esercito israeliano aveva annunciato la ripresa dell’operazione Protection Edge (Confine protettivo). Si è presto richiuso lo spiraglio per una cessazione delle ostilità tra Israele e Hamas…

Si aggrava nel frattempo l’emergenza sanitaria nella Striscia. Servirebbero 60 milioni di dollari per coprire il fabbisogno medico di Gaza, fa sapere l’Organizzazione mondiale della sanità.

Emergenza sanitaria che non esiste certo da oggi. Già a febbraio la Missione pontificia per la Palestina aveva reso noto un Rapporto dettagliato sugli interventi d’emergenza a favore della popolazione della Striscia di Gaza dopo l’operazione israeliana “Colonna di fumo” del novembre 2012. Le medicine e le attrezzature fornite dall’organismo vaticano avevano contribuito all’assistenza sanitaria di più di 17.000 persone, in particolare fornendo alimentazione e servizi alle donne in gravidanza e alla cura delle infezioni intestinali provocate dall’acqua inquinata. Erano inoltre stati attivati programmi di sostegno psico-sociale per quasi 6.000 bambini traumatizzati dai bombardamenti e dall’esperienza di dover lasciare le proprie case.

Di fronte ai nuovi attacchi, la commissione Giustizia e pace degli “Ordinari” (vescovi) cattolici di Terra Santa chiama in causa le responsabilità delle leadership politiche e religiose. Da un lato, il linguaggio violento di chi in Israele chiede vendetta “è alimentato dagli atteggiamenti e dalle espressioni di una leadership che continua a promuovere un discorso discriminatorio, promuovendo i diritti esclusivi di un gruppo e l’occupazione, con tutte le sue conseguenze disastrose. Vengono costruiti nuovi insediamenti, le terre sono confiscate, le famiglie sono separate, le persone care vengono arrestate e perfino uccise”. Sull’altro fronte, il violento ‘linguaggio della strada’ palestinese “è alimentato dagli atteggiamenti e dalle espressioni di coloro che hanno perduto ogni speranza di raggiungere una giusta soluzione per il conflitto attraverso i negoziati”.

A sua volta, Caritas Gerusalemme riafferma “il diritto di Israele a vivere in pace, e degli israeliani a vivere in sicurezza”, uscendo da una condizione segnata dalla paura perenne, ma ribadisce che tale diritto non potrà mai essere garantito “dalla guerra e dall’aggressione contro persone innocenti”. L’unica via per raggiungere la pace e la sicurezza è “la giustizia e la risoluzione del conflitto”, che potrà farsi strada solo riconoscendo al popolo palestinese il diritto a vivere in libertà nella propria terra e consentendo che Gaza si apra al mondo.

Intanto a vari organismi politici italiani, tra cui la Regione Umbria, è giunta una lettera aperta da parte dei “Cittadini contro il genocidio dei palestinesi” in cui si chiede di “fermare l’offensiva contro Gaza, fermare gli attacchi aerei, rispettare i termini dell’accordo di ‘cessate il fuoco’ del 2012, liberare i prigionieri già scarcerati per lo scambio del 2011 [ma] di nuovo catturati, non interferire nel governo unitario dei palestinesi”.

 

 

Luglio 2014. Un bambino di Gaza davanti alla sua casa colpita dalle bombe israeliane
Luglio 2014. Un bambino di Gaza davanti alla sua casa colpita dalle bombe israeliane

Il rinnovato appello del Papa per la pace

Un appello al Papa, perché intervenga per far cessare il conflitto tra Israele e Hamas, è stato lanciato mercoledì al tg di TV2000 da padre Raed Abusahlia, direttore della Caritas di Gerusalemme. “La situazione è molto difficile dal punto di vista umanitario; mancano cibo, acqua, elettricità. Ci sono migliaia di feriti negli ospedali e mancano le medicine”. Da qui l’appello che il direttore della Caritas rivolge al Santo Padre: “Abbiamo bisogno di lui per due cose: la prima è fare pressione, tramite la comunità internazionale, ad ambedue le parti – israeliani e palestinesi – perché pongano fine alle aggressioni. Poi, potrà fare un secondo miracolo: un anno fa ha lanciato una veglia di preghiera contro la guerra in Siria. Ora potrà promuovere una veglia di preghiera anche per la fine di questa guerra”.

Papa Francesco domenica scorsa, all’Angelus aveva rinnovato il suo “accorato appello” per la pace. “Alla luce dei tragici eventi degli ultimi giorni” ha chiesto a tutti di continuare a “pregare con insistenza per la pace in Terra Santa”. Ricordando l’incontro dell’8 giugno con il Patriarca Bartolomeo, il presidente Peres e il presidente Abbas nel quale era stato “invocato il dono della pace e ascoltato la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza” papa Francesco si è rivolto a chi potrebbe pensare che sia stato inutile. Non lo è stato, ha detto, “perché la preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male né rassegnarci a che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione”. Ed ha quindi esortato “le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare la preghiera e alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti. E invito tutti ad unirvi nella preghiera”.

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