padre nostro Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/padre-nostro/ Settimanale di informazione regionale Thu, 14 Dec 2023 14:43:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg padre nostro Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/padre-nostro/ 32 32 Padre nostro. Le varianti nel nuovo Messale Cei: tutto il lavoro che sta dietro una preghiera https://www.lavoce.it/padre-nostro-varianti-messale-cei/ https://www.lavoce.it/padre-nostro-varianti-messale-cei/#respond Wed, 13 Dec 2023 14:00:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53501 altare celebrazione

I Vescovi italiani, nell’Assemblea generale che si è tenuta da lunedì 12 a giovedì 15 novembre 2018, hanno approvato la nuova versione del Messale romano, che verrà sottoposta alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza. Nel Messale si trovano anche le traduzioni del Padre nostro e del Gloria, già pubblicate nella versione della Bibbia Cei del 2008 (nella quale furono apportati più di 100.000 tra cambiamenti, correzioni e miglioramenti). Tra le revisioni approvate emergono la formula del Pater “non abbandonarci alla tentazione”, e l’inizio del Gloria , “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”.

La traduzione del Padre nostro

Il verbo greco eisphero alla lettera significa “portare dentro”, “far entrare”, “condurre”, e dunque era giustificata anche la precedente versione Cei, “non ci indurre in tentazione”, ricalcata dal latino, la quale però poteva lasciare immaginare che Dio potesse indurre alla tentazione.

La nuova traduzione Cei è migliorata a livello teologico, perché lascia intendere da una parte che Dio non tenta al male (come si evince anche dalla Lettera di Giacomo 1,13), e che, in ogni caso, vi sono nella vita delle prove che non sono “tentazioni”, come quella dello stesso Abramo (cfr. Genesi 22,1), volute da Dio.

Il sostantivo peirasmos infatti può assumere il senso di “prova” o di “tentazione”, a seconda del contesto: in senso positivo la prova può essere dimostrativa (Gen 22,1), oppure in senso negativo come istigazione al peccato. Nel caso del Padre nostro possono essere implicati tutti e due i significati, ma il fatto che si chieda l’aiuto di Dio potrebbe farci propendere verso l’idea che si tratti di una tentazione al male.

Nel caso del Padre nostro possono essere implicati tutti e due i significati, ma il fatto che si chieda l’aiuto di Dio potrebbe farci propendere verso l’idea che si tratti di una tentazione al male. In questo caso, si intende allora che quando si è ormai entrati in quella tentazione o prova, Dio comunque non abbandona.

Nel Messale la traduzione della Bibbia Cei 2008

La nuova versione liturgica Cei è accettabile, anche perché non esiste “la” traduzione che possa rendere perfettamente l’originale.

Allora non si può dire né che la traduzione pregata finora fosse scorretta (anche perché ricalcava semplicemente la versione latina di Girolamo), e nemmeno che lo sia quella proposta ora.

In fondo, tutte le traduzioni, quando approvate dalla Chiesa, e pregate, esprimono quel senso o quell’intelligenza di cui parla Papa Francesco nella Evangelii gaudium: “Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione”.

Traduzione complessa per il Padre nostro

Ma il vero punto è che la traduzione del Pater è alquanto complessa, e aperta a diverse interpretazioni. Anche se non si è discusso a tale riguardo nell’Assemblea Cei, prova ne è la questione, ancora più complicata, dell’aggettivo che definisce il pane nella stessa preghiera (“dacci oggi il nostro pane…”), aggettivo che in greco è epiousion ( Mt 6,11). Il significato dell’aggettivo è incerto, come dimostrato dai tentativi fatti dalle traduzioni antiche: quotidianus (Itala; così la traduzione gotica con sinteinan ), “perpetuo” (versione siriaca riveduta), “necessario / per il nostro bisogno” ( Peshitta), “che verrà” (copto sahidico), “di domani” (copto medio-egizio e bohairico come nel Vangelo degli Ebrei secondo Girolamo); “continuamente / per sempre” (Vangelo ebraico di Matteo di Shem Tov).

La cosa più interessante però è che nemmeno lo stesso san Girolamo è stato consistente: traduce il greco epiousion in Mt 6,11 con supersubstantialem, ma nella formula del Pater parallela di Lc 11,3 con cotidianum . Come si vede, la stessa parola viene resa in due modi diversi dallo stesso traduttore, per la stessa preghiera, il Padre nostro. E difficilmente potremmo rimproverare a Girolamo di non conoscere il greco o il latino.

Il fatto è che le lingue organizzano le loro strutture – anche semantiche – in modo differente, e non è possibile renderle esattamente e in modo equivalente.

La traduzione del Gloria

Un ulteriore esempio viene dal Gloria. Nella frase greca di Lc 2,14 è implicato il concetto di “santa volontà di Dio”, e non quello della volontà degli uomini, perciò anche qui è giustificata la nuova traduzione, che amplifica ma chiarisce: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”.

Padre Giulio Michelini ofm, biblista e preside dell’Istituto teologico di Assisi

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altare celebrazione

I Vescovi italiani, nell’Assemblea generale che si è tenuta da lunedì 12 a giovedì 15 novembre 2018, hanno approvato la nuova versione del Messale romano, che verrà sottoposta alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza. Nel Messale si trovano anche le traduzioni del Padre nostro e del Gloria, già pubblicate nella versione della Bibbia Cei del 2008 (nella quale furono apportati più di 100.000 tra cambiamenti, correzioni e miglioramenti). Tra le revisioni approvate emergono la formula del Pater “non abbandonarci alla tentazione”, e l’inizio del Gloria , “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”.

La traduzione del Padre nostro

Il verbo greco eisphero alla lettera significa “portare dentro”, “far entrare”, “condurre”, e dunque era giustificata anche la precedente versione Cei, “non ci indurre in tentazione”, ricalcata dal latino, la quale però poteva lasciare immaginare che Dio potesse indurre alla tentazione.

La nuova traduzione Cei è migliorata a livello teologico, perché lascia intendere da una parte che Dio non tenta al male (come si evince anche dalla Lettera di Giacomo 1,13), e che, in ogni caso, vi sono nella vita delle prove che non sono “tentazioni”, come quella dello stesso Abramo (cfr. Genesi 22,1), volute da Dio.

Il sostantivo peirasmos infatti può assumere il senso di “prova” o di “tentazione”, a seconda del contesto: in senso positivo la prova può essere dimostrativa (Gen 22,1), oppure in senso negativo come istigazione al peccato. Nel caso del Padre nostro possono essere implicati tutti e due i significati, ma il fatto che si chieda l’aiuto di Dio potrebbe farci propendere verso l’idea che si tratti di una tentazione al male.

Nel caso del Padre nostro possono essere implicati tutti e due i significati, ma il fatto che si chieda l’aiuto di Dio potrebbe farci propendere verso l’idea che si tratti di una tentazione al male. In questo caso, si intende allora che quando si è ormai entrati in quella tentazione o prova, Dio comunque non abbandona.

Nel Messale la traduzione della Bibbia Cei 2008

La nuova versione liturgica Cei è accettabile, anche perché non esiste “la” traduzione che possa rendere perfettamente l’originale.

Allora non si può dire né che la traduzione pregata finora fosse scorretta (anche perché ricalcava semplicemente la versione latina di Girolamo), e nemmeno che lo sia quella proposta ora.

In fondo, tutte le traduzioni, quando approvate dalla Chiesa, e pregate, esprimono quel senso o quell’intelligenza di cui parla Papa Francesco nella Evangelii gaudium: “Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione”.

Traduzione complessa per il Padre nostro

Ma il vero punto è che la traduzione del Pater è alquanto complessa, e aperta a diverse interpretazioni. Anche se non si è discusso a tale riguardo nell’Assemblea Cei, prova ne è la questione, ancora più complicata, dell’aggettivo che definisce il pane nella stessa preghiera (“dacci oggi il nostro pane…”), aggettivo che in greco è epiousion ( Mt 6,11). Il significato dell’aggettivo è incerto, come dimostrato dai tentativi fatti dalle traduzioni antiche: quotidianus (Itala; così la traduzione gotica con sinteinan ), “perpetuo” (versione siriaca riveduta), “necessario / per il nostro bisogno” ( Peshitta), “che verrà” (copto sahidico), “di domani” (copto medio-egizio e bohairico come nel Vangelo degli Ebrei secondo Girolamo); “continuamente / per sempre” (Vangelo ebraico di Matteo di Shem Tov).

La cosa più interessante però è che nemmeno lo stesso san Girolamo è stato consistente: traduce il greco epiousion in Mt 6,11 con supersubstantialem, ma nella formula del Pater parallela di Lc 11,3 con cotidianum . Come si vede, la stessa parola viene resa in due modi diversi dallo stesso traduttore, per la stessa preghiera, il Padre nostro. E difficilmente potremmo rimproverare a Girolamo di non conoscere il greco o il latino.

Il fatto è che le lingue organizzano le loro strutture – anche semantiche – in modo differente, e non è possibile renderle esattamente e in modo equivalente.

La traduzione del Gloria

Un ulteriore esempio viene dal Gloria. Nella frase greca di Lc 2,14 è implicato il concetto di “santa volontà di Dio”, e non quello della volontà degli uomini, perciò anche qui è giustificata la nuova traduzione, che amplifica ma chiarisce: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”.

Padre Giulio Michelini ofm, biblista e preside dell’Istituto teologico di Assisi

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Padre nostro. La versione aggiornata: perché è cambiata? https://www.lavoce.it/padre-nostro-perche-cambia/ https://www.lavoce.it/padre-nostro-perche-cambia/#comments Fri, 01 Dec 2023 17:40:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56153 padre nostro

Dopo un lungo dibattito, è entrata nella liturgia italiana l’edizione ‘aggiornata’ del testo del Padre nostro. In particolare, a creare problema - e non da ieri, ma nei secoli dei secoli - era la frase “non ci indurre in tentazione”, quasi che Dio si sforzasse di far cadere i fedeli in qualche tranello a sorpresa, per poi condannarli.

Parole difficili da comprendere, e che del resto suonano misteriose anche nel testo originale greco del Vangelo di Matteo: mè eisenénkes hemàs ... “non portarci verso” la tentazione. Ma, come insegna la Lettera di Giacomo (1,13-14): “Nessuno dica di essere tentato da Dio! A tentarlo sono le sue passioni”.

Un po’ criptica anche l’espressione “sia santificato il tuo nome”, perché il nome di Dio è già santo in sé. E poi, sarebbe più esatto usare qui il termine italiano “santo” o “glorioso”?

Da quando i cambiamenti

Dal 29 novembre 2020, prima domenica di Avvento, in chiesa durante la messa si recita una versione del Padre nostro che ovvia a questi inconvenienti di traduzione. Già subito dopo Pasqua, tuttavia, il testo alternativo della preghiera insegnata da Gesù è comparso nella nuova edizione del Messale.

Il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, ha rilanciato l’argomento parlando con l’agenzia di stampa AdnKronos a margine del recente forum internazionale sul rapporto tra estetica e teologia tenutosi alla Pontificia università lateranense.

Le novità

Il Padre nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione a Dio: “non indurci in tentazione” venga espressa meno ambiguamente con “non abbandonarci alla tentazione”. La nuova traduzione era stata approvata nel novembre 2018 dall’Assemblea generale della Cei. Dopo l’approvazione, la nuova edizione italiana (la terza) del Messale romano ha ottenuto il via libera del Papa.

Francesco a sua volta ne ha approvato la promulgazione sulla scia del giudizio positivo da parte della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. E infine, durante l’Assemblea generale del maggio 2019 il presidente della Cei, card. Gualtiero Bassetti, ha annunciato l’avvenuta confirmatio della Santa Sede, che ha concluso così un lavoro di studio e miglioramento dei testi durato oltre 16 anni.

Insomma, variare il testo (cioè la formulazione italiana!) del Padre nostro ha seguito un lungo e qualificato iter, non è certo stata un’azione raffazzonata o estemporanea. Tra le novità, oltre alla modifica “non abbandonarci alla tentazione”, all’espressione “come noi li rimettiamo” viene aggiunto “anche”: “come anche noi...”.

Piccolo cambiamento anche per il Gloria

Una variante è stata introdotta anche nel testo del Gloria, dove al posto di “pace in terra agli uomini di buona volontà” si dice “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”, che è più conforme al testo greco dell’evangelista Luca (eudokìa indica l’amore benevolo di Dio, non la buona volontà dell’essere umano).

Perchè queste modifiche?

Il valore di questa piccola ma grande riforma liturgica lo ha ribadito in modo inequivocabile mons. Bruno Forte intervistato da Radio Vaticana: le modifiche derivano da “una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina inducere poteva richiamare l’omologo greco.

Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a...’, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione ‘non indurci in’ non risultava fedele”.

E allora i Vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore “Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, la lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa’ che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale ‘non lasciarci entrare in tentazione’.

Dunque l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse ‘fa’ che non cadiamo in tentazione’. Però, dato che nella Bibbia Cei 2008 la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’, alla fine i Vescovi, per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia, hanno preferito quest’ultima versione”.

Molti teologi e pastori hanno però fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ faceva riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita.

“Una cosa è la prova, in generale; ma il termine che si trova nella preghiera del Padre nostro è lo stesso usato nel Vangelo di Luca in riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita, ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio.

Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta, e il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere come il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che, in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile”.

D. R.

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padre nostro

Dopo un lungo dibattito, è entrata nella liturgia italiana l’edizione ‘aggiornata’ del testo del Padre nostro. In particolare, a creare problema - e non da ieri, ma nei secoli dei secoli - era la frase “non ci indurre in tentazione”, quasi che Dio si sforzasse di far cadere i fedeli in qualche tranello a sorpresa, per poi condannarli.

Parole difficili da comprendere, e che del resto suonano misteriose anche nel testo originale greco del Vangelo di Matteo: mè eisenénkes hemàs ... “non portarci verso” la tentazione. Ma, come insegna la Lettera di Giacomo (1,13-14): “Nessuno dica di essere tentato da Dio! A tentarlo sono le sue passioni”.

Un po’ criptica anche l’espressione “sia santificato il tuo nome”, perché il nome di Dio è già santo in sé. E poi, sarebbe più esatto usare qui il termine italiano “santo” o “glorioso”?

Da quando i cambiamenti

Dal 29 novembre 2020, prima domenica di Avvento, in chiesa durante la messa si recita una versione del Padre nostro che ovvia a questi inconvenienti di traduzione. Già subito dopo Pasqua, tuttavia, il testo alternativo della preghiera insegnata da Gesù è comparso nella nuova edizione del Messale.

Il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, ha rilanciato l’argomento parlando con l’agenzia di stampa AdnKronos a margine del recente forum internazionale sul rapporto tra estetica e teologia tenutosi alla Pontificia università lateranense.

Le novità

Il Padre nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione a Dio: “non indurci in tentazione” venga espressa meno ambiguamente con “non abbandonarci alla tentazione”. La nuova traduzione era stata approvata nel novembre 2018 dall’Assemblea generale della Cei. Dopo l’approvazione, la nuova edizione italiana (la terza) del Messale romano ha ottenuto il via libera del Papa.

Francesco a sua volta ne ha approvato la promulgazione sulla scia del giudizio positivo da parte della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. E infine, durante l’Assemblea generale del maggio 2019 il presidente della Cei, card. Gualtiero Bassetti, ha annunciato l’avvenuta confirmatio della Santa Sede, che ha concluso così un lavoro di studio e miglioramento dei testi durato oltre 16 anni.

Insomma, variare il testo (cioè la formulazione italiana!) del Padre nostro ha seguito un lungo e qualificato iter, non è certo stata un’azione raffazzonata o estemporanea. Tra le novità, oltre alla modifica “non abbandonarci alla tentazione”, all’espressione “come noi li rimettiamo” viene aggiunto “anche”: “come anche noi...”.

Piccolo cambiamento anche per il Gloria

Una variante è stata introdotta anche nel testo del Gloria, dove al posto di “pace in terra agli uomini di buona volontà” si dice “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”, che è più conforme al testo greco dell’evangelista Luca (eudokìa indica l’amore benevolo di Dio, non la buona volontà dell’essere umano).

Perchè queste modifiche?

Il valore di questa piccola ma grande riforma liturgica lo ha ribadito in modo inequivocabile mons. Bruno Forte intervistato da Radio Vaticana: le modifiche derivano da “una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina inducere poteva richiamare l’omologo greco.

Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a...’, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione ‘non indurci in’ non risultava fedele”.

E allora i Vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore “Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, la lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa’ che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale ‘non lasciarci entrare in tentazione’.

Dunque l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse ‘fa’ che non cadiamo in tentazione’. Però, dato che nella Bibbia Cei 2008 la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’, alla fine i Vescovi, per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia, hanno preferito quest’ultima versione”.

Molti teologi e pastori hanno però fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ faceva riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita.

“Una cosa è la prova, in generale; ma il termine che si trova nella preghiera del Padre nostro è lo stesso usato nel Vangelo di Luca in riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita, ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio.

Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta, e il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere come il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che, in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile”.

D. R.

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Il Padre nostro serve alla pace? https://www.lavoce.it/il-padre-nostro-serve-alla-pace/ https://www.lavoce.it/il-padre-nostro-serve-alla-pace/#respond Wed, 18 Oct 2023 13:00:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73686

Diceva Niccolò Machiavelli che “gli stati non si governano con i paternostri”. Troppo cinico? Diciamo che i Papi del suo secolo – e anche quelli dei secoli precedenti e successivi – come sovrani dello Stato pontificio hanno mostrato, con i fatti, di pensarla allo stesso modo. Tanto che, per consolidare il loro dominio sull’Umbria, l’avevano disseminata di robuste fortezze, da un capo all’altro. Comunque, con quella frase Machiavelli non voleva mancare di rispetto alla preghiera e alle persone che pregano. Con la parola “paternostri” alludeva piuttosto alle buone parole, alle esortazioni, alle prediche; le quali possono convertire ed educare alcuni, ma lasciano indifferenti gli altri. Purtroppo questi temi non si possono trattare con leggerezza. La guerra fra la Russia (attaccante) e l’Ucraina (aggredita) già ci mostrava ogni giorno che le speranze di pace si allontanano di più; e intanto è scoppiato un nuovo conflitto ferocissimo in Medio Oriente, fra Hamas e Israele. Si sono viste e sentite raccontare azioni terribili di aggressione e di ritorsione; e il terrorismo dei fanatici islamisti colpisce anche in Europa. E mentre c’è chi, in nome di Dio, supplica i violenti ad abbandonare le armi e a convertirsi alla pace, c’è chi uccide e devasta sentendosi in missione per conto di Dio. In queste condizioni, raggiungere la pace può apparire un’impresa disperata. Viene da pensare che nell’umanità coesistano e si mescolino le tendenze a fare il bene e gli impulsi a fare il male, fra i popoli come fra gli individui. Vediamo come anche nei rapporti fra le persone si moltiplicano i casi di violenza, i femminicidi, gli stupri. L’aspirazione dell’umanità al bene si è manifestata, nei millenni, con la costruzione della società civile e di comunità politiche (gli Stati) dotate di leggi, tribunali, scuole, apparati di governo e di servizio: queste sono le armi della pace. Ma non sono bastate, almeno finora, a estinguere i semi della violenza, dell’odio, della ferocia. Non dico che ci si debba arrendere all’idea che la guerra fa parte dell’umanità e non scomparirà mai. Ma la ricerca della via per raggiungere la pace è dura e faticosa – perché gli Stati, appunto, non si governano con i “paternostri”. E però se, quando preghiamo con il Padre nostro, prendessimo sul serio le parole che pronunciamo, proprio lì troveremmo la vera formula della pace.]]>

Diceva Niccolò Machiavelli che “gli stati non si governano con i paternostri”. Troppo cinico? Diciamo che i Papi del suo secolo – e anche quelli dei secoli precedenti e successivi – come sovrani dello Stato pontificio hanno mostrato, con i fatti, di pensarla allo stesso modo. Tanto che, per consolidare il loro dominio sull’Umbria, l’avevano disseminata di robuste fortezze, da un capo all’altro. Comunque, con quella frase Machiavelli non voleva mancare di rispetto alla preghiera e alle persone che pregano. Con la parola “paternostri” alludeva piuttosto alle buone parole, alle esortazioni, alle prediche; le quali possono convertire ed educare alcuni, ma lasciano indifferenti gli altri. Purtroppo questi temi non si possono trattare con leggerezza. La guerra fra la Russia (attaccante) e l’Ucraina (aggredita) già ci mostrava ogni giorno che le speranze di pace si allontanano di più; e intanto è scoppiato un nuovo conflitto ferocissimo in Medio Oriente, fra Hamas e Israele. Si sono viste e sentite raccontare azioni terribili di aggressione e di ritorsione; e il terrorismo dei fanatici islamisti colpisce anche in Europa. E mentre c’è chi, in nome di Dio, supplica i violenti ad abbandonare le armi e a convertirsi alla pace, c’è chi uccide e devasta sentendosi in missione per conto di Dio. In queste condizioni, raggiungere la pace può apparire un’impresa disperata. Viene da pensare che nell’umanità coesistano e si mescolino le tendenze a fare il bene e gli impulsi a fare il male, fra i popoli come fra gli individui. Vediamo come anche nei rapporti fra le persone si moltiplicano i casi di violenza, i femminicidi, gli stupri. L’aspirazione dell’umanità al bene si è manifestata, nei millenni, con la costruzione della società civile e di comunità politiche (gli Stati) dotate di leggi, tribunali, scuole, apparati di governo e di servizio: queste sono le armi della pace. Ma non sono bastate, almeno finora, a estinguere i semi della violenza, dell’odio, della ferocia. Non dico che ci si debba arrendere all’idea che la guerra fa parte dell’umanità e non scomparirà mai. Ma la ricerca della via per raggiungere la pace è dura e faticosa – perché gli Stati, appunto, non si governano con i “paternostri”. E però se, quando preghiamo con il Padre nostro, prendessimo sul serio le parole che pronunciamo, proprio lì troveremmo la vera formula della pace.]]>
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Chiedete e vi sarà dato https://www.lavoce.it/chiedete-sara-dato/ Fri, 26 Jul 2019 10:19:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55012 logo reubrica commento al Vangelo

“Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo”, risponde il Signore interpellato da Abramo in merito al destino dei sodomiti.

Prima lettura

È il brano della I lettura della XVII domenica del TO ed è tratto dal libro della Genesi nel passaggio del capitolo 18 in cui l’Autore fornisce un quadro della grave situazione morale degli abitanti della città. Tuttavia, la suggestiva pagina non si sofferma tanto sull’amoralità dei sodomiti, quanto sulla centralità dell’opera dei ‘giusti’ e su quella di Abramo in particolare.

Abramo è un astuto altruista che mercanteggia con il Signore sul numero dei ‘giusti’ necessari per salvare la città. È interessante notare che il Signore non intende distruggere i peccatori, ma, in virtù della presenza dei ‘giusti’ (di coloro cioè che assecondano i precetti della Torah), vuole sottrarli alla punizione. La scena si svolge come una contrattazione d’affari alla maniera orientale: il Signore chiede un numero di almeno cinquanta giusti, Abramo abilmente mercanteggia facendo scendere il numero a dieci.

Abramo dimostra così di avere uno spiccato senso di responsabilità ‘collettiva’ e il suo rivolgersi al Signore con insistenza e senza perdersi d’animo gli fa ottenere di ‘piegare’ la volontà del Signore alle sue richieste.

Salmo

Anche David, ‘Autore’ del Salmo con cui rispondiamo alla I lettura, si rivolge con il discorso diretto al Signore che, anche in questo caso, “ha ascoltato” ed ha “risposto” alle parole di richiesta e le ha esaudite. Addirittura la confidenza di Davide nel Signore lo fa osare fino a dire che “il Signore farà tutto” per lui in quanto il Suo amore “è per sempre” e mai abbandonerà “l’opera delle sue mani”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 18,20-32

SALMO RESPONSORIALE Salmo 137

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai colossesi 2,12-14

VANGELO Vangelo di Luca 11,1-13

Seconda lettura

Interessante notare il nesso che lega le letture. Nella prima è Abramo che fa da ponte tra il Signore e gli uomini, nel Salmo è Davide e nella Lettera ai Colossesi è Cristo. L’apostolo Paolo sta continuando il suo insegnamento finalizzato a proteggere la fede dei Colossesi e arriva a orientare i cuori dei destinatari verso Colui che è l’unico in grado di ridare la vita a quanti erano “morti a causa delle colpe”.

Paolo chiama in causa la Legge e il fatto che essa decretava la morte per coloro che la trasgredivano; ebbene, questa sentenza di morte Dio l’ha eliminata “annullando il documento scritto” e “inchiodandolo alla croce “.

Vangelo

La pagina del Vangelo si apre con la descrizione di Gesù che si trova “in un luogo a pregare” ed il Suo stile orante è evidentemente così affascinante che gli viene chiesto da uno dei discepoli che insegni loro a pregare. È questo, secondo l’evangelista Luca, il contesto in cui Gesù insegna il Padre Nostro.

La preghiera del Padre Nostro presenta somiglianze con la preghiera ebraica del Qaddish in quanto parla di nome, volontà, regno, perdono, ma si distingue subito per la sua originalità grazie all’invocazione iniziale ‘Padre’.

Nell’Antico Testamento ‘padre’ è riferito indirettamente a Dio al fine di far risaltare l’origine del creato, ma mai c’è un’invocazione ‘diretta’ a Dio con il titolo di padre. Chi invoca Dio con il titolo di padre ne accoglie il rapporto di intimità e di confidenza assoluta. Poi seguono due petizioni. La prima “sia santificato il tuo nome” attribuisce a Dio la funzione che Gli è propria, che è quella di essere il ‘Santo’, e tuttavia questa funzione vede il coinvolgimento attivo dei credenti che si impegnano a rendergli culto.

Segue poi l’altra petizione (“venga il tuo regno”) che esprime il dinamismo del regno del Padre che si instaura in un permanente divenire e sta alla libertà degli uomini accoglierlo ed entrarne a far parte.

Seguono poi tre richieste circa le esigenze corporali e spirituali degli uomini: il “pane” per ogni giorno della vita, un pane che è definito “nostro” includendo il carattere della solidarietà tra gli uomini perché a nessuno manchi; il perdono dei peccati, messo in relazione con il perdono che gli uomini concedono ai loro simili, anche se la priorità è dovuta al perdono che concede il Padre perché solo dopo averne fatta esperienza il credente è in grado di perdonare i suoi ‘debitori’; l’ultima richiesta, la più alta sul piano spirituale, invoca il soccorso del Padre affinché nei momenti difficili il credente non soccomba, ma perseveri fedelmente nella missione evangelizzatrice.

L’insegnamento in merito alla preghiera continua con la ‘parabola dei due amici’ la cui portata si comprende meglio se si riflette sulla conformazione delle piccole abitazioni palestinesi: a conclusione della giornata il padrone di casa effettuava una serie di incombenze a ‘incastro’ (chiusura porta e sistemazione figli) per cui alzarsi nel cuore della notte per provvedere alla richiesta che dal di fuori gli veniva fatta significava necessariamente coinvolgere tutti i familiari.

Gesù parla dell’efficacia della preghiera insistente abbinandola ad esempi legati alla quotidianità: il Padre non è distante dal vissuto degli uomini ma attende tuttavia che siano loro a rivolgersi liberamente e confidenzialmente a Lui, ossia ad un Padre che non può che donare ai figli “cose buone” al di sopra delle quali c’è l’incommensurabile dono dello Spirito santo.

Giuseppina Bruscolotti

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“Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo”, risponde il Signore interpellato da Abramo in merito al destino dei sodomiti.

Prima lettura

È il brano della I lettura della XVII domenica del TO ed è tratto dal libro della Genesi nel passaggio del capitolo 18 in cui l’Autore fornisce un quadro della grave situazione morale degli abitanti della città. Tuttavia, la suggestiva pagina non si sofferma tanto sull’amoralità dei sodomiti, quanto sulla centralità dell’opera dei ‘giusti’ e su quella di Abramo in particolare.

Abramo è un astuto altruista che mercanteggia con il Signore sul numero dei ‘giusti’ necessari per salvare la città. È interessante notare che il Signore non intende distruggere i peccatori, ma, in virtù della presenza dei ‘giusti’ (di coloro cioè che assecondano i precetti della Torah), vuole sottrarli alla punizione. La scena si svolge come una contrattazione d’affari alla maniera orientale: il Signore chiede un numero di almeno cinquanta giusti, Abramo abilmente mercanteggia facendo scendere il numero a dieci.

Abramo dimostra così di avere uno spiccato senso di responsabilità ‘collettiva’ e il suo rivolgersi al Signore con insistenza e senza perdersi d’animo gli fa ottenere di ‘piegare’ la volontà del Signore alle sue richieste.

Salmo

Anche David, ‘Autore’ del Salmo con cui rispondiamo alla I lettura, si rivolge con il discorso diretto al Signore che, anche in questo caso, “ha ascoltato” ed ha “risposto” alle parole di richiesta e le ha esaudite. Addirittura la confidenza di Davide nel Signore lo fa osare fino a dire che “il Signore farà tutto” per lui in quanto il Suo amore “è per sempre” e mai abbandonerà “l’opera delle sue mani”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 18,20-32

SALMO RESPONSORIALE Salmo 137

SECONDA LETTURA Lettera di Paolo ai colossesi 2,12-14

VANGELO Vangelo di Luca 11,1-13

Seconda lettura

Interessante notare il nesso che lega le letture. Nella prima è Abramo che fa da ponte tra il Signore e gli uomini, nel Salmo è Davide e nella Lettera ai Colossesi è Cristo. L’apostolo Paolo sta continuando il suo insegnamento finalizzato a proteggere la fede dei Colossesi e arriva a orientare i cuori dei destinatari verso Colui che è l’unico in grado di ridare la vita a quanti erano “morti a causa delle colpe”.

Paolo chiama in causa la Legge e il fatto che essa decretava la morte per coloro che la trasgredivano; ebbene, questa sentenza di morte Dio l’ha eliminata “annullando il documento scritto” e “inchiodandolo alla croce “.

Vangelo

La pagina del Vangelo si apre con la descrizione di Gesù che si trova “in un luogo a pregare” ed il Suo stile orante è evidentemente così affascinante che gli viene chiesto da uno dei discepoli che insegni loro a pregare. È questo, secondo l’evangelista Luca, il contesto in cui Gesù insegna il Padre Nostro.

La preghiera del Padre Nostro presenta somiglianze con la preghiera ebraica del Qaddish in quanto parla di nome, volontà, regno, perdono, ma si distingue subito per la sua originalità grazie all’invocazione iniziale ‘Padre’.

Nell’Antico Testamento ‘padre’ è riferito indirettamente a Dio al fine di far risaltare l’origine del creato, ma mai c’è un’invocazione ‘diretta’ a Dio con il titolo di padre. Chi invoca Dio con il titolo di padre ne accoglie il rapporto di intimità e di confidenza assoluta. Poi seguono due petizioni. La prima “sia santificato il tuo nome” attribuisce a Dio la funzione che Gli è propria, che è quella di essere il ‘Santo’, e tuttavia questa funzione vede il coinvolgimento attivo dei credenti che si impegnano a rendergli culto.

Segue poi l’altra petizione (“venga il tuo regno”) che esprime il dinamismo del regno del Padre che si instaura in un permanente divenire e sta alla libertà degli uomini accoglierlo ed entrarne a far parte.

Seguono poi tre richieste circa le esigenze corporali e spirituali degli uomini: il “pane” per ogni giorno della vita, un pane che è definito “nostro” includendo il carattere della solidarietà tra gli uomini perché a nessuno manchi; il perdono dei peccati, messo in relazione con il perdono che gli uomini concedono ai loro simili, anche se la priorità è dovuta al perdono che concede il Padre perché solo dopo averne fatta esperienza il credente è in grado di perdonare i suoi ‘debitori’; l’ultima richiesta, la più alta sul piano spirituale, invoca il soccorso del Padre affinché nei momenti difficili il credente non soccomba, ma perseveri fedelmente nella missione evangelizzatrice.

L’insegnamento in merito alla preghiera continua con la ‘parabola dei due amici’ la cui portata si comprende meglio se si riflette sulla conformazione delle piccole abitazioni palestinesi: a conclusione della giornata il padrone di casa effettuava una serie di incombenze a ‘incastro’ (chiusura porta e sistemazione figli) per cui alzarsi nel cuore della notte per provvedere alla richiesta che dal di fuori gli veniva fatta significava necessariamente coinvolgere tutti i familiari.

Gesù parla dell’efficacia della preghiera insistente abbinandola ad esempi legati alla quotidianità: il Padre non è distante dal vissuto degli uomini ma attende tuttavia che siano loro a rivolgersi liberamente e confidenzialmente a Lui, ossia ad un Padre che non può che donare ai figli “cose buone” al di sopra delle quali c’è l’incommensurabile dono dello Spirito santo.

Giuseppina Bruscolotti

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La novità nel Messale romano: il testo del “Padre nostro” https://www.lavoce.it/messale-romano-padre-nostro/ https://www.lavoce.it/messale-romano-padre-nostro/#comments Wed, 21 Nov 2018 14:01:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53422 messale

La traduzione della terza edizione italiana del Messale romano è stata approvata dai Vescovi, ma “ci vuole ancora un po’ di tempo” per la sua pubblicazione, e quindi anche per le nuova versione del Padre nostro, in cui si dirà “non abbandonarci alla tentazione” (invece che “non indurci in tentazione” come nella versione attuale).

Lo ha precisato il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, nella conferenza stampa di chiusura dell’Assemblea generale straordinaria dei vescovi italiani, svoltasi la settimana scorsa in Vaticano. Prima della pubblicazione - prevista nel 2019 - il testo dovrà avere la confirmatio della Santa Sede, poi si potrà utilizzare nelle celebrazioni liturgiche.

“È un passo avanti sul Concilio - ha chiosato il Presidente della Cei. - Ogni traduzione è anche un approfondimento spirituale. Renderà più agile la preghiera nelle comunità e sarà approvato da tutti”.

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messale

La traduzione della terza edizione italiana del Messale romano è stata approvata dai Vescovi, ma “ci vuole ancora un po’ di tempo” per la sua pubblicazione, e quindi anche per le nuova versione del Padre nostro, in cui si dirà “non abbandonarci alla tentazione” (invece che “non indurci in tentazione” come nella versione attuale).

Lo ha precisato il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, nella conferenza stampa di chiusura dell’Assemblea generale straordinaria dei vescovi italiani, svoltasi la settimana scorsa in Vaticano. Prima della pubblicazione - prevista nel 2019 - il testo dovrà avere la confirmatio della Santa Sede, poi si potrà utilizzare nelle celebrazioni liturgiche.

“È un passo avanti sul Concilio - ha chiosato il Presidente della Cei. - Ogni traduzione è anche un approfondimento spirituale. Renderà più agile la preghiera nelle comunità e sarà approvato da tutti”.

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Le braccia…nella recita del Padre nostro https://www.lavoce.it/le-braccia-nella-recita-del-padre-nostro/ Fri, 27 Oct 2017 08:00:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50350

Caro don Verzini, partecipando assiduamente a messa ho notato che durante la recita del “Padre nostro” non tutti tengono le braccia allargate. Informandomi, però, ho ricevuto diverse risposte. Lei in proposito che indicazioni darebbe? Parto da un presupposto per rispondere alla domanda. La liturgia è questione di popolo, di comunità, di un Corpo che insieme celebra e loda il suo Signore. Questa peculiarità fa sì che la comunità stessa si manifesti come tale anche attraverso atteggiamenti e gesti fisici. Per questo l’Ordinamento generale del Messale romano afferma che “l’atteggiamento comune del corpo, da osservarsi da tutti i partecipanti, è segno dell’unità dei membri della comunità cristiana riuniti per la sacra liturgia: manifesta infatti e favorisce l’intenzione e i sentimenti dell’animo di coloro che partecipano” (OGMR, n. 42). È bene quindi che i gesti e gli atteggiamenti dei fedeli durante la celebrazione eucaristica, così come durante ogni azione liturgica, rispettino questo principio di unità. Detto questo, a mio avviso non si è in errore né se le mani vengono tenute allargate, né se vengono tenute giunte durante la recita del Padre nostro, purché ci sia uniformità nell’assemblea. L’OGMR non dà indicazioni in merito, come in altre occasioni, per lasciare spazio alle Conferenze episcopali nazionali di adattare i gesti secondo le culture e le tradizioni. Per questo la Conferenza episcopale italiana ha stabilito che “durante la recita o il canto del Padre nostro, si possono tenere le braccia allargate; questo gesto - aggiunge -, purché opportunamente spiegato, si svolga con dignità in clima fraterno di preghiera” (Precisazioni, n. 1). Potremmo dire, quindi, che si possono tenere le braccia allargate, con dignità e decoro, durante la recita del Padre nostro, avvallato questo anche dall’antica tradizione cristiana di tenere le braccia allargate durante la preghiera, come è testimoniato ad esempio da alcune pitture paleocristiane presenti nelle catacombe, dove spesso si incontrano figure di persone che tengono le braccia estese, rivolte verso il cielo.]]>

Caro don Verzini, partecipando assiduamente a messa ho notato che durante la recita del “Padre nostro” non tutti tengono le braccia allargate. Informandomi, però, ho ricevuto diverse risposte. Lei in proposito che indicazioni darebbe? Parto da un presupposto per rispondere alla domanda. La liturgia è questione di popolo, di comunità, di un Corpo che insieme celebra e loda il suo Signore. Questa peculiarità fa sì che la comunità stessa si manifesti come tale anche attraverso atteggiamenti e gesti fisici. Per questo l’Ordinamento generale del Messale romano afferma che “l’atteggiamento comune del corpo, da osservarsi da tutti i partecipanti, è segno dell’unità dei membri della comunità cristiana riuniti per la sacra liturgia: manifesta infatti e favorisce l’intenzione e i sentimenti dell’animo di coloro che partecipano” (OGMR, n. 42). È bene quindi che i gesti e gli atteggiamenti dei fedeli durante la celebrazione eucaristica, così come durante ogni azione liturgica, rispettino questo principio di unità. Detto questo, a mio avviso non si è in errore né se le mani vengono tenute allargate, né se vengono tenute giunte durante la recita del Padre nostro, purché ci sia uniformità nell’assemblea. L’OGMR non dà indicazioni in merito, come in altre occasioni, per lasciare spazio alle Conferenze episcopali nazionali di adattare i gesti secondo le culture e le tradizioni. Per questo la Conferenza episcopale italiana ha stabilito che “durante la recita o il canto del Padre nostro, si possono tenere le braccia allargate; questo gesto - aggiunge -, purché opportunamente spiegato, si svolga con dignità in clima fraterno di preghiera” (Precisazioni, n. 1). Potremmo dire, quindi, che si possono tenere le braccia allargate, con dignità e decoro, durante la recita del Padre nostro, avvallato questo anche dall’antica tradizione cristiana di tenere le braccia allargate durante la preghiera, come è testimoniato ad esempio da alcune pitture paleocristiane presenti nelle catacombe, dove spesso si incontrano figure di persone che tengono le braccia estese, rivolte verso il cielo.]]>
Signore, insegnaci a pregare https://www.lavoce.it/signore-insegnaci-a-pregare/ Thu, 21 Jul 2016 14:00:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=46818 AltareBibbia“Signore, insegnaci a pregare”. In questa domenica la Chiesa ci invita a riflettere sulla preghiera, sul nostro rapporto con Dio attraverso la preghiera. Nella prima lettura ci viene presentato Abramo che intercede con insistenza presso Dio per i peccatori di Sodoma e Gomorra, e tratta con Lui come si tratta con un mercante, fino all’ultimo spicciolo. La sua perseveranza e la sua supplica vincono Dio che salva l’uomo colpevole.

Nel Vangelo di Luca la preghiera di Gesù è così intensa e profonda che i discepoli vedendolo gli chiedono di insegnare loro a fare altrettanto. Gesù, come ogni buon Maestro, fornisce ai discepoli le parole con cui rivolgersi al Padre.

Nel Padre nostro vi è la matrice di quello che dovrebbe essere il nostro rapporto con Dio. Nella semplicità apparente delle parole di Gesù è riassunta tutta l’essenza della preghiera.

Nei secoli sono stati scritti fiumi di inchiostro, e qui non c’è il tempo né lo spazio per commentare nemmeno una piccola parte di quanto generazioni di cristiani hanno meditato su questo testo.

Suggeriamo di meditarlo con calma, parola per parola, rimanendo a lungo su ogni frase, come faceva san Francesco. Si narra che una volta fece con fra’ Masseo a La Verna, una gara singolare: chi dei due sarebbe stato capace di recitare più Padre nostro durante la notte. Li avrebbero contati con dei sassolini. All’indomani fra’ Masseo, con le mani colme di sassolini si recò da Francesco, vittorioso: “Ecco i Padre nostro che ho recitato in questa notte. Mostrami i tuoi!”.

E san Francesco, con un senso di ammirazione, disse al frate: “Io in verità non sono riuscito a finire un solo Padre nostro. Mi sono fermato sulla prima parola per l’intera notte!”. In effetti, Francesco aveva trascorso l’intera notte contemplando, tra sospiri di amore e slanci di estasi, la prima dolce e intensa parola: “Padre”! Ed è su questa prima parola che vogliamo soffermarci anche noi.

Alla luce dei drammatici fatti successi in questa settimana, non possiamo non sottolineare questo rapporto di figliolanza fra Dio e l’uomo che fonda e radica il rapporto di fratellanza fra uomo e uomo. Un giorno un missionario fece un’osservazione molto semplice ma molto concreta: disse che al fondo della sua vocazione c’era stata la scoperta di Dio come Padre; di conseguenza, se Dio è Padre, allora tutti gli uomini sono fratelli. Sono miei fratelli.

E non di una fratellanza ideale, platonica, ma di una fratellanza reale, concreta, che invita a condividere la condizione e il destino di ogni uomo della Terra e a dare la vita per il fratello come ha fatto Gesù.

Nessun uomo può arrogarsi il diritto di uccidere un altro uomo ed essere giustificato, perché quell’uomo ha in sé l’immagine stessa di Dio, quella stessa immagine che sta impressa dentro di noi. Indipenden- temente dalla religione, dalla razza, dal proprio credo o dalla propria integrità morale. Ogni uomo, dal primo all’ultimo. E di fronte a ogni uomo dovremmo fermarci a cercare quella immagine, scoprirla e contemplarla.

In ogni uomo, non importa quanto sfigurato dalla miseria, dal peccato, dalla sofferenza. Non importa quanto lontano dal mio credo religioso o dalle mie opinioni. Non importa quanto mi abbia fatto del male, quanto io penso sia cattivo o malvagio. Non possiamo accampare alcun diritto di vita o di morte su di lui, né tantomeno di giudizio, oserei dire né buono né cattivo.

Il giudizio spetta a Dio. A noi spetta contemplare l’uomo e servirlo nella stessa maniera di Gesù, arrivando a morire per l’uomo, ancora prima della sua giustificazione (“Quando ancora eravamo nel peccato – dice Paolo – Gesù è morto per noi”).

Occorre richiamare con coraggio questo Padre nostro di fronte ai massacri perpetrati in nome di Dio o in nome di una religione. Coraggio di una fede che ama prima di essere riamata, nonostante l’altro mi odii o voglia la mia morte. Occorre riaffermare questo Padre nostro che Gesù ci ha insegnato e ci ha messo nella bocca, con coraggio, di fronte all’odio che oggi ci circonda, e non cedere alla tentazione, opporre al radicalismo un altro radicalismo, che porta solo alla divisione, alla chiusura e qualche volta alla vendetta.

In ultimo vorremmo sottolineare un aspetto che Gesù sembra ‘buttare là’ con noncuranza: Dio manda lo Spirito a chiunque lo chieda. È attraverso e grazie allo Spirito che la preghiera prende vita e ha la possibilità di rivolgersi concretamente a Dio e di realizzarsi. Non solo non esiste altra strada per la preghiera se non attraverso lo Spirito, ma Esso rappresenta anche l’unica possibile richiesta che l’uomo deve fare a Dio.

Chiedere a Dio lo Spirito significa ottenere tutto ciò che è bene ed è conforme alla realizzazione del Suo regno, anche se questo potrebbe non combaciare con le nostre aspettative.

M. Grazia Riccardini e Luciano Carli

 

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Le parole giuste per pregare https://www.lavoce.it/metti-vangelo-10/ Thu, 25 Jul 2013 13:36:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=18319 Il Vangelo secondo Luca dedica ben undici capitoli alla salita di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme (9,51-19,27): la liturgia ne fa la lettura quasi continua in queste domeniche d’estate. Durante questa “lunga marcia” Gesù prepara i discepoli – e oggi anche noi – alla futura missione di testimoni. In questo quadro di formazione permanente si inserisce l’insegnamento sulla preghiera. Anche oggi l’introduzione al brano evangelico è tutt’altro che superflua. Gesù sta pregando. Da altri brani sappiamo che solitamente la sua preghiera era molto prolungata. Questo dovette impressionare i discepoli, che chiesero di imparare anche loro. Aggiungono che anche Giovanni Battista aveva istituito una scuola di preghiera per i suoi discepoli.

Questo lascia trasparire la difficoltà che tutti avevano a farlo. Il problema non era la mancanza di formule: i discepoli, come ogni altro ebreo osservante, avevano a disposizione l’intero Salterio, composto di 150 Salmi, tutte le bellissime preghiere sinagogali e altro ancora. Al Maestro chiedevano di imparare un modo semplice ed efficace di relazionarsi con Dio. Avvertiamo anche noi oggi che utilizzare formule di preghiera è relativamente semplice; le difficoltà nascono quando vediamo le nostre domande restare senza risposta, nel non sapere come parlare con un Dio invisibile e spesso ignoto.

La risposta di Gesù fu il Padre nostro. Colpisce la diversità del Pater, come lo conosciamo da sempre, con questo che ascoltiamo oggi. La forma adottata dalla Chiesa Cattolica fin dagli antichi tempi, e che abbiamo imparato da bambini, è quella tramandata dal Vangelo secondo Matteo. Come si vede, le due formule differiscono nei particolari, ma sono uguali nella sostanza. La forma tramandata da Luca è più breve ed essenziale. Gli studiosi si domandano quale abbia insegnato Gesù. I pareri sono discordi; qui non abbiamo spazio per elencarli. Alcuni pensano che Gesù non abbia insegnato una formula precisa, ma piuttosto gli elementi essenziali che devono comporre ogni preghiera.

Anzitutto l’invocazione: Padre. L’uomo non può nemmeno provare a immaginare Dio, che è al di fuori della sua portata; ma deve pur cercare un’attitudine di fronte a Lui. Nel prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma che “Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Che cosa ci ha rivelato Gesù? Che Dio è il Padre. Noi siamo i figli. Negli ultimi versetti del Vangelo di oggi, questa rivelazione è resa plasticamente: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono!”. Come tutti sappiamo, il Pater è diviso in due parti.

Nella prima chiediamo che tutti al mondo lo riconosciamo come l’Unico, da cui tutti dipendiamo e che a tutti dona esistenza, energia e vita. Nel linguaggio biblico Egli è il Nome. Chiediamo anche che si realizzi il Suo piano nella storia e che nessuno vi metta ostacoli. Nella seconda parte chiediamo di avere quotidianamente il cibo che ci alimenta: non solo quello che riempie lo stomaco, ma anche quello nutre il cuore, la mente, la vita. Poi chiediamo di essere perdonati, perché anche noi perdoniamo ai nostri simili. Sapere di essere perdonati e perdonare a nostra volta è la garanzia di un vivere sereno e pacificato. In ultimo chiediamo che non ci lasci soli, in balia della prova.

Sono prove non solo le istigazioni al peccato, ma anche le difficoltà, le contraddizioni e tutte quelle circostanze che chiamiamo “croci”. Dopo la preghiera del Pater, Luca riporta una breve parabola, sulla certezza che “a chi bussa sarà aperto”, prima o poi. La narrazione è immaginaria, ma del tutto verosimile. C’è un tale a cui arriva un ospite improvviso durante la notte. Il tale non sa come fargli accoglienza, perché la dispensa momentaneamente è vuota. Senza farsi scrupoli, va casa di un amico, lo chiama da fuori e gli chiede tre pani. Giustamente scocciato a causa dell’ora importuna, gli risponde che è impossibile, perché a quell’ora tutti dormono: sveglierebbe moglie e figli. Ma l’amico insiste e alla fine, per levarselo dai piedi, si alza e lo accontenta. Per renderci conto del realismo della scena, non dobbiamo immaginare qualcosa di simile ai nostri appartamenti.

Le case della gente comune erano formate da un’unica stanza, in genere a pianterreno, che di giorno serviva per mangiare e di notte per dormire, su stuoie distese a terra. Per arrivare alla madia del pane e poi alla porta d’ingresso, l’amico ha dovuto scavalcare diverse persone, fare rumore e sentire mugugni e proteste. Ma l’invadenza dell’amico l’ha avuta vinta. Sembra incredibile, ma Dio si aspetta di essere scocciato.

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Benedetto XVI fa assaporare il “Padre Nostro” https://www.lavoce.it/benedetto-xvi-fa-assaporare-il-padre-nostro/ Fri, 25 May 2012 10:38:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=10926 “Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola ‘Padre’ con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché più di una volta la figura paterna non è sufficientemente presente e positiva nella vita quotidiana”. Lo ha detto il Papa all’udienza generale di mercoledì, alla quale hanno partecipato in piazza San Pietro circa 20 mila persone. Benedetto XVI si è soffermato sul tema della “paternità di Dio”, esperienza resa possibile al credente sulla scorta dell’insegnamento di Gesù, che “ci insegna a rivolgerci a Dio con i termini affettuosi dei figli”, chiamandolo “Abbà, Padre”.

“Lo Spirito santo – ha spiegato – è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani. Lo Spirito santo, lo Spirito di Cristo, illumina il nostro animo e la nostra preghiera, perché ci insegna proprio a partire da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, che cosa significhi propriamente ‘Padre’”. Per il Papa, infatti, “è l’amore di Gesù, che giunge al dono di se stesso sulla croce, che ci rivela la vera natura del Padre: egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’‘uomo vecchio’”.

“Dio è nostro Padre, per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome”, ha ricordato il Papa, sottolineando che “ognuno di noi, ogni uomo e donna, è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui”. È lo Spirito santo che “ci fa entrare in questa verità, la comunica alla sfera più intima di noi stessi e riempie la nostra preghiera di serenità e di gioia”: per questo “la preghiera cristiana non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è mai un nostro agire, ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce sempre per primo”.

“La preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui non è solo un atto personale, ma dell’intera Chiesa”, ha aggiunto il Papa: “Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio”.

Ma non basta: lo Spirito di Cristo, ha proseguito, “ci apre a una seconda dimensione della paternità di Dio”: Gesù, infatti, è il Figlio in senso pieno, che, “diventando un essere umano come noi, ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio; così anche noi possiamo entrare nella stessa appartenenza a Dio”. Poiché “il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù”, noi “dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che è quella che sostiene e dà senso vero alla vita”.

Ogni volta, inoltre, che gridiamo “Abbà! Padre!”, è la Chiesa che “sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa”. Tutto ciò, ha osservato il Papa, “si riflette anche nella ricchezza dei carismi, dei ministeri, dei compiti, dei servizi che svolgiamo nella comunità. La preghiera guidata dallo Spirito, che ci fa gridare ‘Abbà! Padre!’ – ha detto Benedetto XVI – ci inserisce nell’unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il Tutto”.

Il Papa ha concluso la sua catechesi citando l’esempio di Maria, grazie alla quale impariamo a gridare “Abbà! Padre!”: “Il compimento della pienezza del tempo avviene al momento del ‘sì’ di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio”. Da qui l’invito a “gustare nella nostra preghiera la bellezza di essere amici, anzi figli di Dio, di poterlo invocare con la confidenza e la fiducia che ha un bambino verso i genitori che lo amano”.

“Il cristianesimo – ha aggiunto il Papa, a braccio – non è una religione della paura, ma della fiducia, dell’amore al Padre che ci ama”. Sempre fuori testo, Benedetto XVI ha affermato che “l’assenza del padre, la non-presenza del padre è un grande problema del nostro tempo, e ci rende difficile capire nella profondità” il senso della paternità di Dio. Nel Vangelo, però, Gesù “ci mostra chi è il Padre e come è un vero padre, in modo che possiamo imparare cos’è la paternità. Non potremmo pregare se non fosse iscritto nell’uomo il desiderio di Dio”, ha soggiunto il Papa a proposito di quella “relazione profonda, di fiducia, come quella dei bambini”, che lega il credente al Padre.

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Padre nostro, squarcia i cieli! https://www.lavoce.it/padre-nostro-squarcia-i-cieli/ Fri, 25 Nov 2011 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9799 Con questa domenica, la prima di Avvento, inizia un nuovo anno liturgico, ossia il calendario delle liturgie cattoliche, in cui ci sarà dato di ripercorrere sacramentalmente la vicenda storica della nostra salvezza. Esso inizia appunto con l’Avvento, continuerà con il tempo di Natale, poi verrà l’Epifania, la Quaresima, il tempo di Pasqua, quello di Pentecoste (27 maggio), e si andrà a concludere all’inizio di dicembre del 2012. La liturgia invita, in modi sempre nuovi, ad alzare gli occhi per scrutare l’orizzonte, in attesa del Signore che viene.

L’invito si accentua particolarmente in Avvento. Se potessimo domandare alle prime generazioni cristiane: chi può essere considerato cristiano? Ci risponderebbero: chi accoglie Gesù Cristo come l’unico Salvatore della propria vita e ne attende il ritorno glorioso; anzi lo affretta, pregando insieme ai fratelli Maranatha, vieni, Signore! Lo testimonia anche san Paolo nella seconda lettura, quando benedice Dio, perché la comunità dei Corinzi aspetta la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 1,7).

Con il passare del tempo la dimensione del Dio che viene si è andata affievolendo, nella percezione popolare, a favore dell’immagine di un Dio statico: l’aristotelico Motore immobile. Non così la liturgia, che oggi si apre con il grido straziante di un popolo che da lungo tempo attende un Liberatore: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti” (Is 64,1). È l’immagine antropomorfica di Dio che, pur di scendere in mezzo al suo popolo, non teme di lacerare quel capolavoro che è il tessuto della volta celeste. Siamo in una delle pagine più potenti del libro del profeta Isaia; brano poetico, di grande impatto emotivo; la forza dell’invocazione, la confessione dei peccati, il rimprovero a Dio incurante delle loro sofferenze, si fondono in slanci lirici ineguagliati.

Vale la pena fermarci brevemente ad ascoltarla. Appare improvviso un coro di penitenti che professa la propria fede, gridando a Dio: “Tu sei nostro Padre… nostro Redentore” (Is 63,16). È raro che nell’Antico Testamento ci si rivolga a Dio direttamente chiamandolo Padre. Qui il coro dei penitenti lo fa, perché fra poco oserà rivolgergli un rimprovero: “Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie?”. Con un padre si può; con un padrone non si può. Poi esplode l’invocazione appassionata: “Ritorna, per amore dei tuoi servi!”. Al culmine dell’esperienza di una solitudine impotente, ecco il grido centrale: “Se tu squarciassi…”.

Eppure la memoria storica – continua il coro – attesta che Dio ha compiuto meraviglie nei tempi passati; al tempo dei nostri padri, non si sentì mai dire che qualcun altro abbia fatto tanto per loro. “Tu vai incontro a quelli che praticano la giustizia”. Segue il riconoscimento sincero delle proprie colpe: a causa dei loro peccati Egli ha nascosto il volto. “Tu sei adirato perché… siamo stati ribelli… come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia… nessuno invocava il tuo nome… ci avevi messo in balia delle nostre iniquità, che ci hanno portato via come foglie secche nel turbine del vento”. Pensate: il peccato sperimentato come forza maligna che ci logora dentro e ci rende aridi, morti come foglie senza più vita. La conclusione riprende l’invocazione dell’inizio: “Ma, tu Signore, sei nostro Padre”; parole che esprimono fiducia, dopo la confessione dei peccati. Nell’afflizione si rivolgono al Padre sotto il peso delle colpe. E per spingerlo a commuoversi per la loro situazione, gli ricordano che sono suoi figli, sue creature: “Noi siamo argilla e tu colui che ci plasma” (Is 64,7).

L’assemblea liturgica fa eco a Isaia, cantando: “Tu, Pastore di Israele, ascolta… risveglia la tua potenza e vieni a salvarci (Sal 79,1). Gesù, atteso nel prossimo Natale, è il compimento della profezia: squarcerà i cieli ed entrerà nel grembo della Vergine Maria. La lettura evangelica riprende il motivo della vigilanza delle scorse domeniche. L’evangelista però non è più Matteo, ma Marco, che ascolteremo durante l’intero anno liturgico. Il brano di oggi si trova alla fine di quello che gli studiosi chiamano “discorso escatologico”, cioè che tratta delle cose ultime (Mc 13).

Il capitolo inizia significativamente con l’intervento di un discepolo che invita Gesù ad ammirare la stupenda architettura del tempio di Gerusalemme, considerato una delle meraviglie del mondo antico. Per tutta risposta Egli ne preannuncia la distruzione totale: “Non resterà pietra su pietra” (Mc 13,2). Cosa che avverrà qualche decennio più tardi – nel 70 d.C. – ad opera dei Romani. I cristiani vi vedranno l’intervento di Dio, che decide la fine di un’èra. Nel frattempo è necessario essere vigili e operosi; nessuno infatti sa nulla di quando sarà la venuta decisiva del Signore, tranne che sarà improvvisa.

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“Chiedete e vi sarà dato” promette Gesù https://www.lavoce.it/chiedete-e-vi-sara-dato-promette-gesu/ Fri, 23 Jul 2010 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8628 È’ la domenica della preghiera, uno dei grandi insegnamenti di Gesù, sollecitato peraltro degli stessi apostoli: “Insegnaci a pregare!”. Innanzitutto ci colpisce l’insistenza con la quale Gesù ci esorta a pregare: “sempre”, “in ogni momento”, “incessantemente”, per cantare con tutto il cuore le lodi dell’Altissimo, quasi con una sorta di movimento diastolico per lodare, benedire, ringraziare Dio, e di movimento sistolico per chiedere, cercare, bussare come bisognosi che nulla hanno e tutto sperano dalla Sua misericordia. Anche la nota “preghiera del pellegrino russo” si sviluppa su questo orizzonte. Il comportamento di Maria, sorella di Lazzaro, fu pur esso di questa natura, e il Signore lo qualificò come “la parte migliore che non le sarà tolta” (Lc 10,42).

Si tratta dell’ascolto profondo e interiore di Dio che è proprio d’ogni preghiera, perché solo con questa apertura al mistero di Dio che ci pervade si può vivere nel mondo e nelle cose senza esserne assorbiti e dispersi.

E per darci un esempio di come si può pregare ci dà una traccia di dei temi qualificanti d’ogni preghiera cristiana: è il Padre nostro o preghiera del Signore (oratio dominica), che la Chiesa ha sempre chiesto a tutti di ripetere tre volte al giorno, come si fa in quel libro di preghiera liturgica che è il “breviario”.

È la preghiera dei “graziati”, cioè di coloro ai quali, al dire di Paolo nella Lettera ai cristiani di Colosse, “è stato annullato il documento scritto del loro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli: Gesù lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla sua croce” e perdonandoci per grazia.

È la narrazione di un atto giuridico bell’e buono, che si ripete ogni volta che presentiamo il conto dei nostri debiti. Dio straccia il conto, azzerandolo con il suo perdono ad efficacia immediata e senza più ricordarlo. Fa tenerezza il racconto della Genesi in cui Abramo compete con Dio per azzerare il conto negativissimo di Sodoma e Gomorra, due città globalmente perdute per la congerie di peccati che hanno saputo accumulare vivendo sciaguratamente. Abramo cerca dapprima di commuovere Dio: “Qualche persona giusta ci sarà pure tra tanti empi. Vuoi proprio sterminarli tutti insieme, peccatori e giusti? Non sarebbe proprio una giustizia retributiva…”. Dio acconsente a non condannarli tutti in virtù dei buoni, che Abramo calcola in cinquanta. Ma qui comincia la ritirata strategica di Abramo, che, volendo essere realista, passa da cinquanta persone giuste a 45, poi a 40, poi a 30, poi a 20, poi a 10. Ma non si trovarono nemmeno i pochi dieci: e Dio fece piovere “zolfo e fuoco” su quelle città corrotte (Gen 19,24).

L’intercessione dell’uomo non bastò, occorreva l’intercessione dell’Uomo-Dio: e fu Gesù, Figlio di Dio, Figlio dell’uomo. Per lui, ucciso per noi su una croce, quella liberazione è possibile e gratuita; e tutti riceviamo grazia su grazia. Da allora in poi la speranza s’è affacciata come nuovo sole all’orizzonte e ci chiede di non disperare mai.

La preghiera è lo strumento facile e immediato per attingere perdono alla fonte della misericordia. Il costato squarciato di Cristo crocifisso sta lì a ricordarcelo e a suggerire la preghiera che egli ha messo sulle nostre labbra: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male e dal Maligno” (Mt 6,12-13).

Ma non è facile avvertire il male e la sua gravità, particolarmente oggi, tempo di soggettivismo, relativismo, libertà libertaria: una triade che non tollera di fatto né ammonizioni né razionalità né memoria, con tutte le conseguenze morali e comportamentali che ne conseguono.

È proprio questo graduale sfaldamento del senso del peccato e del limite che ha bisogno del richiamo a “valori altri”, che sono quelli religiosi spirituali e razionali insieme, e a “forze altre”, quelle dell’aiuto di Dio e dell’invocazione, per contrastare il male e vincere la battaglia dell’onestà.

Tali forze sono quelle della grazia, da impetrare continuamente da chi solo può darcela, cioè Colui che nel combattimento contro il Maligno ha vinto per sempre il peccato e la morte, conseguenza del peccato.

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A scuola di preghiera da Gesù https://www.lavoce.it/a-scuola-di-preghiera-da-gesu/ Fri, 27 Jul 2007 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=6042 “Signore, insegnaci a pregare!” è il grido che oggi sale a Dio dalla liturgia domenicale, introdotta dall’orazione insistente e confidente di Abramo, primo maestro di preghiera per i credenti di tutti tempi. Il brano che la liturgia ci presenta contiene due insegnamenti: uno centrato più sul contenuto della preghiera cristiana, l’altro concentrato di più sui sentimenti che sono alla base di tale preghiera.

Dalla richiesta appassionata dei discepoli nasce l’oratio dominica, il “Padre nostro”, la preghiera più bella e più conosciuta dai cristiani. Dovremmo essere riconoscenti a quei primi seguaci che ne fecero richiesta, incuriositi dal modo di pregare di Gesù. Egli aprì il suo cuore per rivelare l’atteggiamento e i sentimenti che lo guidavano nel suo rapporto col Padre. Entriamo così nel segreto della sua più profonda intimità.

Egli ci insegna come rivolgersi a Dio e che cosa chiedergli. Nessuna indicazione rituale e nessun atteggiamento esteriore accompagna la preghiera. Non c’è un protocollo per parlare con il proprio Padre. Tutto è improntato a spontaneità, semplicità e confidenza. Non ci sono tecniche yoga nell’insegnamento di Gesù. Del “Padre nostro” abbiamo due versioni: quella di Matteo, che è la più usata, solenne e amplificata (Mt 6,9-13), e quella di Luca, più breve e sintetica. In Matteo l’invocazione iniziale (“Padre nostro che sei nei cieli”) si riveste di solennità liturgica per l’uso che se ne faceva nel battesimo e nell’eucaristia. In Luca l’invocazione è molto semplificata e rispecchia meglio l’uso che ne faceva Gesù, quando si rivolgeva al Padre semplicemente con l’appellativo familiare di “abbà” (papà).

È il sentimento che deve muovere chi usa oggi questa preghiera. Nel primo evangelista le domande contenute nell’orazione sono sette: tre riguardano Dio e sono introdotte col pronome di seconda persona singolare, il “tu”; quattro riguardano “noi” che preghiamo.

Le domande comuni sono quasi identiche, salvo qualche piccola variazione di vocabolario. Gesù ci fa chiedere a Dio che manifesti la sua santità, cioè la sua potenza di salvezza, e realizzi finalmente il suo regno nel mondo. Per noi ci fa chiedere il pane di ogni giorno, per le quotidiane necessità che abbiamo; ci esorta implorare perdono perché siamo sempre peccatori; e ci fa chiedere aiuto nei pericoli che minacciano la nostra vita materiale e spirituale. Le aggiunte di Matteo sono piuttosto una specificazione delle richieste già espresse nella formulazione di Luca.

Ciò vuol dire solo una cosa: che Gesù non ha inteso trasmettere una formula fissa e immutabile da recitare meccanicamente, ma fornire piuttosto uno schema che fissasse le richieste indispensabili contenute nell’autentica preghiera cristiana.

Quindi “il Padre nostro abbraccia tutto intero l’insegnamento del Signore e della sua disciplina perché vi è contenuto una specie di breviario dell’intero Vangelo”. Così si esprimeva Tertulliano, antico autore cristiano del II secolo. San Cipriano di Cartagine alcuni anni dopo scrive: “Amica e familiare è la preghiera fatta a Dio con le sue stesse parole.

Quando preghiamo, il Padre deve riconoscere le parole del suo Figlio. Otteniamo più facilmente quello che chiediamo se lo facciamo con la sua stessa preghiera”. Sant’Agostino insegnava: “Tutte le altre formule di preghiera non contengono nulla che non si trovi già nella preghiera del Signore. Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con quelle di questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera fatta male, ma certo troppo umana e terrestre. Del resto stenterei a capacitarmi che una tale preghiera si possa dire ben fatta per i cristiani, perché, essendo essi rinati dallo Spirito, devono pregare solo in modo spirituale”.

Alla preghiera insegnata da Gesù seguono alcune indicazioni che le fanno da cornice. Soprattutto, il Signore indica con che spirito bisogna pregare. Il nostro rapporto con Dio è quello di amici e di figli, ed è in quest’atmosfera familiare di confidenza che bisogna entrare quando ci si dispone a pregare.

Gesù lo dice con due brevi parabole. La prima è quella dell’amico importuno che va dal suo amico a svegliarlo in piena notte per chiedergli in prestito del pane. La casa dei villaggi palestinesi era un monolocale dove tutta la famiglia, spesso numerosa, viveva e dormiva. Quando calava la notte, la donna stendeva le stuoie in terra e i bambini vi si coricavano con coperte di lana uno accanto all’altro, e vicino ai genitori. Quando si spegneva la lampada ad olio, era buio pesto perché mancavano finestre o altro tipo di illuminazione.

L’amico che a mezzanotte bussa pesantemente alla porta non riesce a svegliare i bambini che hanno sonno profondo, ma crea difficoltà all’uomo che si deve alzare in quel buio, andare a cercare i pani in qualche angolo e minacciare di inciampare nei bambini sdraiati e calpestarne qualcuno. Tuttavia, per l’insistenza e l’affetto dovuto all’amico, non può fare a meno di rischiare e gli consegna il pane richiesto. Dio è disponibile come quell’amico, anzi di più, perché non ha impedimenti di sorta per ascoltare le nostre richieste. Dobbiamo fidarci di Lui più che di un amico, perché ci vuole più bene di chiunque altro. La seconda parabola insegna che Dio è come e più di un papà terreno, che non può fare del male ai suoi figli che gli chiedono da mangiare. Un papà non può ignorare le richieste dei suoi bambini. Sarebbe assurdo solo pensare che fornisca loro cose dannose: non dà un sasso al posto del pane o un serpente al posto del pesce, né uno scorpione al posto di un uovo.

Sulle rive del lago di Tiberiade questo era il pasto di bambini e adulti: pane e pesce o pane e uova. Sarebbe un padre snaturato quello che eludesse le giuste esigenze dei suoi bambini e peggio ancora facesse loro del male. Se questo difficilmente accade tra padri della terra, che spesso sono cattivi, quanto meno può accadere nei rapporti tra Dio, che è infinitamente buono, e i credenti, figli amatissimi.

Perciò la preghiera deve nascere da questa certezza: Dio ci vuol bene come un papà e non ci nega nulla di ciò che è necessario alla nostra vita. Anzi, ci dà di più di quanto ci aspettiamo, perché manda lo Spirito santo nei nostri cuori per darci fede e sicurezza di figli. Lo Spirito è la sintesi e la somma di tutti doni di Dio.

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Un messaggio ancora attuale https://www.lavoce.it/un-messaggio-ancora-attuale/ Fri, 08 Oct 2004 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=4053 La festa di san Francesco è trascorsa con grande partecipazione di popolo che rivive sempre con profonda simpatia l’avventura umana e spirituale di quest’uomo medievale, tanto lontano e tanto attuale.

La celebrazione più bella e toccante è stata quella della Basilica Superiore con tutte le autorità, presieduta dall’arcivescovo di Lanciano, Carlo Ghidelli, presidente della Conferenza episcopale abruzzese.

Nell’omelia, molto intensa, l’Arcivescovo ha sintetizzato le Scritture liturgiche del giorno e la santità di Francesco in tre simboli, quello della croce, del saio e delle stimmate, attraverso i quali ha presentato la proposta francescana di vita cristiana per l’uomo d’oggi.

Anche il neo arcivescovo di Chieti, Bruno Forte, finora più conosciuto come teologo, ha reso omaggio a san Francesco in un incontro con i giovani a San Damiano.

Dobbiamo dire però che tutta la Chiesa italiana e mondiale ha ricordato il Santo di Assisi e questo dovrebbe inorgoglire i suoi concittadini e tutti gli umbri, che dovrebbero essere grati a questo suo figlio che tanto famosa ha reso questa regione nel mondo.

Quest’anno la festa ha avuto anche degli strascichi di polemiche e discussioni, che sono anche frutto di ammirazione verso questo gigante dello spirito che si presenta con umanità nell’umiltà e semplicità dello stile di vita, catturando la simpatia di tutti.

Ma le polemiche possono essere motivate anche dall’interesse di trarre san Francesco più vicino alla propria parte politica, coinvolgendolo nella questione del pacifismo e della guerra in Iraq.

Inopportuna, quanto meno, la parte del discorso di Fini, che ha voluto marcare l’amicizia di Francesco con un valoroso guerriero, che è stata percepita come una ulteriore critica al movimento pacifista e una specie di giustificazione dell’intervento in Iraq.

È venuta fuori anche la polemica sulla legge finora approvata alla Camera che riconosce il 4 ottobre, festa di san Francesco, Patrono d’Italia, “Giornata nazionale della pace e della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse”.

Una festa laica che si innesta nella festa liturgica aprendosi ai valori riconosciuti anche dai laici.

Alcuni propongono che tale “Giornata” si faccia in altra data per non correre il rischio, paventato da molti tra cui il sindaco di Assisi Bartolini, e il senatore Udc Ronconi, che in questo modo, ideato e fortemente voluto dal senatore Ds Giulietti, si perda la specificità della festa religiosa francescana e cittadina. Indubbiamente con una giornata celebrata laicamente nel segno della pace e della fraternità, qualcosa della dimensione specifica della santità e della esperienza cristiana propria di san Francesco, “alter Christus” potrebbe venire perduto.

La “Giornata” potrebbe risultare un contenitore nel quale tante eterogenee manifestazioni prendono vita in un clima generico e confuso.

Altro strascico di accesa discussione è venuto dall’iniziativa della Custodia del Sacro Convento di invitare l’Imam di Perugia e dell’Umbria a recitare il Padre Nostro davanti ai teleschermi.

Quella preghiera non è per nulla integrabile nella fede islamica che rifiuta esplicitamente e radicalmente ogni “paternità” divina.

Nei novantanove nomi con cui Dio può essere invocato non c’è quello di padre. “Dio non genera e non è generato” si dice nel Corano.

D’altra parte il Padre nostro che esce dalle labbra di Gesù ed è ripetuto dai suoi fedeli non è una invocazione generica, ma indica la generazione del Figlio dal Padre e dei figli rinati dall’acqua e dallo Spirito.

Non per nulla il Padre Nostro viene “consegnato” al catecumeno nella prospettiva del battesimo. È una preghiera battesimale, che induce a pensare alla conversione di chi la recita.

Altri hanno avuto da ridire anche per la citazione di “san Francesco come il più santo degli italiani e il più italiano dei santi”, che avendo come autore Mussolini è potuta sembrare inopportuna e riduttiva assumendo una certa connotazione nazionalista e detta forse per rendere un omaggio a Fini.

In ogni modo, anche queste discussioni e polemiche danno il senso vivo dell’attualità di Francesco d’Assisi che parla ancora al mondo di oggi e invia messaggi su temi che riguardano il presente e il futuro della nostra società.

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Padre nostro https://www.lavoce.it/padre-nostro/ Fri, 23 Jul 2004 00:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=3932 Di tredici versetti, il brano evangelico che oggi la liturgia pone alla nostra attenzione è un vero e proprio “blocco letterario” dedicato all’insegnamento sulla preghiera, nel quale predomina la formula del Padre nostro. Anche se il brano è davvero noto, “ogni volta che si riprende in mano ci si trova disarmati e smarriti come di fronte a qualcosa che non conosciamo ancora” (Carlo Maria Martini, Itinerario di preghiera con l’evangelista Luca, Paoline 1987). La nostra pericope è facilmente scomponibile in tre parti: la preghiera del Pater (11,2-4), una parabola (11,5-8) e una parenesi sulla perseveranza nel pregare (11,9-13).

Quello che invece subito ci sorprende è che per Luca l’oggetto della preghiera, ciò che si deve chiedere, così come emerge dall’ultimo versetto della pericope (11,13), non è il pane (il termine ricorre qui tre volte), o qualcos’altro con la stessa funzione (del pesce, o un uovo): sono solo esempi. Piuttosto, ciò che il cristiano deve domandare insistentemente è lo Spirito santo. Anche se solo alla fine, con parole che chiariscono tutto quello che precede, viene sgombrato il campo da un possibile fraintendimento: “La preghiera non deve essere considerata un mezzo per fare pressione su Dio e ottenere che Egli ceda dinanzi a desideri umani. Solo la preghiera che apre l’uomo all’azione dello Spirito, un’azione che lo conforma ai desideri di Dio e alle esigenze del suo Regno, è autentica” (J. Dupont).

Lo sfondo che fa da pretesto all’insegnamento del Pater è diverso rispetto a quella di Matteo (6,9-13), dove Gesù sta parlando nel bel mezzo del “discorso della montagna”. Qui invece Gesù si trova in un luogo a pregare. Situazione tipica in Luca, secondo il quale i discepoli vogliono imparare a pregare, come quelli di Giovanni: questi, infatti, come già dicevano i farisei, “digiunano spesso e fanno orazioni” (Lc 5,33). La preghiera del Pater ci è stata tramandata in due versioni: quella liturgicamente più usata, di Matteo (sette domande), e il nostro testo lucano, più breve (cinque domande). La seconda potrebbe essere la più antica, infatti l’uso liturgico può aver portato ad ampliamenti e spiegazioni; inoltre, non ci spiegheremmo l’omissione di due domande da parte di Luca, se le avesse trovate nella sua fonte. La nostra preghiera si trova anche nel primitivo scritto cristiano della Didachè.

Tutte e due le versioni sono divisibili in parti: nella prima le suppliche sono incentrate su Dio: è Dio stesso che deve agire in modo da essere santificato ed egli solo può far venire il Regno; nella seconda invece le preghiere riguardano i bisogni essenziali di ogni uomo e del credente. Padre, sia santificato il tuo nome. A tutte e due le parti è fatto precedere un presupposto di fede: Dio può essere chiamato col nome di Padre. La santificazione del nome è qualcosa che può sfuggire alla nostra moderna mentalità occidentale, perché tipica della cultura ebraica. “Dal momento che il nome (e la realtà) di Dio che Gesù rivela è quello di Padre, una traduzione più adeguata sarebbe forse: Fatti riconoscere come Padre. Si potrebbe parafrasare questa prima richiesta nel modo seguente: ‘Possano tutti riconoscere che hanno un Padre che è la sorgente del loro essere, che vuole essere il bene e la crescita di tutti, e che invita ciascuno in particolare a collocarsi di fronte a lui come un figlio'” (Dumais).

Insomma, dobbiamo pregare affinché il Padre venga riconosciuto da tutti gli uomini nella sua santità, la sua assoluta alterità e differenza dalle cose create, e anche da noi stessi. Quest’idea è più esplicita nella versione matteana: lì Dio è Padre, ma è “quello nei cieli”, vale a dire in una dimensione totalmente diversa da quella in cui è l’uomo. Con questa prima frase del Pater, però, la distanza si raccorcia, e noi “esprimiamo anche la nostra intenzione di cooperare a questa santificazione del Padre mediante una vita conforme a quello che egli è e a ciò che egli vuole dai suoi figli, nella linea di Lv 19,2: ‘Siate santi perché io sono santo'” (Id.). Venga il tuo Regno. Con Gesù, la realtà del Regno è già iniziata, ma non ha raggiunto ancora il suo fine. Dobbiamo ancora pregare in questo modo: “Il regno di Dio, già presente mediante Gesù, giunga presto a compimento, perché è ‘giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo’ (Rm 14,17). Cristo è venuto per il bene degli uomini, perché ‘abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza’ (Gv 10,10). Tutte le creature saranno pienamente se stesse, quando egli le ricondurrà definitivamente al Padre. Che la storia si affretti a camminare verso l’ultimo traguardo!” (La verità vi farà liberi, Catechismo degli adulti Cei, 1007).

Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano… Le rimanenti richieste hanno come angolo di visuale quelle che sono le nostre quotidiane necessità, che non sono solo quelle relative alla vita fisica, ma che toccano anche la vita dell’anima, come il bisogno di perdonare ed essere perdonati, oppure di essere salvaguardati nella prova. La paternità di Dio copre ogni ambito della vita; ciò che importa è che l’uomo se ne renda conto e si presenti al Padre, con fiducia, attendendo da lui ogni dono: innanzi tutto la grazia dello Spirito.

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Il Padre Nostro meditato a più voci da ortodossi, cattolici ed evangelici https://www.lavoce.it/il-padre-nostro-meditato-a-piu-voci-da-ortodossi-cattolici-ed-evangelici/ Thu, 08 Feb 2001 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=1386 Tante volte nelle nostre preghiere siamo soliti invocare Dio come Padre nostro, seguendo l’insegnamento del Signore Gesù. Quante volte però, con altrettanta cura, ci siamo fermati a riflettere un momento sulla profondità di questo appellativo? Che cosa vuol dire che Dio è Padre? Che cosa vuol dire che egli è nostro e non mio? Quali sono le conseguenze di questa affermazione pronunciata nella fede? Dire che Dio è Padre nostro significa riconoscere, da un lato, l’inaudita vicinanza di Dio all’uomo, dall’altro l’esigenza irrinunciabile dell’amore per il prossimo che è per noi qualcosa di più di un vicino: un fratello. Al riconoscimento dell’amore di Dio corrisponde, quindi, la presa di coscienza dell’unità alla quale tutti i credenti sono chiamati. Ogni volta che pronunciamo la preghiera evangelica si staglia di fronte ai nostri occhi il mistero di Dio, di un Dio che in qualità di Padre ci vuole come una cosa sola. In questi nostri giorni l’esigenza di unità delle chiese si fa sentire in maniera sempre più forte. Di fronte ad un mondo fortemente dissociato, privo di punti fermi e bisognoso di una testimonianza autentica da parte dei cristiani, lo scandalo della divisione grava come un fardello insopportabile. Per costruire unità da dove si può cominciare? Su quale base possiamo incontrarci? A questa domanda è stata data una risposta significativa: nello spirito del giubileo ormai trascorso, nella nostra Perugia, è stato realizzato un convegno per riflettere sul significato profondo della preghiera del Padre nostro, prestando particolare attenzioni alle implicazioni ecumeniche dell’invocazione. La cosa più interessante non è stata certo la realizzazione vera e propria del progetto, perché di progetti e convegni in fondo ce ne sono molti e non suscitano tanto scalpore. La cosa più bella è stata senza dubbio la preparazione dell’evento: per la prima volta un convegno è stato organizzato congiuntamente dalle chiese presenti in Italia: cattolica, riformata, ortodossa. Come se questo non fosse già abbastanza, anche il rabbino capo di Milano ha arricchito l’incontro con la sua presenza. Come commentare quest’evento, se non dicendo che un unico Dio che è Padre ha chiamato a raccolta i suoi figli? Alla luce della preghiera del Padre nostro le chiese e i credenti in Dio si sono raccolti a un’unica tavola come fratelli. Al termine del convegno, perché non andasse perduta la ricchezza dell’incontro interconfessionale e interreligioso, sono stati pubblicati gli atti a cura del Segretariato per l’Ecumenismo e il Dialogo della Conferenza episcopale italiana. Il testo (Il Padre nostro. Preghiera di tutti, Bologna, EDB, 2000) raccoglie le molteplici voci in un unico e affascinante coro. Ciascun esponente ha espresso la ricchezza della propria visione, senza paure né condizionamenti. Il cattolico, l’ortodosso, il riformato, l’ebreo, l’uomo, la donna hanno proclamato, in una sapiente polifonia, l’unico canto che celebra il mistero della paternità di Dio e della fratellanza come vocazione universale. Diviso in due parti il volume raccoglie nella prima i commenti alle singole invocazioni della preghiera che si rivela di una profondità sconcertante e inesauribile, mentre nella seconda parte offre una sorta di panoramica spirituale sul Padre nostro e sull’influsso da esso esercitato sulla spiritualità cristiana sin dal tempo dei padri. Complessivamente questa pubblicazione costituisce un segno tangibile di quel cammino verso l’unità del quale tante volte ci dimentichiamo. Nelle pagine dense del volume si scorge la vera ragione della fraternità e la radice ultima dell’unità: solo riconoscendo Dio come Padre potremo riconoscerci davvero fratelli, al di là degli attriti che nella storia ci separano. La preghiera insegnata dal Signore Gesù, quindi, suona sulle nostre labbra come un ennesimo invito di Dio all’unità della sua chiesa e alla fratellanza universale perché il mondo creda. Diciamo, dunque, Padre nostro, consapevoli del fatto che questa davvero è la preghiera di tutti.

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