mafia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/mafia/ Settimanale di informazione regionale Thu, 19 Sep 2024 16:27:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg mafia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/mafia/ 32 32 Giornata della memoria delle vittime di mafia e dell’impegno https://www.lavoce.it/giornata-della-memoria-delle-vittime-di-mafia-e-dellimpegno/ https://www.lavoce.it/giornata-della-memoria-delle-vittime-di-mafia-e-dellimpegno/#respond Thu, 14 Mar 2024 08:00:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75246

Per la 29ma edizione della Giornata della memoria delle vittime di mafia e dell’impegno, quest’anno viene rievocato il titolo di un famoso film del neorealismo, Roma città aperta.Su Roma l’importante è fare i soldi, i morti non li vuole nessuno. Roma è una macina di soldi, una banca di soldi per tutti i gruppi criminali, quindi si sa benissimo che i morti meno se ne fanno o se non se ne fanno per niente è la miglior cosa”.

Sono le parole di un collaboratore di giustizia durante il processo Gramigna che ci fa comprendere come le mafie abbiano cambiato pelle e si sono rese più pervasive e camaleontiche per arricchirsi e affermare il proprio potere. Pertanto il fenomeno non riguarda solo la capitale ma ogni città e, oltre i confini, tutte le nazioni.

Tutti siamo chiamati a riprendere i fili di una nuova resistenza nello spirito di quella che animò le donne e gli uomini descritti dal film che dà il titolo all’edizione di quest’anno che si svolge il 21 marzo, primo giorno di primavera.

Vale la pena ricordare che la Giornata, pur iniziata da Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie insieme ad Avviso pubblico, il coordinamento dei comuni impegnati nella legalità contro le mafie, dal 2017 è riconosciuta ufficialmente dallo Stato. Anche per questo è importante che veda l’impegno di ogni cittadina/o nelle scelte personali, politiche, sociali, educative ed economiche.

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Per la 29ma edizione della Giornata della memoria delle vittime di mafia e dell’impegno, quest’anno viene rievocato il titolo di un famoso film del neorealismo, Roma città aperta.Su Roma l’importante è fare i soldi, i morti non li vuole nessuno. Roma è una macina di soldi, una banca di soldi per tutti i gruppi criminali, quindi si sa benissimo che i morti meno se ne fanno o se non se ne fanno per niente è la miglior cosa”.

Sono le parole di un collaboratore di giustizia durante il processo Gramigna che ci fa comprendere come le mafie abbiano cambiato pelle e si sono rese più pervasive e camaleontiche per arricchirsi e affermare il proprio potere. Pertanto il fenomeno non riguarda solo la capitale ma ogni città e, oltre i confini, tutte le nazioni.

Tutti siamo chiamati a riprendere i fili di una nuova resistenza nello spirito di quella che animò le donne e gli uomini descritti dal film che dà il titolo all’edizione di quest’anno che si svolge il 21 marzo, primo giorno di primavera.

Vale la pena ricordare che la Giornata, pur iniziata da Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie insieme ad Avviso pubblico, il coordinamento dei comuni impegnati nella legalità contro le mafie, dal 2017 è riconosciuta ufficialmente dallo Stato. Anche per questo è importante che veda l’impegno di ogni cittadina/o nelle scelte personali, politiche, sociali, educative ed economiche.

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Pietralunga. Rinascita post-mafia https://www.lavoce.it/pietralunga-rinascita-post-mafia/ https://www.lavoce.it/pietralunga-rinascita-post-mafia/#respond Wed, 19 Jul 2023 13:36:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=72327

La grande Storia italiana accanto alle storie più piccole, ma comunque importanti, vicine a casa nostra. Nel giorno della commemorazione della strage di via D’Amelio a Palermo, 31 anni dopo l’attentato mafioso al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta, anche l’Umbria taglia un nastro importante, lontano da troppe formalità e con grande concretezza.

Fa una certa impressione sapere che a Pietralunga, paesino tranquillo tra Città di Castello e Gubbio, erano arrivati i tentacoli della cosca ’ndranghetista De Stefano, considerata una delle più potenti e influenti della Calabria, con interessi ben al di fuori dei confini regionali e nazionali. I procedimenti giudiziari che hanno coinvolto le famiglie Tegano e Tripodo hanno portato anche alla confisca di beni di loro proprietà tra le colline dell’Umbria settentrionale.

L'inaugurazione di un ostello della legalità

Ora, dopo ben quindici anni dall’inizio della vicenda, l’inaugurazione di un vero e proprio ostello della legalità riaccende i riflettori sulla storia e segna un nuovo inizio. L’ex complesso conventuale di Sant’Agostino, nel centro storico pietralunghese, sarà ora a disposizione della comunità, come il casolare e i 95 ettari dell’azienda agraria Col della Pila, a poca distanza dal borgo. Un fondo abbandonato a se stesso sul quale - negli ultimi anni - i volontari dell’associazione Libera hanno già organizzato campi di lavoro. Insieme a loro, in prima linea nel rivitalizzare questi patrimoni ci sarà la cooperativa sociale “Paneolio”, che intende rilanciare le attività per dare lavoro a soggetti svantaggiati e valorizzare il territorio e le sue produzioni agricole tipiche.

La speranza è quella di convertire i frutti del “male” mafioso in qualcosa che farà del bene a tutti. Certo, la giornata inaugurale dedicata ai beni confiscati e recuperati ha sollevato anche alcune riflessioni. Quello di Pietralunga (lo stesso vale per un palazzo nel centro di Acquasparta) è stato un percorso complesso e tortuoso, frutto di una legislazione specifica che va migliorata e aggiornata.

Poi, la carta vincente in questa vicenda è stata l’alleanza tra forze dell’ordine, magistratura, istituzioni locali, associazioni e cooperazione. Infine, sarebbe utile prevedere risorse pubbliche da destinare a progetti di rilancio di questi beni confiscati, anche per evitare che tornino in mani sbagliate, come già accaduto.

Un ultimo pensiero: luoghi e progetti come quello di Pietralunga sono “aule” eccezionali dove i nostri giovani possono sperimentare responsabilità e cittadinanza attiva. Dunque, sono occasioni preziose da non sprecare, e che ciascuno di noi dovrebbe sentire un po’ anche “sue”.

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La grande Storia italiana accanto alle storie più piccole, ma comunque importanti, vicine a casa nostra. Nel giorno della commemorazione della strage di via D’Amelio a Palermo, 31 anni dopo l’attentato mafioso al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta, anche l’Umbria taglia un nastro importante, lontano da troppe formalità e con grande concretezza.

Fa una certa impressione sapere che a Pietralunga, paesino tranquillo tra Città di Castello e Gubbio, erano arrivati i tentacoli della cosca ’ndranghetista De Stefano, considerata una delle più potenti e influenti della Calabria, con interessi ben al di fuori dei confini regionali e nazionali. I procedimenti giudiziari che hanno coinvolto le famiglie Tegano e Tripodo hanno portato anche alla confisca di beni di loro proprietà tra le colline dell’Umbria settentrionale.

L'inaugurazione di un ostello della legalità

Ora, dopo ben quindici anni dall’inizio della vicenda, l’inaugurazione di un vero e proprio ostello della legalità riaccende i riflettori sulla storia e segna un nuovo inizio. L’ex complesso conventuale di Sant’Agostino, nel centro storico pietralunghese, sarà ora a disposizione della comunità, come il casolare e i 95 ettari dell’azienda agraria Col della Pila, a poca distanza dal borgo. Un fondo abbandonato a se stesso sul quale - negli ultimi anni - i volontari dell’associazione Libera hanno già organizzato campi di lavoro. Insieme a loro, in prima linea nel rivitalizzare questi patrimoni ci sarà la cooperativa sociale “Paneolio”, che intende rilanciare le attività per dare lavoro a soggetti svantaggiati e valorizzare il territorio e le sue produzioni agricole tipiche.

La speranza è quella di convertire i frutti del “male” mafioso in qualcosa che farà del bene a tutti. Certo, la giornata inaugurale dedicata ai beni confiscati e recuperati ha sollevato anche alcune riflessioni. Quello di Pietralunga (lo stesso vale per un palazzo nel centro di Acquasparta) è stato un percorso complesso e tortuoso, frutto di una legislazione specifica che va migliorata e aggiornata.

Poi, la carta vincente in questa vicenda è stata l’alleanza tra forze dell’ordine, magistratura, istituzioni locali, associazioni e cooperazione. Infine, sarebbe utile prevedere risorse pubbliche da destinare a progetti di rilancio di questi beni confiscati, anche per evitare che tornino in mani sbagliate, come già accaduto.

Un ultimo pensiero: luoghi e progetti come quello di Pietralunga sono “aule” eccezionali dove i nostri giovani possono sperimentare responsabilità e cittadinanza attiva. Dunque, sono occasioni preziose da non sprecare, e che ciascuno di noi dovrebbe sentire un po’ anche “sue”.

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Per non dimenticare le vittime della mafia. Che va riconosciuta e stanata https://www.lavoce.it/per-non-dimenticare-le-vittime-della-mafia-che-va-riconosciuta-e-stanata/ Fri, 17 Mar 2023 08:48:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=70860 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

La Giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti di mafia e dell’impegno quest’anno si svolgerà a Milano. Come sempre sarà il 21 marzo, primo giorno di primavera. La lettura dei nomi delle vittime sarà al centro della manifestazione per indicare la scia di sangue che la presenza mafiosa ha lasciato lungo la storia del nostro Paese.

Tante saranno le iniziative locali anche in Umbria per tenere viva la consapevolezza di un impegno che non può permettersi distrazioni e leggerezze. Il problema non è costituito soltanto dalla presenza delle organizzazioni tradizionali ma da una subcultura che si fa mentalità diffusa e radicata.

Una “mafia liquida” che capita frequentemente di rintracciare nei mondi della politica, dell’informazione, dell’economia, dell’istruzione… e della quotidianità. Si nutre di piccoli privilegi, di fette di un potere esercitato come strapotere e con prepotenza, di imposizioni, ricatti sottili, corruzioni e minacce velate. Spesso la chiamiamo diversamente ma è mafia. Una mafia che ha fatto scuola e che va prima riconosciuta e poi stanata.

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La Giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti di mafia e dell’impegno quest’anno si svolgerà a Milano. Come sempre sarà il 21 marzo, primo giorno di primavera. La lettura dei nomi delle vittime sarà al centro della manifestazione per indicare la scia di sangue che la presenza mafiosa ha lasciato lungo la storia del nostro Paese.

Tante saranno le iniziative locali anche in Umbria per tenere viva la consapevolezza di un impegno che non può permettersi distrazioni e leggerezze. Il problema non è costituito soltanto dalla presenza delle organizzazioni tradizionali ma da una subcultura che si fa mentalità diffusa e radicata.

Una “mafia liquida” che capita frequentemente di rintracciare nei mondi della politica, dell’informazione, dell’economia, dell’istruzione… e della quotidianità. Si nutre di piccoli privilegi, di fette di un potere esercitato come strapotere e con prepotenza, di imposizioni, ricatti sottili, corruzioni e minacce velate. Spesso la chiamiamo diversamente ma è mafia. Una mafia che ha fatto scuola e che va prima riconosciuta e poi stanata.

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Il lascito morale di Paolo Borsellino, 30 anni dopo https://www.lavoce.it/il-lascito-morale-di-paolo-borsellino-30-anni-dopo/ Fri, 15 Jul 2022 14:48:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=67706

Il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) piuttosto che celebrare l’eroismo delle vittime, dovrebbe spronarci a proseguire con determinazione due obiettivi. Innanzitutto pretendere verità e giustizia per una vicenda che negli anni ha registrato ostacoli e depistaggi, collusioni e convergenze di interessi. Poi riuscire a considerare più attentamente il fenomeno mafioso, che influenza e condiziona la nostra vita collettiva tanto sul piano economico e sociale quanto su quello culturale ed educativo. Non si tratta semplicemente di una questione di ordine pubblico, quanto di una mentalità che contagia i nostri vissuti e orienta i comportamenti. Per quanto possa apparire paradossale, il diffondersi della “discultura” mafiosa è favorita dal nostro disinteresse, dal momento che le mafie, da tempo, hanno imparato a non fare rumore con uccisioni e stragi, ma a creare consenso con la pratica della corruzione e presentandosi come soggetto economico vincente. Tutti questi fattori hanno spinto le mafie oltre quelli che credevamo i loro confini naturali, per sfruttare ogni aspetto della globalizzazione. È passato troppo tempo da quel 19 luglio 1992, e il debito che abbiamo contratto con Paolo Borsellino e con tutti coloro che hanno pagato con la vita ha maturato una montagna di interessi.]]>

Il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) piuttosto che celebrare l’eroismo delle vittime, dovrebbe spronarci a proseguire con determinazione due obiettivi. Innanzitutto pretendere verità e giustizia per una vicenda che negli anni ha registrato ostacoli e depistaggi, collusioni e convergenze di interessi. Poi riuscire a considerare più attentamente il fenomeno mafioso, che influenza e condiziona la nostra vita collettiva tanto sul piano economico e sociale quanto su quello culturale ed educativo. Non si tratta semplicemente di una questione di ordine pubblico, quanto di una mentalità che contagia i nostri vissuti e orienta i comportamenti. Per quanto possa apparire paradossale, il diffondersi della “discultura” mafiosa è favorita dal nostro disinteresse, dal momento che le mafie, da tempo, hanno imparato a non fare rumore con uccisioni e stragi, ma a creare consenso con la pratica della corruzione e presentandosi come soggetto economico vincente. Tutti questi fattori hanno spinto le mafie oltre quelli che credevamo i loro confini naturali, per sfruttare ogni aspetto della globalizzazione. È passato troppo tempo da quel 19 luglio 1992, e il debito che abbiamo contratto con Paolo Borsellino e con tutti coloro che hanno pagato con la vita ha maturato una montagna di interessi.]]>
Falcone: linea d’azione da riprendere https://www.lavoce.it/falcone-linea-dazione-da-riprendere/ Wed, 18 May 2022 16:05:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=66757

Della passione e dell’intelligenza di Giovanni Falcone non si dirà mai abbastanza. Se oggi sappiamo qualcosa in più di mafia e dintorni e, soprattutto, se abbiamo imparato un metodo per conoscere e perseguire il crimine organizzato, è grazie alle intuizioni di magistrati come Falcone e Borsellino. Per questo il trentennale della strage di Capaci non deve e non può ridursi a una celebrazione di circostanza, condita di retorica e cerimonie.

Dovremmo piuttosto ritrovare lucidità e coraggio per riprendere seriamente le linee d’azione che Falcone ha lasciato. Come la capacità di cercare la mafia nelle banche seguendo il “fiuto dei soldi”, e non solo nei quartieri degradati di Palermo; riuscire a riconoscerla nelle aree del Paese e del mondo in cui non te l’aspetti; colpirla al cuore dei propri interessi economici, e non solo con la detenzione dei suoi affiliati.

Dice Gian Carlo Caselli: “C’era il rischio concreto - con le stragi del 1992 - che la nostra democrazia crollasse. In forza di una compatta reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita), fu però recuperato il metodo del pool di Falcone e Borsellino, riuscendo a produrre risultati che ci hanno salvati dall’abisso”.

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Della passione e dell’intelligenza di Giovanni Falcone non si dirà mai abbastanza. Se oggi sappiamo qualcosa in più di mafia e dintorni e, soprattutto, se abbiamo imparato un metodo per conoscere e perseguire il crimine organizzato, è grazie alle intuizioni di magistrati come Falcone e Borsellino. Per questo il trentennale della strage di Capaci non deve e non può ridursi a una celebrazione di circostanza, condita di retorica e cerimonie.

Dovremmo piuttosto ritrovare lucidità e coraggio per riprendere seriamente le linee d’azione che Falcone ha lasciato. Come la capacità di cercare la mafia nelle banche seguendo il “fiuto dei soldi”, e non solo nei quartieri degradati di Palermo; riuscire a riconoscerla nelle aree del Paese e del mondo in cui non te l’aspetti; colpirla al cuore dei propri interessi economici, e non solo con la detenzione dei suoi affiliati.

Dice Gian Carlo Caselli: “C’era il rischio concreto - con le stragi del 1992 - che la nostra democrazia crollasse. In forza di una compatta reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita), fu però recuperato il metodo del pool di Falcone e Borsellino, riuscendo a produrre risultati che ci hanno salvati dall’abisso”.

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Mafia: quale ‘trattativa’! https://www.lavoce.it/mafia-quale-trattativa/ Fri, 01 Oct 2021 17:25:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62534

La cronaca ci costringe a tornare dopo pochi giorni sull’argomento “mafia”. C’è stata davvero, negli anni ’90, una trattativa fra lo Stato e la mafia? Se sì, è stata un reato, o no? Di nuovo, si devono fare i conti con un polverone giornalistico che confonde le idee, anche volutamente.

Dunque mettiamo le cose in chiaro. Nel Codice penale il reato di “trattativa” non c’è, e non c’è niente che gli assomigli. La procura di Palermo - risoluta a portare la “trattativa” in tribunale - è andata alla caccia di un appiglio, e ha creduto di averlo trovato nell’art. 338 del codice. Questo però parla di violenza o minaccia alle alte autorità dello Stato.

Chi lo ha scritto pensava a episodi come quello dei trumpiani che hanno preso d’assalto il Congresso degli Stati Uniti. Nel nostro caso, i magistrati dell’accusa hanno pensato che certi delitti e certi attentati - i cui autori noti sono tutti condannati da un pezzo - fossero stati ideati proprio per ricattare i membri del Governo e spingerli a determinate decisioni (quali, non è chiaro). Sul piano del diritto, ci può stare; ma il punto è che l’art. 338 punisce il ricatto e i ricattatori, non chi è ricattato. Neppure se il ricattato, cioè il Governo, cede e scende a patti.

Allora, come è possibile portare in giudizio i rappresentanti dello Stato che, secondo l’accusa, avrebbero ceduto alle minacce della mafia? Qui è scattata la forzatura che a Palermo la Corte di primo grado, nel 2018, aveva accolto e che quella di secondo grado ha invece respinto. La tesi era che alcuni alti ufficiali dei carabinieri, che indagavano su quei fatti, abbiano fatto da portavoce ai mafiosi mettendosi dalla loro parte.

Loro invece si sono difesi dicendo che indagavano e riferivano, come era il loro compito. In primo grado sono stati condannati, in secondo grado assolti. Anche se fossero colpevoli, sarebbe un (grave) caso di infedeltà di alcuni funzionari, e non sarebbe concettualmente corretto chiamarlo “trattativa Stato-mafia”. Questa denominazione è solo una montatura con la quale qualche magistrato e qualche giornalista si è costruito la sua fama mediatica.

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La cronaca ci costringe a tornare dopo pochi giorni sull’argomento “mafia”. C’è stata davvero, negli anni ’90, una trattativa fra lo Stato e la mafia? Se sì, è stata un reato, o no? Di nuovo, si devono fare i conti con un polverone giornalistico che confonde le idee, anche volutamente.

Dunque mettiamo le cose in chiaro. Nel Codice penale il reato di “trattativa” non c’è, e non c’è niente che gli assomigli. La procura di Palermo - risoluta a portare la “trattativa” in tribunale - è andata alla caccia di un appiglio, e ha creduto di averlo trovato nell’art. 338 del codice. Questo però parla di violenza o minaccia alle alte autorità dello Stato.

Chi lo ha scritto pensava a episodi come quello dei trumpiani che hanno preso d’assalto il Congresso degli Stati Uniti. Nel nostro caso, i magistrati dell’accusa hanno pensato che certi delitti e certi attentati - i cui autori noti sono tutti condannati da un pezzo - fossero stati ideati proprio per ricattare i membri del Governo e spingerli a determinate decisioni (quali, non è chiaro). Sul piano del diritto, ci può stare; ma il punto è che l’art. 338 punisce il ricatto e i ricattatori, non chi è ricattato. Neppure se il ricattato, cioè il Governo, cede e scende a patti.

Allora, come è possibile portare in giudizio i rappresentanti dello Stato che, secondo l’accusa, avrebbero ceduto alle minacce della mafia? Qui è scattata la forzatura che a Palermo la Corte di primo grado, nel 2018, aveva accolto e che quella di secondo grado ha invece respinto. La tesi era che alcuni alti ufficiali dei carabinieri, che indagavano su quei fatti, abbiano fatto da portavoce ai mafiosi mettendosi dalla loro parte.

Loro invece si sono difesi dicendo che indagavano e riferivano, come era il loro compito. In primo grado sono stati condannati, in secondo grado assolti. Anche se fossero colpevoli, sarebbe un (grave) caso di infedeltà di alcuni funzionari, e non sarebbe concettualmente corretto chiamarlo “trattativa Stato-mafia”. Questa denominazione è solo una montatura con la quale qualche magistrato e qualche giornalista si è costruito la sua fama mediatica.

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Mafia a Roma, c’è o non c’è? https://www.lavoce.it/mafia-a-roma-ce-o-non-ce/ Fri, 24 Sep 2021 09:12:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62491

A Roma c’è la mafia? La domanda è di attualità. Proprio in questi giorni il Tribunale di Roma ha condannato in primo grado alcuni aderenti del clan Casamonica (44 imputati), applicando le pene previste per i reati di mafia. Pene molto più pesanti di quelle previste per le associazioni per delinquere “normali” ossia non mafiose.

Invece, poco meno di due anni fa nel processo giornalisticamente chiamato “Mafia capitale”, la Cassazione aveva escluso l’aggravante mafiosa per le bande che facevano capo a Carminati e a Buzzi.

Da qui un gran discutere intorno a queste differenze di giudizio. Come spesso succede, molti discutono senza sapere di che cosa si sta parlando. Bisogna rifarsi al Codice penale. L’articolo 416-bis non parla di mafia ma di “associazione di tipo mafioso” e non è la stessa cosa, perché un’associazione per delinquere può essere “di tipo” mafioso anche se non ha niente a che fare con la Sicilia e il suo capo non assomiglia al padrino impersonato da Marlon Brando.

Secondo la legge, un’associazione è di tipo mafioso se (testualmente) per commettere i suoi delitti si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Dunque, la Cassazione ha detto (e lo ha spiegato bene) che Buzzi, Carminati e soci avevano creato una rete di potere illegale a Roma, ma non con la forza dell’intimidazione, bensì con quella della corruzione.

Insomma, non minacciavano ma compravano. Invece il Tribunale di Roma ha detto che il clan Casamonica si è arricchito, oltre che con il traffico di stupefacenti, con l’estorsione e l’usura, e dunque con la forza dell’intimidazione. Il discorso non è chiuso, perché le motivazioni di questa ultima sentenza non sono ancora pubblicate, e poi i Casamonica certamente faranno ricorso. Ma, per quello che se ne sa e che si può dire, la sentenza del Tribunale pare convincente, tanto quanto lo è quella della Cassazione su “Mafia capitale”, benché diversa.

Come cittadino, mi chiedo se sia più pericolosa una malavita che ricatta e minaccia, o una malavita che non ha bisogno di minacciare perché corrompe pubblici ufficiali. Direi la seconda.

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A Roma c’è la mafia? La domanda è di attualità. Proprio in questi giorni il Tribunale di Roma ha condannato in primo grado alcuni aderenti del clan Casamonica (44 imputati), applicando le pene previste per i reati di mafia. Pene molto più pesanti di quelle previste per le associazioni per delinquere “normali” ossia non mafiose.

Invece, poco meno di due anni fa nel processo giornalisticamente chiamato “Mafia capitale”, la Cassazione aveva escluso l’aggravante mafiosa per le bande che facevano capo a Carminati e a Buzzi.

Da qui un gran discutere intorno a queste differenze di giudizio. Come spesso succede, molti discutono senza sapere di che cosa si sta parlando. Bisogna rifarsi al Codice penale. L’articolo 416-bis non parla di mafia ma di “associazione di tipo mafioso” e non è la stessa cosa, perché un’associazione per delinquere può essere “di tipo” mafioso anche se non ha niente a che fare con la Sicilia e il suo capo non assomiglia al padrino impersonato da Marlon Brando.

Secondo la legge, un’associazione è di tipo mafioso se (testualmente) per commettere i suoi delitti si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Dunque, la Cassazione ha detto (e lo ha spiegato bene) che Buzzi, Carminati e soci avevano creato una rete di potere illegale a Roma, ma non con la forza dell’intimidazione, bensì con quella della corruzione.

Insomma, non minacciavano ma compravano. Invece il Tribunale di Roma ha detto che il clan Casamonica si è arricchito, oltre che con il traffico di stupefacenti, con l’estorsione e l’usura, e dunque con la forza dell’intimidazione. Il discorso non è chiuso, perché le motivazioni di questa ultima sentenza non sono ancora pubblicate, e poi i Casamonica certamente faranno ricorso. Ma, per quello che se ne sa e che si può dire, la sentenza del Tribunale pare convincente, tanto quanto lo è quella della Cassazione su “Mafia capitale”, benché diversa.

Come cittadino, mi chiedo se sia più pericolosa una malavita che ricatta e minaccia, o una malavita che non ha bisogno di minacciare perché corrompe pubblici ufficiali. Direi la seconda.

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Convegno Fondazione Sinderesi. La ’ndrangheta senza frontiere https://www.lavoce.it/sinderesi-ndrangheta/ Thu, 16 Jan 2020 16:51:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56033 ’ndrangheta

“Accendi la legalità, l’etica come risposta alla crisi odierna” era il tema del convegno svoltosi sabato scorso nella sede del Consiglio regionale con la partecipazione, tra gli altri, del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro, Nicola Gratteri, e di mons. Samuele Sangalli, presidente della Fondazione Sinderesi che aveva promosso l’evento.

Gratteri è un magistrato in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, in particolare contro la ’ndrangheta che ormai dalla Calabria - ha detto - ha esteso la sua attività non solo in tutta Italia, ma in tutti i Continenti.

Un ruolo coraggioso e scomodo il suo, per il quale - ha ricordato mons. Sangalli “ogni giorno rischia la vita”.

Nella lotta non bastano polizia e magistrature da sole

Tanto che proprio a Catanzaro è nato un “Comitato spontaneo di prossimità” che per sabato 18 gennaio ha promosso una manifestazione davanti al Palazzo di giustizia della città calabrese per manifestare vicinanza al procuratore. Nel convegno è stato infatti sottolineato come la lotta a ’ndrangheta e mafie non può essere affidata soltanto a magistratura e forze di polizia, ma è l’intera società e i singoli cittadini che con il loro comportamento devono sentirsi in prima linea, perché sono solo l’etica e il rispetto delle regole a garantirci una convivenza civile.

La “situazione è drammatica - ha detto Gratteri concludendo il suo intervento. - Noi siamo marci, non abbiamo etica; oggi un avviso di garanzia si ostenta come un merito. Nel lavoro ognuno di noi cominci a fare bene quello per cui siamo pagati. Aiutiamo chi ha bisogno, sporchiamoci le mani, impegniamoci nel volontariato, nel sociale, in politica”. Parole accolte da scroscianti applausi.

Occorre una “ripartenza etica ha sottolineato anche mons. Sangalli - dobbiamo cominciare percorsi diversi, per non precipitare nel baratro che abbiamo davanti. La nostra Fondazione da alcuni anni ha cominciato questo cammino per preparare le persone di domani”.

Il convegno - coordinato da Constantino Cristoyannis, console della Grecia a Perugia - è stato aperto dal presidente del Consiglio regionale, Marco Squarta.

Perchè la ’ndrangheta si sta espandendo così tanto

Dal Canada, in videoconferenza, è intervenuto il prof. Antonio Nicaso, autore di vari libri sulle mafie e la criminalità organizzata. La ’ndrangheta - ha detto - si sta espandendo e radicando in tutto il mondo perché ricorre sempre di meno alla violenza e sempre di più alla corruzione. Non cerca solo i paradisi fiscali per custodire i soldi da riciclare, ma i “paradisi normativi” per agire indisturbata. Gli ingenti guadagni del traffico della droga finiscono in banca, e i soldi riciclati vengono investiti in attività economiche.

’Ndrangheta in Umbria

Il problema del radicamento delle mafie esiste anche in Umbria - ha ricordato il prof. Enrico Carloni, docente di Diritto amministrativo all’Università di Perugia - come dimostrato anche dalla recente operazione, diretta proprio dal procuratore Gratteri, con 27 misure cautelari per presunti appartenenti alla ’ndrangheta, dieci delle quali eseguite nella nostra regione. Il sistema normativo e giudiziario - ha spiegato - “è complesso e farraginoso, una matassa intricata che lascia spazio al malaffare e alla corruzione”.

Da dove viene la ricchezza della ’ndrangheta 

La ’ndrangheta - ha aggiunto Gratteri è una potenza economica che in tutti i Continenti sta acquistando “tutto il vendibile”. Nel corso di alcune indagini sono stati bloccati “camion pieni di banconote”. Una ricchezza esplosa negli anni Settanta e Ottanta con i tanti sequestri di persona. Sui monti della Calabria in certi momenti, nel raggio di pochi chilometri, vi erano le prigioni di sei-sette persone sequestrate.

Una valanga di soldi investiti nel traffico della cocaina con altri ingenti guadagni da riciclare. Così la ’ndrangheta si è estesa in tutta Italia soprattutto con gli affari, e senza sparare. “Si uccide di meno - ha detto - perché è più facile corrompere”. Grazie anche alla complicità di “uomini dello Stato”, nella comune appartenza a “logge massoniche deviate”.

Con la crisi economica, troppi imprenditori in difficoltà non si sono chiesti da dove venivano i tanti soldi loro offerti. “Anche la politica - ha proseguito - appare incapace di provvedimenti e ricette di lungo periodo e da tempo ha rinunciato ad investire nella istruzione. Senza istruzione però non c’è cultura”. Anche quella della legalità.

Enzo Ferrini

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’ndrangheta

“Accendi la legalità, l’etica come risposta alla crisi odierna” era il tema del convegno svoltosi sabato scorso nella sede del Consiglio regionale con la partecipazione, tra gli altri, del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro, Nicola Gratteri, e di mons. Samuele Sangalli, presidente della Fondazione Sinderesi che aveva promosso l’evento.

Gratteri è un magistrato in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, in particolare contro la ’ndrangheta che ormai dalla Calabria - ha detto - ha esteso la sua attività non solo in tutta Italia, ma in tutti i Continenti.

Un ruolo coraggioso e scomodo il suo, per il quale - ha ricordato mons. Sangalli “ogni giorno rischia la vita”.

Nella lotta non bastano polizia e magistrature da sole

Tanto che proprio a Catanzaro è nato un “Comitato spontaneo di prossimità” che per sabato 18 gennaio ha promosso una manifestazione davanti al Palazzo di giustizia della città calabrese per manifestare vicinanza al procuratore. Nel convegno è stato infatti sottolineato come la lotta a ’ndrangheta e mafie non può essere affidata soltanto a magistratura e forze di polizia, ma è l’intera società e i singoli cittadini che con il loro comportamento devono sentirsi in prima linea, perché sono solo l’etica e il rispetto delle regole a garantirci una convivenza civile.

La “situazione è drammatica - ha detto Gratteri concludendo il suo intervento. - Noi siamo marci, non abbiamo etica; oggi un avviso di garanzia si ostenta come un merito. Nel lavoro ognuno di noi cominci a fare bene quello per cui siamo pagati. Aiutiamo chi ha bisogno, sporchiamoci le mani, impegniamoci nel volontariato, nel sociale, in politica”. Parole accolte da scroscianti applausi.

Occorre una “ripartenza etica ha sottolineato anche mons. Sangalli - dobbiamo cominciare percorsi diversi, per non precipitare nel baratro che abbiamo davanti. La nostra Fondazione da alcuni anni ha cominciato questo cammino per preparare le persone di domani”.

Il convegno - coordinato da Constantino Cristoyannis, console della Grecia a Perugia - è stato aperto dal presidente del Consiglio regionale, Marco Squarta.

Perchè la ’ndrangheta si sta espandendo così tanto

Dal Canada, in videoconferenza, è intervenuto il prof. Antonio Nicaso, autore di vari libri sulle mafie e la criminalità organizzata. La ’ndrangheta - ha detto - si sta espandendo e radicando in tutto il mondo perché ricorre sempre di meno alla violenza e sempre di più alla corruzione. Non cerca solo i paradisi fiscali per custodire i soldi da riciclare, ma i “paradisi normativi” per agire indisturbata. Gli ingenti guadagni del traffico della droga finiscono in banca, e i soldi riciclati vengono investiti in attività economiche.

’Ndrangheta in Umbria

Il problema del radicamento delle mafie esiste anche in Umbria - ha ricordato il prof. Enrico Carloni, docente di Diritto amministrativo all’Università di Perugia - come dimostrato anche dalla recente operazione, diretta proprio dal procuratore Gratteri, con 27 misure cautelari per presunti appartenenti alla ’ndrangheta, dieci delle quali eseguite nella nostra regione. Il sistema normativo e giudiziario - ha spiegato - “è complesso e farraginoso, una matassa intricata che lascia spazio al malaffare e alla corruzione”.

Da dove viene la ricchezza della ’ndrangheta 

La ’ndrangheta - ha aggiunto Gratteri è una potenza economica che in tutti i Continenti sta acquistando “tutto il vendibile”. Nel corso di alcune indagini sono stati bloccati “camion pieni di banconote”. Una ricchezza esplosa negli anni Settanta e Ottanta con i tanti sequestri di persona. Sui monti della Calabria in certi momenti, nel raggio di pochi chilometri, vi erano le prigioni di sei-sette persone sequestrate.

Una valanga di soldi investiti nel traffico della cocaina con altri ingenti guadagni da riciclare. Così la ’ndrangheta si è estesa in tutta Italia soprattutto con gli affari, e senza sparare. “Si uccide di meno - ha detto - perché è più facile corrompere”. Grazie anche alla complicità di “uomini dello Stato”, nella comune appartenza a “logge massoniche deviate”.

Con la crisi economica, troppi imprenditori in difficoltà non si sono chiesti da dove venivano i tanti soldi loro offerti. “Anche la politica - ha proseguito - appare incapace di provvedimenti e ricette di lungo periodo e da tempo ha rinunciato ad investire nella istruzione. Senza istruzione però non c’è cultura”. Anche quella della legalità.

Enzo Ferrini

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’Ndrangheta in Umbria. Tutti i passaggi dell’inchiesta https://www.lavoce.it/ndrangheta-umbria-inchiesta/ Fri, 20 Dec 2019 13:34:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55963 ndrangheta

Dal mare della Calabria alle montagne della Valle d’Aosta, fermandosi anche in Umbria: la ’ndrangheta, tra le più potenti e ramificate organizzazioni criminali e mafiose a livello mondiale, sta invadendo l’Italia. Il Presidente della Valle d’Aosta si è dovuto dimettere perché indagato per voto di scambio elettorale politico mafioso insieme ad altri politici locali.

Negli stessi giorni, la scorsa settimana, una maxi-operazione, coordinata dalla Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Catanzaro, ha sgominato un’organizzazione ’ndranghetistica che aveva messo le mani sull’Umbria, in particolare in provincia di Perugia. Ventisette le misure cautelari, dieci delle quali eseguite in Umbria, e immobili, terreni, auto, conti bancari sequestrati per un valore di circa 10 milioni di euro.

’Ndrangheta e droga

Nella nostra regione la ’ndrangheta è presente da decenni, come accertato da altre inchieste precedenti, acquistando immobili e attività commerciali con i proventi dai suoi traffici, in particolare quello della droga.

I poliziotti delle squadre mobili di Perugia, Reggio Calabria e Catanzaro hanno seguito un carico di ben due quintali e mezzo di cocaina che dal porto di Gioia Tauro è arrivato nel capolugo umbro. Una delle centrali di smistamento locale di questa droga era un bar di Ponte Valleceppi, e a gestire lo spaccio erano anche ‘insospettabili’, come artigiani e imprenditori. Insieme agli arresti sono state sequestrate numerose società con sede nel Lazio, in Lombardia e in Umbria (a Marsciano, Corciano e Torgiano).

“La ’ndrangheta è presente in Umbria in modo sistematico, con grave danno all’economia regionale” ha dichiarato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Ci sono falsi imprenditori, prestanome incensurati, con tanti soldi, che arrivano anche in Umbria - ha spiegato il magistrato - “per fare impresa finalizzata al riciclaggio di soldi che provengono dalla droga e, in particolare, dalla cocaina”. Ricorrendo, se necessario anche alle minacce.

Gli ostacoli alle imprese oneste

“Qualsiasi attività illecita sul territorio umbro deve essere autorizzata dalle cosche in Calabria” diceva al telefono uno degli arrestati. E ancora: “Domani mattina provate il piombo, se andate là”, detto per intimidire imprese concorrenti nella realizzazione di un centro commerciale nella zona di Ellera.

“Ci sono pesanti tentativi di infiltrazione mafiosa in Umbria, e questa inchiesta lo conferma” ha commentato il procuratore generale di Perugia, Fausto Cardella. “Dove c’è illegalità – ha detto con preoccupazione il presidente di Confindustria Umbria, Antonio Alunni – non c’è libertà di impresa, non ci sono condizioni corrette, e pertanto tutto decade. Siamo quindi fiduciosi che questa azione di contrasto non solo sia portata avanti, ma venga fatto sempre con maggiore efficacia”.

Rassicurazioni in questo senso sono venute dalprocuratore Cardella: “I gangli decisionali della nostra Regione, non risulta che siano inquinati. Risulta piuttosto che ci sono tentativi di infiltrazione e di inquinamento; ma, finora, il contrasto ha funzionato”.

Il presunto coinvolgimento con la politica locale

C’è però un dato che preoccupa in modo particolare, nell’ambito dell’inchiesta: i pm di Catanzaro parlano esplicitamente di “capacità del gruppo mafioso di condizionare le competizioni elettorali al Comune di Perugia, con l’interessamento di- retto nell’agevolare le candidature e le successive elezioni, anche di cariche importanti all’interno del Consiglio comunale, di soggetti calabresi a loro graditi”.

Vengono fatti i nomi della ex consigliera comunale del Pd, Alessandra Vezzosi, dell’attuale presidente del Consiglio comunale, Nilo Arcudi, e del candidato non eletto di Casapound, Antonio Ribecco, nipote di uno degli arrestati.

Va sottolineato che nessuno di loro è indagato, e che tutti si proclamano completamente estranei ai fatti. Del resto, come scrivono gli stessi inquirenti, dalle conversazioni spiate emerge che “gli indagati dapprima si compiacciono per il loro positivo intervento nel far eleggere determinati soggetti, per poi lamentarsi poiché non sono positivamente intervenuti, dopo la loro elezione, in richieste fatte da chi ha agevolato la loro nomina”. Insomma, è possibile che si vantassero di un “potere” che non avevano, per gestire i loro affari e intimidire i concorrenti.

Resta comunque la preoccupazione per gli intenti della ’ndrangheta anche in Umbria: condizionare la politica per meglio controllare il territorio, come già avvenuto in tante altre Regioni anche del Nord Italia.

Il commento di Libera Umbria

Come osserva l’associazione contro le mafie Libera Umbria: “Le nuove inchieste sollevano, per la prima volta, un ulteriore elemento di grave preoccupazione: la comparsa, nelle conversazioni tra alcuni soggetti ’ndranghetisti, di nomi di politici locali. Il fatto che le inchieste lambiscano questo livello è una novità assoluta per il nostro territorio, ed è certamente motivo di grande inquietudine”.

Enzo Ferrini

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ndrangheta

Dal mare della Calabria alle montagne della Valle d’Aosta, fermandosi anche in Umbria: la ’ndrangheta, tra le più potenti e ramificate organizzazioni criminali e mafiose a livello mondiale, sta invadendo l’Italia. Il Presidente della Valle d’Aosta si è dovuto dimettere perché indagato per voto di scambio elettorale politico mafioso insieme ad altri politici locali.

Negli stessi giorni, la scorsa settimana, una maxi-operazione, coordinata dalla Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Catanzaro, ha sgominato un’organizzazione ’ndranghetistica che aveva messo le mani sull’Umbria, in particolare in provincia di Perugia. Ventisette le misure cautelari, dieci delle quali eseguite in Umbria, e immobili, terreni, auto, conti bancari sequestrati per un valore di circa 10 milioni di euro.

’Ndrangheta e droga

Nella nostra regione la ’ndrangheta è presente da decenni, come accertato da altre inchieste precedenti, acquistando immobili e attività commerciali con i proventi dai suoi traffici, in particolare quello della droga.

I poliziotti delle squadre mobili di Perugia, Reggio Calabria e Catanzaro hanno seguito un carico di ben due quintali e mezzo di cocaina che dal porto di Gioia Tauro è arrivato nel capolugo umbro. Una delle centrali di smistamento locale di questa droga era un bar di Ponte Valleceppi, e a gestire lo spaccio erano anche ‘insospettabili’, come artigiani e imprenditori. Insieme agli arresti sono state sequestrate numerose società con sede nel Lazio, in Lombardia e in Umbria (a Marsciano, Corciano e Torgiano).

“La ’ndrangheta è presente in Umbria in modo sistematico, con grave danno all’economia regionale” ha dichiarato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Ci sono falsi imprenditori, prestanome incensurati, con tanti soldi, che arrivano anche in Umbria - ha spiegato il magistrato - “per fare impresa finalizzata al riciclaggio di soldi che provengono dalla droga e, in particolare, dalla cocaina”. Ricorrendo, se necessario anche alle minacce.

Gli ostacoli alle imprese oneste

“Qualsiasi attività illecita sul territorio umbro deve essere autorizzata dalle cosche in Calabria” diceva al telefono uno degli arrestati. E ancora: “Domani mattina provate il piombo, se andate là”, detto per intimidire imprese concorrenti nella realizzazione di un centro commerciale nella zona di Ellera.

“Ci sono pesanti tentativi di infiltrazione mafiosa in Umbria, e questa inchiesta lo conferma” ha commentato il procuratore generale di Perugia, Fausto Cardella. “Dove c’è illegalità – ha detto con preoccupazione il presidente di Confindustria Umbria, Antonio Alunni – non c’è libertà di impresa, non ci sono condizioni corrette, e pertanto tutto decade. Siamo quindi fiduciosi che questa azione di contrasto non solo sia portata avanti, ma venga fatto sempre con maggiore efficacia”.

Rassicurazioni in questo senso sono venute dalprocuratore Cardella: “I gangli decisionali della nostra Regione, non risulta che siano inquinati. Risulta piuttosto che ci sono tentativi di infiltrazione e di inquinamento; ma, finora, il contrasto ha funzionato”.

Il presunto coinvolgimento con la politica locale

C’è però un dato che preoccupa in modo particolare, nell’ambito dell’inchiesta: i pm di Catanzaro parlano esplicitamente di “capacità del gruppo mafioso di condizionare le competizioni elettorali al Comune di Perugia, con l’interessamento di- retto nell’agevolare le candidature e le successive elezioni, anche di cariche importanti all’interno del Consiglio comunale, di soggetti calabresi a loro graditi”.

Vengono fatti i nomi della ex consigliera comunale del Pd, Alessandra Vezzosi, dell’attuale presidente del Consiglio comunale, Nilo Arcudi, e del candidato non eletto di Casapound, Antonio Ribecco, nipote di uno degli arrestati.

Va sottolineato che nessuno di loro è indagato, e che tutti si proclamano completamente estranei ai fatti. Del resto, come scrivono gli stessi inquirenti, dalle conversazioni spiate emerge che “gli indagati dapprima si compiacciono per il loro positivo intervento nel far eleggere determinati soggetti, per poi lamentarsi poiché non sono positivamente intervenuti, dopo la loro elezione, in richieste fatte da chi ha agevolato la loro nomina”. Insomma, è possibile che si vantassero di un “potere” che non avevano, per gestire i loro affari e intimidire i concorrenti.

Resta comunque la preoccupazione per gli intenti della ’ndrangheta anche in Umbria: condizionare la politica per meglio controllare il territorio, come già avvenuto in tante altre Regioni anche del Nord Italia.

Il commento di Libera Umbria

Come osserva l’associazione contro le mafie Libera Umbria: “Le nuove inchieste sollevano, per la prima volta, un ulteriore elemento di grave preoccupazione: la comparsa, nelle conversazioni tra alcuni soggetti ’ndranghetisti, di nomi di politici locali. Il fatto che le inchieste lambiscano questo livello è una novità assoluta per il nostro territorio, ed è certamente motivo di grande inquietudine”.

Enzo Ferrini

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A Napoli, tragedia senza riscatto https://www.lavoce.it/napoli-tragedia-riscatto/ Thu, 09 May 2019 09:08:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54467 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Il killer di camorra non soltanto la colpisce per sbaglio con una pallottola al torace, ma, nella foga di inseguire la sua vittima designata, passa per due volte sopra il corpo esanime e sanguinante di quella bimba.

“La sua è una ferita da guerra” dice il chirurgo che a Napoli opera la piccola Noemi. Nel gergo camorristico, la sparatoria in mezzo alla gente si chiama “stesa”, resa anche troppo nota al grande pubblico dalle serie tv che raccontano, a tratti con un eccesso di indulgenza, le gesta di una delinquenza abituata a spadroneggiare per le vie diNapoli, dal centro alle periferie più disagiate. Dopo il ferimento di Noemi, c’è chi ha invocato la cosiddetta ‘risposta forte’ dello Stato.

Alcune associazioni cittadine hanno scelto di manifestare: hanno partecipato in 300. Ma il quartiere in cui si è sparato è rimasto a guardare dalla finestra. Perché, se ci sono film che raccontano brutalità e violenze dei camorristi, poco o nulla si scrive o si filma per suscitare una reazione, un moto di riscatto, o anche e solamente un senso di ripulsa e di schifo verso quelle violenze.

Non si passa due volte sopra al corpicino di una bimba innocente cui hai sparato per errore, se non hai la testa e il cuore inariditi e privi di quel senso di umanità che forse nessun genitore, nessun maestro e nessun educatore ha mai avuto il tempo e il modo di insegnarti.

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lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Il killer di camorra non soltanto la colpisce per sbaglio con una pallottola al torace, ma, nella foga di inseguire la sua vittima designata, passa per due volte sopra il corpo esanime e sanguinante di quella bimba.

“La sua è una ferita da guerra” dice il chirurgo che a Napoli opera la piccola Noemi. Nel gergo camorristico, la sparatoria in mezzo alla gente si chiama “stesa”, resa anche troppo nota al grande pubblico dalle serie tv che raccontano, a tratti con un eccesso di indulgenza, le gesta di una delinquenza abituata a spadroneggiare per le vie diNapoli, dal centro alle periferie più disagiate. Dopo il ferimento di Noemi, c’è chi ha invocato la cosiddetta ‘risposta forte’ dello Stato.

Alcune associazioni cittadine hanno scelto di manifestare: hanno partecipato in 300. Ma il quartiere in cui si è sparato è rimasto a guardare dalla finestra. Perché, se ci sono film che raccontano brutalità e violenze dei camorristi, poco o nulla si scrive o si filma per suscitare una reazione, un moto di riscatto, o anche e solamente un senso di ripulsa e di schifo verso quelle violenze.

Non si passa due volte sopra al corpicino di una bimba innocente cui hai sparato per errore, se non hai la testa e il cuore inariditi e privi di quel senso di umanità che forse nessun genitore, nessun maestro e nessun educatore ha mai avuto il tempo e il modo di insegnarti.

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LIBERA. Don Ciotti: “Per combattere la mafia bisogna investire in cultura” https://www.lavoce.it/libera-don-ciotti-mafia-cultura/ Fri, 19 Apr 2019 14:00:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54423 ciotti

“La legalità non può essere un obiettivo perché non è neppure un valore. È un prerequisito. L’obiettivo è la giustizia”.

Non ha dubbi don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione contro le mafie Libera, su come debba essere perseguita la giustizia: “Come cattolico e come cittadino i riferimenti sono due, il Vangelo e la Costituzione. Se la Costituzione venisse sempre applicata sarebbe la prima arma antimafia”.

Intervenuto domenica scorsa a Perugia, nell’ambito del viaggio di “LiberaIdee” in Umbria, don Ciotti ha parlato a proposito della linea a servizio dei territori che Libera si è data da qualche tempo a questa parte. Da qui l’idea di un viaggio nelle regioni italiane che è arrivato a toccare anche l’Umbria nella settimana scorsa.

“Ci siamo presi del tempo per la ricerca, per prendere coscienza dei nostri limiti ed eventualmente correggere la rotta” ha detto don Luigi. La ricerca cui si riferisce è quella portata avanti dal gruppo di ricercatori di LiberaIdee insieme all’Osservatorio regionale sulle infiltrazioni mafiose riguardo la percezione del fenomeno mafioso.

I dati della ricerca, illustrati dalla dottoressa Sabrina Garofalo, evidenziano che per la maggior parte degli intervistati, il 68%, la mafia in Umbria è un fenomeno marginale la cui principale attività è il narcotraffico. Un’alta percentuale inoltre risponde di non conoscere i beni confiscati in Umbria. “È fondamentale – ha detto don Ciotti – investire nella cultura e nell’istruzione per risvegliare le coscienze. L’Italia purtroppo è fanalino di coda in Europa per gli investimenti nell’istruzione (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Di seguito il file audio con l'intervista a don Luigi Ciotti [audio wav="https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2019/04/Intervista-a-don-Ciotti.wav"][/audio]

Valentina Russo

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ciotti

“La legalità non può essere un obiettivo perché non è neppure un valore. È un prerequisito. L’obiettivo è la giustizia”.

Non ha dubbi don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione contro le mafie Libera, su come debba essere perseguita la giustizia: “Come cattolico e come cittadino i riferimenti sono due, il Vangelo e la Costituzione. Se la Costituzione venisse sempre applicata sarebbe la prima arma antimafia”.

Intervenuto domenica scorsa a Perugia, nell’ambito del viaggio di “LiberaIdee” in Umbria, don Ciotti ha parlato a proposito della linea a servizio dei territori che Libera si è data da qualche tempo a questa parte. Da qui l’idea di un viaggio nelle regioni italiane che è arrivato a toccare anche l’Umbria nella settimana scorsa.

“Ci siamo presi del tempo per la ricerca, per prendere coscienza dei nostri limiti ed eventualmente correggere la rotta” ha detto don Luigi. La ricerca cui si riferisce è quella portata avanti dal gruppo di ricercatori di LiberaIdee insieme all’Osservatorio regionale sulle infiltrazioni mafiose riguardo la percezione del fenomeno mafioso.

I dati della ricerca, illustrati dalla dottoressa Sabrina Garofalo, evidenziano che per la maggior parte degli intervistati, il 68%, la mafia in Umbria è un fenomeno marginale la cui principale attività è il narcotraffico. Un’alta percentuale inoltre risponde di non conoscere i beni confiscati in Umbria. “È fondamentale – ha detto don Ciotti – investire nella cultura e nell’istruzione per risvegliare le coscienze. L’Italia purtroppo è fanalino di coda in Europa per gli investimenti nell’istruzione (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Di seguito il file audio con l'intervista a don Luigi Ciotti [audio wav="https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2019/04/Intervista-a-don-Ciotti.wav"][/audio]

Valentina Russo

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Le mafie che fanno affari in Umbria https://www.lavoce.it/le-mafie-affari-umbria/ Thu, 11 Apr 2019 11:13:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54358 mafie

In Umbria le mafie non sparano, ma fanno affari. Nel corso di una conferenza stampa per illustrare una delle operazioni contro la criminalità organizzata, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Perugia, Luigi De Ficchy, aveva ben sintetizzato la situazione. “In Umbria - aveva detto - è in corso una lenta penetrazione della criminalità organizzata”, in quanto “seppure qui la mafia non uccida e non controlli il territorio, si impegna comunque a controllare le attività economiche infiltrandosi anche in appalti e concessioni”.

Bar, ristoranti, locali notturni, alberghi, esercizi commerciali, ma anche aziende sono finite sotto il controllo di famiglie e clan in rapporto con mafia, camorra e ’ndrangheta. Organizzazioni criminali con tanti contanti da investire, e che fanno offerte allettanti per imprenditori in difficoltà.

Secondo gli ultimi dati della Anbsc - Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nella piccola Umbria questi beni attualmente sono 122. Si tratta di terreni, abitazioni, capannoni, magazzini, negozi a Perugia, Spoleto, Torgiano, Assisi, Bastia Umbra, Città di Castello, Todi e Umbertide. Ma ci sono anche una villa e un’azienda di costruzioni a Trevi, un ristorante a Terni, attività immobiliari e informatiche a Perugia.

“La sua posizione centrale nel territorio nazionale, l’assenza di una forte criminalità locale, la presenza di importanti vie di comunicazione e le numerose aziende sono i fattori che hanno favorito la presenza, specie nella provincia di Perugia, di famiglie calabresi e campane” spiega la Dia (Direzione investigativa antimafia) nella relazione inoltrata al Parlamento relativa al primo semestre 2018.

Secondo la Dia, “tale fenomeno può essere ragionevolmente correlato alla presenza, a Spoleto e a Terni, degli istituti penitenziari che accolgono i detenuti sottoposti al carcere duro e alla sorveglianza ad alta sicurezza. Fisiologico, quindi, prima l’insediamento nella regione dei parenti dei detenuti in questione, e il successivo interesse delle organizzazioni criminali delle regioni d’origine rivolto all’economia locale”.

78 proprietà in attesa

Il sequestro dei beni delle mafie per essere poi riutilizzati per finalità sociali è sicuramente un importante strumento per contrastare la criminalità organizzata. L’esperienza dimostra però che troppi di questi beni restano inutilizzati per tanto tempo, a causa delle difficoltà burocratiche per giungere alla loro assegnazione.

Dei 122 beni sequestrati in Umbria, 78 sono ancora in attesa di “destinazione”, mentre sono 44 quelli ufficialmente “destinati”. Questo però spiega la Anbsc - “non significa necessariamente che questi beni siano stati anche riutilizzati. Molti beni infatti, anche dopo la destinazione e il trasferimento ai Comuni, rimangono ancora inutilizzati”.

È il caso dei 97 ettari dell’azienda agricola di Col di Pila, nel Comune di Pietralunga. Appartenevano alla Safi (Società agricola finanziaria immobiliare) con sede a Roma, e che faceva capo alla famiglia calabrese De Stefano.

Secondo le indagini della magistratura calabrese, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso sarebbe stata utilizzata come “covo freddo” dalla ’ndrangheta per il rifugio di affiliati considerati “a rischio” per le faide tra le cosche. Affiliati, spesso anche ricercati dalla polizia, che si nascondevano nei boschi delle colline umbre anche per periodi molto lunghi.

Nel 2007 l’azienda fu confiscata con un provvedimento del tribunale di Reggio Calabria, ma dopo ben 12 anni - come ha riferito il sindaco di Pietralunga Mirko Ceci l’8 marzo scorso davanti alla Commissione regionale d’inchiesta sulla criminalità organizzata - quei “97 ettari di terreno ormai sono solo bosco dopo decenni di incuria, con ruderi ormai inutilizzabili di quella che fu l’azienda agricola originaria”.

Per il riutilizzo sociale si era anche costituita una cooperativa, che però alla fine ha dovuto rinunciare per le tante difficoltà burocratiche. “Ci siamo tirati indietro - ha spiegato il suo presidente Giordano Milli ai consiglieri regionali perché ormai per l’allungarsi dei tempi l’entusiasmo iniziale aveva lasciato il posto a dubbi e timori”. Il Comune di Pietralunga ha pertanto deciso di prorogare il bando pubblico per l’assegnazione del bene.

Enzo Ferrini

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mafie

In Umbria le mafie non sparano, ma fanno affari. Nel corso di una conferenza stampa per illustrare una delle operazioni contro la criminalità organizzata, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Perugia, Luigi De Ficchy, aveva ben sintetizzato la situazione. “In Umbria - aveva detto - è in corso una lenta penetrazione della criminalità organizzata”, in quanto “seppure qui la mafia non uccida e non controlli il territorio, si impegna comunque a controllare le attività economiche infiltrandosi anche in appalti e concessioni”.

Bar, ristoranti, locali notturni, alberghi, esercizi commerciali, ma anche aziende sono finite sotto il controllo di famiglie e clan in rapporto con mafia, camorra e ’ndrangheta. Organizzazioni criminali con tanti contanti da investire, e che fanno offerte allettanti per imprenditori in difficoltà.

Secondo gli ultimi dati della Anbsc - Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nella piccola Umbria questi beni attualmente sono 122. Si tratta di terreni, abitazioni, capannoni, magazzini, negozi a Perugia, Spoleto, Torgiano, Assisi, Bastia Umbra, Città di Castello, Todi e Umbertide. Ma ci sono anche una villa e un’azienda di costruzioni a Trevi, un ristorante a Terni, attività immobiliari e informatiche a Perugia.

“La sua posizione centrale nel territorio nazionale, l’assenza di una forte criminalità locale, la presenza di importanti vie di comunicazione e le numerose aziende sono i fattori che hanno favorito la presenza, specie nella provincia di Perugia, di famiglie calabresi e campane” spiega la Dia (Direzione investigativa antimafia) nella relazione inoltrata al Parlamento relativa al primo semestre 2018.

Secondo la Dia, “tale fenomeno può essere ragionevolmente correlato alla presenza, a Spoleto e a Terni, degli istituti penitenziari che accolgono i detenuti sottoposti al carcere duro e alla sorveglianza ad alta sicurezza. Fisiologico, quindi, prima l’insediamento nella regione dei parenti dei detenuti in questione, e il successivo interesse delle organizzazioni criminali delle regioni d’origine rivolto all’economia locale”.

78 proprietà in attesa

Il sequestro dei beni delle mafie per essere poi riutilizzati per finalità sociali è sicuramente un importante strumento per contrastare la criminalità organizzata. L’esperienza dimostra però che troppi di questi beni restano inutilizzati per tanto tempo, a causa delle difficoltà burocratiche per giungere alla loro assegnazione.

Dei 122 beni sequestrati in Umbria, 78 sono ancora in attesa di “destinazione”, mentre sono 44 quelli ufficialmente “destinati”. Questo però spiega la Anbsc - “non significa necessariamente che questi beni siano stati anche riutilizzati. Molti beni infatti, anche dopo la destinazione e il trasferimento ai Comuni, rimangono ancora inutilizzati”.

È il caso dei 97 ettari dell’azienda agricola di Col di Pila, nel Comune di Pietralunga. Appartenevano alla Safi (Società agricola finanziaria immobiliare) con sede a Roma, e che faceva capo alla famiglia calabrese De Stefano.

Secondo le indagini della magistratura calabrese, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso sarebbe stata utilizzata come “covo freddo” dalla ’ndrangheta per il rifugio di affiliati considerati “a rischio” per le faide tra le cosche. Affiliati, spesso anche ricercati dalla polizia, che si nascondevano nei boschi delle colline umbre anche per periodi molto lunghi.

Nel 2007 l’azienda fu confiscata con un provvedimento del tribunale di Reggio Calabria, ma dopo ben 12 anni - come ha riferito il sindaco di Pietralunga Mirko Ceci l’8 marzo scorso davanti alla Commissione regionale d’inchiesta sulla criminalità organizzata - quei “97 ettari di terreno ormai sono solo bosco dopo decenni di incuria, con ruderi ormai inutilizzabili di quella che fu l’azienda agricola originaria”.

Per il riutilizzo sociale si era anche costituita una cooperativa, che però alla fine ha dovuto rinunciare per le tante difficoltà burocratiche. “Ci siamo tirati indietro - ha spiegato il suo presidente Giordano Milli ai consiglieri regionali perché ormai per l’allungarsi dei tempi l’entusiasmo iniziale aveva lasciato il posto a dubbi e timori”. Il Comune di Pietralunga ha pertanto deciso di prorogare il bando pubblico per l’assegnazione del bene.

Enzo Ferrini

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Dda e Fbi contro le mafie nigeriane https://www.lavoce.it/contro-mafie-nigeriane/ Mon, 14 Jan 2019 08:04:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53787 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio

Negli ultimi giorni sono venute alla luce notizie inquietanti sulle attività criminali svolte in territorio italiano e in altre parti del mondo dalle mafie nigeriane.

Per arrivare alle conclusioni investigative, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli e l’Fbi hanno fatto fronte comune. Parliamo di tratta di ragazze, anche giovanissime, di sfruttamento della prostituzione, di traffico e spaccio di droga, traffico di armi e di organi umani.

Quest’ultimo reato è il più raccapricciante anche per le modalità con cui si svolge e per le vittime che provoca. Ma è anche quello che dimostra complicità al più alto livello, con prestazioni professionali di esperti dei trapianti e clienti danarosi che - in alcune cliniche private - riescono a procurarsi reni e cornee senza troppe file di attesa.

È l’ipocrisia di chi condanna pubblicamente le mafie e, all’occorrenza, non ha scrupoli a servirsene. Nello stesso tempo non abbiamo altra scelta che la via di un’integrazione capillare e seria, che non riservi manodopera a buon mercato per queste mafie transnazionali. Se invece continuiamo a lasciare per strada immigrati e richiedenti asilo, anche le mafie ringraziano.

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di Tonio Dell’Olio

Negli ultimi giorni sono venute alla luce notizie inquietanti sulle attività criminali svolte in territorio italiano e in altre parti del mondo dalle mafie nigeriane.

Per arrivare alle conclusioni investigative, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli e l’Fbi hanno fatto fronte comune. Parliamo di tratta di ragazze, anche giovanissime, di sfruttamento della prostituzione, di traffico e spaccio di droga, traffico di armi e di organi umani.

Quest’ultimo reato è il più raccapricciante anche per le modalità con cui si svolge e per le vittime che provoca. Ma è anche quello che dimostra complicità al più alto livello, con prestazioni professionali di esperti dei trapianti e clienti danarosi che - in alcune cliniche private - riescono a procurarsi reni e cornee senza troppe file di attesa.

È l’ipocrisia di chi condanna pubblicamente le mafie e, all’occorrenza, non ha scrupoli a servirsene. Nello stesso tempo non abbiamo altra scelta che la via di un’integrazione capillare e seria, che non riservi manodopera a buon mercato per queste mafie transnazionali. Se invece continuiamo a lasciare per strada immigrati e richiedenti asilo, anche le mafie ringraziano.

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Sentieri della memoria contro la ’ndrangheta https://www.lavoce.it/sentieri-della-memoria-la-ndrangheta/ Sun, 29 Jul 2018 08:21:37 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52555 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

di Tonio Dell’Olio* Lollò Cartisano fu l’ultimo sequestro di persona dell’Anonima sequestri calabrese. Sequestrato il 22 luglio 1993, non venne mai rilasciato. Si trattava del diciottesimo sequestro a Bovalino, la sua città. Poi la ’ndrangheta avrebbe scoperto il narcotraffico, meno rischioso e molto più redditizio, e vi si sarebbe dedicata fino a raggiungere livelli di “specializzazione” incomparabili nel mondo. Le mobilitazioni promosse dalla famiglia Cartisano diedero la sveglia non solo alla Locride. Persino la Commissione parlamentare antimafia decise un’audizione in trasferta e si recò a Bovalino. Debora, la figlia del sequestrato, ogni anno scriveva una lettera, prontamente riportata dai giornali locali, rivolgendosi alla coscienza dei rapitori. Dopo 10 anni con una lettera anonima, uno dei carcerieri chiedeva perdono e indicava il luogo impervio in cui trovare i resti di Cartisano. Ormai sono 13 anni che nell’anniversario del sequestro tante persone si danno appuntamento per salire in Aspromonte fino a Pietra Cappa. Da qualche anno, anche altri familiari di vittime della ’ndrangheta si sono uniti al cammino e lungo iI percorso si raccontano. I giovani dei campi di volontariato provenienti da diverse parti d’Italia ascoltano. Si celebra la liturgia eucaristica, si prega. Si cammina.   *presidente Pro Civitate Christiana]]>
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di Tonio Dell’Olio* Lollò Cartisano fu l’ultimo sequestro di persona dell’Anonima sequestri calabrese. Sequestrato il 22 luglio 1993, non venne mai rilasciato. Si trattava del diciottesimo sequestro a Bovalino, la sua città. Poi la ’ndrangheta avrebbe scoperto il narcotraffico, meno rischioso e molto più redditizio, e vi si sarebbe dedicata fino a raggiungere livelli di “specializzazione” incomparabili nel mondo. Le mobilitazioni promosse dalla famiglia Cartisano diedero la sveglia non solo alla Locride. Persino la Commissione parlamentare antimafia decise un’audizione in trasferta e si recò a Bovalino. Debora, la figlia del sequestrato, ogni anno scriveva una lettera, prontamente riportata dai giornali locali, rivolgendosi alla coscienza dei rapitori. Dopo 10 anni con una lettera anonima, uno dei carcerieri chiedeva perdono e indicava il luogo impervio in cui trovare i resti di Cartisano. Ormai sono 13 anni che nell’anniversario del sequestro tante persone si danno appuntamento per salire in Aspromonte fino a Pietra Cappa. Da qualche anno, anche altri familiari di vittime della ’ndrangheta si sono uniti al cammino e lungo iI percorso si raccontano. I giovani dei campi di volontariato provenienti da diverse parti d’Italia ascoltano. Si celebra la liturgia eucaristica, si prega. Si cammina.   *presidente Pro Civitate Christiana]]>
Cosa dice la sentenza del processo di Palermo https://www.lavoce.it/cosa-dice-la-sentenza-del-processo-palermo/ Sat, 28 Apr 2018 14:18:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51776

Nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, non prevista dal Codice penale come reato. L’articolo 338, invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni contro un’autorità politica Ma sarà vero che la sentenza di Palermo certifica che lo Stato italiano si è compromesso in una trattativa con la mafia? E che quella sentenza riscrive una pagina importante della storia d’Italia? Per rispondere, bisognerebbe avere letto la sentenzaper intero; ma al momento questo non è possibile perché le motivazioni saranno pubblicate non prima di qualche mese, e sarà una lettura difficile perché verosimilmente saranno centinaia di pagine. Qualche cosa però si può dire subito, partendo da una considerazione elementare ma trascurata dai commentatori giornalistici. E cioè che la sentenza di un giudice non può dire nulla di più rispetto a quello che è l’oggetto del giudizio. Certo, materialmente è possibile che un giudice si allarghi a esporre nella sentenza anche le sue valutazioni personali sull’universo mondo. Ma quando lo fa, tutto quello che dice in più non ha valore giuridico – come si dice con linguaggio tecnico, non ha efficacia di giudicato – e chiunque può liberamente dissentire o semplicemente non tenerne conto. In un processo penale, l’oggetto del giudizio, quello che segna i limiti oltre i quali il giudice non si deve pronunciare, è definito dall’atto di accusa. E l’atto di accusa è definito a sua volta da una serie di elementi oggettivi: prima di tutto le persone degli accusati, poi i fatti specificamente addebitati, infine l’articolo del codice penale che si ritiene trasgredito. Di questo si discute nel processo e di questo deve parlare la sentenza. Ora, nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, o almeno non ne parlava formalmente, perché quel tipo di trattativa – ci sia stata o meno – non è prevista dal Codice penale come reato. Il Codice penale, precisamente l’articolo 338, quello invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni rivolte contro un’autorità politica per forzarla a prendere determinate decisioni. Chi fa queste minacce va in galera, questo dice il Codice. Che l’autorità politica minacciata si pieghi o no, non aggiunge e non toglie nulla alla gravità del reato commesso dal minacciante, e non comporta una responsabilità penale degli uomini politici interessati. Ricordiamoci il caso Moro. Quella volta il Governo decise di rifiutare qualunque concessione, ma ancora se ne discute, e nessuno pensò di accusare come complice dei brigatisti chi allora sosteneva che si dovesse invece accettare la trattativa. Infatti, nel processo di Palermo nessun uomo politico era accusato di avere aderito alla supposta trattativa (l’ex ministro Mancino era imputato di altro ed è stato assolto). Erano accusati alcuni esponenti mafiosi, per avere scatenato, all’incirca fra il 1990 e il 1994, una serie di uccisioni e di attentati, con lo scopo di indurre il Governo a mitigare la legislazione antimafia e a concedere ai mafiosi detenuti sconti di pena e attenuazioni del regime carcerario. Tanto bastava per applicare l’art. 338 del Codice penale, e poiché i fatti essenziali sono certi (e da molto tempo) la sentenza di condanna non è stata una sorpresa. Ma che c’entra lo Stato? C’entra (solo) perché fra gli imputati vi erano anche alcuni ufficiali dei carabinieri, che avrebbero fatto da portavoce dei capi mafiosi presso il livello politico. L’accusa sottintende che quegli ufficiali abbiano agito intenzionalmente nell’interesse della mafia e contro l’interesse dello Stato; loro si sono sempre difesi dicendo che hanno fatto semplicemente il loro dovere di ufficio nel riferire al Governo i messaggi che pervenivano dal mondo della mafia. La sentenza di Palermo ha accolto la tesi dell’accusa; questo punto è discutibile e probabilmente se ne discuterà nei gradi successivi del giudizio. C’è da aggiungere che fra i “portavoce” della mafia, secondo l’accusa e secondo la sentenza, vi era anche l’ex senatore Dell’Utri; ma questi è già condannato, con sentenza definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, ossia per essere stato, in altri contesti, un fiancheggiatore della mafia. Niente di veramente nuovo, dunque. Questa è, in sintesi, l’essenza del processo di Palermo. Tutto il di più che viene detto è esagerazione giornalistica e speculazione politica. Fra parentesi, dal 1990 in poi la legislazione antimafia è stata sempre aggravata, mai attenuata.  ]]>

Nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, non prevista dal Codice penale come reato. L’articolo 338, invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni contro un’autorità politica Ma sarà vero che la sentenza di Palermo certifica che lo Stato italiano si è compromesso in una trattativa con la mafia? E che quella sentenza riscrive una pagina importante della storia d’Italia? Per rispondere, bisognerebbe avere letto la sentenzaper intero; ma al momento questo non è possibile perché le motivazioni saranno pubblicate non prima di qualche mese, e sarà una lettura difficile perché verosimilmente saranno centinaia di pagine. Qualche cosa però si può dire subito, partendo da una considerazione elementare ma trascurata dai commentatori giornalistici. E cioè che la sentenza di un giudice non può dire nulla di più rispetto a quello che è l’oggetto del giudizio. Certo, materialmente è possibile che un giudice si allarghi a esporre nella sentenza anche le sue valutazioni personali sull’universo mondo. Ma quando lo fa, tutto quello che dice in più non ha valore giuridico – come si dice con linguaggio tecnico, non ha efficacia di giudicato – e chiunque può liberamente dissentire o semplicemente non tenerne conto. In un processo penale, l’oggetto del giudizio, quello che segna i limiti oltre i quali il giudice non si deve pronunciare, è definito dall’atto di accusa. E l’atto di accusa è definito a sua volta da una serie di elementi oggettivi: prima di tutto le persone degli accusati, poi i fatti specificamente addebitati, infine l’articolo del codice penale che si ritiene trasgredito. Di questo si discute nel processo e di questo deve parlare la sentenza. Ora, nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, o almeno non ne parlava formalmente, perché quel tipo di trattativa – ci sia stata o meno – non è prevista dal Codice penale come reato. Il Codice penale, precisamente l’articolo 338, quello invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni rivolte contro un’autorità politica per forzarla a prendere determinate decisioni. Chi fa queste minacce va in galera, questo dice il Codice. Che l’autorità politica minacciata si pieghi o no, non aggiunge e non toglie nulla alla gravità del reato commesso dal minacciante, e non comporta una responsabilità penale degli uomini politici interessati. Ricordiamoci il caso Moro. Quella volta il Governo decise di rifiutare qualunque concessione, ma ancora se ne discute, e nessuno pensò di accusare come complice dei brigatisti chi allora sosteneva che si dovesse invece accettare la trattativa. Infatti, nel processo di Palermo nessun uomo politico era accusato di avere aderito alla supposta trattativa (l’ex ministro Mancino era imputato di altro ed è stato assolto). Erano accusati alcuni esponenti mafiosi, per avere scatenato, all’incirca fra il 1990 e il 1994, una serie di uccisioni e di attentati, con lo scopo di indurre il Governo a mitigare la legislazione antimafia e a concedere ai mafiosi detenuti sconti di pena e attenuazioni del regime carcerario. Tanto bastava per applicare l’art. 338 del Codice penale, e poiché i fatti essenziali sono certi (e da molto tempo) la sentenza di condanna non è stata una sorpresa. Ma che c’entra lo Stato? C’entra (solo) perché fra gli imputati vi erano anche alcuni ufficiali dei carabinieri, che avrebbero fatto da portavoce dei capi mafiosi presso il livello politico. L’accusa sottintende che quegli ufficiali abbiano agito intenzionalmente nell’interesse della mafia e contro l’interesse dello Stato; loro si sono sempre difesi dicendo che hanno fatto semplicemente il loro dovere di ufficio nel riferire al Governo i messaggi che pervenivano dal mondo della mafia. La sentenza di Palermo ha accolto la tesi dell’accusa; questo punto è discutibile e probabilmente se ne discuterà nei gradi successivi del giudizio. C’è da aggiungere che fra i “portavoce” della mafia, secondo l’accusa e secondo la sentenza, vi era anche l’ex senatore Dell’Utri; ma questi è già condannato, con sentenza definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, ossia per essere stato, in altri contesti, un fiancheggiatore della mafia. Niente di veramente nuovo, dunque. Questa è, in sintesi, l’essenza del processo di Palermo. Tutto il di più che viene detto è esagerazione giornalistica e speculazione politica. Fra parentesi, dal 1990 in poi la legislazione antimafia è stata sempre aggravata, mai attenuata.  ]]>
Nessun epitaffio per Totò Riina https://www.lavoce.it/nessun-epitaffio-toto-riina/ Thu, 23 Nov 2017 14:47:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50642

di Francesco Bonini È uscito male di scena, il capo dei capi, molto male. Dal basso del suo carico di condanne, una carriera criminale che ha insanguinato l’Italia, in particolare nel delicatissimo passaggio della fine del secolo scorso. Nessun epitaffio, se non per ricordare a chi non ne ha seguito direttamente le cronache, o a chi le avesse dimenticate, il cumulo dei suoi crimini. Né ci appassiona il dibattito sulla sua “successione”. O sui tanti misteri, non Ultimo quello della sua stessa cattura, il 15 gennaio 1993. L’uscita di scena di Salvatore Riina, Totò u curto, la sua figura sfigurata, è un evento nella misura in cui è la spia dei danni persistenti, profondi, della mafia, o, più esattamente delle mafie, su cui riflettere. Già lo avevamo visto ricordando i venticinque anni dei due paralleli assassinii di Falco e Borsellino, ordinati proprio da Riina. La mafia non ha giustificazioni, uccide. Il 9 maggio del 1993, era uno splendido tramonto nella valle dei Templi, sotto Agrigento. E Giovanni Paolo II tuonò parole indimenticabili, dopo avere ricordato il comandamento di Dio, ‘non uccidere!’: “lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio”. Riina, che era appena stato arrestato, non sembra abbia ascoltato l’appello, a quanto è dato sapere. Ecco il punto, per riprendere le parole di questo grande della storia del mondo contemporaneo: la contrapposizione, netta, tra una civiltà di morte e la civiltà della vita. Vale per la mafia tradizionale, quella agraria da cui Riina è nato, vale per le mafie dei colletti bianchi, verso cui è evoluta, vale per le mafie “trapiantate”, ad Ostia, nell’Italia del nord, quelle dei vari gruppi etnici. Vale anche per le mafie apparentemente di serie “b”, quelle che scivolano via nei comportamenti quotidiani: se è vero che la preside del liceo Virgilio di Roma, uno dei meglio frequentati della Capitale, ha denunciato un cima “intimidatorio e mafioso”, perpetrato da ragazzi di famiglie “bene”. Forse allora bisogna proprio partire da qui, dalla violenza ordinaria nei rapporti “brevi” che tendiamo a scusare, a minimizzare, che invece ci portano tutti ad introiettare violenza e sopraffazione. Le radici della mafia, di tutte le mafie, sono nella violenza e nell’ignoranza. Che credevamo di avere estirpate, ma si riaffacciano prepotenti, a caratterizzare la disgregazione del tessuto sociale, i processi di “de socializzazione”. L’unica legge che rimane quando non si rispetta la legge è la legge del più forte. Non è un gioco di parole. È un processo sociale ormai evidente. È il brodo di cultura della mafia, dei comportamenti mafiosi. A quel grido di Giovanni Paolo II, “convertitevi”, papa Francesco sta dando tante, tantissime prospettive pratiche, anche proprio nei rapporti “brevi”, per la vita quotidiana. Sta indicando dei percorsi, che diventano così percorsi di speranza. Tanto più ardui quanto più passa il tempo e si radica l’assuefazione. Ma proprio per questo sempre più urgenti.  ]]>

di Francesco Bonini È uscito male di scena, il capo dei capi, molto male. Dal basso del suo carico di condanne, una carriera criminale che ha insanguinato l’Italia, in particolare nel delicatissimo passaggio della fine del secolo scorso. Nessun epitaffio, se non per ricordare a chi non ne ha seguito direttamente le cronache, o a chi le avesse dimenticate, il cumulo dei suoi crimini. Né ci appassiona il dibattito sulla sua “successione”. O sui tanti misteri, non Ultimo quello della sua stessa cattura, il 15 gennaio 1993. L’uscita di scena di Salvatore Riina, Totò u curto, la sua figura sfigurata, è un evento nella misura in cui è la spia dei danni persistenti, profondi, della mafia, o, più esattamente delle mafie, su cui riflettere. Già lo avevamo visto ricordando i venticinque anni dei due paralleli assassinii di Falco e Borsellino, ordinati proprio da Riina. La mafia non ha giustificazioni, uccide. Il 9 maggio del 1993, era uno splendido tramonto nella valle dei Templi, sotto Agrigento. E Giovanni Paolo II tuonò parole indimenticabili, dopo avere ricordato il comandamento di Dio, ‘non uccidere!’: “lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio”. Riina, che era appena stato arrestato, non sembra abbia ascoltato l’appello, a quanto è dato sapere. Ecco il punto, per riprendere le parole di questo grande della storia del mondo contemporaneo: la contrapposizione, netta, tra una civiltà di morte e la civiltà della vita. Vale per la mafia tradizionale, quella agraria da cui Riina è nato, vale per le mafie dei colletti bianchi, verso cui è evoluta, vale per le mafie “trapiantate”, ad Ostia, nell’Italia del nord, quelle dei vari gruppi etnici. Vale anche per le mafie apparentemente di serie “b”, quelle che scivolano via nei comportamenti quotidiani: se è vero che la preside del liceo Virgilio di Roma, uno dei meglio frequentati della Capitale, ha denunciato un cima “intimidatorio e mafioso”, perpetrato da ragazzi di famiglie “bene”. Forse allora bisogna proprio partire da qui, dalla violenza ordinaria nei rapporti “brevi” che tendiamo a scusare, a minimizzare, che invece ci portano tutti ad introiettare violenza e sopraffazione. Le radici della mafia, di tutte le mafie, sono nella violenza e nell’ignoranza. Che credevamo di avere estirpate, ma si riaffacciano prepotenti, a caratterizzare la disgregazione del tessuto sociale, i processi di “de socializzazione”. L’unica legge che rimane quando non si rispetta la legge è la legge del più forte. Non è un gioco di parole. È un processo sociale ormai evidente. È il brodo di cultura della mafia, dei comportamenti mafiosi. A quel grido di Giovanni Paolo II, “convertitevi”, papa Francesco sta dando tante, tantissime prospettive pratiche, anche proprio nei rapporti “brevi”, per la vita quotidiana. Sta indicando dei percorsi, che diventano così percorsi di speranza. Tanto più ardui quanto più passa il tempo e si radica l’assuefazione. Ma proprio per questo sempre più urgenti.  ]]>
Il lavoro illegale tema della Settimana sociale dei cattolici https://www.lavoce.it/lavoro-illegale-tema-della-settimana-sociale-dei-cattolici/ Thu, 26 Oct 2017 17:00:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50338

Il lavoro è anche sfida di legalità. Soprattutto in alcuni contesti - e non solo quelli ai quali farebbero pensare antichi luoghi comuni - il lavoro rappresenta un antidoto alle mafie, lo strumento di contrasto più efficace all’economia illegale, la risposta per uno sviluppo possibile “autoprodotto” e per tale ragione sostenibile nel tempo. L’Istat ha presentato pochi giorni fa i dati dell’economia illegale, quella costituita essenzialmente dal fenomeno della prostituzione, del contrabbando e soprattutto del traffico di droga. "Nel 2015, le attività illegali considerate nel sistema dei conti nazionali – informa l’Istat - hanno generato un valore aggiunto pari a 15,8 miliardi di euro ovvero 0,2 miliardi in più rispetto all’anno precedente". Il “lavoro illegale” è uno dei temi dei quali si discuterà a Cagliari, la tappa nazionale del cammino della 48a Settimana sociale dei cattolici, che avrà anche un seguito, dopo la quattro-giorni dal 26 al 29 ottobre. Leggi l'articolo completo sull'edizione digitale de "La Voce"]]>

Il lavoro è anche sfida di legalità. Soprattutto in alcuni contesti - e non solo quelli ai quali farebbero pensare antichi luoghi comuni - il lavoro rappresenta un antidoto alle mafie, lo strumento di contrasto più efficace all’economia illegale, la risposta per uno sviluppo possibile “autoprodotto” e per tale ragione sostenibile nel tempo. L’Istat ha presentato pochi giorni fa i dati dell’economia illegale, quella costituita essenzialmente dal fenomeno della prostituzione, del contrabbando e soprattutto del traffico di droga. "Nel 2015, le attività illegali considerate nel sistema dei conti nazionali – informa l’Istat - hanno generato un valore aggiunto pari a 15,8 miliardi di euro ovvero 0,2 miliardi in più rispetto all’anno precedente". Il “lavoro illegale” è uno dei temi dei quali si discuterà a Cagliari, la tappa nazionale del cammino della 48a Settimana sociale dei cattolici, che avrà anche un seguito, dopo la quattro-giorni dal 26 al 29 ottobre. Leggi l'articolo completo sull'edizione digitale de "La Voce"]]>
Mafia e disaffezione alla politica https://www.lavoce.it/mafia-disaffezione-alla-politica/ Fri, 06 Oct 2017 11:00:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50100 Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli anni ’80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l’esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati non si deve più parlare di infiltrazione, ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio”.
È quanto si legge sul sito di Libera. Un allarme rilanciato dalle recenti notizie sugli intrecci tra politica e ’ndrangheta in un Comune della Brianza.
Da tempo alcuni magistrati del Nord chiedono di alzare la guardia perché “la corruzione è diventata il metodo mafioso più raffinato. Pericolosa al pari della capacità di intimidazione e di condizionamento della politica e della vita del territorio”. L’invito a vigilare sulla infiltrazione mafiosa in Umbria è stato rilanciato anche la scorsa settimana dal presidente della Fondazione umbra contro l’usura https://www.lavoce.it/banche-cittadini-quale-comunicazione/ .
Riecheggiano le parole di Papa Francesco, domenica 1° ottobre a Cesena: “La corruzione è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere la civiltà”.
Il dipanarsi del fenomeno malavitoso nelle regioni settentrionali è, non da oggi, sotto osservazione, anche se non è stato facile intercettarlo e colpirlo con immediatezza ed efficacia.
Ciò che esige un’attenzione aggiuntiva è la strategia di penetrazione delle mafie nelle istituzioni locali. Ci si chiede, a volte, se la criminalità organizzata non sia andata e non vada a occupare spazi che nelle istituzioni locali vengono lasciati vuoti perché “la politica è una cosa sporca”. Spazi a disposizione di corrotti e corruttori.
Le risposte possono essere cercate e trovate in più direzioni, ma una, in particolare, chiama in causa la crisi della partecipazione, la crisi della solidarietà, la crisi della democrazia, la crisi di fiducia nel rapporto cittadini-istituzioni. Un insieme di crisi provocate da un’eclissi della coscienza che, ancor oggi, non sembra essersi conclusa.
Una domanda, dunque, rimane: perché quanti affermano di avere a cuore la città rimangono distanti dalle istituzioni, cioè dai luoghi, dove si pensano e prendono decisioni per il bene dei cittadini?
Non è forse il rifiuto o la difficoltà, almeno da parte dei cattolici, di leggere e vivere la politica come forma nobile ed esigente di carità a lasciare spazi vuoti, spazi a disposizione di corrotti e corruttori?
Non è forse la mancanza di una riflessione seria e condivisa sull’impegno politico a rendere più facile e sottile l’infiltrazione della mafia e della cultura mafiosa al Nord?
A stimolare la ricerca, le risposte, le assunzioni di responsabilità politiche sul territorio è la memoria di quanti hanno lottato contro le mafie. Loro, anche se morti, non hanno lasciato spazi vuoti.

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Allarme mafia nel settore alimentare https://www.lavoce.it/allarme-mafia-nel-settore-alimentare/ Thu, 16 Mar 2017 09:30:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=48794 Agricoltura-e-caporalato-(Foto-archivio)-raccolta-pomodoriLa mafia adesso non spara. “È silente, le sue forme di intimidazione oggi sono il non detto; sussurra, accenna. È liquida, e come acqua si infiltra nella economia, nella società”. Parole di Gian Carlo Caselli, l’ex magistrato che, dopo avere combattuto negli anni ’60 nella sua Torino le Brigate rosse e Prima linea, nel 1992, dopo la morte di Falcone e Borsellino, volontariamente scese a Palermo. In Sicilia, come procuratore della Repubblica, per sette anni aveva diretto la lotta dello Stato contro la mafia. Poi con la pensione ha lasciato la toga ma continua il suo impegno nel contrasto alle mafie come responsabile della segreteria scientifica dell’Osservatorio della Coldiretti sulla criminalità organizzata nel settore agroalimentare.

In questa veste ha partecipato venerdì scorso, nell’aula magna della facoltà di Agraria dell’Università di Perugia, a un convegno sui “nuovi volti delle mafie”. La loro filosofia – ha detto a studenti e docenti – è quella del “piatto ricco, mi ci ficco”. Per la criminalità organizzata è facile inserirsi in ogni segmento della filiera agroalimentare: con prestanomi e la complicità di “colletti bianchi” acquista terreni, gestisce aziende agricole e in certe zone ha anche il monopolio dell’acqua per l’irrigazione. Fino ad arrivare a un totale controllo del territorio con le estorsioni e il furto di attrezzature e bestiame.

“Anche l’Umbria – ha rimarcato il prefetto di Perugia, Raffaele Cannizzaro – non è più terra vergine. Non c’è un’occupazione territoriale da parte delle mafie, ma cresce il pericolo di un’occupazione dell’economia”.

Il prof. Enrico Carloni ha detto che nella nostra regione ci sono 74 beni confiscati alla criminalità organizzata. Si tratta di terreni, aziende agricole, appartamenti, supermercati, aziende di vario tipo e perfino un castello. Per i mafiosi e i loro prestanome, con i soldi “sporchi” dei traffici di droga, armi, sfruttamento della prostituzione, non è difficile trovare beni e aziende in crisi da acquistare.

L’anno scorso – ha riferito il prefetto – sono state emesse in provincia di Perugia tre interdittive antimafia; una di esse riguardava un noto hotel di Assisi di proprieta di un ente di assistenza e beneficenza che, per la gestione, lo avebbe affidato a persone contigue alla criminalità organizzata. In regioni tranquille come l’Umbria – ha spiegato – spesso “manca la consapevolezza” del pericolo di queste infiltrazioni criminali, non si percepiscono i “segnali” di una loro presenza. “La nostra frontiera – ha concluso – deve essere quindi la conoscenza di questi pericoli”.

L’Università e l’associazione Libera contro le mafie hanno firmato un protocollo per rispondere alla esigenza della diffusione di una “cultura della legalità”, e il convegno si inseriva in questo progetto. Per elaborare un “modello antimafia” – ha detto il referente di Libera Umbria, Walter Cardinali – frutto della collaborazione e sinergia tra istituzioni, centri studi e di ricerca e associazioni del volontariato.

Nel convegno sono stati affrontati vari aspetti del pericolo “agromafie”. Il prof. Gaetano Martino ha parlato dello sfruttamento del lavoro. Ortaggi e frutta vengono pagati troppo poco a chi li produce. Per contenere i costi di produzione e raccolta, si è arrivati a situazioni di vera e propria schiavitù, con il reclutamento di manodopera gestito dalle mafie e retribuzioni anche di 2 euro all’ora.

Secondo Caselli, sarebbero almeno 100 mila questi nuovi schiavi nelle campagne italiane, in gran parte stranieri. Tra loro molte le donne, talvolta sfruttate anche sessualmente. C’è però – ha detto l’ex magistrato – anche un “caporalato estero, per noi invisibile, che sfrutta nel mondo il lavoro milioni di minori e che fa arrivare nei nostri negozi prodotti sottocosto e di bassa qualità, aumentando le difficoltà degli agricoltori locali”.

Il prof. Carlo Fiorio si è occupato delle norme per contrastare frodi commerciali e contraffazione, ma le sanzioni – ha detto – “sono troppo lievi e non sufficientemente dissuasive”. Caselli le ha addirittura definite “un groviera piena di buchi”. Per aggiornarle, nel 2015 è stata costituita una commissione di docenti universitari, esperti e rappresentanti delle associazioni di categoria presieduta proprio dall’ex magistrato. “Abbiamo presentato – ha riferito – un progetto complessivo di riforma che introduce anche nuovi reati, ad esempio la pubblicità ingannevole, per una maggiore tutela dei consumatori, della salute e dell’ambiente”.

Un progetto che però è rimasto nel cassetto. “E la mia impressione – ha detto – è che ci siano resistenze, anche legittime, della grande industria”.

 

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Lavoro e scuola di legalità sui terreni della ’ndrangheta https://www.lavoce.it/lavoro-e-scuola-di-legalita-sui-terreni-della-ndrangheta/ https://www.lavoce.it/lavoro-e-scuola-di-legalita-sui-terreni-della-ndrangheta/#comments Wed, 05 Aug 2015 11:00:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=41885 libera-pietralungaA Pietralunga è in corso il “campo” estivo dell’associazione Libera contro le mafie al quale, con 5 turni settimanali, partecipano ragazzi e ragazze di tutta Italia (30 per volta) che danno una mano ai volontari di Libera per una prima sistemazione di questi terreni da tempo abbandonati.

In particolare li stanno ripulendo dalla vegetazione infestante e stanno sistemando una strada di accesso, con la guida e l’assistenza di un giovane del posto. È un volontario del presidio Libera di Pietralunga – Città di Castello che con altri tre giovani, tutti con esperienze nel lavoro agricolo, ha fondato una cooperativa che intende partecipare al bando per l’assegnazione definitiva del bene confiscato. Per loro, e per altri giovani della zona, questi terreni potrebbero essere una grande opportunità di lavoro.

Già l’anno scorso i volontari di Libera vi avevano avviato una coltivazione della tipica patata di Pietralunga. Esperienza che quest’anno è stata ripetuta in modo più professionale e, si spera, con un raccolto ancora più abbondante. Raccolto previsto per l’inizio del prossimo mese, con l’aiuto dei partecipanti al campo. Per piantare e raccogliere le patate è nata una sorta di rete tra volontari di Libera – arrivati da tutta la provincia con zappe e attrezzi vari – e la gente del posto che ha messo a disposizione trattori e altri mezzi di lavoro.

Insomma un bell’esempio di recupero di un bene che dalle mani della criminalità organizzata è tornato in possesso dei cittadini e che – come sperano i giovani della nuova cooperativa – potrebbe diventare un’occasione di lavoro per loro e di sviluppo per l’intera comunità locale.

Non solo lavoro ma anche attività formativa e divertimento

I partecipanti al campo di lavoro di Pietralunga sono ragazzi e giovani tra i 15 e 35 anni. Due dei cinque turni settimanali sono stati prenotati da gruppi parrochiali provenienti dalla Toscana con i loro accompagnatori. Dormono nel ristrutturato convento medievale di Sant’Agostino, assistiti da volontari di Libera. Della cucina in particolare si occupano cuoche messe a disposizione dalla Spi Cgil di Terni. Ma sono anche i ragazzi a dare una mano e a occuparsi, a turno, delle pulizie e degli altri servizi necessari per una condivisione di vita e di lavoro.

La giornata-tipo prevede al mattino il lavoro nei campi e nel pomeriggio attività formativa. Ci sono incontri con rappresentanti delle forze di polizia e di associazioni come Legambiente, Cittadinanza attiva e Tavolo per la pace, le quali, come Libera, sono impegnate sui temi della legalità e giustizia sociale, della cittadinanza attiva e della solidarietà. Non mancano momenti ricreativi con la partecipazione a feste e sagre, attività e tornei sportivi, ma anche escursioni turistiche nelle città umbre. Come avvenuto ad esempio per Umbria Jazz a Perugia, e quella in programma a fine agosto all’isola Maggiore del lago Trasimeno per un incontro con il figlio di Pio La Torre, nota vittima di mafia.

“Ragazzi fantastici che insegnano tante cose anche a noi educatori”

Questi campi – spiega Pinuccia Neve, insegnante, una delle responsabili del programma di attività formativa a Pietralunga – sono “un’occasione per far comprendere che le mafie non sono solo quelle della Sicilia, della Campania o della Calabria, e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico della droga, dello smaltimento illecito dei rifiuti o il gioco d’azzardo. No. La cultura mafiosa prospera quando ci giriamo dall’altra parte davanti a comportamenti illegali, quando accettiamo la raccomandazione per il posto di lavoro o altri favori non leciti. Quando pensiamo soltanto ai fatti e agli interessi nostri, mentre per sconfiggerla e per poter vivere tutti meglio bisogna fare comunità, rete, bisogna affermare il noi sull’io ”. È la lezione che si apprende in questa vita di comunità tra lavoro, formazione e divertimento al campo di Pietralunga dove – dice – “in questi tre anni ho trovato ragazzi fantastici che in certe occasioni hanno saputo insegnare tante cose anche a noi educatori”.

Il terreno

Per il terzo anno consecutivo è in corso a Pietralunga, da luglio a settembre, uno dei 52 campi di “ E! state liberi” dell’associazione Libera contro le mafie. Sono più di 7.000 i posti disponibili in tutta Italia per giovani e adulti interessati a un’esperienza di impegno civile in campi di volontariato su terreni e beni sequestrati a boss e organizzazioni criminali. A Pietralunga nel 2011 fu confiscata alla famiglia De Stefano della ’ndrangheta reggina l’azienda agricola “Col di Pila” di circa 100 ettari, 80 dei quali di bosco. Un bene attualmente gestito dal Comune e affidato provvisoriamente a Libera, in attesa del bando pubblico per l’assegnazione definitiva. Sono terreni incolti che necessitano di vari lavori per tornare a essere fruttuosi.

 

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