Myanmar Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/myanmar/ Settimanale di informazione regionale Thu, 18 Feb 2021 18:24:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Myanmar Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/myanmar/ 32 32 Il Myanmar torna in mano all’aristocrazia militare https://www.lavoce.it/il-myanmar-torna-in-mano-allaristocrazia-militare/ Thu, 18 Feb 2021 18:24:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59269 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

Le notizie dal Myanmar arrivano con il contagocce. L’informazione è tra i primi diritti che vengono repressi. Anche il traffico della rete internet è stato oscurato. I generali sembrano aver dichiarato guerra agli abitanti del Paese perché il dissenso tra la popolazione sembra essere diffuso, dilagante, pressoché totale. Da una parte ci sono elezioni condotte regolarmente, che hanno inteso affidare le sorti del Paese alla National League for Democracy (Nld: Lega nazionale per la democrazia) della Nobel della pace Aung San Suu Kyi, e dall’altra un gruppo di militari d’altissimo rango che vedono traballare i propri interessi economici. Centrale è il ruolo della Cina che, a quanto pare, vede garantita la sudditanza economica dell’ex Birmania più grazie ai militari che alla democrazia. Si teme che la repressione possa sfociare in una strage con migliaia di morti, come è già nel 1988 e nel 2007, quando la “rivolta zafferano” guidata dai monaci aveva fatto tremare il regime. La comunità internazionale, davanti a questo rischio, non può continuare a restare sugli spalti. Potrebbe piuttosto cominciare a comminare sanzioni economiche, non contro la popolazione ma congelando il denaro che i militari hanno depositato nelle banche estere per tenerli al sicuro. Tonio Dell’Olio]]>
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Le notizie dal Myanmar arrivano con il contagocce. L’informazione è tra i primi diritti che vengono repressi. Anche il traffico della rete internet è stato oscurato. I generali sembrano aver dichiarato guerra agli abitanti del Paese perché il dissenso tra la popolazione sembra essere diffuso, dilagante, pressoché totale. Da una parte ci sono elezioni condotte regolarmente, che hanno inteso affidare le sorti del Paese alla National League for Democracy (Nld: Lega nazionale per la democrazia) della Nobel della pace Aung San Suu Kyi, e dall’altra un gruppo di militari d’altissimo rango che vedono traballare i propri interessi economici. Centrale è il ruolo della Cina che, a quanto pare, vede garantita la sudditanza economica dell’ex Birmania più grazie ai militari che alla democrazia. Si teme che la repressione possa sfociare in una strage con migliaia di morti, come è già nel 1988 e nel 2007, quando la “rivolta zafferano” guidata dai monaci aveva fatto tremare il regime. La comunità internazionale, davanti a questo rischio, non può continuare a restare sugli spalti. Potrebbe piuttosto cominciare a comminare sanzioni economiche, non contro la popolazione ma congelando il denaro che i militari hanno depositato nelle banche estere per tenerli al sicuro. Tonio Dell’Olio]]>
Pasqua nel mondo. Sussurri di preghiera e grida di allarme https://www.lavoce.it/pasqua-nel-mondo-sussurri-di-preghiera-e-grida-di-allarme/ Thu, 09 Apr 2020 14:54:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56877

Praticamente in tutto il mondo, quest’anno le celebrazioni pasquali saranno condizionate dall’emergenza coronavirus. “Sarà una Pasqua - dice il custode francescano di Terra Santa, padre Francesco Patton - in tono minore per ciò che concerne l’apparato celebrativo, ma alla quale non mancherà assolutamente nulla del suo mistero più profondo, che è la risurrezione con cui Cristo ha sconfitto per sempre la morte”. Nei territori amministrati dallo Stato di Israele la pandemia ha provocato finora migliaia di contagiati e decine di vittime. Costringendo le autorità a imporre - tra il resto - anche la chiusura della basilica del Santo Sepolcro. Le celebrazioni avverranno quindi senza il concorso di fedeli e dei gruppi di pellegrini, tutti cancellati. “Nel corso della storia – aggiunge padre Patton – i cristiani hanno spesso dovuto vivere la Pasqua con il cuore fermo al Venerdì santo. Penso ai tanti nostri fratelli che continuano a vivere ancora oggi la Pasqua in contesti di tensioni e guerre come in Siria e in Libia, per esempio. Ma è proprio in queste situazioni che deve penetrare la luce pasquale, così come negli stati di sofferenza e di morte”.

Le Chiese dell’Asia

Facendo virtualmente un giro per il mondo tramite le informazioni fornite dall’agenzia Fides, si vede come alle diverse latitudini le moderne tecnologie aiutino a seguire i riti della liturgia. Il simultaneo espandersi della pandemia crea pesanti drammi in alcuni territori. In Asia, il Covid-19 ha colpito più nazioni delle guerre mondiali. La Chiesa cattolica in nazioni quali Filippine, India, Giappone, Indonesia, Myanmar, Malesia, Vietnam, Corea del Sud, Sri Lanka, Bangladesh, invitando i fedeli a “restare a casa”, ha fatto ricorso alla tecnologia per mantenere un contatto, una relazione comunitaria e una pratica di culto in questo eccezionale momento di crisi. “Questo è un momento per essere uniti come comunità dei battezzati, ritirarsi in preghiera e porsi in ginocchio per pregare gli uni per gli altri”: scrivono le Chiese asiatiche, consigliando ai fedeli di assistere alle celebrazioni religiose in diretta streaming online o via cavo, su reti televisive locali, stazioni radio; hanno intanto potenziato tutti i canali digitali, come i social media, per raggiungere e interagire con i fedeli. La tecnologia comunque non è diffusa in modo omogeneo sul Continente.

Iraq

In Iraq - scrive il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako - i cristiani “non possono celebrare i vari momenti liturgici” a causa dell’emergenza, ma “continuano a pregare nelle proprie case. È viva la speranza che ci sarà il ‘passaggio’ dall’oscurità alla luce, dalla fragilità alla forza, dalle malattie alla guarigione”. I tanti mali che affliggono il presente – rimarca il Primate della Chiesa caldea – chiamano in causa anche la responsabilità e l’auspicabile autocritica di chi esercita il potere. “L’infezione da coronavirus, le guerre, i conflitti in più Paesi con migliaia di morti e feriti, i milioni di sfollati, le infrastrutture distrutte devono essere per i leader politici del mondo momenti di riflessione che li aiutino a rivedere le loro strategie politiche, correggerle e fornire risposte concrete che rispettino la vita in ogni sua forma e l’ambiente, contrastando l’inquinamento, il cambiamento climatico, e cessando la produzione di armi che generano per se stesse la morte”.

Fedeli in stato di allerta

Dall’Africa un appello particolarmente accorato è giunto dall’arcivescovo di Kinshasa, card. Fridolin Ambongo Besungu. In una Repubblica democratica del Congo in cui non si è ancora dileguato l’incubo Ebola - afferma - “siamo terrorizzati dalla possibile diffusione del Covid-19. Non avremmo né mezzi né soluzioni logistiche per affrontarla, e sarebbe un disastro. C’è forte timore perché il numero dei contagiati sale di giorno in giorno. La mia diocesi è quella più colpita: la maggior parte dei casi si concentra nella Capitale, dove abitano 12 milioni di persone. Temiamo una diffusione anche nella altre aree del Paese. Sui notiziari osserviamo quanto sta avvenendo in Italia, in Spagna, in America, e non osiamo immaginare cosa sarebbe qui, se anche una minima parte di ciò che è successo lì, accadesse da noi”.

Messico

Sull’altra sponda dell’Atlantico, in Messico la Chiesa cattolica ha lanciato un appello alla popolazione perché pratichi la carità e sostenga i più vulnerabili: la crisi economica infatti colpisce i più poveri, quelli che campavano alla giornata. La Conferenza episcopale messicana ha anche pubblicato un vademecum sul ruolo del sacerdote dinanzi all’emergenza. “Non è il momento - vi si legge - di rilassarci nella nostra vita spirituale. Non ci permettiamo di abbassare la guardia verso questo grande rischio di contagio. Cerchiamo di essere attenti a sapere come prenderci cura di noi stessi. Come essere buoni pastori di tutta la comunità cristiana che Dio ci ha affidato”.

Australia

Una storia particolare arriva dall’Australia. Il Consiglio nazionale cattolico degli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres chiede ai fedeli di approfittare del periodo di isolamento sociale, volto a contenere l’emergenza del coronavirus, per farsi ispirare dalle parole che Giovanni Paolo II rivolse agli aborigeni e agli isolani nel 1986, perché “il suo messaggio all’epoca suonò rivoluzionario, ma nelle attuali circostanze ci dona speranza e forza, e la consapevolezza di essere una nazione unita contro una minaccia comune”. Disse Wojtyla: “La Chiesa in Australia non sarà pienamente la Chiesa voluta da Gesù finché non avrete portato il vostro contributo alla sua vita, e finché questo contributo non sarà stato accolto con gioia dagli altri”. D. R.]]>

Praticamente in tutto il mondo, quest’anno le celebrazioni pasquali saranno condizionate dall’emergenza coronavirus. “Sarà una Pasqua - dice il custode francescano di Terra Santa, padre Francesco Patton - in tono minore per ciò che concerne l’apparato celebrativo, ma alla quale non mancherà assolutamente nulla del suo mistero più profondo, che è la risurrezione con cui Cristo ha sconfitto per sempre la morte”. Nei territori amministrati dallo Stato di Israele la pandemia ha provocato finora migliaia di contagiati e decine di vittime. Costringendo le autorità a imporre - tra il resto - anche la chiusura della basilica del Santo Sepolcro. Le celebrazioni avverranno quindi senza il concorso di fedeli e dei gruppi di pellegrini, tutti cancellati. “Nel corso della storia – aggiunge padre Patton – i cristiani hanno spesso dovuto vivere la Pasqua con il cuore fermo al Venerdì santo. Penso ai tanti nostri fratelli che continuano a vivere ancora oggi la Pasqua in contesti di tensioni e guerre come in Siria e in Libia, per esempio. Ma è proprio in queste situazioni che deve penetrare la luce pasquale, così come negli stati di sofferenza e di morte”.

Le Chiese dell’Asia

Facendo virtualmente un giro per il mondo tramite le informazioni fornite dall’agenzia Fides, si vede come alle diverse latitudini le moderne tecnologie aiutino a seguire i riti della liturgia. Il simultaneo espandersi della pandemia crea pesanti drammi in alcuni territori. In Asia, il Covid-19 ha colpito più nazioni delle guerre mondiali. La Chiesa cattolica in nazioni quali Filippine, India, Giappone, Indonesia, Myanmar, Malesia, Vietnam, Corea del Sud, Sri Lanka, Bangladesh, invitando i fedeli a “restare a casa”, ha fatto ricorso alla tecnologia per mantenere un contatto, una relazione comunitaria e una pratica di culto in questo eccezionale momento di crisi. “Questo è un momento per essere uniti come comunità dei battezzati, ritirarsi in preghiera e porsi in ginocchio per pregare gli uni per gli altri”: scrivono le Chiese asiatiche, consigliando ai fedeli di assistere alle celebrazioni religiose in diretta streaming online o via cavo, su reti televisive locali, stazioni radio; hanno intanto potenziato tutti i canali digitali, come i social media, per raggiungere e interagire con i fedeli. La tecnologia comunque non è diffusa in modo omogeneo sul Continente.

Iraq

In Iraq - scrive il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako - i cristiani “non possono celebrare i vari momenti liturgici” a causa dell’emergenza, ma “continuano a pregare nelle proprie case. È viva la speranza che ci sarà il ‘passaggio’ dall’oscurità alla luce, dalla fragilità alla forza, dalle malattie alla guarigione”. I tanti mali che affliggono il presente – rimarca il Primate della Chiesa caldea – chiamano in causa anche la responsabilità e l’auspicabile autocritica di chi esercita il potere. “L’infezione da coronavirus, le guerre, i conflitti in più Paesi con migliaia di morti e feriti, i milioni di sfollati, le infrastrutture distrutte devono essere per i leader politici del mondo momenti di riflessione che li aiutino a rivedere le loro strategie politiche, correggerle e fornire risposte concrete che rispettino la vita in ogni sua forma e l’ambiente, contrastando l’inquinamento, il cambiamento climatico, e cessando la produzione di armi che generano per se stesse la morte”.

Fedeli in stato di allerta

Dall’Africa un appello particolarmente accorato è giunto dall’arcivescovo di Kinshasa, card. Fridolin Ambongo Besungu. In una Repubblica democratica del Congo in cui non si è ancora dileguato l’incubo Ebola - afferma - “siamo terrorizzati dalla possibile diffusione del Covid-19. Non avremmo né mezzi né soluzioni logistiche per affrontarla, e sarebbe un disastro. C’è forte timore perché il numero dei contagiati sale di giorno in giorno. La mia diocesi è quella più colpita: la maggior parte dei casi si concentra nella Capitale, dove abitano 12 milioni di persone. Temiamo una diffusione anche nella altre aree del Paese. Sui notiziari osserviamo quanto sta avvenendo in Italia, in Spagna, in America, e non osiamo immaginare cosa sarebbe qui, se anche una minima parte di ciò che è successo lì, accadesse da noi”.

Messico

Sull’altra sponda dell’Atlantico, in Messico la Chiesa cattolica ha lanciato un appello alla popolazione perché pratichi la carità e sostenga i più vulnerabili: la crisi economica infatti colpisce i più poveri, quelli che campavano alla giornata. La Conferenza episcopale messicana ha anche pubblicato un vademecum sul ruolo del sacerdote dinanzi all’emergenza. “Non è il momento - vi si legge - di rilassarci nella nostra vita spirituale. Non ci permettiamo di abbassare la guardia verso questo grande rischio di contagio. Cerchiamo di essere attenti a sapere come prenderci cura di noi stessi. Come essere buoni pastori di tutta la comunità cristiana che Dio ci ha affidato”.

Australia

Una storia particolare arriva dall’Australia. Il Consiglio nazionale cattolico degli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres chiede ai fedeli di approfittare del periodo di isolamento sociale, volto a contenere l’emergenza del coronavirus, per farsi ispirare dalle parole che Giovanni Paolo II rivolse agli aborigeni e agli isolani nel 1986, perché “il suo messaggio all’epoca suonò rivoluzionario, ma nelle attuali circostanze ci dona speranza e forza, e la consapevolezza di essere una nazione unita contro una minaccia comune”. Disse Wojtyla: “La Chiesa in Australia non sarà pienamente la Chiesa voluta da Gesù finché non avrete portato il vostro contributo alla sua vita, e finché questo contributo non sarà stato accolto con gioia dagli altri”. D. R.]]>
Giornata del rifugiato. Oltre 70 milioni di persone in fuga, la metà sono bambini https://www.lavoce.it/rifugiati-70-milioni-bambini/ Thu, 20 Jun 2019 12:05:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54743 rifugiati

È di nuovo record di persone in fuga nel mondo: sono state 70,8 milioni nel 2018, con un aumento di 2,3 milioni di persone rispetto all’anno precedente, il dato più alto degli ultimi 70 anni, pressoché raddoppiato rispetto a vent’anni fa.

Da dove vengono

Di questi 25,9 milioni hanno lo status di rifugiati (500.000 in più del 2017), 41,3 milioni sono sfollati interni ai Paesi (soprattutto in Colombia e Siria), 3,5 milioni sono richiedenti asilo. L’80% delle persone in fuga vive in Paesi confinanti con i propri Paesi di origine, quindi prevalentemente nei Paesi a medio o basso reddito. E non nel primo mondo come si pensa. Per il quinto anno consecutivo è infatti la Turchia, con 3,7 milioni di persone ad accogliere il numero più elevato di rifugiati nel mondo, seguita dal Pakistan (1,4 milioni), dall’Uganda (1,2 milioni), dal Sudan (1,1 milione) e dalla Germania con 1 milione. Complessivamente il 60% di tutti i rifugiati provengono da soli 5 Paesi: Siria (6,7 milioni), Afghanistan (2,7 milioni), Sud Sudan (2,3 milioni), Myanmar (1, 1 milione), Somalia (0,9 milioni). I nuovi sfollati nel 2018 sono stati 13,6 milioni, tra i quali oltre 10 milioni di sfollati all’interno del proprio Paese e 2,8 milioni nuovi rifugiati e richiedenti asilo. Il numero più elevato di domande d’asilo è stato presentato dai venezuelani: 341.800 a fronte di circa 4 milioni di persone che hanno lasciato il loro Paese a causa della grave crisi politica e umanitaria. Sono le principali cifre dei Global trends 2018, le tendenze globali delle migrazioni, presentate oggi a Roma dall’Alto commissariato per le Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato che si celebra domani, 20 giugno, in tutto il mondo.
37.000 persone al giorno sono dunque costrette a fuggire dalle proprie case: il 16% dei rifugiati sono stati accolti in Paesi sviluppati ma un terzo della popolazione (6,7 milioni) si trovava nei Paesi meno sviluppati. Nel 2018 però anche 2,9 milioni di persone hanno fatto ritorno alla loro casa, anche se i reinsediamenti nei paesi terzi sono stati solamente 92.400. Tra i nuovi richiedenti asilo il numero più elevato è rappresentato dai venezuelani: 341.800. I paesi ad alto reddito accolgono solo 2,7 rifugiati ogni 1000 abitanti. I Paesi a reddito medio e medio basso accolgono 5,8 rifugiati ogni 1000 abitanti. I paesi più poveri accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale. Tra i rifugiati 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione.

La metà sono bambini

La metà dei rifugiati sono minori, una percentuale in aumento rispetto al 41% del 2009. Di questi 138.600 sono minori soli, separati dalle famiglie e non accompagnati, che hanno presentato domanda di asilo individualmente.
Tra i 25,9 milioni di rifugiati su scala mondiale, almeno 5,5 milioni sono palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations relief and works agency/Unrwa). “La crescita complessiva del numero di persone costrette alla fuga è continuata a una rapidità maggiore di quella con cui si trovano soluzioni in loro favore – ha spiegato Carlotta Sami, portavoce di Unhcr Italia -. La soluzione migliore è rappresentata dalla possibilità di fare ritorno nel proprio Paese volontariamente, in condizioni sicure e dignitose. Altre soluzioni prevedono l’integrazione nella comunità di accoglienza o il reinsediamento in un Paese terzo”. Tuttavia, nel 2018 solo 92.400 rifugiati sono stati reinsediati, meno del 7% di quanti sono in attesa. Circa 593.800 rifugiati hanno potuto fare ritorno nel proprio Paese, mentre 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione. La migrazione è un fenomeno prevalentemente urbano: è più probabile che un rifugiato viva in paese o in città (61%), piuttosto che in aree rurali o in un campo rifugiati.

Accolti da Pesi poveri

Un terzo di tutti i rifugiati accolti dai Paesi poveri. Un dato eclatante è che i Paesi ad alto reddito accolgono mediamente 2,7 rifugiati ogni 1.000 abitanti; i Paesi a reddito medio e medio-basso ne accolgono in media 5,8 ogni 1.000 abitanti; i Paesi più poveri accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale. Il Paese dove il rapporto tra rifugiati e popolazione è maggiore è in Libano: 156 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Un rifugiato ogni 6 libanesi. A seguire Giordania e Turchia.

Italia

In Italia, dove vivono 130.000 rifugiati (non riempirebbero nemmeno il Circo Massimo), il rapporto è di 3 rifugiati ogni 1.000 abitanti. L’Italia è anche al 10° posto nel mondo per nuove domande di asilo: 48.900, un numero dimezzato rispetto ad un anno prima, quando era al terzo posto dopo Stati Uniti e Germania. Ora i primi destinatari di richieste d’asilo sono Stati Uniti, Perù (dal Venezuela) e Germania. Quasi 4 rifugiati su 5 hanno vissuto da rifugiati almeno per cinque anni. Un rifugiato su 5 è rimasto in tale condizione per almeno 20 anni.  “Sono cifre molto preoccupanti – ha detto Luigi Maria Vignali, del Ministero degli affari esteri -. Confermano una difficoltà maggiore ad accoglierli e a proteggerli”. Vignali ha ricordato che l’Italia ha realizzato 700 evacuazioni umanitarie dalla Libia in un anno e mezzo e reinsediato 2.500 rifugiati negli ultimi anni. “I corridoi umanitari – ha detto – sono una eccellenza italiana, un partenariato tra società civile e istituzioni che ha successo. E’ ora il momento di pensare a corridoi umanitari europei”.

Caritas: "Il Governo faccia la sua parte"

“I corridoi umanitari non possono essere l’unico strumento legale per entrare in Italia in modo legale e sicuro – ha obiettato durante la conferenza stampa Caterina Boca, dell’ufficio politiche migratorie e protezione internazionale di Caritas italiana -. Il governo italiano deve individuare politiche di governance per le persone che chiedono protezione e assistenza e avviare un processo che consenta di favorire gli ingressi in maniera legale. Le organizzazioni e gli enti del terzo settore non possono essere caricate, a proprie spese, di responsabilità che devono essere una prerogativa governativa. Il governo deve fare la sua parte, nel rispetto delle direttive internazionali e della Convenzione di Ginevra”. Boca ha ricordato che dal settembre 2015 ad oggi (quando Papa Francesco lanciò l’appello ad accogliere i profughi a parrocchie e comunità), sono state portate in Italia 500 persone con i corridoi umanitari, principalmente dall’Etiopia. Si tratta di eritrei, somali, sud sudanesi in fuga da persecuzioni e conflitti, che vivevano da anni in campi profughi in condizioni di grande vulnerabilità.

La Campagna #IoAccolgo

Durante l’incontro Caritas italiana ha distribuito a tutti i presenti le coperte termiche usate per proteggere i migranti tratti in salvo, oggetto simbolico della campagna #IoAccolgo, lanciata la scorsa settimana avanti da 46 organizzazioni della società civile “per raccontare i tanti presidi sanitari, sociali, di legalità che già esistono, nonostante il fenomeno sia raccontato in maniera ostile”. L’invito è a stendere sul proprio balcone una coperta termica. Domani e nei prossimi giorni, per la Giornata mondiale del rifugiato, sono previste in tutta Italia moltissime iniziative artistiche, culturali e gastronomiche, tra cui le giornate “Porte aperte” dei centri di accoglienza, per favorire l’incontro tra i rifugiati e le comunità. Info: www.unhcr.it/withrefugees]]>
rifugiati

È di nuovo record di persone in fuga nel mondo: sono state 70,8 milioni nel 2018, con un aumento di 2,3 milioni di persone rispetto all’anno precedente, il dato più alto degli ultimi 70 anni, pressoché raddoppiato rispetto a vent’anni fa.

Da dove vengono

Di questi 25,9 milioni hanno lo status di rifugiati (500.000 in più del 2017), 41,3 milioni sono sfollati interni ai Paesi (soprattutto in Colombia e Siria), 3,5 milioni sono richiedenti asilo. L’80% delle persone in fuga vive in Paesi confinanti con i propri Paesi di origine, quindi prevalentemente nei Paesi a medio o basso reddito. E non nel primo mondo come si pensa. Per il quinto anno consecutivo è infatti la Turchia, con 3,7 milioni di persone ad accogliere il numero più elevato di rifugiati nel mondo, seguita dal Pakistan (1,4 milioni), dall’Uganda (1,2 milioni), dal Sudan (1,1 milione) e dalla Germania con 1 milione. Complessivamente il 60% di tutti i rifugiati provengono da soli 5 Paesi: Siria (6,7 milioni), Afghanistan (2,7 milioni), Sud Sudan (2,3 milioni), Myanmar (1, 1 milione), Somalia (0,9 milioni). I nuovi sfollati nel 2018 sono stati 13,6 milioni, tra i quali oltre 10 milioni di sfollati all’interno del proprio Paese e 2,8 milioni nuovi rifugiati e richiedenti asilo. Il numero più elevato di domande d’asilo è stato presentato dai venezuelani: 341.800 a fronte di circa 4 milioni di persone che hanno lasciato il loro Paese a causa della grave crisi politica e umanitaria. Sono le principali cifre dei Global trends 2018, le tendenze globali delle migrazioni, presentate oggi a Roma dall’Alto commissariato per le Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato che si celebra domani, 20 giugno, in tutto il mondo.
37.000 persone al giorno sono dunque costrette a fuggire dalle proprie case: il 16% dei rifugiati sono stati accolti in Paesi sviluppati ma un terzo della popolazione (6,7 milioni) si trovava nei Paesi meno sviluppati. Nel 2018 però anche 2,9 milioni di persone hanno fatto ritorno alla loro casa, anche se i reinsediamenti nei paesi terzi sono stati solamente 92.400. Tra i nuovi richiedenti asilo il numero più elevato è rappresentato dai venezuelani: 341.800. I paesi ad alto reddito accolgono solo 2,7 rifugiati ogni 1000 abitanti. I Paesi a reddito medio e medio basso accolgono 5,8 rifugiati ogni 1000 abitanti. I paesi più poveri accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale. Tra i rifugiati 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione.

La metà sono bambini

La metà dei rifugiati sono minori, una percentuale in aumento rispetto al 41% del 2009. Di questi 138.600 sono minori soli, separati dalle famiglie e non accompagnati, che hanno presentato domanda di asilo individualmente.
Tra i 25,9 milioni di rifugiati su scala mondiale, almeno 5,5 milioni sono palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations relief and works agency/Unrwa). “La crescita complessiva del numero di persone costrette alla fuga è continuata a una rapidità maggiore di quella con cui si trovano soluzioni in loro favore – ha spiegato Carlotta Sami, portavoce di Unhcr Italia -. La soluzione migliore è rappresentata dalla possibilità di fare ritorno nel proprio Paese volontariamente, in condizioni sicure e dignitose. Altre soluzioni prevedono l’integrazione nella comunità di accoglienza o il reinsediamento in un Paese terzo”. Tuttavia, nel 2018 solo 92.400 rifugiati sono stati reinsediati, meno del 7% di quanti sono in attesa. Circa 593.800 rifugiati hanno potuto fare ritorno nel proprio Paese, mentre 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione. La migrazione è un fenomeno prevalentemente urbano: è più probabile che un rifugiato viva in paese o in città (61%), piuttosto che in aree rurali o in un campo rifugiati.

Accolti da Pesi poveri

Un terzo di tutti i rifugiati accolti dai Paesi poveri. Un dato eclatante è che i Paesi ad alto reddito accolgono mediamente 2,7 rifugiati ogni 1.000 abitanti; i Paesi a reddito medio e medio-basso ne accolgono in media 5,8 ogni 1.000 abitanti; i Paesi più poveri accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale. Il Paese dove il rapporto tra rifugiati e popolazione è maggiore è in Libano: 156 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Un rifugiato ogni 6 libanesi. A seguire Giordania e Turchia.

Italia

In Italia, dove vivono 130.000 rifugiati (non riempirebbero nemmeno il Circo Massimo), il rapporto è di 3 rifugiati ogni 1.000 abitanti. L’Italia è anche al 10° posto nel mondo per nuove domande di asilo: 48.900, un numero dimezzato rispetto ad un anno prima, quando era al terzo posto dopo Stati Uniti e Germania. Ora i primi destinatari di richieste d’asilo sono Stati Uniti, Perù (dal Venezuela) e Germania. Quasi 4 rifugiati su 5 hanno vissuto da rifugiati almeno per cinque anni. Un rifugiato su 5 è rimasto in tale condizione per almeno 20 anni.  “Sono cifre molto preoccupanti – ha detto Luigi Maria Vignali, del Ministero degli affari esteri -. Confermano una difficoltà maggiore ad accoglierli e a proteggerli”. Vignali ha ricordato che l’Italia ha realizzato 700 evacuazioni umanitarie dalla Libia in un anno e mezzo e reinsediato 2.500 rifugiati negli ultimi anni. “I corridoi umanitari – ha detto – sono una eccellenza italiana, un partenariato tra società civile e istituzioni che ha successo. E’ ora il momento di pensare a corridoi umanitari europei”.

Caritas: "Il Governo faccia la sua parte"

“I corridoi umanitari non possono essere l’unico strumento legale per entrare in Italia in modo legale e sicuro – ha obiettato durante la conferenza stampa Caterina Boca, dell’ufficio politiche migratorie e protezione internazionale di Caritas italiana -. Il governo italiano deve individuare politiche di governance per le persone che chiedono protezione e assistenza e avviare un processo che consenta di favorire gli ingressi in maniera legale. Le organizzazioni e gli enti del terzo settore non possono essere caricate, a proprie spese, di responsabilità che devono essere una prerogativa governativa. Il governo deve fare la sua parte, nel rispetto delle direttive internazionali e della Convenzione di Ginevra”. Boca ha ricordato che dal settembre 2015 ad oggi (quando Papa Francesco lanciò l’appello ad accogliere i profughi a parrocchie e comunità), sono state portate in Italia 500 persone con i corridoi umanitari, principalmente dall’Etiopia. Si tratta di eritrei, somali, sud sudanesi in fuga da persecuzioni e conflitti, che vivevano da anni in campi profughi in condizioni di grande vulnerabilità.

La Campagna #IoAccolgo

Durante l’incontro Caritas italiana ha distribuito a tutti i presenti le coperte termiche usate per proteggere i migranti tratti in salvo, oggetto simbolico della campagna #IoAccolgo, lanciata la scorsa settimana avanti da 46 organizzazioni della società civile “per raccontare i tanti presidi sanitari, sociali, di legalità che già esistono, nonostante il fenomeno sia raccontato in maniera ostile”. L’invito è a stendere sul proprio balcone una coperta termica. Domani e nei prossimi giorni, per la Giornata mondiale del rifugiato, sono previste in tutta Italia moltissime iniziative artistiche, culturali e gastronomiche, tra cui le giornate “Porte aperte” dei centri di accoglienza, per favorire l’incontro tra i rifugiati e le comunità. Info: www.unhcr.it/withrefugees]]>
Documento di Abu Dhabi. Pietra miliare, non solo per cristiani e musulmani https://www.lavoce.it/documento-abu-dhabi-cristiani-musulmani/ Wed, 13 Mar 2019 13:48:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54176 Dhabi

Il Documento sulla fraternità umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato congiuntamente ad Abu Dhabi il 4 febbraio da Papa Francesco e Ahmad Al-Tayyeb, Grande imam di Al-Azhar, è senza dubbio una pietra miliare nelle relazioni tra cattolici e musulmani (vedi anche Documento di Assisi).

Ma forse, detta così, non dice della portata storica, della profondità teologica e umana e del radicale cambiamento che esso tende a promuovere. È necessario definirne il contesto storico e geografico nel quale il Documento nasce e matura. Nasce nel tempo in cui sembra prevalere lo “scontro di civiltà”, su cui sono in tanti a gettare benzina per alimentare parole e pensieri di odio e di distorsione della verità con la presentazione mostruosa dell’altro.

Avviene così che la pluralità dei mondi islamici vengano assimilati all’estremismo fondamentalista, e la storia millenaria del cristianesimo venga presentata esclusivamente come eco di crociate antiche e moderne!

Per questo lo stesso Documento ammonisce: “La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una ‘terza guerra mondiale a pezzi’, segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto”.

Il contesto immediato è dato dalla prima visita di un Papa nella Penisola arabica, in un Paese difficilmente decifrabile per le nostre mentalità moderne e occidentali. Si tratta di una federazione con quasi 10 milioni di abitanti di oltre cento nazionalità diverse, tra cui moltissimi lavoratori filippini, indiani ma anche europei, e con una presenza di circa il 14% di cristiani. Un Paese in cui pochi sanno che gli “emiratini Doc” costituiscono una minoranza.

Ma l’attenzione del Pontefice alle relazioni con l’islam è tale che dall’inizio del suo pontificato abbiamo registrato le visite in Myanmar e Bangladesh, in Egitto, Azerbaigian, Repubblica Centrafricana. Inoltre l’amicizia, la frequentazione e la stima tra i due firmatari hanno contribuito a creare un clima di fiducia determinante per giungere ad assumere impegni tanto vincolanti (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Tonio Dell’Olio

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Dhabi

Il Documento sulla fraternità umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato congiuntamente ad Abu Dhabi il 4 febbraio da Papa Francesco e Ahmad Al-Tayyeb, Grande imam di Al-Azhar, è senza dubbio una pietra miliare nelle relazioni tra cattolici e musulmani (vedi anche Documento di Assisi).

Ma forse, detta così, non dice della portata storica, della profondità teologica e umana e del radicale cambiamento che esso tende a promuovere. È necessario definirne il contesto storico e geografico nel quale il Documento nasce e matura. Nasce nel tempo in cui sembra prevalere lo “scontro di civiltà”, su cui sono in tanti a gettare benzina per alimentare parole e pensieri di odio e di distorsione della verità con la presentazione mostruosa dell’altro.

Avviene così che la pluralità dei mondi islamici vengano assimilati all’estremismo fondamentalista, e la storia millenaria del cristianesimo venga presentata esclusivamente come eco di crociate antiche e moderne!

Per questo lo stesso Documento ammonisce: “La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una ‘terza guerra mondiale a pezzi’, segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto”.

Il contesto immediato è dato dalla prima visita di un Papa nella Penisola arabica, in un Paese difficilmente decifrabile per le nostre mentalità moderne e occidentali. Si tratta di una federazione con quasi 10 milioni di abitanti di oltre cento nazionalità diverse, tra cui moltissimi lavoratori filippini, indiani ma anche europei, e con una presenza di circa il 14% di cristiani. Un Paese in cui pochi sanno che gli “emiratini Doc” costituiscono una minoranza.

Ma l’attenzione del Pontefice alle relazioni con l’islam è tale che dall’inizio del suo pontificato abbiamo registrato le visite in Myanmar e Bangladesh, in Egitto, Azerbaigian, Repubblica Centrafricana. Inoltre l’amicizia, la frequentazione e la stima tra i due firmatari hanno contribuito a creare un clima di fiducia determinante per giungere ad assumere impegni tanto vincolanti (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Tonio Dell’Olio

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Intolleranza religiosa, fenomeno diffuso https://www.lavoce.it/intolleranza-religiosa-fenomeno-diffuso/ Mon, 12 Nov 2018 08:00:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53360 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

La situazione di Asia Bibi, che pensavamo ormai finalmente libera, addolora e amareggia non solo i cristiani ma chiunque abbia a cuore il rispetto dei diritti umani e della libertà. Il fondamentalismo islamico di alcuni gruppi in Pakistan è l’espressione tipica della forza ‘muscolare’ identitaria e prevaricatrice di chi ha consapevolezza di essere maggioranza schiacciante.

Lo stesso fenomeno si ripete su larga scala in Myanmar, dove sono i rohingya a essere minoranza musulmana, e ha trovato una tragica conseguenza nella sinagoga di Pittsburgh negli Usa. Peraltro anche dalle nostre parti assistiamo a fenomeni di intolleranza religiosa da parte di alcuni gruppi di cattolici intransigenti.

Il problema allora non è l’atteggiamento dei membri di questa o quella religione quanto piuttosto il rispetto delle minoranze. Chiamarla semplicemente tolleranza sembrerebbe riduttivo, se si pensa che almeno una giusta dose di umanissima curiosità dovrebbe spingere i fedeli di una fede maggioritaria in quel Paese a scoprire credenze e motivi di fede degli altri. Chissà che non si tratti della stessa creatività infinita dell’unico Dio che ami espressioni e invocazioni tanto differenti.

*presidente della Pro Civitate Christiana - Assisi

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colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

La situazione di Asia Bibi, che pensavamo ormai finalmente libera, addolora e amareggia non solo i cristiani ma chiunque abbia a cuore il rispetto dei diritti umani e della libertà. Il fondamentalismo islamico di alcuni gruppi in Pakistan è l’espressione tipica della forza ‘muscolare’ identitaria e prevaricatrice di chi ha consapevolezza di essere maggioranza schiacciante.

Lo stesso fenomeno si ripete su larga scala in Myanmar, dove sono i rohingya a essere minoranza musulmana, e ha trovato una tragica conseguenza nella sinagoga di Pittsburgh negli Usa. Peraltro anche dalle nostre parti assistiamo a fenomeni di intolleranza religiosa da parte di alcuni gruppi di cattolici intransigenti.

Il problema allora non è l’atteggiamento dei membri di questa o quella religione quanto piuttosto il rispetto delle minoranze. Chiamarla semplicemente tolleranza sembrerebbe riduttivo, se si pensa che almeno una giusta dose di umanissima curiosità dovrebbe spingere i fedeli di una fede maggioritaria in quel Paese a scoprire credenze e motivi di fede degli altri. Chissà che non si tratti della stessa creatività infinita dell’unico Dio che ami espressioni e invocazioni tanto differenti.

*presidente della Pro Civitate Christiana - Assisi

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Papa Francesco: un momento storico per il Myanmar https://www.lavoce.it/papa-francesco-un-momento-storico-myanmar/ Thu, 07 Dec 2017 11:00:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50790

“Un momento storico” per la vita della piccola comunità cattolica, ma anche per tutto il Myanmar. Così padre Mariano Soe Naing, portavoce della Conferenza episcopale del Paese, descrive la visita di Papa Francesco che si è conclusa il 30 novembre. Mentre il Papa proseguiva il suo viaggio in Bangladesh, i 700.000 cattolici birmani cominciavano già a pensare al futuro con rinnovata fiducia. Padre Mariano, quali sono stati i momenti più significativi della visita, e perché? “Stiamo cercando, insieme ai vescovi, di fare una sintesi della visita del Papa per cercare di andare più in profondità nei contenuti e significati dei suoi discorsi: l’omelia durante la messa a Kyaikkasan Ground, l’omelia ai giovani e i discorsi alle autorità politiche nella capitale Nay Pyi Taw e al Consiglio supremo Sangha dei monaci buddisti nel Kaba Aye Centre. Cercheremo di capire cosa ci suggeriscono le parole del Papa. Tra i momenti più importanti, secondo me, la messa del 30 novembre con i giovani alla St. Mary’s Cathedral: specialmente quando il Papa ha parlato liberamente con i giovani, è stato un momento molto emozionante. I giovani erano felicissimi per la presenza del Papa tra loro, c’è stato uno scambio molto bello”. Qual è stato l’impatto della visita di Papa Francesco sull’opinione pubblica e sui media? “L’approccio di Papa Francesco con la gente è spesso semplice e paterno, e questa familiarità ha commosso molto tutti, non solo i cristiani, anche i buddisti. Credo abbiano percepito una grande disciplina e unità della Chiesa cattolica, nonostante i timori che l’afflusso di migliaia di persone tutte insieme potesse creare delle difficoltà. La polizia e l’opinione pubblica sono rimasti colpiti dalla nostra disciplina durante e dopo gli eventi, dalla capacità di aiutarci gli uni con gli altri, dalla gentilezza reciproca e dal nostro desiderio di unità per tutto il Paese”. Quindi, un momento storico per il Myanmar? “Sì, è stato veramente un momento storico. Anche i giornali hanno definito così la visita. L’opinione pubblica ha specialmente gradito che il Papa non abbia menzio- nato la crisi nello Stato del Rakhine, ma abbia fatto un discorso inclusivo, chiedendo il rispetto di tutti i gruppi etnici”. Pensa che la visita contribuirà a rafforzare il processo democratico nel Paese? “Sì, speriamo che favorisca specialmente l’accettazione reciproca. Durante l’incontro con i monaci buddisti, entrambi i discorsi – sia del capo supremo del Consiglio Sangha, sia del Papa - , hanno sottolineato che nelle radici delle religioni non esiste la violenza e non sono previsti estremismi e terrorismo. E che le differenze non devono creare problemi, ma si può lavorare insieme, mano nella mano. Anche a Nay Pyi Taw, quando il Papa ha parlato ad Aung San Suu Kyi, ci sono stati dei tratti in comune relativi alla volontà di superare tutte le divisioni e lavorare insieme per la pace, la crescita e la sicurezza delle persone. Credo che la visita del Papa darà una forte spinta al percorso di democratizzazione del Paese, verso il reciproco rispetto e l’unità”. Cosa le ha lasciato l’incontro con Papa Francesco a livello personale? “Siamo stati tutti felicissimi di questa esperienza. Come organizzatori, siamo stati molto impegnati per fare in modo che le cose funzionassero bene, ma abbiamo avuto alcune occasioni per stare molto vicini al Papa. Il suo volto era sempre sorridente, soprattutto durante la messa. Ho percepito la gioia delle persone attorno al suo leader e la sua gioia di stare tra noi. Ho sentito che siamo uniti in una sola Chiesa. Conserveremo con cura questa vicinanza nei nostri cuori e nella nostra fede”. Quali saranno i prossimi passi per la piccola comunità cattolica del Myanmar? “A gennaio avremo l’assemblea della Conferenza episcopale, e sicuramente i vescovi pianificheranno la pastorale secondo le indicazioni del Papa. Poi avremo l’incontro nazionale dei giovani, che sarà un’altra occasione per mettere in pratica le sue parole. Faremo in modo di non dimenticare ciò che ci ha detto, e prolungare il più possibile l’impatto positivo della sua visita”. Leggi anche Il viaggio in Oriente del Papa visto da un missionario umbro.  ]]>

“Un momento storico” per la vita della piccola comunità cattolica, ma anche per tutto il Myanmar. Così padre Mariano Soe Naing, portavoce della Conferenza episcopale del Paese, descrive la visita di Papa Francesco che si è conclusa il 30 novembre. Mentre il Papa proseguiva il suo viaggio in Bangladesh, i 700.000 cattolici birmani cominciavano già a pensare al futuro con rinnovata fiducia. Padre Mariano, quali sono stati i momenti più significativi della visita, e perché? “Stiamo cercando, insieme ai vescovi, di fare una sintesi della visita del Papa per cercare di andare più in profondità nei contenuti e significati dei suoi discorsi: l’omelia durante la messa a Kyaikkasan Ground, l’omelia ai giovani e i discorsi alle autorità politiche nella capitale Nay Pyi Taw e al Consiglio supremo Sangha dei monaci buddisti nel Kaba Aye Centre. Cercheremo di capire cosa ci suggeriscono le parole del Papa. Tra i momenti più importanti, secondo me, la messa del 30 novembre con i giovani alla St. Mary’s Cathedral: specialmente quando il Papa ha parlato liberamente con i giovani, è stato un momento molto emozionante. I giovani erano felicissimi per la presenza del Papa tra loro, c’è stato uno scambio molto bello”. Qual è stato l’impatto della visita di Papa Francesco sull’opinione pubblica e sui media? “L’approccio di Papa Francesco con la gente è spesso semplice e paterno, e questa familiarità ha commosso molto tutti, non solo i cristiani, anche i buddisti. Credo abbiano percepito una grande disciplina e unità della Chiesa cattolica, nonostante i timori che l’afflusso di migliaia di persone tutte insieme potesse creare delle difficoltà. La polizia e l’opinione pubblica sono rimasti colpiti dalla nostra disciplina durante e dopo gli eventi, dalla capacità di aiutarci gli uni con gli altri, dalla gentilezza reciproca e dal nostro desiderio di unità per tutto il Paese”. Quindi, un momento storico per il Myanmar? “Sì, è stato veramente un momento storico. Anche i giornali hanno definito così la visita. L’opinione pubblica ha specialmente gradito che il Papa non abbia menzio- nato la crisi nello Stato del Rakhine, ma abbia fatto un discorso inclusivo, chiedendo il rispetto di tutti i gruppi etnici”. Pensa che la visita contribuirà a rafforzare il processo democratico nel Paese? “Sì, speriamo che favorisca specialmente l’accettazione reciproca. Durante l’incontro con i monaci buddisti, entrambi i discorsi – sia del capo supremo del Consiglio Sangha, sia del Papa - , hanno sottolineato che nelle radici delle religioni non esiste la violenza e non sono previsti estremismi e terrorismo. E che le differenze non devono creare problemi, ma si può lavorare insieme, mano nella mano. Anche a Nay Pyi Taw, quando il Papa ha parlato ad Aung San Suu Kyi, ci sono stati dei tratti in comune relativi alla volontà di superare tutte le divisioni e lavorare insieme per la pace, la crescita e la sicurezza delle persone. Credo che la visita del Papa darà una forte spinta al percorso di democratizzazione del Paese, verso il reciproco rispetto e l’unità”. Cosa le ha lasciato l’incontro con Papa Francesco a livello personale? “Siamo stati tutti felicissimi di questa esperienza. Come organizzatori, siamo stati molto impegnati per fare in modo che le cose funzionassero bene, ma abbiamo avuto alcune occasioni per stare molto vicini al Papa. Il suo volto era sempre sorridente, soprattutto durante la messa. Ho percepito la gioia delle persone attorno al suo leader e la sua gioia di stare tra noi. Ho sentito che siamo uniti in una sola Chiesa. Conserveremo con cura questa vicinanza nei nostri cuori e nella nostra fede”. Quali saranno i prossimi passi per la piccola comunità cattolica del Myanmar? “A gennaio avremo l’assemblea della Conferenza episcopale, e sicuramente i vescovi pianificheranno la pastorale secondo le indicazioni del Papa. Poi avremo l’incontro nazionale dei giovani, che sarà un’altra occasione per mettere in pratica le sue parole. Faremo in modo di non dimenticare ciò che ci ha detto, e prolungare il più possibile l’impatto positivo della sua visita”. Leggi anche Il viaggio in Oriente del Papa visto da un missionario umbro.  ]]>
Don Gnaldi di Castello racconta i luoghi del Bangladesh visitati dal Papa https://www.lavoce.it/don-gnaldi-castello-racconta-luoghi-del-bangladesh-visitati-dal-papa/ Fri, 01 Dec 2017 11:34:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50700

Probhu tomader shohae takhun! (Il Signore sia con voi!): con queste parole Papa Francesco ha iniziato la celebrazione dell’eucaristia a Dhaka il 30 novembre. Prima di arrivare in Bangladesh, si è recato nel Paese confinante, il Myanmar (ex Birmania), dal 26 al 30 novembre. Evento storico per il fatto stesso che si tratta del primo viaggio del Pontefice nella ex Birmania. Mentre in Bangladesh Francesco sarà il terzo Papa a fare visita, dopo i viaggi di Giovanni Paolo II nel 1986 e di Paolo VI nel 1970, quando la capitale Dhaka era ancora nel territorio del Pakistan. In Myanmar i cristiani cattolici sono 700 mila in rapporto ai 50 milioni di abitanti. Il 90% degli abitanti sono di religione buddista. In Bangladesh ci sono circa 400 mila cattolici e 300 mila protestanti su 160 milioni di abitanti. Il 90% della popolazione è appartenente all’islam (religione di Stato). Gli hindu sono circa 10 milioni e i fedeli buddisti 700 mila. Si tratta, quindi, di rendere visibile l’attenzione della Chiesa alle “periferie”, considerando anche la povertà di entrambe le popolazioni (il Bangladesh è uscito soltanto nel 2015 dall’elenco dei Paesi sottosviluppati), e alle minoranze (in Myanmar è attualissima la questione Rohingya, minoranza musulmana perseguitata da decenni e fuggita in massa dallo Stato di Rakhine, verso il Bangladesh: sono oltre 600 mila i profughi rohingya nel sud del Bangladesh). Che cosa trova Papa Francesco in Bangladesh? Un Paese piccolo, nato nel 1971, e un territorio verde, grande quanto metà Italia. Il Bangladesh è uno dei Paesi più densamente popolati al mondo. La sovrappopolazione rientra tra le tematiche aperte del Paese, ma la povertà generalizzata è il vero problema della popolazione. Grande attenzione richiedono lo sfruttamento del lavoro, la corruzione, il terrorismo, la presenza di gruppi etnici (ben 43) e la diversità di culture, le minoranze religiose e l’esigenza di dialogo interreligioso. La Chiesa cattolica è piccola, povera, giovane, disseminata in tutto il territorio, grazie soprattutto alla presenza missionaria (il Pime opera in Bangladesh dal 1855). Oggi, una Chiesa gioiosa, colorata e attenta saluta l’arrivo di Papa Francesco! Sshagotom! Benvenuto!  ]]>

Probhu tomader shohae takhun! (Il Signore sia con voi!): con queste parole Papa Francesco ha iniziato la celebrazione dell’eucaristia a Dhaka il 30 novembre. Prima di arrivare in Bangladesh, si è recato nel Paese confinante, il Myanmar (ex Birmania), dal 26 al 30 novembre. Evento storico per il fatto stesso che si tratta del primo viaggio del Pontefice nella ex Birmania. Mentre in Bangladesh Francesco sarà il terzo Papa a fare visita, dopo i viaggi di Giovanni Paolo II nel 1986 e di Paolo VI nel 1970, quando la capitale Dhaka era ancora nel territorio del Pakistan. In Myanmar i cristiani cattolici sono 700 mila in rapporto ai 50 milioni di abitanti. Il 90% degli abitanti sono di religione buddista. In Bangladesh ci sono circa 400 mila cattolici e 300 mila protestanti su 160 milioni di abitanti. Il 90% della popolazione è appartenente all’islam (religione di Stato). Gli hindu sono circa 10 milioni e i fedeli buddisti 700 mila. Si tratta, quindi, di rendere visibile l’attenzione della Chiesa alle “periferie”, considerando anche la povertà di entrambe le popolazioni (il Bangladesh è uscito soltanto nel 2015 dall’elenco dei Paesi sottosviluppati), e alle minoranze (in Myanmar è attualissima la questione Rohingya, minoranza musulmana perseguitata da decenni e fuggita in massa dallo Stato di Rakhine, verso il Bangladesh: sono oltre 600 mila i profughi rohingya nel sud del Bangladesh). Che cosa trova Papa Francesco in Bangladesh? Un Paese piccolo, nato nel 1971, e un territorio verde, grande quanto metà Italia. Il Bangladesh è uno dei Paesi più densamente popolati al mondo. La sovrappopolazione rientra tra le tematiche aperte del Paese, ma la povertà generalizzata è il vero problema della popolazione. Grande attenzione richiedono lo sfruttamento del lavoro, la corruzione, il terrorismo, la presenza di gruppi etnici (ben 43) e la diversità di culture, le minoranze religiose e l’esigenza di dialogo interreligioso. La Chiesa cattolica è piccola, povera, giovane, disseminata in tutto il territorio, grazie soprattutto alla presenza missionaria (il Pime opera in Bangladesh dal 1855). Oggi, una Chiesa gioiosa, colorata e attenta saluta l’arrivo di Papa Francesco! Sshagotom! Benvenuto!  ]]>
Cristiani perseguitati: i dati del rapporto annuale Acs https://www.lavoce.it/cristiani-perseguitati-i-dati-del-rapporto-annuale-acs/ Fri, 07 Nov 2014 13:45:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28912 Manifestazione di cristiani in Iraq
Manifestazione di cristiani in Iraq

Peggiora il quadro di rispetto della libertà religiosa nel mondo, e il gruppo religioso maggiormente perseguitato sono ancora i cristiani. È quanto risulta dalla 12a edizione del Rapporto sulla libertà religiosa di Acs – Aiuto alla chiesa che soffre, presentato martedì a Roma.

Schede per Paese e approfondimenti sono disponibili sul sito acs-italia.org o scaricando la nuova app Acs per smartphone; in varie lingue, vedi il sito religion-freedom-report.org.

Il volume analizza i principali avvenimenti dall’ottobre 2012 al giugno 2014, riportando il grado di libertà religiosa in 196 Paesi, con riferimento alle violazioni subite non soltanto dai cristiani ma da tutti i gruppi religiosi.

Dei 196 Paesi analizzati, in ben 116, ovvero quasi il 60%, si registra il disprezzo per la libertà religiosa. Nella “mappa” disegnata dall’Acs, sono 20 i Paesi identificati come luoghi di “elevato” grado di violazione della libertà religiosa, dove cioè la libertà religiosa non esiste.

In 14 di questi Paesi la persecuzione è a sfondo religioso ed è legata all’estremismo islamico: Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Maldive, Nigeria, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Siria, Somalia, Sudan, Yemen.

Negli altri 6 Paesi, la persecuzione è portata avanti dai regimi politici: Azerbaigian, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Myanmar (Birmania), Uzbekistan.

Quest’anno il Rapporto contiene una graduatoria che suddivide i Paesi in 4 categorie in base al grado di violazione della libertà religiosa.

Manifestazione di cristiani in Pachistan
Manifestazione di cristiani in Pachistan

L’Asia si conferma il Continente in cui essa è maggiormente violata. Nei Paesi in cui vi è una religione di maggioranza, si riscontra un incremento del fondamentalismo non soltanto islamico, ma anche hindu e buddista.

In Africa, la tendenza più preoccupante degli ultimi due anni è senza dubbio la crescita del fondamentalismo islamico – sotto l’impulso di gruppi come Al Qaeda nel Maghreb islamico, Boko haram e Al Shabaab – e si riscontra un aumento di casi di intolleranza religiosa in Egitto, Libia e Sudan.

In America Latina gli ostacoli alla libertà religiosa sono quasi sempre causati dalle politiche di regimi apertamente laicisti o atei, come in Venezuela ed Ecuador, che limitano la libertà di tutti i gruppi religiosi.

Il Medio Oriente è ‘fotografato’ dall’affermazione dello Stato islamico e dal crescente fenomeno delle migrazioni di massa. Le minoranze religiose mediorientali vanno riducendosi già da molti anni. Ad esempio, il numero di cristiani in Siria è passato da 1,75 milioni dei primi mesi del 2011 agli appena 1,2 milioni nell’estate del 2014, con un calo di oltre il 30% in tre anni. In Iraq, la diminuzione è stata ancora più evidente.

Nello Stato islamico o Califfato, tra Siria e Iraq, i jihadisti hanno cacciato tutti i gruppi religiosi, compresi i musulmani non sunniti, dalla città di Mosul. “Ai cristiani – si legge nel Rapporto – è stato chiesto di scegliere tra la conversione all’islam e l’esilio… E così, quasi nessuno dei circa 30 mila cristiani presenti in città è rimasto e – per la prima volta in 1.600 anni – a Mosul non è stata celebrata la messa domenicale”.

Fondazione Acs

“Aiuto alla Chiesa che soffre” (Acs) è una Fondazione di diritto pontificio creata nel 1947 da padre Werenfried van Straaten. Si contraddistingue come l’unica organizzazione che realizza progetti per sostenere la pastorale della Chiesa là dove essa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la sua missione. Nel 2013 ha raccolto oltre 88,3 milioni di euro nei 17 Paesi dove è presente con sedi nazionali e ha realizzato 5.420 progetti in 140 nazioni. La Fondazione ha un sito internet italiano (acs-italia.org) nel quale pubblica continui aggiornamenti e notizie sulla situazione dei cristiani nel mondo.

Anche in Europa la libertà religiosa è minacciata

La libertà religiosa è in declino anche in Europa, soprattutto nel Nord. Paesi come Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia e Norvegia compaiono nella lista in cui “il grado di violazione della libertà religiosa” è definito “preoccupante” e in “peggioramento”. Ad attestarlo è il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo della Fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre” che è stato presentato nei giorni scorsi a Roma. Nei Paesi occidentali – si legge – le tensioni religiose sono in aumento a causa di fenomeni recenti come “l’ateismo aggressivo” e il “laicismo liberale”. Alcune tendenze destano preoccupazione, soprattutto quelle relative a temi quali le scuole religiose, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia. “Benché – scrive l’Acs – l’opinione pubblica ritenga che i credenti debbano essere liberi di praticare la propria fede in privato, vi è un decisamente minore consenso in merito alla libertà di manifestare la fede all’interno dello spazio pubblico”.

Ciò significa che “i diritti di alcuni gruppi vengono sempre più schiacciati dai diritti di altri gruppi” e “ogni qualvolta i diritti all’eguaglianza di genere o degli omosessuali contrastano con i diritti di coscienza dei credenti, solitamente i primi prevalgono”. Il Rapporto porta l’esempio del Regno Unito, dove le agenzie di adozione cattoliche che si rifiutano di affidare bambini a coppie omosessuali sono state costrette a modificare le loro norme o a chiudere. A peggiorare la situazione concorre l’“analfabetismo religioso” dei politici occidentali e dei media internazionali.

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Piccoli schiavi armati https://www.lavoce.it/piccoli-schiavi-armati/ Thu, 20 Dec 2007 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=6348 La guerra nel Myanmar ripropone il problema del reclutamento di bambini all’interno dell’esercito. L’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha recentemente diffuso un rapporto alle Nazioni Unite nel quale dichiara che un terzo dei soldati dell’esercito governativo birmano è formato da bambini. La situazione sembrava poter migliorare quando il Governo ha avviato un contatto con l’opposizione sulle riforme costituzionali, che però è stato interrotto sul nascere.

La situazione nel Myanmar non è l’unica in cui i bambini vengono sfruttati; basti pensare allo sfruttamento del lavoro minorile, concentrato soprattutto nei Paesi asiatici, e alle numerose guerre in cui vengono impiegati bambini soldato, come negli scontri civili in Africa, dove le cifre parlano di 120.000 soldati con meno di 18 anni, ma anche in Europa e America alcuni Stati reclutano minori nelle loro forze armate. Negli ultimi 10 anni, i bambini dai 10 ai 16 anni che partecipano a confitti armati sono presenti in 25 Paesi.

Alcuni sono veri e propri soldati, arruolati dal Governo o reclutati dalle forze armate di opposizione, altri usati come “portatori” di munizioni e lavori del genere, e la loro vita non è meno a rischio dei primi. L’associazione Human Rights Watch lancia un’altra pesante denuncia contro la dittatura birmana, rivelando che i militari arruolano bambini soldato per fronteggiare “la continua espansione dell’esercito, l’alto tasso di diserzione e la mancanza di volontari”. I reclutatori militari e i mediatori civili inoltre ricevono premi in denaro o vari incentivi per ogni recluta consegnata. I bambini vengono sottratti alle famiglie con la forza o, in altri casi, minacciati e picchiati; vengono raccolti nelle strade, nelle stazioni ferroviarie, nelle piazze, e i loro documenti falsificati in modo che risultino maggiorenni.

Oltre che in Birmania, i bambini sono al centro di fatti disumani in altri Paesi, come in Guatemala, dove alla difficile situazione che il Paese si trova ad affrontare a causa della droga e della criminalità organizzata, si aggiunge il traffico di bambini, a volte sottratti con forza alle madri e a quanto pare venduti a coppie straniere. L’ultima protesta di queste giovani madri a novembre, mette in evidenza un fatto forse ancora più clamoroso ed incomprensibile: l’impunità dei responsabili di queste atrocità. E se i bambini non sono arruolati o venduti ad altre coppie, vengono costretti a lavorare in schiavitù. Si calcola che lo sfruttamento del lavoro minorile conti circa 250 milioni di bambini in tutto il mondo, concentrato nei paesi del Terzo mondo.

I Paesi più colpiti sono Africa, Asia e America latina, in cui gli strati più deboli della popolazione sono costretti a pagare il prezzo più alto per uno sviluppo forzato e che non include loro, ma è anche una realtà dei Paesi industrializzati in cui le fasce di povertà e di emarginazione si estendono a vista d’occhio.

Unicef: basta bambine spose a 11 anni

Berlino: il concorso fotografico internazionale promosso dall’Unicef ha premiato come miglior scatto del 2007 la foto del matrimonio tra Faiz Mohammed, un afghano di 40 anni, e Ghulam, una bambina appena undicenne. Il premio va alla fotografa americana Stephanie Sinclair, che con questa immagine ha vinto tra 1.230 foto da 31 Paesi. Durante la premiazione di martedi 18 dicembre, la madrina dell’organizzazione Onu per l’infanzia, Eva Luise Koehler, ha denunciato che sono milioni le donne che vengono date in spose quando sono ancora delle bambine, negando loro l’infanzia. La vincitrice del concorso ha chiesto alla bambina cosa provasse il giorno delle nozze, lei ha risposto: “Nulla, non lo conosco neanche, cosa dovrei provare?”. Il concorso porta all’attenzione problemi comuni in quella parte del mondo. Secondo i dati dell’Unicef, più di 60 milioni di donne si sono sposate quando erano ancora delle bambine, e più della metà vive in Asia meridionale. Quello delle spose bambine, è un dramma che dall’Asia all’Africa e al Brasile si espande a macchia d’olio, dove milioni di ragazzine vengono private dei loro diritti, umani e civili. E non solo per quelle promesse in sposa nascere femmina è una condanna in troppe parti del mondo; sono 100 milioni le bambine che mancano all’appello per colpa dell’aborto selettivo praticato in Cina e in alcune zone dell’Asia meridionale. In molte parti del mondo, nascere per le bambine vuol dire rischiare la vita.

Non possono crescere, diventare donne e avere una famiglia, non possono giocare liberamente con i propri coetanei. Il matrimonio invece a questa tenera età implica una gravidanza precoce, che costringe centinaia di migliaia di bambine ad abbandonare gli studi e a chiudersi dentro casa, in una sfera familiare fatta di sottomissioni e violenze. L’immagine con la quale la fotografa americana Sinclair ha vinto il premio foto dell’anno 2007 mostra lo sguardo fiero ed orgoglioso dello sposo e quello triste e confuso della sposa bambina, inconsapevole vittima di pedofilia legalizzata.

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In dialogo su pellicola https://www.lavoce.it/in-dialogo-su-pellicola/ Thu, 15 Nov 2007 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=6265 Benazir Bhutto non è l’unica donna pakistana a dover portare avanti un duro ‘braccio di ferro’ con il Governo. È successo anche a Sabiha Sumar, regista cinematografica, madre di un giovane estermista islamico: la sua tragica vicenda autobiografica – conclusasi con la morte del figlio come kamikaze -, Sabiha è finalmente riuscita a trasporla su pellicola, nonostante l’opposizione delle autorità politiche del suo Paese. Prodotto da Francia e Germania, è così arrivato a Terni Acque silenziose, nell’ambito del terzo Filmfestival Popoli e religioni. Un film per molti versi emblematico dell’attuale cinematografia religiosa, in quanto ‘coniuga il deposito dei contenuti di fede, in questo caso il Corano, con le tematiche dell’oggi’ come sottolinea Stefania Parisi, direttrice dell’Istess – Istituto studi teologici e storico sociali, che organizza il Filmfestival. Alla proiezione di Acque silenziose è seguito un intenso dibattito che ha coinvolto le centinaia di studenti presenti, tra cui molti musulmani. La manifestazione si è tenuta a Terni dal 4 all’11 novembre. Sempre in crescendoTutto era cominciato, tre anni fa, da un’idea del vescovo mons. Paglia, da sempre attivo nel dialogo interreligioso; di lì in poi si è andati in crescendo. Già alla prima edizione di ‘Popoli e religioni’ era nato un gemellaggio con il Zamosc Sacro Film polacco; alla seconda edizione era stato stabilito un profondo legame con la facoltà di Scienze della formazione, polo universitario di Terni. In questo terzo anno il tema portante, ‘Religioni e promozione dei diritti umani’, che di per sé intendeva focalizzare i drammi dell’America latina, si è però subito saldato con la cronaca, schierandosi dalla parte dei monaci che chiedono giustizia in Myanmar. Al festival hanno infatti partecipato vari esponenti del buddismo, sia italiano che internazionale, accolti con calore dal pubblico. Il ‘ritorno’ di RomeroPer quanto riguarda l’America latina, una pellicola di particolare rilievo è stata Romero di John Duigan, dedicato a mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador ucciso nel 1980 a causa della sua opposizione al regime. ‘Rispetto a Salvador di Oliver Stone, del 1986 – continua Stefania Parisi -, questo nuovo film rappresenta meglio la personalità del vescovo Romero, soprattutto nella sua situazione di solitudine: preso tra due fuochi, quasi lacerato, tra il clero rivoluzionario estremista da una parte e quello alleato con il potere dall’altra. Penso che il suo rifiuto delle armi, in nome della sola forza dell’amore, possa venire definito come un chiaro esempio di resistenza passiva’. I vincitoriA vincere il terzo Filmfestival è stato 7 km da Gerusalemme di Claudio Malaponti, storia di un giovane pubblicitario a cui a un certo punto crolla tutto in testa: la vita, gli affetti… Si rifugia nel deserto della Palestina e qui fa un incontro sconvolgente: Gesù in persona, vestito come 2.000 anni fa ma riammodernato, al punto da bere una nota bibita gassata. Grazie ai colloqui con lui, il protagonista risorge spiritualmente. ‘Gesù e san Francesco – dice Parisi – sono i due personaggi che hanno affascinato di più il pubblico. Sul Poverello, è stato proiettato Il giorno, la notte poi l’alba, che lo fa incontrare con l’imperatore Federico II’. Fuori concorso, ma apprezzatissimo, All the invisible children, realizzato da 7 registi di 7 parti del mondo, dedicato a quei ‘bambini invisibili’ che spariscono senza che nessuno se ne accorga. Lo ha prodotto Maria Grazia Cucinotta, lei stessa nata in una situazione di degrado nel nostro Sud. ‘Una donna che ha compiuto un cammino enorme’ commenta in chiusura la direttrice dell’Istess.

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Tra regimi e terrorismo https://www.lavoce.it/tra-regimi-e-terrorismo/ Thu, 29 Jun 2006 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=5247 Intimidazioni, violenze, soprusi: anche quest’anno la libertà religiosa continua a subire aggressioni in tutto il mondo, in particolare in Cina, Iraq, Terra Santa, Turchia. È la fotografia scattata dal Rapporto 2006 sulla libertà religiosa nel mondo, curato, come di consueto, dall’associazione di diritto pontificio ‘Aiuto alla Chiesa che soffre’ (Acs), giunto all’ottava edizione e presentato il 27 giugno a Roma. L’ambivalenza della Cina. Intervenendo alla presentazione del Rapporto, il direttore dell’agenzia AsiaNews, padre Bernardo Cervellera, ha denunciato, tra l’altro, le persecuzioni della Chiesa in Cina, a proposito delle quali ha parlato di ‘ambivalenza’. ‘Da un lato – ha detto – il governo cinese tenta di mostrare un volto positivo al mondo, dall’altro permane la mentalità stalinista dei quadri intermedi, l’Associazione patriottica e l’Ufficio affari religiosi, che con gli ostacoli al dialogo e le ordinazioni episcopali illecite hanno acuito le tensioni con la Santa Sede’. Secondo la ricerca, in Cina funzionano a pieno ritmo i campi di concentramento e di tortura per i Falun Gong e i buddisti tibetani, e proseguono gli arresti di cattolici e protestanti. Dei tre vescovi scomparsi oltre sei anni fa non si è saputo più nulla. Per padre Cervellera ‘è necessario parlare chiaro, denunciare le violazioni alla libertà religiosa senza chiudere gli occhi e usando termini adeguati’. Fondamento di ogni libertà. ‘Sono convinto che la libertà religiosa sia il fondamento della libertà tout-court’ perché ‘essa significa il rispetto per la sacralità della vita e la libertà della persona: due valori sui quali si fondano le società davvero democratiche e civili’. Così il vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam. Dopo aver rammentato che ‘dieci milioni di cristiani e un milione di ebrei sono stati costretti a fuggire da Paesi arabi’, Allam ha denunciato ‘l’esistenza di intolleranza religiosa anche all’interno della religione islamica’ (la violenza dei sunniti waabiti contro gli sciiti in Iraq) per la quale, ha detto, ‘il fanatismo ha finito per ritorcersi contro gli stessi musulmani’. Atti di ‘un terrorismo di matrice fondamentalista che tuttavia – ha precisato il giornalista egiziano – è di natura aggressiva e non reattiva, perché è presente non solo in Iraq, ma anche in Egitto, Indonesia, Arabia Saudita, Paesi nei quali non può essere visto come risposta alla guerra scatenata dagli Usa, e che non deve essere in alcun modo giustificato’. Così nel mondo. Colpiti dalla minaccia del terrorismo, segnala il Rapporto, in Iraq e in Palestina decine di migliaia di cristiani hanno scelto la via dell’esilio, mentre in Arabia Saudita e Iran si consumano gravi violazioni della libertà religiosa, e in India i missionari cristiani sono oggetto di sistematica violenza. Nella panoramica della libertà religiosa nei cinque continenti offerta da Acs, la maglia nera va all’Asia dove si registrano gravi violazioni a questo diritto anche nel Myanmar, nel Laos, in Vietnam e Corea del Nord. In Indonesia la libertà religiosa è minacciata dal terrorismo integralista islamico. Quanto all’Africa, il conflitto in corso in Uganda ha provocato la morte di un operatore Caritas e ha creato un clima di persecuzione contro la Chiesa cattolica, mentre in Algeria è stata approvata una legge che proibisce le conversioni all’islam, che intanto avanza inesorabilmente in Kenya e Nigeria. Nel continente americano, nonostante gli sforzi di pacificazione, proseguono in Colombia le violenze delle Farc contro esponenti religiosi; in Venezuela si acuisce le tensione tra Stato e Chiesa cattolica. Difficoltà anche per le comunità cristiane di Cuba e dell’Ecuador.

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