Onu Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/onu/ Settimanale di informazione regionale Thu, 26 Oct 2023 15:32:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Onu Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/onu/ 32 32 Non ci sono soluzioni semplici https://www.lavoce.it/non-ci-sono-soluzioni-semoplici/ https://www.lavoce.it/non-ci-sono-soluzioni-semoplici/#respond Thu, 26 Oct 2023 17:00:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73814

In questi giorni tristissimi – guerre già in corso che continuano e altre che scoppiano – si sentono ripetere le invocazioni all’autorità dell’ONU: ma perché non si danno maggiori poteri all’ONU? Perché non si abolisce quel “diritto di veto” che sbarra la strada a tutti i suoi interventi? La risposta a queste domande è che queste bellissime riforme non si fanno perché non esiste un’autorità mondiale che abbia il potere di farle a dispetto di chi non le vuole.

Ciascuno di noi, da quando è nato, appartiene ad una comunità nazionale al cui vertice ci sono gli organi supremi dello Stato (il Governo, il Parlamento, il Capo dello Stato) che hanno il potere di prendere le decisioni più importanti per la vita di tutti, e hanno anche il potere di farle rispettare, dopo che le hanno prese. Questo modo di organizzare e dirigere le comunità nazionali è antico praticamente quanto la storia dell’uomo (da quando ha smesso di abitare nelle caverne): ci siamo tanto abituati che ci pare naturale e crediamo che sia giusto così; allo stesso modo ci sembrerebbe naturale che una analoga struttura di potere legittimo e giusto ci fosse anche al di sopra degli Stati. Ma non c’è. Ed è praticamente impossibile crearla nel mondo che abbiamo.

Vale, infatti, il principio di sovranità: ogni Stato (grande come la Cina o la Russia, o piccolo come San Marino) è sovrano, cioè padrone di se stesso, e ha – almeno formalmente – la stessa dignità e gli stessi diritti. Sono queste le regole che proteggono (quando ci riescono) i piccoli dalla prepotenza dei forti. La conseguenza è che le decisioni collettive si possono prendere solo se tutti sono d’accordo.

Perché non si può votare a maggioranza? Perché prima si dovrebbe stabilire come si calcola la maggioranza. Se si calcolasse per Stati, e il voto di San Marino avesse lo stesso peso di quello della Cina, la coalizione di tutti gli Stati piccoli e medio-piccoli, che sono un centinaio, vincerebbe ma rappresenterebbe solo il cinque o il sei per cento della popolazione mondiale. Assurdo. Se si contassero i voti individuali, gli stati più popolosi (a partire dalla Cina e dall’India, che superano entrambi il miliardo) schiaccerebbero facilmente gli altri. Come si vede, è praticamente impossibile trovare la formula giusta per costruire una democrazia planetaria; farla funzionare, poi, sarebbe ancora più difficile. Non esistono soluzioni semplici.

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In questi giorni tristissimi – guerre già in corso che continuano e altre che scoppiano – si sentono ripetere le invocazioni all’autorità dell’ONU: ma perché non si danno maggiori poteri all’ONU? Perché non si abolisce quel “diritto di veto” che sbarra la strada a tutti i suoi interventi? La risposta a queste domande è che queste bellissime riforme non si fanno perché non esiste un’autorità mondiale che abbia il potere di farle a dispetto di chi non le vuole.

Ciascuno di noi, da quando è nato, appartiene ad una comunità nazionale al cui vertice ci sono gli organi supremi dello Stato (il Governo, il Parlamento, il Capo dello Stato) che hanno il potere di prendere le decisioni più importanti per la vita di tutti, e hanno anche il potere di farle rispettare, dopo che le hanno prese. Questo modo di organizzare e dirigere le comunità nazionali è antico praticamente quanto la storia dell’uomo (da quando ha smesso di abitare nelle caverne): ci siamo tanto abituati che ci pare naturale e crediamo che sia giusto così; allo stesso modo ci sembrerebbe naturale che una analoga struttura di potere legittimo e giusto ci fosse anche al di sopra degli Stati. Ma non c’è. Ed è praticamente impossibile crearla nel mondo che abbiamo.

Vale, infatti, il principio di sovranità: ogni Stato (grande come la Cina o la Russia, o piccolo come San Marino) è sovrano, cioè padrone di se stesso, e ha – almeno formalmente – la stessa dignità e gli stessi diritti. Sono queste le regole che proteggono (quando ci riescono) i piccoli dalla prepotenza dei forti. La conseguenza è che le decisioni collettive si possono prendere solo se tutti sono d’accordo.

Perché non si può votare a maggioranza? Perché prima si dovrebbe stabilire come si calcola la maggioranza. Se si calcolasse per Stati, e il voto di San Marino avesse lo stesso peso di quello della Cina, la coalizione di tutti gli Stati piccoli e medio-piccoli, che sono un centinaio, vincerebbe ma rappresenterebbe solo il cinque o il sei per cento della popolazione mondiale. Assurdo. Se si contassero i voti individuali, gli stati più popolosi (a partire dalla Cina e dall’India, che superano entrambi il miliardo) schiaccerebbero facilmente gli altri. Come si vede, è praticamente impossibile trovare la formula giusta per costruire una democrazia planetaria; farla funzionare, poi, sarebbe ancora più difficile. Non esistono soluzioni semplici.

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Onu e guerre. C’è bisogno di una forza diplomatica di pronto intervento https://www.lavoce.it/onu-e-guerre-ce-bisogno-di-una-forza-diplomatica-di-pronto-intervento/ https://www.lavoce.it/onu-e-guerre-ce-bisogno-di-una-forza-diplomatica-di-pronto-intervento/#respond Wed, 03 May 2023 16:48:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=71326 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

Quella del Sudan è una tregua senza tregua, ovvero le sospensioni dei combattimenti dichiarate a voce non reggono. Sembra quasi che la guerra che si è scatenata tra le due differenti fazioni sia esclusivo affar loro e che l’unico intervento esterno finora realizzato sia stato quello di mettere in salvo i residenti stranieri. Ciascuno i propri. In pochi giorni di combattimenti, le vittime si contano a centinaia e i feriti in migliaia, senza calcolare la carenza di beni di prima necessità e di assistenza sanitaria. Lodevole la volontà da parte degli operatori delle Nazioni Unite di concordare corridoi umanitari e di creare le condizioni per fornire assistenza alla popolazione civile che conta il maggior numero di morti e di danni, ma non è possibile che ancora una volta la comunità internazionale debba assistere inerme allo scoppio di una guerra, in questo caso civile. Di una forza diplomatica di pronto intervento c’è bisogno. Così come di una forza di polizia internazionale che intervenga a contenere la violenza che si è scatenata per le strade delle più importanti città del Paese. Da tempo si sarebbe dovuto sottoscrivere questo patto di cessione di sovranità da parte di tutte le nazioni che compongono l’Onu.]]>
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Quella del Sudan è una tregua senza tregua, ovvero le sospensioni dei combattimenti dichiarate a voce non reggono. Sembra quasi che la guerra che si è scatenata tra le due differenti fazioni sia esclusivo affar loro e che l’unico intervento esterno finora realizzato sia stato quello di mettere in salvo i residenti stranieri. Ciascuno i propri. In pochi giorni di combattimenti, le vittime si contano a centinaia e i feriti in migliaia, senza calcolare la carenza di beni di prima necessità e di assistenza sanitaria. Lodevole la volontà da parte degli operatori delle Nazioni Unite di concordare corridoi umanitari e di creare le condizioni per fornire assistenza alla popolazione civile che conta il maggior numero di morti e di danni, ma non è possibile che ancora una volta la comunità internazionale debba assistere inerme allo scoppio di una guerra, in questo caso civile. Di una forza diplomatica di pronto intervento c’è bisogno. Così come di una forza di polizia internazionale che intervenga a contenere la violenza che si è scatenata per le strade delle più importanti città del Paese. Da tempo si sarebbe dovuto sottoscrivere questo patto di cessione di sovranità da parte di tutte le nazioni che compongono l’Onu.]]>
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Ma l’Onu che fa?… O meglio, che può fare? https://www.lavoce.it/ma-lonu-che-fa-o-meglio-che-puo-fare/ Wed, 06 Apr 2022 16:41:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=65981

Nei dibattiti in tv, radio, e giornali stampati sul conflitto russoucraino, riaffiora ogni tanto la domanda: ma l’Onu che fa? Perché non manda i suoi famosi caschi blu a riportare l’ordine? Si sentono dare risposte evasive e talvolta bislacche. Il fatto è che moltissimi credono che l’Onu sia una specie di super-governo mondiale, l’autorità più elevata che ha l’ultima parola e parla a nome dell’umanità intera.

Purtroppo non è così. L’Onu è solo il luogo nel quale i rappresentanti dei 193 Stati membri si incontrano per discutere; possono anche votare nell’assemblea generale, ma le mozioni approvate hanno un valore solo simbolico. Del resto, che peso potrebbero avere, visto che lì ogni Stato ha un voto, e San Marino conta come la Cina? Il Consiglio di sicurezza, quello sì, può prendere decisioni operative, ma con questa regola: ne fanno parte di diritto i cinque soci fondatori (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) e ciascuno di loro ha diritto di veto. In pratica, l’Onu decide qualche cosa solo se quei cinque sono tutti d’accordo. Chiaramente, non accade se l’uno o l’altro di loro è implicato direttamente; come ora che la Russia è una delle parti in conflitto. Questo sistema può essere giudicato iniquo perché mette l’Onu nelle mani di una cerchia di Stati grossi, ricchi e potenti.

Ma realisticamente si deve dire che almeno, in questo modo, l’Onu una possibilità di funzionamento ce l’ha, sia pure di rado e in modo imperfetto. Se si cancellasse il privilegio dei cinque Grandi, non si arriverebbe mai a una decisione veramente utile.

L’Unione europea, che vive nella dimensione continentale e non in quella planetaria, è molto più avanti sulla strada della costruzione di un ordinamento sovranazionale, e ha al suo interno molte meno ragioni di possibili conflitti; e tuttavia essa stessa non riesce ancora a dotarsi di una politica internazionale comune e unitaria. E poi, quando sulla scena del mondo si affacciano governanti che non esitano a fare uso della forza, e che solo con la forza potranno essere fermati, la costruzione di un ordine mondiale pacifico può sembrare irraggiungibile. Ma pensarci è doveroso.

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Nei dibattiti in tv, radio, e giornali stampati sul conflitto russoucraino, riaffiora ogni tanto la domanda: ma l’Onu che fa? Perché non manda i suoi famosi caschi blu a riportare l’ordine? Si sentono dare risposte evasive e talvolta bislacche. Il fatto è che moltissimi credono che l’Onu sia una specie di super-governo mondiale, l’autorità più elevata che ha l’ultima parola e parla a nome dell’umanità intera.

Purtroppo non è così. L’Onu è solo il luogo nel quale i rappresentanti dei 193 Stati membri si incontrano per discutere; possono anche votare nell’assemblea generale, ma le mozioni approvate hanno un valore solo simbolico. Del resto, che peso potrebbero avere, visto che lì ogni Stato ha un voto, e San Marino conta come la Cina? Il Consiglio di sicurezza, quello sì, può prendere decisioni operative, ma con questa regola: ne fanno parte di diritto i cinque soci fondatori (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) e ciascuno di loro ha diritto di veto. In pratica, l’Onu decide qualche cosa solo se quei cinque sono tutti d’accordo. Chiaramente, non accade se l’uno o l’altro di loro è implicato direttamente; come ora che la Russia è una delle parti in conflitto. Questo sistema può essere giudicato iniquo perché mette l’Onu nelle mani di una cerchia di Stati grossi, ricchi e potenti.

Ma realisticamente si deve dire che almeno, in questo modo, l’Onu una possibilità di funzionamento ce l’ha, sia pure di rado e in modo imperfetto. Se si cancellasse il privilegio dei cinque Grandi, non si arriverebbe mai a una decisione veramente utile.

L’Unione europea, che vive nella dimensione continentale e non in quella planetaria, è molto più avanti sulla strada della costruzione di un ordinamento sovranazionale, e ha al suo interno molte meno ragioni di possibili conflitti; e tuttavia essa stessa non riesce ancora a dotarsi di una politica internazionale comune e unitaria. E poi, quando sulla scena del mondo si affacciano governanti che non esitano a fare uso della forza, e che solo con la forza potranno essere fermati, la costruzione di un ordine mondiale pacifico può sembrare irraggiungibile. Ma pensarci è doveroso.

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Crisi Ucraina. Ci vorrebbe l’Onu … https://www.lavoce.it/crisi-ucraina-ci-vorrebbe-lonu/ Thu, 17 Feb 2022 17:17:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=65028 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

“Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra”.  Questo è il senso dell’esistenza di quell’importante organismo sovranazionale come lo si legge nel preambolo della sua stessa Carta. Per questo, nella crisi ucraina l’Onu appare come la nobile assente, silente e sottomessa alla volontà delle grandi potenze.

Nell’articolo 2 è scolpito chiaramente il divieto agli Stati membri dell’Onu dell’uso della minaccia e della forza “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. E ci saremmo aspettato l’applicazione dell’articolo 42 che riguarda le azioni che oggi chiamiamo di peacekeeping, ovvero l’invio di un contingente di polizia internazionale formato da eserciti di varie nazioni indipendenti a presidiare il territorio e, soprattutto, l’incolumità della popolazione dell’Ucraina.

E invece solo il silenzio. Perché lo Statuto di cui l’Onu è prigioniera prevede il consenso del Consiglio di sicurezza composto proprio dalle stesse nazioni coinvolte nella crisi e che per di più esercitano il diritto di veto. Ancora una volta, anche la crisi in Ucraina dimostra che il compito più urgente è la riforma dell’Onu.

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“Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra”.  Questo è il senso dell’esistenza di quell’importante organismo sovranazionale come lo si legge nel preambolo della sua stessa Carta. Per questo, nella crisi ucraina l’Onu appare come la nobile assente, silente e sottomessa alla volontà delle grandi potenze.

Nell’articolo 2 è scolpito chiaramente il divieto agli Stati membri dell’Onu dell’uso della minaccia e della forza “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. E ci saremmo aspettato l’applicazione dell’articolo 42 che riguarda le azioni che oggi chiamiamo di peacekeeping, ovvero l’invio di un contingente di polizia internazionale formato da eserciti di varie nazioni indipendenti a presidiare il territorio e, soprattutto, l’incolumità della popolazione dell’Ucraina.

E invece solo il silenzio. Perché lo Statuto di cui l’Onu è prigioniera prevede il consenso del Consiglio di sicurezza composto proprio dalle stesse nazioni coinvolte nella crisi e che per di più esercitano il diritto di veto. Ancora una volta, anche la crisi in Ucraina dimostra che il compito più urgente è la riforma dell’Onu.

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Ad Assisi la consegna della Lampada della pace al segretario Onu Antonio Guterres https://www.lavoce.it/assisi-consegna-lampada-pace-segretario-onu-antonio-guterres/ Fri, 17 Dec 2021 16:56:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64147 Un primo piano del segretario dell'Onu Antonio Guterres

La consegna della Lampada della Pace al Segretario generale dell'Onu, António Guterres, prevista per sabato 18 dicembre alle 12.45 nella chiesa superiore della Basilica di San Francesco d’Assisi, avverrà in collegamento da New York.

António Guterres è stato in contatto con persone risultate positive al Covid-19 all'inizio di questa settimana e come misura precauzionale, in accordo con il medico, il segretario generale ha deciso di partecipare in streaming alla cerimonia. Guterres è risultato negativo al virus. Pertanto, il Segretario Onu e Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania saranno collegati in remoto con Assisi. A ritirare fisicamente la Lampada della Pace ci sarà, invece, il direttore generale della Fao, Qu Dongyu. L'evento verrà trasmesso in streaming sul sito sanfrancesco.org.

Il concerto del 25 dicembre

La cerimonia si terrà a margine della registrazione del 36° Concerto di Natale che verrà trasmesso su Rai1 sabato 25 dicembre alle 12.30 in eurovisione dopo il messaggio Urbi et Orbi del Santo Padre. Saranno presenti tra gli altri: il ministro dell'Economia e delle finanze, Daniele Franco, rappresenterà il Governo italiano, il presidente della Conferenza episcopale italiana, card. Gualtiero Bassetti, la presidente della Rai, Marinella Soldi, l'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato italiane, Luigi Ferraris, l’amministratore delegato di Ita, Fabio Lazzerini, e Stefano Lucchini di Intesa Sanpaolo.

Il concerto diretto dal maestro William Eddins vedrà la partecipazione di uno dei violoncellisti più noti al mondo, Hauser, e il tenore Roberto Alagna. Ad accompagnare gli artisti sarà l'Orchestra sinfonica nazionale della Rai e il coro "I piccoli musici" guidato dal maestro Mario Mora.

Per maggiori informazioni www.sanfrancesco.org

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Un primo piano del segretario dell'Onu Antonio Guterres

La consegna della Lampada della Pace al Segretario generale dell'Onu, António Guterres, prevista per sabato 18 dicembre alle 12.45 nella chiesa superiore della Basilica di San Francesco d’Assisi, avverrà in collegamento da New York.

António Guterres è stato in contatto con persone risultate positive al Covid-19 all'inizio di questa settimana e come misura precauzionale, in accordo con il medico, il segretario generale ha deciso di partecipare in streaming alla cerimonia. Guterres è risultato negativo al virus. Pertanto, il Segretario Onu e Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania saranno collegati in remoto con Assisi. A ritirare fisicamente la Lampada della Pace ci sarà, invece, il direttore generale della Fao, Qu Dongyu. L'evento verrà trasmesso in streaming sul sito sanfrancesco.org.

Il concerto del 25 dicembre

La cerimonia si terrà a margine della registrazione del 36° Concerto di Natale che verrà trasmesso su Rai1 sabato 25 dicembre alle 12.30 in eurovisione dopo il messaggio Urbi et Orbi del Santo Padre. Saranno presenti tra gli altri: il ministro dell'Economia e delle finanze, Daniele Franco, rappresenterà il Governo italiano, il presidente della Conferenza episcopale italiana, card. Gualtiero Bassetti, la presidente della Rai, Marinella Soldi, l'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato italiane, Luigi Ferraris, l’amministratore delegato di Ita, Fabio Lazzerini, e Stefano Lucchini di Intesa Sanpaolo.

Il concerto diretto dal maestro William Eddins vedrà la partecipazione di uno dei violoncellisti più noti al mondo, Hauser, e il tenore Roberto Alagna. Ad accompagnare gli artisti sarà l'Orchestra sinfonica nazionale della Rai e il coro "I piccoli musici" guidato dal maestro Mario Mora.

Per maggiori informazioni www.sanfrancesco.org

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Contro i profughi non è indifferenza, è violenza https://www.lavoce.it/contro-i-profughi-non-e-indifferenza-e-violenza/ Sun, 08 Mar 2020 20:35:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56418

Soltanto una scorza dura-dura che non lascia scampo ai sentimenti e al pianto può mostrarsi così indifferente di fronte al dramma dei profughi siriani. Le notizie e le immagini che in questi giorni ci raggiungono sulla sorte dei sopravvissuti alla guerra in quell’angolo del pianeta superano perfino quella “cultura dell’indifferenza” più volte denunciata da Papa Francesco. Infatti non si tratta più nemmeno di voltarsi dall’altra parte, ma addirittura di accanirsi, perfino con violenza, contro persone che hanno l’unica ‘colpa’ di scappare dalla violenza della guerra e dalla morte certa sotto le bombe. Le notizie di padri e madri che si vedono morire i bambini di freddo tra le braccia, quelli sui quali si arriva addirittura a sparare o che si cerca di affondare mentre in mare cercano un approdo o un salvataggio, quelli che devono difendersi dai lacrimogeni e dai manganelli dei militari greci, quelli usati come arma di ricatto dal Governo turco... Sembra essere in atto una vera e propria involuzione antropologica, una dinamica disumanizzante che genera violenza e indifferenza. Se non fosse così, le nostre coscienze si rivolterebbero, alzerebbero la voce, farebbero qualcosa... Ma non è umanamente tollerabile che chi scappa dalla violenza, superando pericoli e disagi d’ogni genere e rischiando la vita per mettersi al sicuro, possa essere accolto in un Lager e respinto, nel modo che sappiamo, se solo tenta di superare i confini. Lo chiediamo con forza all’Unione europea, all’Onu, a tutti gii organismi sovranazionali e ai Governi dei Paesi direttamente coinvolti: ascoltate la vostra coscienza! Questo, occhi di bambini imploranti, corpi immobilizzati da armi chimiche e madri disperate, lo chiedono da anni nei campi di battaglia siriani. Davvero era così impossibile sedersi a un tavolo dei negoziati per pretendere la fine di quello scempio? Ci si chiede se una forza di polizia internazionale non avrebbe dovuto già da tempo schierarsi nelle aree interessate al conflitto, e oggi nella regione di Idlib, a difesa degli inermi. Se Russia, Stati Uniti, Turchia non debbano rendere conto a un Consiglio di sicurezza che è chiamato a essere fedele al suo stesso nome, prima ancora che al suo mandato. Quelle Nazioni Unite che nascevano proprio per “preservare le future generazioni dal flagello della guerra”. In Africa abbiamo imparato un triste proverbio: “Quando due pachidermi si fanno guerra, non si sa mai chi vincerà, ma una cosa è certa: l’erba ci rimette sempre”. Basterebbe poco per smentirlo, e schierarsi decisamente a difesa dell’erba.]]>

Soltanto una scorza dura-dura che non lascia scampo ai sentimenti e al pianto può mostrarsi così indifferente di fronte al dramma dei profughi siriani. Le notizie e le immagini che in questi giorni ci raggiungono sulla sorte dei sopravvissuti alla guerra in quell’angolo del pianeta superano perfino quella “cultura dell’indifferenza” più volte denunciata da Papa Francesco. Infatti non si tratta più nemmeno di voltarsi dall’altra parte, ma addirittura di accanirsi, perfino con violenza, contro persone che hanno l’unica ‘colpa’ di scappare dalla violenza della guerra e dalla morte certa sotto le bombe. Le notizie di padri e madri che si vedono morire i bambini di freddo tra le braccia, quelli sui quali si arriva addirittura a sparare o che si cerca di affondare mentre in mare cercano un approdo o un salvataggio, quelli che devono difendersi dai lacrimogeni e dai manganelli dei militari greci, quelli usati come arma di ricatto dal Governo turco... Sembra essere in atto una vera e propria involuzione antropologica, una dinamica disumanizzante che genera violenza e indifferenza. Se non fosse così, le nostre coscienze si rivolterebbero, alzerebbero la voce, farebbero qualcosa... Ma non è umanamente tollerabile che chi scappa dalla violenza, superando pericoli e disagi d’ogni genere e rischiando la vita per mettersi al sicuro, possa essere accolto in un Lager e respinto, nel modo che sappiamo, se solo tenta di superare i confini. Lo chiediamo con forza all’Unione europea, all’Onu, a tutti gii organismi sovranazionali e ai Governi dei Paesi direttamente coinvolti: ascoltate la vostra coscienza! Questo, occhi di bambini imploranti, corpi immobilizzati da armi chimiche e madri disperate, lo chiedono da anni nei campi di battaglia siriani. Davvero era così impossibile sedersi a un tavolo dei negoziati per pretendere la fine di quello scempio? Ci si chiede se una forza di polizia internazionale non avrebbe dovuto già da tempo schierarsi nelle aree interessate al conflitto, e oggi nella regione di Idlib, a difesa degli inermi. Se Russia, Stati Uniti, Turchia non debbano rendere conto a un Consiglio di sicurezza che è chiamato a essere fedele al suo stesso nome, prima ancora che al suo mandato. Quelle Nazioni Unite che nascevano proprio per “preservare le future generazioni dal flagello della guerra”. In Africa abbiamo imparato un triste proverbio: “Quando due pachidermi si fanno guerra, non si sa mai chi vincerà, ma una cosa è certa: l’erba ci rimette sempre”. Basterebbe poco per smentirlo, e schierarsi decisamente a difesa dell’erba.]]>
Sulle armi nucleari, Italia, ripensaci! https://www.lavoce.it/sulle-armi-nucleari-italia-ripensaci/ Mon, 15 Oct 2018 08:00:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53133 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio*

Sono 69 gli Stati che finora hanno firmato il trattato per la definitiva messa al bando delle armi nucleari, e 19 quelli che l’hanno ratificato, ovvero introdotto nella legislazione delle proprie nazioni. Il trattato sarà pienamente operativo quando le ratifiche raggiungeranno il numero di 50.

Nei giorni scorsi tra Perugia e Assisi si è dibattuto molto sulla necessità che anche l’Italia si decida a firmare, ed è stata presentata la campagna “Italia, ripensaci”. Non sappiamo con precisione quante testate nucleari si nascondano nelle basi Usa tra Ghedi (Bs), Aviano (Pn) e altre che sono coperte da segreto militare, ma sicuramente questo fa di noi un territorio ancora più a rischio.

La comunità internazionale ha riconosciuto ampiamente l’importanza vitale della distruzione degli arsenali nucleari esistenti e della proibizione di produrre altri ordigni di questo tipo. Ce lo ricordano tragicamente gli hibakusha, gli ultimi sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.

Ce lo ricorda con tutta evidenza la riflessione della teologia morale che, prima ancora che l’impiego di tali armi, ne condanna l’investimento economico, che sottrae risorse allo sviluppo, nonché la mentalità di sfiducia nelle sorti del mondo che si costruisce prevedendo un futuro di guerra invece che lavorare per dare vita al nostro pianeta e a tutti gli esseri viventi che lo abitano.

*presidente della Pro Civitate Christiana - Assisi

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di Tonio Dell’Olio*

Sono 69 gli Stati che finora hanno firmato il trattato per la definitiva messa al bando delle armi nucleari, e 19 quelli che l’hanno ratificato, ovvero introdotto nella legislazione delle proprie nazioni. Il trattato sarà pienamente operativo quando le ratifiche raggiungeranno il numero di 50.

Nei giorni scorsi tra Perugia e Assisi si è dibattuto molto sulla necessità che anche l’Italia si decida a firmare, ed è stata presentata la campagna “Italia, ripensaci”. Non sappiamo con precisione quante testate nucleari si nascondano nelle basi Usa tra Ghedi (Bs), Aviano (Pn) e altre che sono coperte da segreto militare, ma sicuramente questo fa di noi un territorio ancora più a rischio.

La comunità internazionale ha riconosciuto ampiamente l’importanza vitale della distruzione degli arsenali nucleari esistenti e della proibizione di produrre altri ordigni di questo tipo. Ce lo ricordano tragicamente gli hibakusha, gli ultimi sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.

Ce lo ricorda con tutta evidenza la riflessione della teologia morale che, prima ancora che l’impiego di tali armi, ne condanna l’investimento economico, che sottrae risorse allo sviluppo, nonché la mentalità di sfiducia nelle sorti del mondo che si costruisce prevedendo un futuro di guerra invece che lavorare per dare vita al nostro pianeta e a tutti gli esseri viventi che lo abitano.

*presidente della Pro Civitate Christiana - Assisi

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Perché gli Usa sono usciti dal Consiglio dei diritti umani Onu? https://www.lavoce.it/perche-gli-usa-usciti-dal-consiglio-dei-diritti-umani-onu/ Thu, 28 Jun 2018 11:36:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52177

Sono 40 milioni le persone che vivono in stato di povertà assoluta negli Stati Uniti e sono ben 18,6 milioni quelle che vivono in estrema povertà, mentre 5,3 milioni sperimentano condizioni di vita pari al Terzo Mondo. La nuova riforma delle tasse e la deregulation applicata dall’amministrazione Trump nel campo finanziario, medico, ambientale e del welfare rischia nei prossimi anni di aggiungere alla statistica altri 20 milioni di bisognosi. Dall’altra parte della barricata sta l’1 per cento della popolazione Usa che possiede il 38,6 per cento della ricchezza nazionale e annovera tra i miliardari del mondo una crescita del 25 per cento di americani. Sono questi alcuni dei dati, inseriti nel “Rapporto sulla povertà e i diritti umani”, presentato nella sessione di giugno del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, che hanno portato a definire gli Stati Uniti “una delle società più ineguali tra i Paesi sviluppati”. Philip Alston, docente di diritto internazionale alla Scuola di legge dell’Università di New York, è l’esperto indipendente nominato dal Consiglio dei diritti umani Onu che nel dicembre 2017 ha visitato diversi Stati americani, incontrato rappresentanti politici e della società civile, esperti e studiosi, persone povere e stilato il rapporto che ha portato gli Usa a lasciare il Consiglio, pochi giorni prima della sua presentazione ufficiale, il 22 giugno. Gli americani, secondo l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo, hanno aspettive di vita più basse rispetto ad altri Paesi con una democrazia ricca, sono tra i più ammalati, con il più alto tasso di obesità e non considerano il diritto alla salute, alla nutrizione e alla protezione sociale tra i diritti umani fondamentali dei suoi cittadini. Lo stesso vale per l’istruzione, inserita tra i diritti costituzionali eppure non accessibile ad alti livelli per alcune classi sociali. Il rappresentante Onu si mostra particolarmente preoccupato per l’incidenza che la riforma delle tasse avrà sul welfare del Paese, perché ad essere tagliati saranno soprattutto i programmi sociali e di assistenza che in questo modo garantiranno “migliori standard di vita solo a pochi e che senza una redistribuzione equa dei benefici ci sarà un impoverimento generale che minerà la crescita di tutti i settori e trasformerà il sogno americano nell’illusione americana”. Il rapporto in sei capitoli analizza i vari volti delle povertà e le responsabilità delle politiche messe in atto dalle varie amministrazioni, riportando successi e insuccessi, e conclude con cinque raccomandazioni che invitano a considerare le discriminazioni legate allo stato di povertà, la situazione critica della classe media, i danni prodotti dall’estrema ineguaglianza, il diritto alle cure sanitarie, le conseguenza del taglio delle tasse. Nella narrativa americana i poveri vengono spesso definiti in contrasto con i ricchi: questi ultimi sono industriosi, imprenditori, patriottici e leader di successo in economia; i primi invece sono spreconi, perdenti, truffatori, per lo più afro-americani, ispanici o immigrati in generale. La realtà, oltre la narrativa, mostra invece che i poveri “bianchi” sono 8 milioni in più degli afro-americani e la povertà non esime gli asiatici e tutte le altre etnie presenti nel Paese e a certificarlo sono le statistiche dell’Ufficio statistico nazionale. Il rapporto sottolinea che “non esiste una ricetta magica per eliminare il problema”, ma al contempo denuncia “che lo stato di povertà persistente è una scelta politica fatta da chi detiene il potere e se ci fosse una reale volontà politica, il disagio potrebbe essere eliminato”. Alcune di queste sottolineature hanno fatto infuriare l’ambasciatore americano presso l’Onu, Nikky Halley, che ha definito “palesemente ridicolo” l’esame delle Nazioni Unite soprattutto per aver paragonato l’impegno presidenziale a quello di “governi che abusano consapevolmente dei diritti umani e causano dolore e sofferenza". Eppure l’inviato delle Nazioni Unite non ha fatto altro che raccogliere dati su situazioni note agli organi federali e statali e ha investigato pubblicamente le misure che le politiche governative continuano ad ignorare. Alston sottolinea che le ineguaglianze rischiano di minare l’assetto democratico del Paese e spiega che negli Usa solo il 55,7 per cento della popolazione si reca a votare, mentre circa 6 milioni di afro-americani sono privati del diritto di voto per aver commesso infrazioni contro la legge che li portano ad essere criminali privi di qualunque diritto civile. Sebbene una procedura consenta di riacquisire il diritto al voto, in pochi la perseguono per le lungaggini burocratiche e per la dislocazione degli uffici competenti in materia, talvolta molto distanti dai distretti poveri e senza mezzi pubblici in grado di raggiungerli. Un’enfasi tutta particolare è riservata a uno dei cavalli di battaglia della corrente amministrazione che sostiene l’aumento dei posti di lavoro, anche per persone poco qualificate. Anche se le statistiche rendono ragione delle dichiarazioni, in realtà il mercato del lavoro per queste persone e per i diversamente abili è estremamente limitato, anzitutto per l’impiego della robotica e della tecnologia che mostra chiaramente un’incidenza sulla forza lavoro umana e poi per l’entità degli stipendi che non consento di accedere a cure mediche ed elevati gradi di istruzione. Il rapporto cita il caso della multinazionale Walmart, proprietaria di grandi magazzini e ipermercati alimentari, i cui dipendenti pur lavorando a tempo pieno non riescono a sostenersi senza ricorrere ai buoni alimentari del governo. La catena ha usufruito del taglio di tasse voluto dall’amministrazione Trump e ha promesso di spendere 700milioni di dollari per incrementare i salari e i benefici sanitari per i dipendenti, ma questo affidarsi alla buona volontà e all’altruismo delle aziende non è sufficiente a garantire una diminuzione delle frodi sociali sull’utilizzo del programma alimentare governativo e non abbassa il livello delle ineguaglianze che affligge particolarmente i bambini: sono il 18 per cento dei poveri del Paese e il 31 per cento sono bianchi e non afroamericani, come ordinariamente si crede. Nel rapporto si sottolinea anche l’ineguaglianza di genere che affligge le ragazze madri, i cui figli vivono spesso con 2 dollari al giorno, e le diseguaglianze dei popoli nativi la cui speranza di vita è esattamente la metà del resto del Paese. La relazione si conclude evidenziando la criticità di un gabinetto di governo i cui membri possiedono circa 4,3 miliardi di dollari e che difficilmente potranno occuparsi delle ineguaglianze ma rischiano al contrario di minare “il benessere della democrazia Usa”.]]>

Sono 40 milioni le persone che vivono in stato di povertà assoluta negli Stati Uniti e sono ben 18,6 milioni quelle che vivono in estrema povertà, mentre 5,3 milioni sperimentano condizioni di vita pari al Terzo Mondo. La nuova riforma delle tasse e la deregulation applicata dall’amministrazione Trump nel campo finanziario, medico, ambientale e del welfare rischia nei prossimi anni di aggiungere alla statistica altri 20 milioni di bisognosi. Dall’altra parte della barricata sta l’1 per cento della popolazione Usa che possiede il 38,6 per cento della ricchezza nazionale e annovera tra i miliardari del mondo una crescita del 25 per cento di americani. Sono questi alcuni dei dati, inseriti nel “Rapporto sulla povertà e i diritti umani”, presentato nella sessione di giugno del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, che hanno portato a definire gli Stati Uniti “una delle società più ineguali tra i Paesi sviluppati”. Philip Alston, docente di diritto internazionale alla Scuola di legge dell’Università di New York, è l’esperto indipendente nominato dal Consiglio dei diritti umani Onu che nel dicembre 2017 ha visitato diversi Stati americani, incontrato rappresentanti politici e della società civile, esperti e studiosi, persone povere e stilato il rapporto che ha portato gli Usa a lasciare il Consiglio, pochi giorni prima della sua presentazione ufficiale, il 22 giugno. Gli americani, secondo l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo, hanno aspettive di vita più basse rispetto ad altri Paesi con una democrazia ricca, sono tra i più ammalati, con il più alto tasso di obesità e non considerano il diritto alla salute, alla nutrizione e alla protezione sociale tra i diritti umani fondamentali dei suoi cittadini. Lo stesso vale per l’istruzione, inserita tra i diritti costituzionali eppure non accessibile ad alti livelli per alcune classi sociali. Il rappresentante Onu si mostra particolarmente preoccupato per l’incidenza che la riforma delle tasse avrà sul welfare del Paese, perché ad essere tagliati saranno soprattutto i programmi sociali e di assistenza che in questo modo garantiranno “migliori standard di vita solo a pochi e che senza una redistribuzione equa dei benefici ci sarà un impoverimento generale che minerà la crescita di tutti i settori e trasformerà il sogno americano nell’illusione americana”. Il rapporto in sei capitoli analizza i vari volti delle povertà e le responsabilità delle politiche messe in atto dalle varie amministrazioni, riportando successi e insuccessi, e conclude con cinque raccomandazioni che invitano a considerare le discriminazioni legate allo stato di povertà, la situazione critica della classe media, i danni prodotti dall’estrema ineguaglianza, il diritto alle cure sanitarie, le conseguenza del taglio delle tasse. Nella narrativa americana i poveri vengono spesso definiti in contrasto con i ricchi: questi ultimi sono industriosi, imprenditori, patriottici e leader di successo in economia; i primi invece sono spreconi, perdenti, truffatori, per lo più afro-americani, ispanici o immigrati in generale. La realtà, oltre la narrativa, mostra invece che i poveri “bianchi” sono 8 milioni in più degli afro-americani e la povertà non esime gli asiatici e tutte le altre etnie presenti nel Paese e a certificarlo sono le statistiche dell’Ufficio statistico nazionale. Il rapporto sottolinea che “non esiste una ricetta magica per eliminare il problema”, ma al contempo denuncia “che lo stato di povertà persistente è una scelta politica fatta da chi detiene il potere e se ci fosse una reale volontà politica, il disagio potrebbe essere eliminato”. Alcune di queste sottolineature hanno fatto infuriare l’ambasciatore americano presso l’Onu, Nikky Halley, che ha definito “palesemente ridicolo” l’esame delle Nazioni Unite soprattutto per aver paragonato l’impegno presidenziale a quello di “governi che abusano consapevolmente dei diritti umani e causano dolore e sofferenza". Eppure l’inviato delle Nazioni Unite non ha fatto altro che raccogliere dati su situazioni note agli organi federali e statali e ha investigato pubblicamente le misure che le politiche governative continuano ad ignorare. Alston sottolinea che le ineguaglianze rischiano di minare l’assetto democratico del Paese e spiega che negli Usa solo il 55,7 per cento della popolazione si reca a votare, mentre circa 6 milioni di afro-americani sono privati del diritto di voto per aver commesso infrazioni contro la legge che li portano ad essere criminali privi di qualunque diritto civile. Sebbene una procedura consenta di riacquisire il diritto al voto, in pochi la perseguono per le lungaggini burocratiche e per la dislocazione degli uffici competenti in materia, talvolta molto distanti dai distretti poveri e senza mezzi pubblici in grado di raggiungerli. Un’enfasi tutta particolare è riservata a uno dei cavalli di battaglia della corrente amministrazione che sostiene l’aumento dei posti di lavoro, anche per persone poco qualificate. Anche se le statistiche rendono ragione delle dichiarazioni, in realtà il mercato del lavoro per queste persone e per i diversamente abili è estremamente limitato, anzitutto per l’impiego della robotica e della tecnologia che mostra chiaramente un’incidenza sulla forza lavoro umana e poi per l’entità degli stipendi che non consento di accedere a cure mediche ed elevati gradi di istruzione. Il rapporto cita il caso della multinazionale Walmart, proprietaria di grandi magazzini e ipermercati alimentari, i cui dipendenti pur lavorando a tempo pieno non riescono a sostenersi senza ricorrere ai buoni alimentari del governo. La catena ha usufruito del taglio di tasse voluto dall’amministrazione Trump e ha promesso di spendere 700milioni di dollari per incrementare i salari e i benefici sanitari per i dipendenti, ma questo affidarsi alla buona volontà e all’altruismo delle aziende non è sufficiente a garantire una diminuzione delle frodi sociali sull’utilizzo del programma alimentare governativo e non abbassa il livello delle ineguaglianze che affligge particolarmente i bambini: sono il 18 per cento dei poveri del Paese e il 31 per cento sono bianchi e non afroamericani, come ordinariamente si crede. Nel rapporto si sottolinea anche l’ineguaglianza di genere che affligge le ragazze madri, i cui figli vivono spesso con 2 dollari al giorno, e le diseguaglianze dei popoli nativi la cui speranza di vita è esattamente la metà del resto del Paese. La relazione si conclude evidenziando la criticità di un gabinetto di governo i cui membri possiedono circa 4,3 miliardi di dollari e che difficilmente potranno occuparsi delle ineguaglianze ma rischiano al contrario di minare “il benessere della democrazia Usa”.]]>
Ma l’Onu che fa per la Siria? https://www.lavoce.it/lonu-la-siria/ Fri, 20 Apr 2018 10:18:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51727

di Pier Giorgio Lignani Quando scoppiano le gravi crisi internazionali, come quella di questi giorni intorno alla Siria, e sembra di essere sull’orlo della terza guerra mondiale, viene spontaneo chiedersi: ma che fa l’Onu? Perché non interviene l’Onu? La risposta potrebbe essere questa: non fa niente perché non esiste. Naturalmente non è vero. L’Onu esiste e fa moltissime cose, direttamente o a mezzo delle sue agenzie specializzate, come la Fao, l’Unicef, l’Unesco, e tante altre. Ed è il luogo virtuale e anche fisico - dove gli Stati, prima di farsi guerra, possono incontrarsi e discutere, e già questo è un grande aiuto per la pace. Ma se si pensa all’Onu come a una vera autorità sovranazionale - un supergoverno o un supertribunale capace di riparare i torti, ristabilire il buon diritto e fare stare a dovere i prepotenti – ebbene, un’Onu così non esiste. Non esiste perché, anche se fosse capace di prendere le decisioni importanti che in certi momenti sarebbero necessarie, non avrebbe i mezzi per farle rispettare contro la volontà degli Stati interessati. È vero che qua e là nel mondo ci sono contingenti di forze armate con le insegne dell’Onu (i famosi “caschiblu”), una specie di polizia internazionale con il compito di mantenere la pace in certi punti caldi. Ma, di fatto, strumenti di questo tipo possono funzionare solo dove il conflitto riguarda piccole realtà locali; e soprattutto, possono essere impiegati solo se le grandi potenze sono tutte d’accordo nel permetterlo. E questo succedemolto di rado. Ma il problema non è solo che l’Onu non è in grado di far eseguire le sue decisioni. Il male è più radicale, ed è che l’Onu non è in grado neppure di prenderle, quelle decisioni. Chi dovrebbe prenderle, infatti? L’Onu non ha organi politici di vertice, come un Presidente o un Governo. Ha un Segretario generale, che però è solo un funzionario tecnico e si occupa dell’amministrazione. Gli organi decisionali sono l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza. Ma l’Assemblea generale non è una specie di Parlamento; è piuttosto come un’assemblea di condominio. Cioè un luogo dove ognuno rappresenta il proprio interesse individuale, e si cura dell’interesse collettivo solo nella misura in cui esso coincida con il proprio. Che cosa distingue un Parlamento da un’assemblea di condominio? È quel principio che si trova scritto nell’articolo 67 della nostra Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Adesso c’è qualcuno che vuole cambiare questa regola, ma essa è fondamentale, perché spiega che il compito di ogni membro del Parlamento è quello di curare l’interesse generale del Paese, non quello di un gruppo o di un territorio, anche se si tratta dei suoi elettori; agli interessi locali penseranno gli amministratori locali. Poi dentro il Parlamento ci saranno interpretazioni e scelte diverse, ma tutti dovranno prendere come punto di riferimento l’interesse nazionale. All’Onu questa regola non c’è: sia nell’Assemblea generale, sia nel Consiglio di sicurezza, non c’è nessuno che istituzionalmente abbia il compito di rappresentare l’interesse generale (che in questo caso è l’interesse dell’umanità) ma chi parla rappresenta il proprio Paese e il proprio Governo e vota secondo le istruzioni che ha ricevuto (il famoso vincolo di mandato). La cosa si complica nel Consiglio di sicurezza – che poi è quello che prende le decisioni operative – perché lì, com’è noto, ci sono membri che sono “più uguali degli altri”, e sono i cinque Stati fondatori, i vincitori della Seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) ciascuno dei quali ha il diritto di veto. Quindi, una decisione importante passa solo se ciascuno di questi cinque è d’accordo. Per la questione siriana (come per tante altre) l’accordo fra i cinque non c’è, e il discorso è chiuso. Per uscire da queste situazioni di stallo ci vorrebbe una forte spinta – condivisa da tutti nel mondo – per rafforzare le istituzioni dell’Onu e farne veramente un centro di potere sovranazionale. Un obiettivo difficile da progettare, se non utopistico. Per di più, adesso va di moda il “sovranismo” e non è nemmeno il caso di parlarne.  ]]>

di Pier Giorgio Lignani Quando scoppiano le gravi crisi internazionali, come quella di questi giorni intorno alla Siria, e sembra di essere sull’orlo della terza guerra mondiale, viene spontaneo chiedersi: ma che fa l’Onu? Perché non interviene l’Onu? La risposta potrebbe essere questa: non fa niente perché non esiste. Naturalmente non è vero. L’Onu esiste e fa moltissime cose, direttamente o a mezzo delle sue agenzie specializzate, come la Fao, l’Unicef, l’Unesco, e tante altre. Ed è il luogo virtuale e anche fisico - dove gli Stati, prima di farsi guerra, possono incontrarsi e discutere, e già questo è un grande aiuto per la pace. Ma se si pensa all’Onu come a una vera autorità sovranazionale - un supergoverno o un supertribunale capace di riparare i torti, ristabilire il buon diritto e fare stare a dovere i prepotenti – ebbene, un’Onu così non esiste. Non esiste perché, anche se fosse capace di prendere le decisioni importanti che in certi momenti sarebbero necessarie, non avrebbe i mezzi per farle rispettare contro la volontà degli Stati interessati. È vero che qua e là nel mondo ci sono contingenti di forze armate con le insegne dell’Onu (i famosi “caschiblu”), una specie di polizia internazionale con il compito di mantenere la pace in certi punti caldi. Ma, di fatto, strumenti di questo tipo possono funzionare solo dove il conflitto riguarda piccole realtà locali; e soprattutto, possono essere impiegati solo se le grandi potenze sono tutte d’accordo nel permetterlo. E questo succedemolto di rado. Ma il problema non è solo che l’Onu non è in grado di far eseguire le sue decisioni. Il male è più radicale, ed è che l’Onu non è in grado neppure di prenderle, quelle decisioni. Chi dovrebbe prenderle, infatti? L’Onu non ha organi politici di vertice, come un Presidente o un Governo. Ha un Segretario generale, che però è solo un funzionario tecnico e si occupa dell’amministrazione. Gli organi decisionali sono l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza. Ma l’Assemblea generale non è una specie di Parlamento; è piuttosto come un’assemblea di condominio. Cioè un luogo dove ognuno rappresenta il proprio interesse individuale, e si cura dell’interesse collettivo solo nella misura in cui esso coincida con il proprio. Che cosa distingue un Parlamento da un’assemblea di condominio? È quel principio che si trova scritto nell’articolo 67 della nostra Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Adesso c’è qualcuno che vuole cambiare questa regola, ma essa è fondamentale, perché spiega che il compito di ogni membro del Parlamento è quello di curare l’interesse generale del Paese, non quello di un gruppo o di un territorio, anche se si tratta dei suoi elettori; agli interessi locali penseranno gli amministratori locali. Poi dentro il Parlamento ci saranno interpretazioni e scelte diverse, ma tutti dovranno prendere come punto di riferimento l’interesse nazionale. All’Onu questa regola non c’è: sia nell’Assemblea generale, sia nel Consiglio di sicurezza, non c’è nessuno che istituzionalmente abbia il compito di rappresentare l’interesse generale (che in questo caso è l’interesse dell’umanità) ma chi parla rappresenta il proprio Paese e il proprio Governo e vota secondo le istruzioni che ha ricevuto (il famoso vincolo di mandato). La cosa si complica nel Consiglio di sicurezza – che poi è quello che prende le decisioni operative – perché lì, com’è noto, ci sono membri che sono “più uguali degli altri”, e sono i cinque Stati fondatori, i vincitori della Seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) ciascuno dei quali ha il diritto di veto. Quindi, una decisione importante passa solo se ciascuno di questi cinque è d’accordo. Per la questione siriana (come per tante altre) l’accordo fra i cinque non c’è, e il discorso è chiuso. Per uscire da queste situazioni di stallo ci vorrebbe una forte spinta – condivisa da tutti nel mondo – per rafforzare le istituzioni dell’Onu e farne veramente un centro di potere sovranazionale. Un obiettivo difficile da progettare, se non utopistico. Per di più, adesso va di moda il “sovranismo” e non è nemmeno il caso di parlarne.  ]]>