padre Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/padre/ Settimanale di informazione regionale Sat, 26 Mar 2022 20:04:23 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg padre Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/padre/ 32 32 Giuseppe, un uomo che ha tanto da insegnarci https://www.lavoce.it/giuseppe-un-uomo-che-ha-tanto-da-insegnarci/ Thu, 11 Mar 2021 17:40:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59495

Di fronte al protagonismo e all’esibizionismo a tutti i costi che il mondo contemporaneo ci sbatte in faccia attraverso i media vecchi e nuovi, la vera “rivoluzione” di oggi è il modello di marito e di padre incarnato da san Giuseppe. È lo psichiatra Tonino Cantelmi, in una recente intervista, a guidarci in un viaggio attraverso due millenni di storia per capire come sia cambiata la figura dell’uomo dei nostri giorni rispetto al profilo dello sposo di Maria. Un mix di forza e tenerezza, senso di responsabilità e capacità di donarsi, un modello di paternità autorevole e controcorrente, tanto da farci riflettere sull’attuale “scomparsa del padre”. Cantelmi, presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc), parte proprio dalle parole della lettera apostolica Patris Corde pubblicata da Papa Francesco nel dicembre scorso.

In Giuseppe nessuna mascolinità ingombrante

Quello di Giuseppe è uno “stare in seconda linea” che mostra - però - un “protagonismo straordinario, eroico”. Nessuna mascolinità “ingombrante” o - al contrario - annacquata dalle ambiguità. Alla società dell’apparire, “orfana” di padri, il Papa - spiega ancora Cantelmi - propone “un modello fatto di nascondimento, accoglienza, sostegno, incoraggiamento e tenerezza”. Non c’è machismo, né forza muscolare ostentata. Al contrario, una categoria che oggi sembra obsoleta e disconosciuta: quella della tenerezza, molto cara a Papa Francesco. Forse l’uomo di oggi rischia spesso di perdere la bussola della propria identità e del proprio ruolo, ed è per questo che si parla del modello di paternità in frantumi, di incapacità di essere un capofamiglia, che non impone e non prevarica, ma che - al contrario, appunto - si ispira alla tenerezza che riflette quella di Dio.

Non solo “padre”

La paternità di san Giuseppe rinvia “a una paternità altra e alta: la paternità di Dio che ama ma lascia liberi”, sottolinea ancora lo psichiatra Cantelmi. Che introduce un altro elemento molto importante e significativo: “anche se oggi la nascita del primo figlio è rinviata molto in avanti negli anni – per le donne l’età media è 34 anni, per gli uomini anche più tardi – la transizione dei giovani adulti al ruolo genitoriale rimane faticosa”. Ma non fermiamoci alla figura di padre. Per Cantelmi “san Giuseppe è anche un potente modello maschile per la società di oggi: non cerca i riflettori, non ha bisogno di salire sul palcoscenico ma è grandissimo nella sua operosità silenziosa e nella sua rispettosa delicatezza verso Maria”. Che sia proprio il nostro caro san Giuseppe - e rilancio Cantelmi - il miglior antidoto al maschilismo e al narcisismo diffuso di chi tenta di prevaricare la donna per autoaffermarsi?]]>

Di fronte al protagonismo e all’esibizionismo a tutti i costi che il mondo contemporaneo ci sbatte in faccia attraverso i media vecchi e nuovi, la vera “rivoluzione” di oggi è il modello di marito e di padre incarnato da san Giuseppe. È lo psichiatra Tonino Cantelmi, in una recente intervista, a guidarci in un viaggio attraverso due millenni di storia per capire come sia cambiata la figura dell’uomo dei nostri giorni rispetto al profilo dello sposo di Maria. Un mix di forza e tenerezza, senso di responsabilità e capacità di donarsi, un modello di paternità autorevole e controcorrente, tanto da farci riflettere sull’attuale “scomparsa del padre”. Cantelmi, presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc), parte proprio dalle parole della lettera apostolica Patris Corde pubblicata da Papa Francesco nel dicembre scorso.

In Giuseppe nessuna mascolinità ingombrante

Quello di Giuseppe è uno “stare in seconda linea” che mostra - però - un “protagonismo straordinario, eroico”. Nessuna mascolinità “ingombrante” o - al contrario - annacquata dalle ambiguità. Alla società dell’apparire, “orfana” di padri, il Papa - spiega ancora Cantelmi - propone “un modello fatto di nascondimento, accoglienza, sostegno, incoraggiamento e tenerezza”. Non c’è machismo, né forza muscolare ostentata. Al contrario, una categoria che oggi sembra obsoleta e disconosciuta: quella della tenerezza, molto cara a Papa Francesco. Forse l’uomo di oggi rischia spesso di perdere la bussola della propria identità e del proprio ruolo, ed è per questo che si parla del modello di paternità in frantumi, di incapacità di essere un capofamiglia, che non impone e non prevarica, ma che - al contrario, appunto - si ispira alla tenerezza che riflette quella di Dio.

Non solo “padre”

La paternità di san Giuseppe rinvia “a una paternità altra e alta: la paternità di Dio che ama ma lascia liberi”, sottolinea ancora lo psichiatra Cantelmi. Che introduce un altro elemento molto importante e significativo: “anche se oggi la nascita del primo figlio è rinviata molto in avanti negli anni – per le donne l’età media è 34 anni, per gli uomini anche più tardi – la transizione dei giovani adulti al ruolo genitoriale rimane faticosa”. Ma non fermiamoci alla figura di padre. Per Cantelmi “san Giuseppe è anche un potente modello maschile per la società di oggi: non cerca i riflettori, non ha bisogno di salire sul palcoscenico ma è grandissimo nella sua operosità silenziosa e nella sua rispettosa delicatezza verso Maria”. Che sia proprio il nostro caro san Giuseppe - e rilancio Cantelmi - il miglior antidoto al maschilismo e al narcisismo diffuso di chi tenta di prevaricare la donna per autoaffermarsi?]]>
Come insegnava Eduardo, il padre è quello che… https://www.lavoce.it/eduardo-padre-quello-che/ Tue, 19 Mar 2019 12:47:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54223 padre

Il 19 marzo, nel giorno che la Chiesa dedica a san Giuseppe - “sublime modello di paterna vigilanza”, come scriveva Leone XIII - si festeggiano tutti i papà. Spero che la festa sia un momento di riflessione su questa importante figura genitoriale, e non l’ennesima occasione commerciale per l’acquisto di regali. Chi è il padre oggi e quali sono i suoi compiti? Diceva Eduardo De Filippo, in una sua memorabile commedia, che il padre è quello che si sveglia di notte, quando il figlio ha la febbre, per vegliarlo e rimboccargli le coperte.

Il padre è quello - aggiungo che insegna al figlio ad andare in bicicletta, che lo segue con lo sguardo vigile, che c’è sempre quando serve. Essere padre, quindi, non è una semplice funzione biologica, non è trasmet- tere i propri caratteri fisici, perlomeno non è solo quello. Qualche giorno fa leggevo che lo studio di alcuni esperti in materia di relazioni genitori/figli concludeva che oggi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli, più ansiosi di proteggerli che di sopportarne i conflitti.

Nel caso della figura paterna questo, secondo me, è ancora più vero. Oggi, mentre la madre ha mantenuto e a volte moltiplicato il proprio impegno e i propri compiti in famiglia, il padre si è ritirato, è come scomparso. Ecco, penso che molti problemi della gioventù di oggi siano dovuti a questa eclissi della figura paterna, al venir meno dell’autorità che rappresentava. Certo i tempi non sono più quelli di venti, trent’anni fa o addirittura quelli degli anni Sessanta, quelli della mia generazione, quando il padre era una figura davvero autorevole, tanto che bastava solo evocarlo perché noi figli ci comportassimo come voleva la mamma. La frase tipica che usava per farsi ubbidire era: “Stasera lo dico a tuo padre!”. Era sufficiente per incuterci quel timore reverenziale che di per sé aveva una sua funzione educativa.

Non sono più quei tempi, e certo non si può confrontare il modo di vivere di oggi con quello di allora. Basti pensare che oggi quasi tutte le madri lavorano anche loro, e i figli passano più tempo da soli; ma, come a quei tempi, la funzione dei padri dovrebbe essere quella di trasmettere esempi, ideali e passioni. Soprattutto esempi! Non dimenticherò mai gli insegnamenti di mio padre, un uomo semplice, operaio analfabeta che lavorava tutto il giorno e che parlava pochissimo, ma che ogni domenica mi portava a messa, e a san Giuseppe mi accompagnava a gustare il primo gelato della stagione.

Quest’anno, nel giorno della festa del papà lo ricorderò e lo ringrazierò per avermi trasmesso la fede e l’onestà come valore. Mangerò un gelato anche per lui, che mi guarda dal Cielo.

Antonio Russo padre e insegnante

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padre

Il 19 marzo, nel giorno che la Chiesa dedica a san Giuseppe - “sublime modello di paterna vigilanza”, come scriveva Leone XIII - si festeggiano tutti i papà. Spero che la festa sia un momento di riflessione su questa importante figura genitoriale, e non l’ennesima occasione commerciale per l’acquisto di regali. Chi è il padre oggi e quali sono i suoi compiti? Diceva Eduardo De Filippo, in una sua memorabile commedia, che il padre è quello che si sveglia di notte, quando il figlio ha la febbre, per vegliarlo e rimboccargli le coperte.

Il padre è quello - aggiungo che insegna al figlio ad andare in bicicletta, che lo segue con lo sguardo vigile, che c’è sempre quando serve. Essere padre, quindi, non è una semplice funzione biologica, non è trasmet- tere i propri caratteri fisici, perlomeno non è solo quello. Qualche giorno fa leggevo che lo studio di alcuni esperti in materia di relazioni genitori/figli concludeva che oggi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli, più ansiosi di proteggerli che di sopportarne i conflitti.

Nel caso della figura paterna questo, secondo me, è ancora più vero. Oggi, mentre la madre ha mantenuto e a volte moltiplicato il proprio impegno e i propri compiti in famiglia, il padre si è ritirato, è come scomparso. Ecco, penso che molti problemi della gioventù di oggi siano dovuti a questa eclissi della figura paterna, al venir meno dell’autorità che rappresentava. Certo i tempi non sono più quelli di venti, trent’anni fa o addirittura quelli degli anni Sessanta, quelli della mia generazione, quando il padre era una figura davvero autorevole, tanto che bastava solo evocarlo perché noi figli ci comportassimo come voleva la mamma. La frase tipica che usava per farsi ubbidire era: “Stasera lo dico a tuo padre!”. Era sufficiente per incuterci quel timore reverenziale che di per sé aveva una sua funzione educativa.

Non sono più quei tempi, e certo non si può confrontare il modo di vivere di oggi con quello di allora. Basti pensare che oggi quasi tutte le madri lavorano anche loro, e i figli passano più tempo da soli; ma, come a quei tempi, la funzione dei padri dovrebbe essere quella di trasmettere esempi, ideali e passioni. Soprattutto esempi! Non dimenticherò mai gli insegnamenti di mio padre, un uomo semplice, operaio analfabeta che lavorava tutto il giorno e che parlava pochissimo, ma che ogni domenica mi portava a messa, e a san Giuseppe mi accompagnava a gustare il primo gelato della stagione.

Quest’anno, nel giorno della festa del papà lo ricorderò e lo ringrazierò per avermi trasmesso la fede e l’onestà come valore. Mangerò un gelato anche per lui, che mi guarda dal Cielo.

Antonio Russo padre e insegnante

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Associazione M’ama. Mamme “matte” per bambini speciali https://www.lavoce.it/associazione-mama-mamme-matte-bambini-speciali/ Thu, 03 May 2018 13:51:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51801

“Difficilmente collocabili”: sono chiamati così dagli addetti ai lavori quei bambini o minori che, per problemi legati alla loro storia, a traumi subiti o a disabilità cognitive e fisiche, trovandosi senza genitori o a seguito di un provvedimento di allontanamento dalla famiglia di origine, non riescono a trovare figure genitoriali disposti ad accoglierli. A tutti questi bimbi da qualche anno pensano le “mamme matte” dell’associazione M’ama – Dalla parte dei bambini. “La frase che ci viene rivolta più di frequente è: ‘voi siete matte, non troverete mai una famiglia per questo bambino’. Così abbiamo pensato che questo appellativo fosse perfetto per noi! Siamo un gruppo di mamme biologiche, adottive e affidatarie impegnate anche professionalmente nel sociale e crediamo fermamente che per ogni bambino ‘speciale’ esista una famiglia pronta ad accoglierlo, pur con la sua disabilità o col suo passato difficile alle spalle. Sembriamo matte perché può essere difficile, ma non è impossibile: nell’ultimo anno abbiamo trovato una famiglia per 45 minori ritenuti difficilmente collocabili” racconta a La Voce la dott.sa Emilia Russo, avvocato e socia fondatrice della M’ama insieme ad altre tre mamme. L’associazione ha la sua sede legale a Roma, ma i suoi associati sono presenti anche in Umbria, Lombardia e Veneto, “siamo però disponibili ad accettare casi provenienti da qualsiasi Comune d’Italia”, spiega Russo. Come operano dunque queste “mamme matte”? “Siamo in contatto con i vari tribunali dei minori e troviamo le famiglie soprattutto tramite appelli in internet, dal nostro sito (www.mammematte.com) o dalla nostra pagina Facebook. Continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce.

Adozione e affido Adozione e affidamento sono due provvedimenti molto diversi sia per presupposti che per obiettivi. Sono regolati dalla legge 184 del 4/05/1983, aggiornata l’ultima volta con la legge 173 del 19/10/2015. Vediamo le principali differenze. Con l’ adozione una coppia può riconoscere come figlio legittimo un soggetto rimasto senza i genitori naturali, o che non sia stato riconosciuto da questi, o che si trovi in stato di abbandono. Gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni o dimostrare di aver convissuto prima del matrimonio per almeno tre anni, devono avere una differenza d’età con l’adottato compresa tra i 18 e i 45 anni, e devono essere stati dichiarati idonei da parte del Tribunale dei minori dopo una verifica del Servizio sociale. Con l’adozione, il minore assume il cognome dei genitori adottivi e cessano tutti i rapporti con i genitori naturali, nel caso esistano. L’ affidamento è un provvedimento temporaneo attraverso il quale un minore in difficoltà viene accolto presso una famiglia in grado di prendersene cura. Possono essere affidatarie coppie sposate o conviventi, ma anche persone singole. Non sono previsti limiti rispetto alla differenza d’età tra minore e affidatari, inoltre i genitori affidatari devono garantire i contatti con la famiglia di origine nei tempi e modi stabiliti dal Tribunale, in accordo con i Servizi sociali.

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“Difficilmente collocabili”: sono chiamati così dagli addetti ai lavori quei bambini o minori che, per problemi legati alla loro storia, a traumi subiti o a disabilità cognitive e fisiche, trovandosi senza genitori o a seguito di un provvedimento di allontanamento dalla famiglia di origine, non riescono a trovare figure genitoriali disposti ad accoglierli. A tutti questi bimbi da qualche anno pensano le “mamme matte” dell’associazione M’ama – Dalla parte dei bambini. “La frase che ci viene rivolta più di frequente è: ‘voi siete matte, non troverete mai una famiglia per questo bambino’. Così abbiamo pensato che questo appellativo fosse perfetto per noi! Siamo un gruppo di mamme biologiche, adottive e affidatarie impegnate anche professionalmente nel sociale e crediamo fermamente che per ogni bambino ‘speciale’ esista una famiglia pronta ad accoglierlo, pur con la sua disabilità o col suo passato difficile alle spalle. Sembriamo matte perché può essere difficile, ma non è impossibile: nell’ultimo anno abbiamo trovato una famiglia per 45 minori ritenuti difficilmente collocabili” racconta a La Voce la dott.sa Emilia Russo, avvocato e socia fondatrice della M’ama insieme ad altre tre mamme. L’associazione ha la sua sede legale a Roma, ma i suoi associati sono presenti anche in Umbria, Lombardia e Veneto, “siamo però disponibili ad accettare casi provenienti da qualsiasi Comune d’Italia”, spiega Russo. Come operano dunque queste “mamme matte”? “Siamo in contatto con i vari tribunali dei minori e troviamo le famiglie soprattutto tramite appelli in internet, dal nostro sito (www.mammematte.com) o dalla nostra pagina Facebook. Continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce.

Adozione e affido Adozione e affidamento sono due provvedimenti molto diversi sia per presupposti che per obiettivi. Sono regolati dalla legge 184 del 4/05/1983, aggiornata l’ultima volta con la legge 173 del 19/10/2015. Vediamo le principali differenze. Con l’ adozione una coppia può riconoscere come figlio legittimo un soggetto rimasto senza i genitori naturali, o che non sia stato riconosciuto da questi, o che si trovi in stato di abbandono. Gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni o dimostrare di aver convissuto prima del matrimonio per almeno tre anni, devono avere una differenza d’età con l’adottato compresa tra i 18 e i 45 anni, e devono essere stati dichiarati idonei da parte del Tribunale dei minori dopo una verifica del Servizio sociale. Con l’adozione, il minore assume il cognome dei genitori adottivi e cessano tutti i rapporti con i genitori naturali, nel caso esistano. L’ affidamento è un provvedimento temporaneo attraverso il quale un minore in difficoltà viene accolto presso una famiglia in grado di prendersene cura. Possono essere affidatarie coppie sposate o conviventi, ma anche persone singole. Non sono previsti limiti rispetto alla differenza d’età tra minore e affidatari, inoltre i genitori affidatari devono garantire i contatti con la famiglia di origine nei tempi e modi stabiliti dal Tribunale, in accordo con i Servizi sociali.

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Padri controcorrente nella società individualista https://www.lavoce.it/padri-controcorrente-nella-societa-individualista/ Tue, 24 Apr 2018 08:00:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51735 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini A Padova un papà ha salvato la vita di suo figlio di un anno donandogli un quarto del proprio fegato. Ora stanno bene tutti e due. Una donazione importante, che non sarebbe possibile se un genitore, prima di decidere di donare qualsiasi cosa al proprio figlio, non fosse incline a regalargli un altro organo: il cuore. Molti diranno che questo è ‘naturale’. Non ci metterei la mano sul fuoco, viste le tante tragedie all’interno delle famiglie, con vittime predestinate, e incolpevoli, proprio i bambini, i figli. Quei figli che deve aver amato più di ogni altra cosa il padre di Emanuele, il bambino che domenica scorsa tra le lacrime, in una periferia romana visitata da Papa Francesco, ha chiesto se suo padre, morto pochi mesi prima, fosse andato in paradiso, pur essendo ateo. Un ateo che, però, aveva voluto far battezzare tutti i suoi figli. Il Papa ha ascoltato Emanuele, lo ha consolato, abbracciato e rassicurato: “Magari tutti noi potessimo piangere come Emanuele quando abbiamo un dolore come ha lui!”, ha detto il Pontefice (sempre molto turbato di fronte alla sofferenza dei bambini). “Tuo padre non aveva il dono della fede, ma ha fatto battezzare i suoi bambini. È Dio che dice chi va in Cielo. E davanti a un papà non credente che è stato capace di battezzare i suoi bambini, Dio sarebbe capace di abbandonarlo? Dio sicuramente era fiero di tuo papà”. Nella società del rancore e dell’individualismo sfrenato, ricordarsi di come andrebbe esercitata la missione di essere padre, o madre, non ha alcunché di superfluo o retorico.  ]]>
lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini A Padova un papà ha salvato la vita di suo figlio di un anno donandogli un quarto del proprio fegato. Ora stanno bene tutti e due. Una donazione importante, che non sarebbe possibile se un genitore, prima di decidere di donare qualsiasi cosa al proprio figlio, non fosse incline a regalargli un altro organo: il cuore. Molti diranno che questo è ‘naturale’. Non ci metterei la mano sul fuoco, viste le tante tragedie all’interno delle famiglie, con vittime predestinate, e incolpevoli, proprio i bambini, i figli. Quei figli che deve aver amato più di ogni altra cosa il padre di Emanuele, il bambino che domenica scorsa tra le lacrime, in una periferia romana visitata da Papa Francesco, ha chiesto se suo padre, morto pochi mesi prima, fosse andato in paradiso, pur essendo ateo. Un ateo che, però, aveva voluto far battezzare tutti i suoi figli. Il Papa ha ascoltato Emanuele, lo ha consolato, abbracciato e rassicurato: “Magari tutti noi potessimo piangere come Emanuele quando abbiamo un dolore come ha lui!”, ha detto il Pontefice (sempre molto turbato di fronte alla sofferenza dei bambini). “Tuo padre non aveva il dono della fede, ma ha fatto battezzare i suoi bambini. È Dio che dice chi va in Cielo. E davanti a un papà non credente che è stato capace di battezzare i suoi bambini, Dio sarebbe capace di abbandonarlo? Dio sicuramente era fiero di tuo papà”. Nella società del rancore e dell’individualismo sfrenato, ricordarsi di come andrebbe esercitata la missione di essere padre, o madre, non ha alcunché di superfluo o retorico.  ]]>
Giuseppe, sposo di Maria e ‘padre’ di Gesù https://www.lavoce.it/giuseppe-sposo-di-maria-e-padre-di-gesu/ Mon, 19 Mar 2018 05:56:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51455

Il mese di marzo scorre all'interno dei suoi 31 giorni molto belle ed illustri figure di santi. Tra queste figure una però spicca per la pietà e la devozione di cui è fatta oggetto, quella di Giuseppe sposo di Maria. Il culto di san Giuseppe fu introdotto molto tardi nella Chiesa, essendo necessario che fossero prima ben definite la divinità del Redentore e la maternità di Maria. Una prima traccia si trova in alcuni calendari Copti del secolo VIII-IX. In occidente, benché il santo Patriarca sia stato oggetto di lode da parte dei Padri, il suo culto si trova nel secolo XI. Nel secolo seguente i Crociati edificarono una grandiosa basilica a san Giuseppe nel luogo dove la tradizione indicava la sua casa e la sua bottega. La devozione a san Giuseppe prese largo sviluppo dal 1400 anche per opera di Giovanni Gersone, dei Francescani – particolarmente con san Bernardino da Siena - e dei Carmelitani. Ad invocare l’ alto patrocinio di san Giuseppe – il cui nome significa “Dio aggiunga” - hanno invitato i fedeli tra i più grandi santi della Chiesa come Alfonso de Liguori o santa Teresa d'Avila. Costei nella sua Autobiografia scrisse: ”Non so come si possa pensare alla Regina degli Angeli e al molto da lei sofferto col Bambino Gesù, senza ringraziare san Giuseppe che fu loro di tanto aiuto”.
San Giuseppe e i Papi
La Chiesa attraverso i Sommi Pontefici ha continuamente onorato e tuttora onora la figura di san Giuseppe, elevandolo a modello di devozione e pietà per tutti i fedeli. Sisto IV inserì nel Messale la sua festa, con il grado di Rito semplice fissandola per il 19 marzo; Gregorio XV la rese di precetto, mentre Clemente X la elevò a festa Doppia di seconda classe. Il beato Pio IX il 10 settembre 1847 estese la festa di san Giuseppe a tutta la Chiesa, e l'8 dicembre 1870 lo proclamava ufficialmente Patrono della Chiesa universale. Papa Mastai Ferretti aveva saputo cogliere in san Giuseppe due aspetti straordinari: l'essere il Padre davidico del Redentore e lo sposo della sua Vergine Madre. San Giuseppe viene chiamato ad esercitare i diritti e i doveri di vero Padre e di vero Sposo, compito questo che non termina colla morte terrena del santo, ma che prosegue nella vita della Chiesa fino alla fine dei tempi. Leone XIII nell'enciclica Quamquam pluries del 15 agosto 1889 , dichiara solennemente che “tutti i Cristiani di qualunque condizione o stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all'amorosa tutela di san Giuseppe.”. Nella stessa occasione papa Pecci concederà l'indulgenza di 7 anni e 7 quarantene a tutti i fedeli ogni qual volta reciteranno l'Orazione A te, o Beato Giuseppe, stretti nella tribolazione ricorriamo…. Papa Pio XII proclamò san Giuseppe patrono degli artigiani e degli operai restituendo con questo gesto alla “festa dei lavoratori”, ormai infeudata della propaganda comunista, l’originale valore cristiano e sociale.
Papa Giovanni: “non si è mai sentito dire che qualcuno si sia rivolto a san Giuseppe senza ottener grazia”
Di san Giuseppe, Giovanni XXIII parlava spesso e volentieri nei suoi discorsi. Come bonariamente rimproverava a san Pietro di “non essersi comportato troppo bene” nel momento in cui “la triste vicenda del Cristo chiedeva aperto e leale appoggio”, così raffigurava il falegname di Nazaret come un uomo taciturno, modesto, appartato, intento al duro lavoro. A lui il santo Papa Buono fece destinare l'Altare principale della crociera di sinistra della basilica vaticana, precedentemente dedicato alla crocifissione di san Pietro, e si recò egli stesso ad inaugurarlo. Nell' occasione papa Giovanni si compiacque con l'artista Achille Funi di Milano, autore del disegno del mosaico posto sull'Altare, per aver raffigurato” finalmente un san Giuseppe dall'aspetto giovanile” . In altra occasione, durante un udienza generale, notò come le chiese dedicate a san Giuseppe non fossero molte nel mondo e aggiunse, con tono di raccomandazione:” San Giuseppe bisogna tenerselo da conto! Sorpassa sant'Antonio ed altri Santi, ai quali è giusto che si conservi la venerazione: È ben vero ciò che sentivo dire sin da ragazzo, che cioè non si è mai sentito dire che qualcuno si sia rivolto a san Giuseppe senza ottener grazia”. Volle anche, il papa buono, che il nome di san Giuseppe comparisse nel Canone Missae accanto a quello della Vergine Maria. Questi accenni solo per citare alcuni dei grandi Pontefici che all'interno del loro Magistero hanno riservato a san Giuseppe un posto di grande rilevanza. Non si deve dimenticare che tra i tanti patrocini del padre-custode di Gesù vi è anche quello ‘degli agonizzanti’, dai quali viene invocato, poiché soltanto san Giuseppe ebbe la felice sorte di essere assistito nel momento del trapasso da Gesù e Maria. In virtù di tutto questo e di molto altro ancora, la Chiesa incoraggia da sempre i fedeli a rivolgersi a questo celeste patrono, con quella bella ed antica massima latina così scolpita nella mente e nel cuore dei fedeli da non aver bisogno di alcuna traduzione: Ite ad Joseph.]]>

Il mese di marzo scorre all'interno dei suoi 31 giorni molto belle ed illustri figure di santi. Tra queste figure una però spicca per la pietà e la devozione di cui è fatta oggetto, quella di Giuseppe sposo di Maria. Il culto di san Giuseppe fu introdotto molto tardi nella Chiesa, essendo necessario che fossero prima ben definite la divinità del Redentore e la maternità di Maria. Una prima traccia si trova in alcuni calendari Copti del secolo VIII-IX. In occidente, benché il santo Patriarca sia stato oggetto di lode da parte dei Padri, il suo culto si trova nel secolo XI. Nel secolo seguente i Crociati edificarono una grandiosa basilica a san Giuseppe nel luogo dove la tradizione indicava la sua casa e la sua bottega. La devozione a san Giuseppe prese largo sviluppo dal 1400 anche per opera di Giovanni Gersone, dei Francescani – particolarmente con san Bernardino da Siena - e dei Carmelitani. Ad invocare l’ alto patrocinio di san Giuseppe – il cui nome significa “Dio aggiunga” - hanno invitato i fedeli tra i più grandi santi della Chiesa come Alfonso de Liguori o santa Teresa d'Avila. Costei nella sua Autobiografia scrisse: ”Non so come si possa pensare alla Regina degli Angeli e al molto da lei sofferto col Bambino Gesù, senza ringraziare san Giuseppe che fu loro di tanto aiuto”.
San Giuseppe e i Papi
La Chiesa attraverso i Sommi Pontefici ha continuamente onorato e tuttora onora la figura di san Giuseppe, elevandolo a modello di devozione e pietà per tutti i fedeli. Sisto IV inserì nel Messale la sua festa, con il grado di Rito semplice fissandola per il 19 marzo; Gregorio XV la rese di precetto, mentre Clemente X la elevò a festa Doppia di seconda classe. Il beato Pio IX il 10 settembre 1847 estese la festa di san Giuseppe a tutta la Chiesa, e l'8 dicembre 1870 lo proclamava ufficialmente Patrono della Chiesa universale. Papa Mastai Ferretti aveva saputo cogliere in san Giuseppe due aspetti straordinari: l'essere il Padre davidico del Redentore e lo sposo della sua Vergine Madre. San Giuseppe viene chiamato ad esercitare i diritti e i doveri di vero Padre e di vero Sposo, compito questo che non termina colla morte terrena del santo, ma che prosegue nella vita della Chiesa fino alla fine dei tempi. Leone XIII nell'enciclica Quamquam pluries del 15 agosto 1889 , dichiara solennemente che “tutti i Cristiani di qualunque condizione o stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all'amorosa tutela di san Giuseppe.”. Nella stessa occasione papa Pecci concederà l'indulgenza di 7 anni e 7 quarantene a tutti i fedeli ogni qual volta reciteranno l'Orazione A te, o Beato Giuseppe, stretti nella tribolazione ricorriamo…. Papa Pio XII proclamò san Giuseppe patrono degli artigiani e degli operai restituendo con questo gesto alla “festa dei lavoratori”, ormai infeudata della propaganda comunista, l’originale valore cristiano e sociale.
Papa Giovanni: “non si è mai sentito dire che qualcuno si sia rivolto a san Giuseppe senza ottener grazia”
Di san Giuseppe, Giovanni XXIII parlava spesso e volentieri nei suoi discorsi. Come bonariamente rimproverava a san Pietro di “non essersi comportato troppo bene” nel momento in cui “la triste vicenda del Cristo chiedeva aperto e leale appoggio”, così raffigurava il falegname di Nazaret come un uomo taciturno, modesto, appartato, intento al duro lavoro. A lui il santo Papa Buono fece destinare l'Altare principale della crociera di sinistra della basilica vaticana, precedentemente dedicato alla crocifissione di san Pietro, e si recò egli stesso ad inaugurarlo. Nell' occasione papa Giovanni si compiacque con l'artista Achille Funi di Milano, autore del disegno del mosaico posto sull'Altare, per aver raffigurato” finalmente un san Giuseppe dall'aspetto giovanile” . In altra occasione, durante un udienza generale, notò come le chiese dedicate a san Giuseppe non fossero molte nel mondo e aggiunse, con tono di raccomandazione:” San Giuseppe bisogna tenerselo da conto! Sorpassa sant'Antonio ed altri Santi, ai quali è giusto che si conservi la venerazione: È ben vero ciò che sentivo dire sin da ragazzo, che cioè non si è mai sentito dire che qualcuno si sia rivolto a san Giuseppe senza ottener grazia”. Volle anche, il papa buono, che il nome di san Giuseppe comparisse nel Canone Missae accanto a quello della Vergine Maria. Questi accenni solo per citare alcuni dei grandi Pontefici che all'interno del loro Magistero hanno riservato a san Giuseppe un posto di grande rilevanza. Non si deve dimenticare che tra i tanti patrocini del padre-custode di Gesù vi è anche quello ‘degli agonizzanti’, dai quali viene invocato, poiché soltanto san Giuseppe ebbe la felice sorte di essere assistito nel momento del trapasso da Gesù e Maria. In virtù di tutto questo e di molto altro ancora, la Chiesa incoraggia da sempre i fedeli a rivolgersi a questo celeste patrono, con quella bella ed antica massima latina così scolpita nella mente e nel cuore dei fedeli da non aver bisogno di alcuna traduzione: Ite ad Joseph.]]>
Quanto è difficile essere papà! Tre libri lo raccontano https://www.lavoce.it/quanto-difficile-papa/ Tue, 19 Dec 2017 11:28:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50867

Oggi è difficile essere padri, non a caso l’enfasi sulla “morte del padre” ha alimentato tutta la retorica della nostra epoca. Pure le riflessioni di Freud e di Lacan, come quelle di Mitscherlich – autore di “Verso una società senza padre” (1963) – danno atto della scomparsa del “pater familias”, che aveva dominato la scena familiare per secoli. Non sorprende quindi che tre giornalisti in sintonia col paese abbiano pubblicato in queste settimane altrettanti libri nei quali, da papà preoccupati, affrontano il tema della “paternità”. Antonio Polito (con Riprendiamoci i nostri figli). lamenta “non c’è più autorità”. E ha ragione. Diventato padre in due momenti diversi e distanti della sua vita, entra nel vivo di una battaglia culturale volta a smascherare i nemici dei genitori: le idee e le figure che tendono a sabotarne l’autorità o che semplicemente hanno smesso di aiutarli. Dai social alla scuola, dalla politica ai cattivi maestri fino alla famiglia stessa, che ha commesso gravi errori, importando stili di vita che ne minano il ruolo. Davanti all’urgenza di rifondare l’autorità dei genitori, la soluzione sta forse nel tornare al più classico dei compiti: trasmettere cultura, comportamenti, esperienze e valori, primo tra tutti l’amore e il rispetto per la vita. Gli fa eco Aldo Cazzullo con Metti via quel cellulare. Oggi è lo smartphone l’unità di misura della conoscenza e della connessione: il tempo limitato, parliamo di secondi, al massimo di qualche minuto, in cui le conversazioni si svolgono nel nuovo linguaggio digitale che il giornalista, da padre accorto, tenta di decifrare. Alla disperata ricerca di attenzione e aiuto, tanti ragazzi affidano a YouTube e ai social le loro cose più intime, talora vergognose, come naufraghi che infilano il messaggio nella bottiglia e la affidano alle onde dell’oceano, fiduciosi che giunga nelle mani di un soccorritore; che però non c’è. Molti sono i papà affettuosi ma ansiosi, così Pierluigi Battista (A proposito di Marta) ci regala un diario, un racconto che tende un filo fra due mondi, quello dei padri e quello dei figli. Marta ha vent’anni e va incontro al futuro. Suo padre la osserva, allo stesso tempo escluso e incantato, ammira la naturalezza con cui lei si muove nel mondo, tra biciclette, navigatori satellitari, cibo sano e erboristerie (“Sono sicuro che mia figlia dirà orgogliosamente ai suoi nipoti: sono cresciuta nell’epoca dell’erboristeria”). Tre libri che tre padri hanno scritto ai figli per parlare anche di se stessi. Resta insopportabile per ogni papà non riuscire a parlare con il proprio figlio. Davanti alla prova di una modernità che sradica non solo le competenze e i mestieri, ma anche i linguaggi, non resta ai papà che affidarsi al Padre Celeste che è non solo l’ Onnipotente e il Creatore, ma è anche “Abbà, il babbo che parla sempre chiaro”.  ]]>

Oggi è difficile essere padri, non a caso l’enfasi sulla “morte del padre” ha alimentato tutta la retorica della nostra epoca. Pure le riflessioni di Freud e di Lacan, come quelle di Mitscherlich – autore di “Verso una società senza padre” (1963) – danno atto della scomparsa del “pater familias”, che aveva dominato la scena familiare per secoli. Non sorprende quindi che tre giornalisti in sintonia col paese abbiano pubblicato in queste settimane altrettanti libri nei quali, da papà preoccupati, affrontano il tema della “paternità”. Antonio Polito (con Riprendiamoci i nostri figli). lamenta “non c’è più autorità”. E ha ragione. Diventato padre in due momenti diversi e distanti della sua vita, entra nel vivo di una battaglia culturale volta a smascherare i nemici dei genitori: le idee e le figure che tendono a sabotarne l’autorità o che semplicemente hanno smesso di aiutarli. Dai social alla scuola, dalla politica ai cattivi maestri fino alla famiglia stessa, che ha commesso gravi errori, importando stili di vita che ne minano il ruolo. Davanti all’urgenza di rifondare l’autorità dei genitori, la soluzione sta forse nel tornare al più classico dei compiti: trasmettere cultura, comportamenti, esperienze e valori, primo tra tutti l’amore e il rispetto per la vita. Gli fa eco Aldo Cazzullo con Metti via quel cellulare. Oggi è lo smartphone l’unità di misura della conoscenza e della connessione: il tempo limitato, parliamo di secondi, al massimo di qualche minuto, in cui le conversazioni si svolgono nel nuovo linguaggio digitale che il giornalista, da padre accorto, tenta di decifrare. Alla disperata ricerca di attenzione e aiuto, tanti ragazzi affidano a YouTube e ai social le loro cose più intime, talora vergognose, come naufraghi che infilano il messaggio nella bottiglia e la affidano alle onde dell’oceano, fiduciosi che giunga nelle mani di un soccorritore; che però non c’è. Molti sono i papà affettuosi ma ansiosi, così Pierluigi Battista (A proposito di Marta) ci regala un diario, un racconto che tende un filo fra due mondi, quello dei padri e quello dei figli. Marta ha vent’anni e va incontro al futuro. Suo padre la osserva, allo stesso tempo escluso e incantato, ammira la naturalezza con cui lei si muove nel mondo, tra biciclette, navigatori satellitari, cibo sano e erboristerie (“Sono sicuro che mia figlia dirà orgogliosamente ai suoi nipoti: sono cresciuta nell’epoca dell’erboristeria”). Tre libri che tre padri hanno scritto ai figli per parlare anche di se stessi. Resta insopportabile per ogni papà non riuscire a parlare con il proprio figlio. Davanti alla prova di una modernità che sradica non solo le competenze e i mestieri, ma anche i linguaggi, non resta ai papà che affidarsi al Padre Celeste che è non solo l’ Onnipotente e il Creatore, ma è anche “Abbà, il babbo che parla sempre chiaro”.  ]]>
Uno solo è il Padre https://www.lavoce.it/uno-solo-padre/ Thu, 02 Nov 2017 17:46:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50420 domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
Padre e figlio catechisti insieme https://www.lavoce.it/padre-figlio-catechisti-insieme/ Tue, 31 Oct 2017 11:00:37 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50375

In molte parrocchie e zone pastorali della diocesi sta riprendendo la catechesi ai bambini, ragazzi e giovani. In alcuni luoghi, sappiamo, che si svolgeranno anche, in via sperimentale, iniziative “nuove”; mi riferisco, ad esempio, alla proposta dell’Oratorio al posto del “catechismo tradizionale” rivolta, in particolare, a ragazzi non immediatamente prossimi alla celebrazione dei sacramenti. All’inizio del nuovo anno catechistico, allora, abbiamo voluto rivolgere alcune domande a Teofilo Gagliardi, sposo, padre di due figli, Federica e Paolo, e catechista nella Unità pastorale S. Vittorina da alcuni anni (da quando Paolo si preparava alla Cresima). Teofilo si accinge a vivere un’esperienza un po’ particolare, in quanto, nel catechismo ai ragazzi di 1a media che hanno ricevuto a giugno la Prima Comunione, avrà al suo fianco proprio il figlio Paolo (17 anni, assiduo partecipante al gruppo giovani dell’Up, animatore all’Oratorio estivo interparrocchiale e che ha anche partecipato con la Diocesi alla Gmg 2016 in Polonia). Leggi l'articolo completo sull'edizione digitale de "La Voce"]]>

In molte parrocchie e zone pastorali della diocesi sta riprendendo la catechesi ai bambini, ragazzi e giovani. In alcuni luoghi, sappiamo, che si svolgeranno anche, in via sperimentale, iniziative “nuove”; mi riferisco, ad esempio, alla proposta dell’Oratorio al posto del “catechismo tradizionale” rivolta, in particolare, a ragazzi non immediatamente prossimi alla celebrazione dei sacramenti. All’inizio del nuovo anno catechistico, allora, abbiamo voluto rivolgere alcune domande a Teofilo Gagliardi, sposo, padre di due figli, Federica e Paolo, e catechista nella Unità pastorale S. Vittorina da alcuni anni (da quando Paolo si preparava alla Cresima). Teofilo si accinge a vivere un’esperienza un po’ particolare, in quanto, nel catechismo ai ragazzi di 1a media che hanno ricevuto a giugno la Prima Comunione, avrà al suo fianco proprio il figlio Paolo (17 anni, assiduo partecipante al gruppo giovani dell’Up, animatore all’Oratorio estivo interparrocchiale e che ha anche partecipato con la Diocesi alla Gmg 2016 in Polonia). Leggi l'articolo completo sull'edizione digitale de "La Voce"]]>