morale Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/morale/ Settimanale di informazione regionale Thu, 02 Dec 2021 19:18:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg morale Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/morale/ 32 32 Alt ai pregiudizi sui vaccini https://www.lavoce.it/alt-ai-pregiudizi-sui-vaccini/ Thu, 03 Aug 2017 10:12:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=49596 Il difetto di vaccinazione della popolazione implica il grave rischio sanitario di diffusione di pericolose e spesso letali malattie infettive, debellate in passato, proprio grazie all’uso dei vaccini, come ad esempio il morbillo, la rosolia e la varicella”.

È quanto si legge in una nota diffusa il 31 luglio da Pontificia accademia per la vita, Ufficio Cei per la pastorale della salute e Associazione medici cvaccini-CMYKattolici italiani (Amci). La nota risponde con chiarezza a quanti da più parti in questi ultimi tempi hanno posto il problema prospettando la scelta di non vaccinare i propri figli come “obiezione di coscienza” relativa all’aborto. Una posizione non condivisa dai biologi che conoscono la storia e la tecnica usata per la produzione dei vaccini, ma che stava creando molta confusione tra i fedeli, anche perché nel 2005 la Pontificia accademia per la vita aveva pubblicato un documento intitolato Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule provenienti da feti umani abortiti. Documento che, alla luce dei progressi della medicina e delle attuali condizioni di preparazione di alcuni vaccini, potrebbe essere a breve rivisto e aggiornato.

“Le caratteristiche tecniche – si legge nella Nota – di produzione dei vaccini più comunemente utilizzati in età infantile ci portano a escludere che vi sia una cooperazione moralmente rilevante tra coloro che oggi utilizzano questi vaccini e la pratica dell’aborto volontario. Quindi riteniamo che si possano applicare tutte le vaccinazioni clinicamente consigliate, con coscienza sicura che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione all’aborto volontario”. E ancora: “I vaccini a cui si fa riferimento, fra quelli maggiormente in uso in Italia, sono quelli contro la rosolia, la varicella, la poliomielite e l’epatite A.

Va considerato che oggi non è più necessario ricavare cellule da nuovi aborti volontari, e che le linee cellulari sulle quali i vaccini in questione sono coltivati derivano unicamente dai due feti abortiti originariamente negli anni Sessanta del Novecento”. Dal punto di vista clinico, inoltre, “va ribadito che il trattamento coi vaccini, pur a fronte di rarissimi effetti collaterali (gli eventi che si verificano più comunemente sono di lieve entità e dovuti alla risposta immunitaria al vaccino stesso), è sicuro ed efficace e che nessuna correlazione sussiste fra somministrazione del vaccino ed insorgenza dell’autismo”. Per i firmatari del documento, “non meno urgente risulta l’obbligo morale di garantire la copertura vaccinale necessaria per la sicurezza altrui, soprattutto di quei soggetti deboli e vulnerabili come le donne in gravidanza e i soggetti colpiti da immunodeficienza che non possono direttamente vaccinarsi contro queste patologie”.

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La “stepchild” esiste. Di fatto https://www.lavoce.it/la-stepchild-esiste-di-fatto/ Fri, 25 Mar 2016 18:59:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45825 Era previsto – e lo avevamo scritto – ed è successo. Il Tribunale per minorenni di Roma ha concesso una stepchild adoption a una coppia omosessuale maschile; ne aveva concesse già diverse a coppie omosessuali femminili. Più precisamente: ha concesso a un uomo di diventare padre adottivo di un bambino che è figlio naturale, e anche legale (e lo rimane) del suo compagno. Il bambino era stato procreato all’estero ricorrendo a una maternità surrogata (altrimenti detta “utero in affitto”). Come sappiamo, la legge sulle unioni civili, ormai quasi pronta, non parlerà delle adozioni, né per permetterle né per vietarle.

Tante discussioni, tanti scontri in Parlamento sono stati tempo sprecato: le adozioni delle coppie omosessuali sono un fatto. È possibile tornare indietro?

Direi di no. Nel mondo contemporaneo non esistono solo i Codici dei singoli Paesi; c’è un diritto sovranazionale (imposto dai Trattati e dalle Corti sovranazionali) e anche un diritto transnazionale, che si potrebbe anche chiamare diritto globale (ossia del globo terrestre): ogni Stato deve fare i conti con ciò che in altri Stati è legale, perché le persone si spostano e portano con sé i propri diritti.

Il discorso poi può essere diverso a seconda che si discuta dell’adozione gay (problema che i giudici risolvono caso per caso, attenendosi al principio che su tutto prevale l’interesse del bambino) o della maternità surrogata. È quest’ultima che provoca gli interrogativi più gravi dal punto di vista sociale e morale; ed è dunque di questa che la politica italiana dovrebbe occuparsi, o avrebbe dovuto farlo per tempo. Avrebbe dovuto farlo, però, nelle sedi appropriate, quanto meno a livello europeo, e magari a livello globale. Così dovrebbe fare uno dei Paesi più ricchi e civili del mondo. Ma i politici italiani non hanno mai avuto la capacità di guardare oltre i confini, non dico dell’Italia, ma dei loro collegi elettorali.

Per di più, certe questioni hanno sempre preferito accantonarle, mentre altrove venivano risolte, magari male. Così il mondo ci mette di fronte ai fatti compiuti. E noi, invece di avere un ruolo guida, dobbiamo subire.

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Assente lo Stato o la società? https://www.lavoce.it/assente-lo-stato-o-la-societa/ Thu, 06 Aug 2015 08:38:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=42052 Un piccolo fatto di cronaca, accaduto a Genova qualche giorno fa. In piena notte, su un autobus fermo al capolinea in attesa dell’orario di partenza, quattro o cinque ragazzi non ancora identificati hanno aggredito e picchiato a sangue un altro passeggero, senza alcuna ragione. Poi sono scappati.

Il poveretto, malconcio, si è fatto forza ed è tornato a casa; solo in seguito si è scoperto che aveva riportato lesioni molto gravi agli organi interni ed era in pericolo di vita. Il fatto è di per sé orribile. Ma quello che colpisce è il comportamento dell’autista dell’autobus, che era presente e non ha mosso un dito neppure per telefonare al 113.

Interrogato dalla polizia, ha detto che aveva obbedito all’insegnamento di suo nonno: pensare sempre ai fatti propri. Proprio questo è il punto più grave di tutta la vicenda. Pensare ai fatti propri, caschi il mondo. Non è solo un comportamento riprovevole dal punto di vista morale (e a volte anche da quello legale). Quando è – e purtroppo lo è – un atteggiamento di massa, è un cancro che divora la società.

Anzi è quello che impedisce a un insieme di individui di trasformarsi in una “società civile”. Però, come hanno studiato i filosofi dell’Ottocento, dove la popolazione non si è costituita in “società civile” non può esistere neppure uno Stato nel senso moderno ed evoluto del termine. Quindi, quando c’è gente che si lamenta dell’assenza dello Stato (per esempio in certe regioni d’Italia, ma a quanto pare il fenomeno riguarda anche le altre), ci si dovrebbe prima chiedere: ma lì c’è una società civile?

Perché se non c’è, è inutile lamentarsi dell’assenza dello Stato o della sua inefficienza. Il nome scientifico del “pensare ai fatti propri” è “familismo amorale”, concetto studiato dal sociologo Banfield sessant’anni fa con verifiche sul campo in Italia. Ne deriva che la popolazione è incapace di pensare e di collaborare a qualunque progetto di interesse comune che non si identifichi con l’interesse immediato dei singoli. Da qui l’arretratezza generale, anche economica. Guardiamoci intorno: non è così?

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Corruzione? C’è chi dice no https://www.lavoce.it/corruzione-ce-chi-dice-no/ Fri, 06 Mar 2015 12:46:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=30758 Palermo, una grande e nobile città, una capitale europea e mediterranea con una ricchissima storia, ha più volte offerto lo spettacolo di realtà e tendenze contrapposte, con avvenimenti tragici che hanno avuto un enorme peso sulla storia del nostro Paese. Dopo la tragica fine di Falcone e Borsellino, la città ha cominciato a sviluppare una lotta decisa e aperta alla mafia e a ogni forma di sopruso, sfacciata o coperta. In questi giorni è al centro delle cronache perché un suo illustre e stimato cittadino, che risponde al nome di Roberto Helg, 78 anni, presidente della Camera di commercio e vice presidente della società Gesap che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino, nonché cavaliere del lavoro, è stato rinchiuso in carcere perché trovato con le mani nel sacco. Ha preteso una mazzetta di 100 mila euro per favorire il rilascio di una concessione per un punto di ritrovo all’interno dell’areoporto di Palermo. Normale fattaccio di corruzione, si dirà. Ne avvengono tanti e ovunque, non solo a Palermo.

Sappiamo di Milano, di Roma e di tante altre realtà pubbliche e private. Il popolo italiano onesto sembra quasi rassegnato, limitandosi a passeggere indignazioni. D’altronde, che cosa potrebbe fare? Coltivare e incentivare la denuncia da parte non solo delle vittime dei soprusi, ma di tutti quelli che sanno che sono venuti a conoscenza di fatti delinquenziali? Promuovere la delazione, come accadeva nella Repubblica di Venezia dove era stata aperta nel palazzo ducale una buca in cui ogni cittadino poteva infilare lettere anonime di denuncia? Così si creerebbe una “politica del sospetto” di tutti contro tutti, e una grande, forse impossibile, fatica a discernere il vero dal falso. Ma nella vicenda di Roberto Helg la cosa che più sconvolge è che fino al giorno prima era considerato un paladino dell’onestà, un teorico della lotta contro la mafia e ogni altra forma di malaffare; era l’uomo che invitava le vittime a denunciare i loro aguzzini. I giornali hanno riportato abbondanti stralci di discorsi da lui pronunciati con enfasi e visibile partecipazione emotiva, dando l’idea di essere l’uomo più convinto e deciso nella strategia della moralizzazione della Sicilia e dell’intero Paese.

Ricordate quanto scritto nell’ultimo numero de La Voce? “Giù la maschera”. Ci siamo. Ma non basta. Dobbiamo purtroppo dire che, oltre ad avere una maschera, queste persone sono al buio dentro se stesse, persone “perse”, con una coscienza chiusa nella gabbia della menzogna, detta – prima che a chiunque altro – a se stessi. Il danno che provoca una vicenda come questa è la diffusione della sfiducia. Non c’è da credere più a nessuno e a niente, le parole sono gusci vuoti di sincerità e di verità. Un danno morale e psicologico che frena la crescita umana, soprattutto nei giovani, e quindi anche un danno sociale.

A questa storia voglio accostarne però un’altra, brevissima, che pochi conoscono ed è un paradigma della bontà e onestà sommersa che spesso solo il buon Dio conosce. Un giovane funzionario del Congo, in un posto di responabilità, avrebbe dovuto dare il via libera a una grande partita di riso avariato da immettere nel commercio. Si è rifiutato anche dopo promesse e minacce. Si chiama Floribert Bwana-Chui, aveva 21 anni; è stato ucciso a Goma, in Congo, dopo essere stato atrocemente torturato. Non ha ceduto alle lusinghe e alle promesse. È considerato un santo. Apparteneva, da laico, alla Comunità di Sant’Egidio. Chi volesse saperne di più può trovare notizie cercando in Rete “Partita di riso avariata”. Il fatto è avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 giugno 2007. Di fronte a questo giovane africano, martire della fede e dell’onestà, o meglio, della fede operosa che genera virtù e santità, c’è da vergognarsi per le grandi e piccole forme di falsità e compromesso della vita. E nello stesso tempo si è indotti a non darsi per vinti, ma continuare ad avere speranza.

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Vigili con poco buon senso https://www.lavoce.it/vigili-con-poco-buon-senso/ Fri, 09 Jan 2015 18:24:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29727 Diceva Cartesio che la ricchezza meglio distribuita nel mondo è il buon senso, perché nessuno si lamenta mai di averne ricevuto in sorte meno di quanto gli serva. Potrebbe essere una battuta di spirito, ma Cartesio ci credeva davvero. Però, il fatto che Tizio e Caio siano convinti di avere tutto il buon senso di cui hanno bisogno non significa che ce l’abbiano veramente. Sperimentiamo ogni giorno quanti sbagli si commettono, quante sofferenze si procurano solo perché a qualcuno è mancata una briciola di buon senso.

Certo, a volte le tragedie accadono a causa di follie criminali, di sanguinari fanatismi contro i quali il buon senso nulla potrebbe; e questo può essere stato il caso della Seconda guerra mondiale. Ma la Prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, non si può spiegare che come frutto di una mancanza collettiva del più semplice buon senso, se per “buon senso” s’intende la capacità di capire che ciò che stai per fare per danneggiare il tuo prossimo danneggerà anzitutto te. Solo dopo i lutti delle due guerre mondiali gli europei hanno finalmente capito che unirsi pacificamente era meglio per tutti; ma intanto i danni erano fatti.

Se possiamo accostare alla tragedia la farsa, questo è stato anche il caso dei vigili urbani di Roma che la notte di san Silvestro, in massa, hanno presentato un certificato medico per schivare il servizio straordinario che gli toccava. Possibile che non capissero che la cosa gli si sarebbe rivoltata contro? Non c’era bisogno di tirare in campo l’eroismo di chi si sacrifica, al di sopra del proprio dovere, per il bene comune. Non c’era bisogno neppure di invocare l’ordinaria correttezza e onestà di chi, essendo pagato per fare una cosa, la fa (la morale di san Giovanni Battista!). Bastava, appunto, il buon senso: non fare il furbo, perché non ti conviene.

Il furbo vede solo il proprio vantaggio immediato, mentre, se guardasse appena un centimetro più in là, si accorgerebbe che l’onestà lo ripagherebbe di più. Nel caso dei vigili di Roma, tutta l’Italia ha gridato allo scandalo, ma – generalmente parlando – la furbizia è più ammirata dell’onestà.

E il buon senso latita.

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Perfino nei sacri palazzi https://www.lavoce.it/29431/ Fri, 12 Dec 2014 11:10:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29431 La settimana scorsa ho evocato la figura di san Giovanni Battista, uno dei simboli del tempo di Avvento. Torno sul tema. Il Vangelo di Luca (3,12-14) ci dice quale morale insegnasse il Battista ai pubblicani e ai soldati, diciamo gli impiegati e funzionari pubblici del tempo: “Per fare il vostro lavoro siete pagati; accontentatevi di quello e non approfittate della vostra posizione per rubare”. Una morale, si direbbe, minimale; non siamo ancora a quella sublime del Discorso della montagna. Però al giorno d’oggi parrebbe un sogno se si realizzasse almeno la morale del Battista. Ciò che colpisce in questo mare di scandali che ci assedia è appunto questo: uomini che raggiungono posizioni ambite – da cui traggono potere, prestigio e gratificazioni morali, oltre che ottimi stipendi – non sono ancora contenti se non ci aggiungono anche la ruberia, l’intrigo e la corruzione. È proprio vero che, in fatto di quattrini, l’umanità si divide in due categorie: quelli che non ce l’hanno per niente e quelli che non ne hanno abbastanza.

Inutile fare l’elenco di sindaci, sottosegretari, governatori, alti burocrati e via dicendo. Più sinistra e sconvolgente la notizia che forse il vizio è entrato anche nei sacri palazzi. Il procuratore dello Stato della Città del Vaticano ha aperto un’indagine per peculato a carico di due altissimi dirigenti dello Ior, sospettati di avere abusato del loro ufficio per intascarsi diecine di milioni di euro (ed erano stati chiamati per essere i risanatori). La cautela è d’obbligo, siamo ancora alle indagini, ma insomma stiamo parlando della magistratura vaticana, che a smuoverla ci vogliono le cannonate, non di uno di quei procuratorini politicizzati e/o malati di protagonismo. L’avidità non ha limiti e non conosce confini. E questo vale non solo per chi lavora nel pubblico, ma anche per chi lavora nel privato. Ma la colpa non è (solo) di chi ruba; è soprattutto della mentalità corrente, per la quale il valore di una persona si misura da quanti soldi ha in tasca, e a nessuno importa come li ha fatti.

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Sotto l’alluvione naturale e culturale https://www.lavoce.it/sotto-lalluvione-naturale-e-culturale/ Thu, 13 Nov 2014 18:56:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28972 A fissare gli occhi sul teleschermo mentre si sta a pranzo o a cena si rimane stupiti, sgomenti di fronte alla potenza distruttrice dell’acqua. Quei torrenti e fiumi travolgenti che entrano negli ambienti della vita quotidiana di città e paesi, invadono le strade, travolgono macchine e ogni cosa che vi si trova, irrompono nelle case provocando anche morti come i due coniugi a Chiavari, e nei negozi provocando danni senza numero.

Solo a guardare quelle scene, si prova un senso di paura e impotenza. Sembrano riprodurre e rievocare il Diluvio biblico primordiale, rigettando nel caos la bellissima armonia del cosmo disegnato dall’Artefice divino. La domanda che si pone: è fallito il progetto scritto nel creato e segnato dall’arcobaleno (Genesi 9,12 s)? Per colpa di chi? Sembra una domanda ingenua, non scientifica e non concreta, ma si propone in queste occasioni in un’altra forma: quanto sta accadendo è colpa della Natura “matrigna” o dell’uomo? In altri termini, è troppa l’acqua che si abbatte sulla nostra terra, e con troppa violenza, oppure l’uomo – che conosce la forza e la possibile violenza della natura – non si è preso cura di tutelarsi adeguatamente? Una domanda che si pone anche in rapporto ai terremoti e ai vulcani.

Il custode della terra, l’uomo, posto in essa come in un giardino da contemplare, da conoscere, da utilizzare per la sua vita, da tenere in ordine secondo criteri di prudenza, operosità, cura, preveggenza e previdenza, dopo tante cattive esperienze e tanti insegnamenti, non ha ancora compreso che non è lui il padrone dispotico, con il diritto di comandare alla terra, al mare, ai fiumi e alle correnti d’aria, portatrici di brezze leggere o di tempeste irresistibili.

Non abbiamo ancora compreso che la natura ci trascende, è più forte di tutti, e che le sue leggi e le sue dinamiche sono senza pentimento. E continuiamo a costruire attorno alle bocche dei vulcani, e presso fiumi e torrenti, case che non reggono al minimo urto, presumendo che nulla accadrà e fidando sulla buona sorte. Dopo le tragedie ci si distrae, si dimentica o si scarica la rabbia – più o meno giustamente, secondo i casi – sui sindaci o sui Governi di turno.

So che le prediche non raggiungono il fine per cui sono fatte, se non limitatamente, e tuttavia mi sembra opportuno ripetere, in tutti gli ambiti della società, che non si deve dare la colpa sempre a “qualcun altro”. La diffusa ricerca dei diritti si deve comporre con l’assunzione dei doveri. Al “diritto di avere diritti”, secondo una formula di successo coniata da un docente di larga fama, che denota bene la cultura dominante di oggi, si dovrebbe sostituire un’altra forma di pensiero, meno di successo, che potrebbe suonare: “il dovere di essere responsabili” o in altro modo, “il dovere di sentirsi in dovere”, ognuno per la sua parte, considerando che per tutti, in misura diversa, c’è una parte di dovere verso l’ambiente: non solo quello naturale, ma anche quello umano, a cominciare dalla famiglia.

Non c’è spazio in questa pagina, ma si può almeno accennare che un discorso simile vale a proposito delle “acque minacciose” che invadono le famiglie e le menti attraverso i mass media vecchi e nuovi (web). Ad Assisi, il card. Bagnasco ha detto che si stanno distruggendo principi fondamentali del vivere nella famiglia introducendo, come “cavallo di Troia”, criteri di comportamento contrari a un sano e ragionevole ordinamento delle relazioni sociali e familiari.

Abbattendo le regole della ragione, la virtù della prudenza e il criterio della precauzione è come abbattere dighe e argini e si rischia l’alluvione, anche nell’ambiente umano, cioè il caos sociale, il nichilismo antropologico, il disordine morale, e un’immensa dose di sofferenza per tutti. Non serve, poi, piangere o andare in televisione a lamentarsi e protestare.

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La colpa è altrove https://www.lavoce.it/la-colpa-e-altrove/ Fri, 18 Jul 2014 12:10:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27075 “È tutta colpa mia”. Con questa umanissima menzogna, che conferma in pieno la stima che ho sempre nutrito per l’alto profilo morale di Wladimiro Boccali, l’ex sindaco di Perugia ha “spiegato” la sua sorprendente sconfitta nel ballottaggio dell’8 giugno. No, la colpa non è sua, è altrove.

Conosco Wladimiro da quando, nei primi anni ’90, alla Cittadella di Assisi, il ministro Rosa Russo Jervolino ci anticipò una decisione del Governo: le banche di ogni regione sarebbero state obbligate a destinare 1/15 del loro reddito a un costituendo ente di servizio al volontariato. In tre lavorammo subito al progetto, Wladimiro come rappresentante dell’Arci, il mio comunitario disabile, l’avv. Roberto Giuliattini (un piccolo genio) e io a nome della Comunità di Capodarco dell’Umbria.

Fu un’esperienza bella. Alle riunioni più importanti invitammo tutte le maggiori associazioni di volontariato della provincia di Perugia, ma i contributi che ne avemmo furono come due degli onorevoli umbri della Dc di allora: radi e malfatti. Ma grazie a Boccali e Giuliattini, alla fine degli anni ’90 l’atto costitutivo del Cesvol di Perugia portava la firma di Boccali come seconda e, per sua volontà, la mia come prima, anche se io li avevo solo… affiancati. Mio padre Adamo, se fosse stato ancora vivo, avrebbe commentato: A Montone ènno ’n tre a fa’ ’n cistone: uno ’l fa, uno ’l tiene, ’n altro guarda si vien bene. (N.B. “Montone” è lì solo per far rima con “cistone”).

Adamo Fanucci. Piccolo alimentarista nella piccola Scheggia. Cavaliere di Vittorio Veneto: tre anni e mezzo a fare la guerra, tra il 24 maggio 1915 e il 4 novembre 1918, a mollo in trincea, senza un giorno di licenza, con le varici alle tibie che crescevano e crescevano; guerra a quell’Austria che voleva regalarci i territori che, grazie all’ebete “saggezza politica” dei nostri Big, “conquistammo” con 600.000 nostri bellissimi ragazzi morti ammazzati per niente.

Adamo Fanucci, Dante lo avrebbe classificato tra i personaggi “di profetico spirito dotati”. Ricordo appena quando, alla fine del secondo conflitto mondiale, ascoltando di nascosto Radio Monte Ceneri, scrollava la testa alle bolse promesse del Duce che profetizzava future grandezze per l’Italia bombardata dalle “superfortezze volanti”. Ma ricordo benissimo come la scrollava ancora più energicamente, la testa, quando, anni dopo il trionfo della Dc del 18 aprile 1948, nel grande partito di De Gasperi “s’infilarono le pantecane”, come diceva lui. Pantecane, voraci topi di fogna che divorano tutto di tutto. Proliferano anche nel sottobosco della politica dove, prima di ogni altra cosa, divorano la democrazia. Anticipando i tempi, Carlo Cassola nel 1949 scrisse un bel romanzo, Il taglio del bosco. Il tuo Pd, carissimo Wladimiro, doveva procedere al taglio del sottobosco e non l’ha fatto. Ne riparliamo.

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Crisi: il Vaticano che c’entra? https://www.lavoce.it/crisi-il-vaticano-che-centra/ Fri, 18 Jul 2014 11:50:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27073 Ascolto spesso alla radio, di prima mattina, una rassegna stampa molto ben fatta, alla quale gli ascoltatori possono telefonare e parlare in diretta. Qualche giorno fa un ascoltatore, con toni piuttosto accesi, ha rivelato al popolo la “verità che è sotto gli occhi di tutti ma di cui nessuno parla (perché?)”: chi davvero comanda in Italia è il Vaticano. Tutto il potere, anche economico, è lì, e da lì vengono tutti i mali.

Sorprendentemente, la nota giornalista che conduceva la trasmissione si è detta d’accordo; ma forse pensava ad altro. Mi sono cascate le braccia.

L’Italia è prigioniera del Vaticano? Altri dicono che sia prigioniera delle banche; altri della massoneria (magari dei banchieri massoni). Altri ancora dicono che sia – o sia stata – nelle mani dei comunisti, oppure dei giudici (meglio ancora, dei giudici comunisti).

Qualche anno fa andava di moda dire che tutto il potere era delle grandi multinazionali, ma altri davano tutte le colpe ai sindacati; adesso si parla della Germania, oppure della Cina. Ipotesi tutte diverse fra loro, ma tutte basate sul principio che le cose andrebbero benissimo se non ci fosse un complotto, o meglio ancora un Grande Vecchio, che tiene gli italiani in suo potere come in un incantesimo, e basterebbe toglierlo di mezzo per risolvere ogni problema.

Ogni ipotesi è buona pur di non riconoscere che, invece, ahimé, il popolo italiano è prigioniero di se stesso, dei suoi vizi, della sua incultura, della convinzione atavica (non di tutti, certo, ma di tanti) che ciò che conta nella vita è essere furbi, fregare gli altri e pensare a se stessi (individualismo amorale, dicono i sociologi). Che è un atteggiamento suicida, perché nel mondo di oggi non si combina nulla se non si è capaci di fare progetti a vasto raggio e a lungo termine, e per fare questo bisogna essere leali, corretti, onesti gli uni verso gli altri, accettare le regole, agire insieme. Per di più ci sono le mafie, la corruzione e gli altri mali storici che tutti conosciamo. Altro che il Vaticano!

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Unioni civili gay. Garantire il diritto di dissentire https://www.lavoce.it/unioni-civili-gay-garantire-il-diritto-di-dissentire/ Fri, 20 Jun 2014 13:50:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25688 C’è un diritto a dissentire che dovrebbe essere garantito a tutti sempre e comunque, a prescindere.

Mai come in questo momento, nella vita pubblica italiana, dovrebbe valere il motto di Voltaire: “Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere”. Affermazione di una laicità tanto rigorosa quanto impegnativa. E da applicare con determinazione e onestà intellettuale al dibattito sulle unioni civili per le coppie omosessuali.

Di un libero dibattito pubblico in realtà non c’è traccia. Nulla di simile a quanto avviene, ad esempio in Francia, dove il pluralismo viene garantito dalla convocazione degli états généraux su temi specifici. Occasione per tutti (compresi i mondi “religiosi”) di poter esprimere una posizione pubblica, anche minoritaria, ma con il rispetto che è dovuto a tutti i cittadini.

Purtroppo in Italia, è già capitato nel caso del divorzio breve, si decide senza un preventivo dibattito pubblico, con la prevalenza, neanche troppo nascosta, di una logica lobbystica. Il rischio che si palesa in queste ore, mancando un dibattito pubblico adeguato (se non vogliamo far assurgere “Porta a porta” a sede privilegiata del confronto) e un ascolto di tutte le realtà sociali coinvolte, è che ancora una volta si finisca per ratificare le scelte indicate dalle lobby. Magari accusando di “omofobia” ogni pur minima riserva o obiezione, fosse anche di sola natura economica (vedi i paventati costi pensionistici).

Poiché nessuno, lo ribadiamo nessuno, intende sollevare in questa sede un dibattito di natura moraleggiante, sarà laicamente consentito discernere, analizzare, distinguere e obiettare. E non solo condividere, plaudire, assecondare, approvare, sottoscrivere. Ne va della qualità della democrazia reale.

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Senza timor di Dio “non sarai felice” https://www.lavoce.it/senza-timor-di-dio-non-sarai-felice/ Sat, 14 Jun 2014 16:42:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25593 Papa Francesco, lo hanno capito tutti, è il papa della misericordia. Lo ha detto in mille modi, in tutti i toni, sembrando persino eccessivo, aprendosi al dialogo con tutti, usando pazienza e comprensione. Anche i suoi gesti sono improntati all’apertura, al coinvolgimento, lasciandosi travolgere dall’affetto e dalla confidenza esuberante delle persone di qualsiasi tipo che riempiono piazza San Pietro fino all’inverosimile.

Accade però che mercoledì scorso), secondo programma, doveva spiegare uno dei doni dello Spirito santo che sono sette – li ricordo: sapienza, intelligenza, scienza, consiglio, fortezza, pietà e timore del Signore – proprio l’ultimo, il timore. In senso biblico timore non significa paura, panico, terrore, stare sotto minaccia o condanna. Vuol dire piuttosto avere il dovuto rispetto di Dio, del suo mistero, della trascendenza, della sua maestà, della sua immensa grandezza e potenza, del suo amore, della santità del suo nome impronunciabile, da non nominare invano.

A proposito del nome proprio questa mattina incrociando una giovane coppia, ho sentito con raccapriccio, tanto era forte nel tono e nell’espressione, una bestemmia detta con disinvoltura e leggerezza senza rabbia da una bella ragazza a passeggio con il suo ragazzo. E pensare che oltre alla sfida verbale nei confronti di Dio che una volgare bestemmia evoca, vi sono sfide comportamentali per i quali si deve ricorrere al perdono e alla misericordia di Dio e anche degli uomini ed avere pazienza e compassione essendo tutti soggetti alla trasgressione morale.

Ma, dice il Papa, bisogna invocare il dono del “timore di Dio” e ricordare che le azioni hanno un peso e sono sottomesse a valutazione e misura nella bilancia della giustizia divina, alla quale si appellano nella Bibbia e nella storia le innumerevoli vittime innocenti dell’ingiustizia e della violenza umana. Pensiamo ai massacri, guerre, atrocità che non dobbiamo neppure descrivere tanto sono sotto i nostri occhi. Il Papa cita alcune categorie di persone che non condanna all’inferno, ma delicatamente afferma che non saranno felici “dall’altra parte” e non possono esserlo neppure da questa parte agli occhi di se stessi e dei loro simili. Non lo dice il buon papa Francesco, ma dovrebbero vergognarsi di esistere.

Per ironia della sorte, quando il Papa ha fatto questo discorso, i telegiornali erano pieni – e sono ogni giorno pieni – di truffe, frodi alimentari e commerciali, tangenti, usura (persino le banche a tassi usurai), ufficiali di Guardia di Finanza accusati di corruzione, fabbriche chiuse per mancanza di finanziamenti delle banche, violenze, uccisioni e via dicendo. Se pensiamo a popoli in guerra le atrocità e le sofferenze sono da elevare alla milionesima potenza. rispetto a noi. Evocare il timore del Signore, vuol dire convertirsi al bene e trovare in ciò la serenità interiore e la gioia, altrimenti “Non sarai felice”.

Si può avere timore anche dell’amore, nel senso di temere di non essere all’altezza della persona amata, di non esserne degno e meritevole. Quindi il timore del Signore vuol dire riconoscere i propri limiti, la subordinazione all’essere e al volere di Dio, convincersi che non siamo padroni della vita e del nostro ultimo destino.

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Il Papa incontra i Vescovi italiani https://www.lavoce.it/il-papa-incontra-i-vescovi-italiani/ Fri, 23 May 2014 12:21:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25056 giuseppe chiaretti

È avvenuto lunedì 19 maggio nella consueta assemblea della Conferenza episcopale italiana. All’apparenza sembra un incontro di routine ma, a guardarlo bene, tale non è. Papa Francesco non ha parlato dei piani pastorali, ma ha parlato dell’identità del Vescovo, perchè “se il suo incontro con Gesù Cristo perde la sua freschezza, finiamo per toccare con mano la sterilità della nostre parole e delle nostre iniziative”. E ha indugiato a lungo su tale argomento, con richiami puntuali, partendo addirittura dalla prima assemblea plenaria dell’episcopato italiano il 14 aprile 1964, allorché Paolo VI tenne un discorso memorabile, che Papa Francesco, condividendolo, ha fatto distribuire ai presenti. Papa Francesco in certo modo rincara la dose, parlando del “bisogno di un nuovo umanesimo, gridato da una società priva di speranza, impoverita da una crisi che, più che economica, è culturale, morale, spirituale”. Urge quindi - come diceva Papa Benedetto - una “carità nella verità”, forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. E per questo urgono Pastori che “sappiano cadenzare l’annuncio sulla eloquenza dei gesti. Mi raccomando - dice Papa Francesco - l’eloquenza dei gesti!” Come Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri, misericordiosi. Abbiate “particolare attenzione alla famiglia, essendo oggi la comunità domestica fortemente penalizzata”. Papa-vescoviPaolo VI alla luce del Concilio identificò quattro esigenze pastorali per far rivivere con intensità la vita religiosa del popolo italiano. Parlò di un “restauro interiore ed esteriore della religiosità, senza del quale non è da sperare che la vita religiosa possa largamente sopravvivere nel mutato costume moderno” (nacquero in seguito i Catechismi e le riforme liturgiche); un restauro “della moralità pubblica e privata, perché siamo in piena crisi di costume”; “la vicinanza dei Vescovi ai sacerdoti per aiutarli nelle loro difficoltà”; “l’istituzione d’una stampa cattolica, tanto necessaria e importante per la diffusione dei princìpi cristiani, e la formazione di un’opinione pubblica sana e favorevole a ogni buona causa: è questo uno dei problemi più gravi ed urgenti oggi della vita cattolica in Italia”. All’orizzonte del discorso di Papa Francesco c’è, ovviamente, l’adozione della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, particolarmente nei suoi due orizzonti programmatici: l’annuncio del Vangelo oggi (nn. 110-175) e la dimensione sociale del Vangelo (nn. 176-221). Ha scritto chiaramente a questo proposito, al n. 33: “Invito tutti a essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure” (EG, n. 33). †Giuseppe Chiaretti]]>
giuseppe chiaretti

È avvenuto lunedì 19 maggio nella consueta assemblea della Conferenza episcopale italiana. All’apparenza sembra un incontro di routine ma, a guardarlo bene, tale non è. Papa Francesco non ha parlato dei piani pastorali, ma ha parlato dell’identità del Vescovo, perchè “se il suo incontro con Gesù Cristo perde la sua freschezza, finiamo per toccare con mano la sterilità della nostre parole e delle nostre iniziative”. E ha indugiato a lungo su tale argomento, con richiami puntuali, partendo addirittura dalla prima assemblea plenaria dell’episcopato italiano il 14 aprile 1964, allorché Paolo VI tenne un discorso memorabile, che Papa Francesco, condividendolo, ha fatto distribuire ai presenti. Papa Francesco in certo modo rincara la dose, parlando del “bisogno di un nuovo umanesimo, gridato da una società priva di speranza, impoverita da una crisi che, più che economica, è culturale, morale, spirituale”. Urge quindi - come diceva Papa Benedetto - una “carità nella verità”, forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. E per questo urgono Pastori che “sappiano cadenzare l’annuncio sulla eloquenza dei gesti. Mi raccomando - dice Papa Francesco - l’eloquenza dei gesti!” Come Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri, misericordiosi. Abbiate “particolare attenzione alla famiglia, essendo oggi la comunità domestica fortemente penalizzata”. Papa-vescoviPaolo VI alla luce del Concilio identificò quattro esigenze pastorali per far rivivere con intensità la vita religiosa del popolo italiano. Parlò di un “restauro interiore ed esteriore della religiosità, senza del quale non è da sperare che la vita religiosa possa largamente sopravvivere nel mutato costume moderno” (nacquero in seguito i Catechismi e le riforme liturgiche); un restauro “della moralità pubblica e privata, perché siamo in piena crisi di costume”; “la vicinanza dei Vescovi ai sacerdoti per aiutarli nelle loro difficoltà”; “l’istituzione d’una stampa cattolica, tanto necessaria e importante per la diffusione dei princìpi cristiani, e la formazione di un’opinione pubblica sana e favorevole a ogni buona causa: è questo uno dei problemi più gravi ed urgenti oggi della vita cattolica in Italia”. All’orizzonte del discorso di Papa Francesco c’è, ovviamente, l’adozione della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, particolarmente nei suoi due orizzonti programmatici: l’annuncio del Vangelo oggi (nn. 110-175) e la dimensione sociale del Vangelo (nn. 176-221). Ha scritto chiaramente a questo proposito, al n. 33: “Invito tutti a essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure” (EG, n. 33). †Giuseppe Chiaretti]]>
Quod erat in principio https://www.lavoce.it/abat-jour-17/ Fri, 02 May 2014 13:13:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24604 DON ANGELO fanucciPrima di Pasqua, la mia Comunità di Capodarco dell’Umbria ha sistemato tutti i contratti di lavoro che regolano i rapporti economici con i propri dipendenti. Sistemata una questione previa di questa portata, è il momento di recuperare il profilo ideale della Comunità di Capodarco dell’Umbria, che prima s’era chiamata “Centro lavoro cultura”, e prima ancora Comunità di San Girolamo.

Al tempo di Paolo VI (1963-1978), gli esperti convennero sul fatto che, nel settore della cura dei deboli, andavano collocati tra i frutti più maturi del Concilio la Comunità di Sant’Egidio, il Gruppo Abele e la Comunità di Capodarco. Dalla metà degli anni ’60 nel paesino di Capodarco, tra Fermo e Porto San Giorgio, era nata Casa Papa Giovanni, sede del Centro comunitario “Gesù risorto”, ente ecclesiastico per la formazione umana e cristiana dei disabili, riconosciuto dall’Arcivescovo di Fermo.

Ma nel 1983 a quell’ente di diritto canonico subentrò un ente morale di diritto civile, la Comunità di Capodarco. I suoi scopi sociali vennero così definiti. La Comunità di Capodarco persegue le seguenti finalità: lo sviluppo della persona, con particolare attenzione agli emarginati; la rimozione di ogni ostacolo al pieno sviluppo della personalità dell’individuo, nel rispetto della cultura, dei valori e dello spazio creativo di ciascuno; l’effettiva partecipazione democratica alla vita sociale di ogni persona, attraverso la lotta contro ogni forma di emarginazione.

La sua dimensione ecclesiale venne ridisegnata così: per la matrice cristiana di parte dei suoi membri e per l’esperienza di servizio all’uomo di tutti i suoi membri, la Comunità di Capodarco dell’Umbria è luogo di incontro e di confronto fra quanti, pur variamente ispirati sul piano ideologico e culturale, ne condividono lo spirito e l’impegno vitale.

In quello stesso anno anche la Comunità di Capodarco dell’Umbria (che allora si chiamava Centro lavoro cultura) redasse il proprio Statuto, e lo volle identico a quello della Comunità nazionale di Capodarco, ma con un’aggiunta: “Per la particolare natura della proposta sulla quale la realtà associativa, che con il presente Statuto assume forma giuridica, si è formata e ha aggregato consensi, la Comunità di Capodarco dell’Umbria, pur condividendo lo spirito e la prassi pluralista che caratterizza la Comunità di Capodarco, collabora in modo tutto particolare con la Chiesa locale per incrementare, all’interno di essa, la dimensione di liberazione personale propria del cristianesimo, nel pieno rispetto e nella costante tensione a promuovere e a valorizzare le storie e il patrimonio ideale e pratico di gruppi territoriali che si siano formati su altre dinamiche; coerentemente, nel pieno rispetto dei valori personali di ciascun socio, cura al proprio interno che la proposta cristiana venga fatta a tutti i soci”.

Da qui voglio ripartire, a beneficio di quanti di questa ripartenza possono giovarsi.

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Maternità, grande atto di amore https://www.lavoce.it/maternita-grande-atto-di-amore/ Fri, 02 May 2014 12:15:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24617 maternitaLa maternità come dono e rispetto della vita, come completamento della personalità femminile ma soprattutto come responsabilità genitoriale. Valori diversi che sono i cardini della Festa della maternità, promossa dall’associazione morale e culturale “Festa della maternità” e dalla parrocchia di Santa Maria dell’Oro.

La festa religiosa, che sarà celebrata domenica 11 maggio alle ore 11 al santuario di Santa Maria dell’Oro, è dedicata in particolare alle mamme e alle gestanti, ma vuol far rivivere a tutti una esperienza di fede e di cristianesimo attivo nel sostegno del perpetrarsi della vita in un’atmosfera coinvolgente di amore, tenerezza, felicità e solidarietà.

“Festeggiare la maternità – spiega Francesca Gardenghi, una delle promotrici della festa – significa soprattutto meditare su un atto di amore, quello di dare vita all’essere umano. La maternità viene esaltata soprattutto nella sua spiritualità, affinché contribuisca a modificare l’egoismo e l’aridità con cui si è abituati a vivere, dando testimonianza, non solo del credo religioso, ma anche di maturità civile. I giovani considerano la famiglia il valore primario a cui riferirsi, la famiglia tradizionale fondata sull’amore, capace di costruire rapporti e legami che favoriscano l’educazione dei figli, efficace nell’accogliere l’altro con le sue debolezze. Ma per affrontare le nuove sfide educative poste dalla società contemporanea è necessario stabilire un’alleanza che coinvolge tutti gli adulti, che condividono una responsabilità educativa per incentivare i giovani, nonostante le difficoltà, ad avere progetti ben chiari di vita”.

La festa sarà preceduta giovedì 8 maggio alle ore 16.30 a palazzo Gazzoli dal pomeriggio musicale animato dagli studenti del liceo musicale “Angeloni”, del liceo scientifico “Donatelli”, del liceo classico “Tacito” e dai bambini dell’istituto Leonino di Terni.

Sabato 10 maggio alle ore 9.30 a palazzo Gazzoli si terrà la tavola rotonda “La famiglia: speranza e futuro per una società migliore. Quale potrebbe essere il contributo dei giovani?” con la partecipazione di pedagoghi e animata dagli studenti degli istituti superiori di Terni, Narni, Amelia, Orvieto, Todi, Spoleto e Rieti che hanno partecipato all’omonimo concorso e che durante la manifestazione saranno premiati per i loro elaborati. Tavola rotonda coordinata dal prof. Fausto Dominici e introdotta dalla prof.ssa Gardenghi.

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Todi. Incontro con lo psicologo Vittorino Andreoli: La vera forza dell’amore https://www.lavoce.it/todi-incontro-con-lo-psicologo-vittorino-andreoli-la-vera-forza-dellamore/ Thu, 17 Apr 2014 10:37:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24489 andreoliMartedì 15 aprile, nella sala del Consiglio comunale di Todi gremita da adulti e giovani, dopo il saluto del vescovo Benedetto Tuzia e l’introduzione di don Andrea Rossi e di Gianluca Tomassi, responsabile diocesano del settore Adulti di Azione cattolica, il prof. Vittorino Andreoli, noto psichiatra e scrittore di successo, ha subito catturato l’attenzione della platea parlando dell’educazione e del rapporto tra le generazioni partendo dal titolo della serata: “I giorni dell’amore”.

Andreoli ha spiegato che una delle etimologie della parola amore è “assenza di morte”. Il termine è stato abusato per designare la storia delle coppie, ma è molto di più, è il legame essenziale per l’essere umano, perché senza amore ci si sente morti. Ha proseguito affermando che la vita umana è all’insegna del sentimento della fragilità, che ci fa avvertire limiti che ci portano ad avere relazioni con l’altro: non come oggetto da utilizzare per sentirci forti, ma come soggetto fragile insieme al quale crescere e darsi forza reciproca.

Nella famiglia queste fragilità, se ben “orchestrate”, producono una melodia capace di cambiare le relazioni tra i componenti ed essere segno per la comunità. Non deve esserci un soggetto “forte” deputato a proteggere gli altri. Il padre è chiamato ad essere un “direttore d’orchestra” in grado di armonizzare tutti gli altri componenti, sapendo che ha bisogno del coniuge e dei figli, i quali però in questo momento storico – dove ci si arrende facilmente e non ci si mette in discussione – sono visti come un “problema costoso” anziché persone di cui si ha bisogno.

Si tratta di capovolgere l’idea che la famiglia debba essere “forte”, nel senso del potere, mentre nella storia umana la famiglia si è dimostrata un incontro di fragilità che hanno acquisito significato nell’insieme. Ognuno deve sentirsi parte dell’insieme familiare, deve sentire che nella propria fragilità ha bisogno di fare qualcosa per l’altro di cui ha bisogno, innescando un circuito in cui nessuno si senta estraneo e inadeguato. La fragilità dei componenti di una famiglia, che si scoprono bisognosi l’uno dell’altro, deve portare al piacere di stare insieme, a sentirsi legati da sentimenti autentici che portano ad avere presente sempre l’altro, anche quando non c’è, permettendo “la presenza dell’assente”.

La distinzione tra sentimenti ed emozioni è stato un altro punto affrontato da Andreoli. Il quale, in particolare, ha affermato che in questo momento si è persa la capacità di coltivare i sentimenti, che sono diventati usa-e-getta, per fare spazio alle emozioni, che sono risposte immediate a una situazione, e non sono capaci di costruire relazioni. Il senso di solitudine che si avverte è dovuto alla velocità con cui si buttano via anche i sentimenti, così da non permettere, all’interno delle famiglie e della società, la capacità di costruire relazioni vere.

Continuando ad analizzare altri luoghi dell’educazione, il professore ha parlato poi della scuola, dove non devono valere le stesse dinamiche presenti nell’educazione familiare, perché i ruoli tra insegnanti e alunni vanno ben distinti, ma dove comunque deve emergere ed essere sempre presente l’obiettivo di costruire relazioni basate su sentimenti di reciprocità.

La sfida educativa di questo momento storico – secondo Andreoli – è quella di insegnare ai giovani a vivere e saper gestire i sentimenti e le emozioni, a saper vincere e perdere, a sapersi confrontare con gli altri, a saper ascoltare i consigli dei genitori e a saper “essere contro”, gestendo con intelligenza i conflitti, anche generazionali, senza permettere al disagio giovanile di trasformarsi in violenza distruttiva.

Il prof. Andreoli ha concluso la serata raccontando una storia tratta dall’Epica omerica, la cui morale è che genitori e nonni non devono desiderare che i figli somiglino a loro, ma desiderare che le nuove generazioni siano migliori, più adeguate ai tempi moderni.

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La prolusione del card. Bagnasco al Consiglio permanente Cei: contro le miserie materiali e morali https://www.lavoce.it/la-prolusione-del-card-bagnasco-al-consiglio-permanente-cei-contro-le-miserie-materiali-e-morali/ Thu, 27 Mar 2014 14:57:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=23948 Il card. Angelo Bagnasco mentre tiene la prolusione
Il card. Angelo Bagnasco mentre tiene la prolusione

Una Chiesa che vuole servire il Paese con i “mezzi della debolezza e della povertà” come insegna Papa Francesco, ma che non rinuncia a parlare e a occuparsi di tutto ciò che riguarda gli uomini: così ha detto lunedì sera a Roma, nella prolusione ai lavori del Consiglio episcopale permanente (terminato ieri, giovedì), il presidente della Cei card. Angelo Bagnasco.

Richiamando il messaggio del Papa per la Quaresima, dove si parla di Dio che si rivela al mondo “con i mezzi della debolezza e della povertà”, il Cardinale ha detto che “è con tale spirito che anche noi continueremo il compito di revisione dello Statuto” della stessa Cei, avviato nei mesi scorsi, oltre ad affrontare due “Note di rilievo”: una sulla scuola cattolica, “vero patrimonio del Paese”, e la seconda sull’“Ordo virginum, nuovo carisma per la Chiesa”.

Non ha poi tralasciato di invitare il nuovo Governo “a incidere su sprechi e macchinosità istituzionali e burocratiche, ma soprattutto a mettere in movimento la crescita e lo sviluppo”. Di fronte a una “povertà in rapido e preoccupante aumento” il card. Bagnasco ha richiamato alcuni dati del rapporto Caritas 2014 False partenze di imminente presentazione. Ha ricordato che “gli sforzi delle 220 Caritas diocesane e degli 814 Centri di ascolto si sono moltiplicati, e le iniziative sono in quattro anni raddoppiate, registrando un aumento impressionante di italiani che bussano alla porta, così come di gruppi sociali che fino a oggi erano estranei al disagio sociale… Come vescovi, vogliamo incoraggiare il servizio delle nostre Caritas e dei Centri di ascolto, come di tutte le 25.000 parrocchie e delle molte aggregazioni: è uno spiegamento di persone e di risorse che umilmente affronta un’onda sempre più grande e minacciosa”.

Parlando di “miseria morale e spirituale”, il Presidente della Cei ha ricordato come nel primo caso si divenga “schiavi del vizio e del peccato”, causa non infrequente anche di “rovina economica”; e nel secondo ci si allontana da Dio “rifiutando il Suo amore”. “L’autosufficienza è la forma sostanziale di ogni peccato”, e una forma particolare e attuale di questa “alterigia” è rappresentata dalla “violenza accattivante delle ideologie”. Ha qui fatto l’esempio del fatto che “l’obiezione di coscienza è ormai sul banco europeo degli imputati. Non è più un diritto dell’uomo? Perché accade che in Europa alcune serie ‘raccomandazioni’ sono tranquillamente disattese, mentre altre, non senza ideologismo, vengono assunte come vincoli obbliganti?”.

“L’Occidente non è più al centro del mondo”, ha proseguito, anche per certi comportamenti ambigui e “ricattatori” verso i popoli poveri, quali “finanziamenti in cambio di leggi immorali” (in riferimento ai temi della vita, famiglia, contraccezione, ecc.). Il Cardinale ha giudicato questa azione politica una “corruzione dell’umanesimo”, ammonendo che “se l’Occidente vuole corrompere l’umanesimo, sarà l’umanesimo che si allontanerà dall’Occidente e troverà altri lidi meno ideologici e più sensati”.

Per questo – ha aggiunto, citando il Papa – “i Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito della evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi nell’ambito del privato”.

Sviluppando il concetto di “difesa della vita” da quella nascente fino al suo termine naturale, ha poi affermato che “è una visione iper-individualista all’origine dei mali del mondo, tanto all’interno delle famiglie quanto nell’economia, nella finanza e nella politica. Ma il sentire profondo del nostro popolo è diverso”.

Tra le conseguenze, “aree diverse di sviluppo e risorse, di ricchi e di poveri, di giustizia e di ingiustizia, di diritti umani proclamati e di fatto violati, ad esempio i diritti del bambino, oggi sempre più aggredito: ridotto a materiale organico da trafficare, o a schiavitù, o a spettacolo crudele, o ad arma di guerra, quando non addirittura esposto all’aborto o alla tragica possibilità dell’eutanasia”. E ancora, “la tratta delle donne, la violazione, a volte fino alla morte, della loro dignità”. E “forme di violenza e di barbara criminalità che assume anche forme organizzate e mafiose, come è stato ricordato nei giorni scorsi dal Santo Padre incontrando i familiari delle vittime”.

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“La risorsa principale è riconoscere i valori reciproci” https://www.lavoce.it/la-risorsa-principale-e-riconoscere-i-valori-reciproci/ Mon, 10 Mar 2014 15:56:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=23479 Vaticano,-22-gennaio--udienza-generale-di-Papa-Francesco-Dobbiamo saperci incontrare. Dobbiamo edificare, creare, costruire una cultura dell’incontro. Uscire a incontrarci”. È la richiesta espressa da Papa Francesco in occasione dell’ultima festa di san Gaetano in Argentina. Più di un appello, quello rivolto al popolo in una delle ricorrenze preferite dal Bergoglio arcivescovo di Buenos Aires, per indicare ancora una volta la strada da percorrere: aprire le porte, varcare l’uscio e scendere in strada per incontrare le persone e dialogare con loro. Mettendo al centro, sempre e ovunque, gli ultimi: “Il Papa ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo – scrive nella ‘Evangelii Gaudium’ -, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo”. Della Chiesa aperta e inclusiva guidata dall’annuncio e dalla testimonianza, che nella “cultura dell’incontro” trova la chiave di volta per costruire un mondo più giusto, abbiamo parlato con lo storico del pensiero politico Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.

La “scelta per i poveri” non è riflessione astratta ma “promozione di giustizia” che si realizza nell’incontro. Chi sono i poveri di oggi?

“I poveri non sono soltanto quella parte di umanità che porta il dono del riscatto. Sono anche un punto di vista sulla realtà. E questa, per me che ho una formazione e una cultura da non credente, è una scelta che condivido: guardare il mondo dalla parte degli ultimi. È un po’ la prosecuzione dell’idea del Machiavelli: dai bordi si capisce meglio l’insieme. E questa è anche la sostanza del messaggio del Papa. Non sta soltanto affermando valori fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa cattolica o del cristianesimo, sta dicendo anche che se non si è capaci di guardare il mondo con tutte le sue contraddizioni e possibilità non lo si può capire davvero. Da non credente, condivido pienamente”.

Cultura dell’incontro è anche saper accogliere le persone che migrano da Paesi lontani…

“È una questione non soltanto di equità, bontà e carità ma di intelligenza del mondo. Non è concepibile pensare le nazionalità come ce le ha consegnate la storia della modernità europea: unità di lingua, cultura, territorio e sovranità determinata. Stiamo vivendo un passaggio in cui il multi-culturalismo, la multi-etnicità e la multi-religiosità saranno i confini di una nuova definizione in corso d’opera di quello che chiamiamo popolo. E allora come si fa a non vivere questa fase con apertura, certo trepidante e responsabile, guardando a chi questa storia l’ha già vissuta prima come l’America Latina”.

Anche la fede nasce da un “incontro” personale con Cristo. Come può esserci un riconoscimento reciproco di valori tra credenti e non credenti?

“Il percorso è iniziato a partire dal Concilio e da Giovanni XXIII. Ora però ci troviamo alla prova dei fatti perché in ultima analisi, dal punto di vista della possibile e perfezionabile unità del genere umano, ciò che ereditiamo dalla modernità è una progressiva distinzione nel rapporto tra la politica e la religione. E quindi tra credenti e non credenti. Impostare il problema in termini di incontro e collaborazione significa allora partire da una visione positiva della modernità, riconoscendo che il destino non è segnato dal nichilismo. A me, che non sono figlio di una cultura religiosa ma della lezione di Palmiro Togliatti, sembra evidente che la risorsa principale sia riconoscere i valori reciproci”.

Le disuguaglianze sociali sono di fronte agli occhi di tutti. Bisogna avere coraggio per credere di poter modificare le cose…

“I tempi non cambiano mai da soli, siamo noi che possiamo trasformarli in meglio o in peggio. E questo dipende dalle idee e dalla speranza che abbiamo nella testa e nel cuore. La speranza è la categoria che apre all’unità tra credenti e non credenti e all’idea di un tempo aperto al futuro”.

Dialogo e incontro per superare i conflitti e cercare la pace. C’è speranza anche per una società segnata dalla contrapposizione?

“La divisione è più in superficie che nella sostanza. Pensiamo ad un tema sensibile al Papa, come quello del ruolo delle donne. Quando in uno dei momenti di maggiore lacerazione regressiva e depressiva del Paese nasce per iniziativa di un piccolo gruppo di donne un movimento che, lasciando alle spalle il vecchio femminismo, rivendica la dignità della donna e tenta di ricucire l’unità politica, culturale e religiosa della nazione portando in centinaia di piazze italiane un milione di persone, significa che sotto la corteccia di una politica impoverita e ridotta a guerre senza principi… il Paese è vivo e avverte bisogni di altra natura. E anche la Chiesa lo percepisce, basti pensare alla folla che si riversa ogni settimana in piazza San Pietro. Osservo tutto ciò con interesse morale e culturale, lo stesso che mi ha portato la sera in cui è morto Papa Giovanni ad andare in piazza e scoprire che la metà dei presenti erano miei compagni del Pci”.

Quindi cambiando la Chiesa si può cambiare il mondo…

“Non ho alcuna titolarità per chiedere questo alla Chiesa perché non ne faccio parte se non, potremmo dire, come popolo di Dio. Ma non posso che stare a guardare con entusiasmo”.

Riccardo Benotti

 

Biografia: Giuseppe Vacca

Nato a Bari nel 1939, si è laureato in Filosofia del diritto nel 1961 discutendo una tesi sulla filosofia politica e giuridica di Benedetto Croce. Dopo la laurea, ha collaborato per un anno come redattore alla casa editrice Laterza, per dedicarsi in seguito prevalentemente alla ricerca. Fin dagli anni giovanili ha sempre svolto una intensa attività politica e di organizzatore di cultura. Docente in Storia delle dottrine politiche, ha fatto parte del Consiglio di amministrazione della Rai ed è stato deputato nelle liste del Pci nella IX e X legislatura. Nei primi anni di ricerca ha studiato l’idealismo novecentesco e l’hegelismo italiano del secondo Ottocento, con attenzione prevalente alla genesi del marxismo in Italia. Ha rivolto poi i suoi studi alla storia del marxismo contemporaneo. Quindi alla società italiana e in particolare alla cultura e alla politica del Novecento, soprattutto l’età repubblicana. È presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma e della Commissione scientifica dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Fra le sue opere principali: Politica e filosofia in Bertrando Spaventa (Laterza), Scienza, Stato e critica di classe (De Donato), L’informazione negli anni Ottanta (Editori Riuniti), Il marxismo e gli intellettuali (Editori Riuniti), Vent’anni dopo. La sinistra fra mutamenti e revisioni (Einaudi), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca (Einaudi), Il riformismo italiano (Fazi Editore).

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“Niente ideologia solo qualità della vita cristiana” https://www.lavoce.it/niente-ideologia-solo-qualita-della-vita-cristiana/ Mon, 10 Mar 2014 15:35:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=23466 Roma,-16-febbraio--visita-pastorale-di-Papa-Francesco-alla-parrocchia-“San-Tommaso-Apostolo”-all’Infernetto,-nel-settore-sud-della-diocesi-di-Roma-scampio-berrette-tra-papa-francesco-e-ragazzoFrancesco, “il riformatore”. Mentre si chiude il primo anno di pontificato di Papa Bergoglio, tante sono le riflessioni sulla “ventata di novità” portata nella Chiesa universale dal primo Pontefice latinoamericano. Il tutto viene condensato in una parola: riforma. Un termine “inscindibile dalla storia della Chiesa”, sottolinea Massimo Faggioli, docente di storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis / St. Paul (Usa). Dagli Stati Uniti, in cui vive e insegna, lo storico ci offre una lettura a tutto tondo del “percorso nuovo e diverso” aperto dall’elezione di Papa Francesco.

La parola riforma è ritornata spesso nella storia della Chiesa. Quale impatto ha avuto nel corso dei secoli?

“La parola riforma è inscindibile dalla storia del cristianesimo – e questo dice molto del significato della frequenza della parola ‘riforme’ nel lessico politico contemporaneo. Fin da subito, prima del Medioevo, si ha la sensazione della necessità del ritorno a una ‘forma’ originale che è andata perdendosi nella storia. In questo senso, la storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica, in particolare, è una storia di riforme (quella di Gregorio VII del secolo XI, quelle dei nuovi ordini religiosi medievali, quella del Concilio di Trento, del Vaticano II) ma anche di riforme mancate (quelle che portarono alla Riforma protestante e alla rottura dell’unità del cristianesimo in Occidente). Di qui l’importanza del momento attuale: comprendere quali riforme sono necessarie, nella Chiesa di oggi, al fine di evitare di parlare tra qualche decennio di ‘mancate riforme’”.

A un anno dall’elezione, Papa Francesco viene annoverato dall’opinione pubblica, ma non solo, tra le grandi figure riformatrici del passato. Quali analogie e quali differenze? E cosa spinge a una tale lettura?

“Le differenze sono principalmente nel carattere globale e universale della Chiesa cattolica di oggi rispetto ai secoli precedenti, ma anche solo rispetto a 50 anni fa. In questo c’è una differenza anche rispetto a Giovanni XXIII del Vaticano II. Ma vi sono pure analogie, nel senso che Francesco è una figura che come Roncalli, nel solco della tradizione, la reinterpreta in un modo che cattura l’attenzione di tutti perché parla della qualità della vita cristiana come bussola della riforma e mette da parte ogni tentazione d’ideologizzazione della riforma”.

Sono trascorsi cinque secoli dal “Libellus ad Leonem X” (1513) con cui veniva suggerito al Papa un programma di riforma radicale. Ora è lo stesso Pontefice a istituire un Consiglio di cardinali per “aiutare il Santo Padre nel governo della Chiesa” e per “studiare un progetto” di riforma. Corsi e ricorsi storici?

“I due momenti sono simili. Vi è la sensazione, oggi come all’inizio del Cinquecento, che la Chiesa sia in ritardo: nel Cinquecento rispetto alla cultura umanistica e delle lettere e all’idea della necessità di una credibilità morale personale; oggi è un ritardo della Chiesa nell’accettare, nel suo magistero, una certa idea di evoluzione della persona umana che è avvenuta nella cultura dell’ultimo mezzo secolo. Ancora più grave è la questione istituzionale. Oggi la Chiesa è ancora molto clericale: meno di 50 anni fa, ma ancora molto più del necessario. Infine, la Chiesa di oggi è diversa da quella del ‘Libellus’ del 1513 anche perché non è più dominata da alcune élite, ma è molto più ‘popolare’ nel senso di élite aperte al ricambio – più di una volta – e molto più trasparente e sotto il giudizio impietoso dei media”.

“Ecclesia semper reformanda”, recita uno slogan protestante; “Ecclesia semper purificanda”, afferma il Vaticano II in “Lumen gentium” (8): due affermazioni che sembrano intrecciarsi guardando all’anno appena trascorso.

“Riforma e purificazione devono andare sempre insieme: altrimenti la prima è soltanto una riorganizzazione burocratica e la seconda soltanto una spiritualizzazione dei problemi che non incide sulle pratiche comunitarie e collettive. A guardare alla Chiesa degli ultimi anni, specialmente nell’anno prima del Conclave del 2013, il rischio è stato quello di procedere a un’opera di pulizia – o a una semplice ‘operazione di polizia’ – che lasciasse intatte le mentalità e la coscienza della Chiesa stessa. Ma l’elezione di Papa Francesco ha aperto un percorso nuovo e diverso”.

Un percorso di conversione che va oltre le strutture e interpella ciascun credente?

“In realtà è sempre stato così, anche con Gregorio VII alla fine del secolo XI: ogni percorso di riforma istituzionale attecchisce solo se si collega a un cambiamento delle mentalità e dei costumi. La differenza è che oggi quello che fa il Papa è sotto gli occhi, sotto il controllo di tutti, diversamente da prima, soltanto qualche decennio fa. In questo senso il processo di riforma della Chiesa oggi è più ‘papalista’ di una volta, e questo è un rischio, nel senso di una Chiesa che ha sempre più bisogno del Papa: ma il Papa ha detto che non è questo che vuole…”.

In definitiva, cosa chiede Papa Francesco?

“Poveri, misericordia e periferie sono le parole chiave del Pontificato. Come ho detto nel mio libro ‘Papa Francesco e la chiesa-mondo’ (Armando Editore, 2014), queste parole chiave aprono non solo un periodo di riforma nella Chiesa, ma anche un’epoca storica nuova per il cattolicesimo: il primo Papa di una Chiesa cattolica veramente globale non solo dal punto di vista dei recettori del messaggio, ma anche da quello di coloro che il messaggio lo inviano. Sotto Papa Francesco vediamo a un interessantissimo cambiamento del rapporto tra urbs e orbis nella Chiesa cattolica”.

Vincenzo Corrado

 

Biografia: Massimo Faggioli

Ferrarese classe 1970, è professore di storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis / St. Paul. Ha studiato a Bologna, Torino e Tubinga. Vive in America con Sarah e la loro figlia Laura dal 2008. Tra le sue pubblicazioni, Breve storia dei movimenti cattolici (Roma: Carocci 2008, traduzione spagnola 2011 e americana 2014); Vatican II: The Battle for Meaning (New York: Paulist 2012, traduzioni italiana e portoghese 2013); Vera riforma. Liturgia ed ecclesiologia al Vaticano II (EDB: Bologna 2013; ed. or. americana 2012).

 

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Foibe: gli europei hanno capito? https://www.lavoce.it/foibe-gli-europei-hanno-capito/ Thu, 13 Feb 2014 15:41:57 +0000 https://www.lavoce.it/?p=22235 Operazioni di recupero dei resti delle vittime in una Foiba
Operazioni di recupero dei resti delle vittime in una Foiba

Sono trascorsi due lustri da quando il Parlamento italiano, il 30 marzo 2004, ha istituito il Giorno del Ricordo, scegliendo la data del 10 febbraio per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Sono trascorsi quasi 70 anni; i testimoni diretti si riducono di stagione in stagione, e per questo diviene ancora più impellente il dovere della memoria. Ma non per antistoriche rivendicazioni territoriali o per pericolosi (e purtroppo sempre e ovunque presenti) rigurgiti nazionalistici. Non affidare quegli avvenimenti all’oblio della Storia, risponde, innanzitutto, al dovere di onorare il debito morale che il nostro Paese ha contratto con coloro che patirono violenze fisiche e morali inenarrabili, e la cui vicenda per troppo tempo è stata avvolta nel silenzio connivente delle istituzioni. Quasi dovesse essere loro addebitata la colpa per essere state le vittime di un regime – quello di Tito – che nella sua cieca violenza non si distaccava da quelli, nazista e fascista, che l’avevano preceduto in quegli stessi territori, cercando nell’ideologia la propria giustificazione. Se quegli uomini e quelle donne a migliaia avevano concluso la loro esistenza terrena nelle foibe che violentano la pietra del Carso penetrando nella sua anima più profonda; se avevano dovuto abbandonare, da un giorno all’altro, le loro case di Fiume o di Pola, i loro cari nei cimiteri sparsi in tanti paesini di Istria e Dalmazia; se tutto questo era avvenuto, un motivo “validante” doveva esserci stato. Dinanzi a chi “pretendeva addirittura” di conoscere il luogo dove recitare una preghiera e portare un fiore in ricordo dei propri familiari, le porte rimanevano sempre chiuse: era meglio che di loro non si parlasse e che sulle loro storie scendesse una damnatio memoriae durata oltre mezzo secolo. Ma c’è un secondo, forse ancora più importante motivo, per cui è importante celebrare la giornata del 10 febbraio. Gli avvenimenti di allora devono rappresentare un monito per gli europei di oggi, specie per le nuove generazioni. Nelle foibe non sono finiti italiani, sloveni, tedeschi, militari, funzionari pubblici, sacerdoti… sono finiti uomini e donne di lingua, cultura, religione diverse ma divenuti fratelli e accomunati nello stesso tragico destino dell’essere vittime di una violenza cieca e brutale il cui obiettivo principale era distruggere la dignità dell’uomo. Il resto (l’ideologia, il credo politico…) erano solo tentativi per cercare di giustificare quello che in ogni caso non poteva né doveva né deve essere giustificato. A leggere però la storia europea di questi ultimi decenni, a ripensare a quanto avvenuto nei Paesi della ex Jugoslavia alla fine del secolo scorso, ci rendiamo conto di come troppo breve sia la nostra memoria. “Pulizia etnica”, fosse comuni, deportazioni di massa sono parole ritornate frequentemente nelle cronache dei mass media. Per essere, altrettanto velocemente, dimenticate. Fino alla prossima occasione. Eppure, per i credenti, il dovere del ricordo non avrebbe senso se non si accompagnasse a un preciso impegno per la riconciliazione. Una riconciliazione che va ben oltre il perdono ma indica un gesto da compiere insieme: “Non possiamo non intraprendere – ricordò il beato Giovanni Paolo II durante la sua storica visita a Sarajevo nell’aprile 1997 – il difficile ma necessario pellegrinaggio del perdono che porta a una profonda riconciliazione”. E solo da esso, sia detto senza retorica, può passare la costruzione di un futuro diverso per il nostro Continente. Un impegno, ancora più impellente e significativo, se espresso in questo 2014 in cui si ricordano i 100 anni dall’inizio di quella che la voce inascoltata e solitaria di Papa Benedetto XV definì la “inutile strage”.

A Perugia e Marsciano

Il “Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano – dalmata, delle vicende del confine orientale” è stato celebrato con una cerimonia ufficiale anche a Perugia con la deposizione di una corona di alloro nel parco “Vittime delle foibe” di Madonna Alta. La Giunta comunale era rappresentata dall’assessore Lorena Pesaresi, presenti la presidente del Comitato 10 Febbraio, Raffaella Rinaldi, il consigliere Varasano e il consigliere Castori. Anche a Marsciano è stata deposta una corona di alloro in largo Vittime delle foibe, nella zona del palazzetto dello sport.

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Il Regno dei cieli è già qui https://www.lavoce.it/commento-al-vangelo-5/ Thu, 23 Jan 2014 15:44:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=21634 “Il Regno dei cieli è qui”. La più grande rivoluzione della storia dell’umanità inizia con questa breve frase. In queste poche parole è condensato l’amore di Dio per tutti gli uomini di ogni epoca. Il regno di Dio non è semplicemente vicino, non sta arrivando, non è soltanto a portata di mano: è qui! È il luogo dentro il quale siamo immersi.

Il brano del Vangelo che andiamo a leggere questa domenica segna il passaggio di testimone tra l’attività di Giovanni Battista (di cui abbiamo parlato domenica scorsa) e quella di Gesù Cristo. Il cammino di Gesù per le strade della Galilea inizia con questa affermazione: “Il Regno dei cieli è qui”, e ancora: “Convertitevi”. Che significato hanno queste affermazioni? “Convertitevi” non è tanto un’affermazione di carattere morale, o almeno non in via principale. È una richiesta di attenzione che Gesù pone agli uomini, pone a noi, a me, a te. Convertiti, cioè volgi il tuo sguardo verso di me. Stai guardando nella direzione sbagliata, stai dando attenzione a cose secondarie, stai ritenendo importanti per te, per la tua famiglia, cose che non lo sono o lo sono molto poco. “Convertiti”, una sola parola ma densa di significato: stai guardando un orizzonte che non ti aiuterà a trovare la felicità. Punta il tuo sguardo, la tua attenzione, i tuoi desideri, verso di Me, verso il suono della mia parola, verso la luce della mia persona; cambia direzione al tuo cuore, guarda il cammino che io ti indico. Che cosa ci indica Gesù? Ci indica che il suo regno è qui. Ora. In questo momento della nostra vita, in cui i conti non tornano. In cui i prepotenti e gli arroganti vincono e governano.

In questo momento di dolore, in questo momento in cui ci sembra di essere perduti. In questo momento il Regno dei cieli è qui. Nelle domeniche che seguiranno leggeremo altri brani del Vangelo in cui Gesù spiegherà in modo sempre più pieno cosa sia il regno di Dio, ma già ora ci anticipa dei “pezzi di significato”. Dire che il regno di Dio è qui significa dire che Dio, proprio ora, sta regnando sulla terra. Se è iniziato il regno del Padre, il regno di Colui che è fedele, allora possiamo dire che ha avuto inizio il regno della promessa. Quello del Padre è il regno che racchiude tutti i desideri dell’uomo, la sua libertà, la sua felicità, la sua immortalità, la sua salvezza.

È il regno delle promesse che Dio ha riservato all’intera umanità e a ognuno di noi personalmente. Tramite Gesù Cristo questo Regno è iniziato ormai circa 2.000 anni fa. È iniziato con parole semplici ma profondamente rivoluzionarie. Come la parola “seguitemi” che viene rivolta ai primi apostoli: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni. Seguimi, vieni dietro di me. Entra nel regno del Padre, che già ti avvolge; scegli di appartenere a quel Regno, dove le promesse che tuo Padre ti ha fatto, fin da quando ti ha pensato, si compiono. Gesù è il primo ad andare a pesca di uomini. Ci “pesca” con la sua voce che mira dritto al nostro cuore; ci pesca dall’abisso dove ci siamo perduti, dove non entra più luce, né per noi né per le nostre famiglie. Spetta a noi lasciarci pescare. Rispondere a quella voce con la stessa prontezza degli apostoli.

Ma noi quali aspettative coltiviamo nelle nostre famiglie? Da chi ci aspettiamo che venga la salvezza? Come facciamo a riconoscere la voce che salva in mezzo alle tante voci che ci bombardano ogni giorno? È un discorso che meriterebbe spazio e magari anche un luogo di confronto. Qualcosa possiamo dirla però. La voce di Gesù punta al cuore. È così anche per le molte altre voci che chiassose ci arrivano ogni giorno? C’è una vera via di uscita, immediata, dalla palude in cui la nostra società si è inabissata, come molti vorrebbero farci credere? Oppure quella voce che ci chiede di iniziare un cammino per costruire il Regno è l’unica veramente credibile? Fidiamoci del Dio fedele e facciamo iniziare il regno qui, ora, perché “il popolo che sedeva nelle tenebre vide una grande luce”.

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