libertà Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/liberta/ Settimanale di informazione regionale Wed, 13 Mar 2024 17:47:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg libertà Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/liberta/ 32 32 Peccato originale… dov’è la liberta? https://www.lavoce.it/peccato-originale-dove-la-liberta/ https://www.lavoce.it/peccato-originale-dove-la-liberta/#respond Wed, 13 Mar 2024 17:47:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75234 Una donna di spalle con i capelli scuri, seduta, alla sua destra un sacerdote seduto con la mano destra alzata che la benedice

Si è svolto mercoledì 6 marzo il secondo incontro di formazione, del percorso “Iniziazione cristiana: quali proposte per il futuro?”, rivolto ai catechisti dell’iniziazione cristiana dei fanciulli della diocesi di Perugia - Città della Pieve e promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, con la partecipazione di Andrea Grillo, docente di Teologia sacramentaria presso la Facoltà teologica del Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma e di Teologia liturgica presso l’Istituto di Liturgia pastorale di Padova.

Profittando dell’occasione abbiamo chiesto al prof. Grillo di parlarci della relazione tra battesimo e libertà, quest’ultima al centro del Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2024. Professore, quale relazione tra battesimo e libertà?

“È una relazione molto fine in termini di liberazione dalle logiche del peccato, che non è soltanto liberarsi dal peccato originale - forma con la quale la tradizione ci dice questa grande verità - ma entrare in una relazione di figliolanza e fraternità che ci fa scoprire come quella libertà, che molto spesso pensiamo come un possesso diretto e immediato di ogni uomo e di ogni donna, resta astratta se non viene pensata come una dipendenza dall’autorità. Ogni uomo e ogni donna, infatti, scopre la propria libertà nel momento in cui si lascia toccare dall’autorità dell’amore. Noi, infatti, siamo liberi in quanto siamo stati amati e diventiamo consapevoli dell’amore che Dio, in forma misteriosa, e il prossimo, in forma visibile, ci hanno riservato. Ogni nostro atto di libertà parte da questa abilitazione che abbiamo ricevuto dall’altro e dall’Alto: l’altro e l’Alto ci abilitano ad essere liberi. Nella libertà possiamo fare memoria di questa origine, e dunque restare liberi, oppure troncare il rapporto con questa origine svuotando così la nostra libertà”.

Il “peccato originale”: come spiegarlo in un contesto contemporaneo dove si fa una certa fatica a comprendere un peccato di cui non si è autori?

“Il peccato originale è un modo di spiegare e rendere accessibile il fatto che l’uomo si trova in una situazione di bisogno di salvezza, non perché abbia compiuto qualcosa di disdicevole o di peccaminoso con la propria volontà, ma perché si trova in una condizione di finitudine che non riesce a risolvere semplicemente con le proprie forze. Quindi, potremmo dire che il peccato originale è un modo classico di definire ciò che oggi potremmo tradurre con ‘non venire a capo della propria esistenza da soli’. Essere liberati da questo, poi, vuol dire entrare in una relazione salda e sicura, che è quello che chiamiamo comunione col Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. Questo rapporto con il Dio trinitario libera dal peccato originale e rende possibile una vita virtuosa, che può cadere anche in peccati gravi e che quindi può smentire sé stessa ma mai in modo definitivo; cioè siamo sempre sulla soglia di una possibile riabilitazione e rilancio della comunione. Questo modo di pensare aiuta anche a capire le illusioni, molto più di oggi che non di un tempo, di un mondo che pensa di emanciparsi dal male progettando tutte le cose bene: la progettazione della propria vita personale, della civiltà, della società, senza rughe e senza macchie è un progetto umano che non viene a capo di sé stesso e dunque entra inevitabilmente in crisi. Il bisogno di una autorità altra e più alta, per venire a capo di sé, è il principio di salvezza, che può essere pensato solo in un orizzonte più ampio che è quello della grazia, la quale è più originale del peccato originale. E di questo facciamo esperienza nel battesimo”.

Come coniugare libertà ed autorità, che nel pensiero comune potrebbero essere viste in antitesi?

“Il linguaggio moderno, che ha le sue giustificazioni sul piano politico a causa soprattutto degli ultimi 200 anni di storia, ci porta a dire che per avere libertà devi negare l’autorità, ma questo è un formalismo politico che fa dimenticare che l’atto libero, specificamente umano, è sempre abilitato da una autorità, la quale non è l’imposizione di un comportamento ma è un’altra libertà che ti rende libero. Per spiegarmi: solo quando una persona ti parla tu cominci a parlare, poi ti puoi pure immaginare che il parlare sia tuo originario, ma in realtà l’hai preso dall’altro, è da tuo padre e tua madre che hai imparato a parlare e loro sono le autorità e sono delle autorità se ti hanno dato parole di bene. Dobbiamo pensare la vera autorità come un’altra libertà che è condizione della tua, uscendo dallo stereotipo con cui a volte diciamo ‘la tua libertà finisce dove comincia quella dell’altro’, perché in realtà la tua libertà comincia dove comincia quella di un altro. Non si diventa liberi se non si incontrano delle autorità, come i genitori, gli insegnati, i preti, i datori di lavoro, ecc., che danno gli strumenti per liberarsi”.

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Una donna di spalle con i capelli scuri, seduta, alla sua destra un sacerdote seduto con la mano destra alzata che la benedice

Si è svolto mercoledì 6 marzo il secondo incontro di formazione, del percorso “Iniziazione cristiana: quali proposte per il futuro?”, rivolto ai catechisti dell’iniziazione cristiana dei fanciulli della diocesi di Perugia - Città della Pieve e promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, con la partecipazione di Andrea Grillo, docente di Teologia sacramentaria presso la Facoltà teologica del Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma e di Teologia liturgica presso l’Istituto di Liturgia pastorale di Padova.

Profittando dell’occasione abbiamo chiesto al prof. Grillo di parlarci della relazione tra battesimo e libertà, quest’ultima al centro del Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2024. Professore, quale relazione tra battesimo e libertà?

“È una relazione molto fine in termini di liberazione dalle logiche del peccato, che non è soltanto liberarsi dal peccato originale - forma con la quale la tradizione ci dice questa grande verità - ma entrare in una relazione di figliolanza e fraternità che ci fa scoprire come quella libertà, che molto spesso pensiamo come un possesso diretto e immediato di ogni uomo e di ogni donna, resta astratta se non viene pensata come una dipendenza dall’autorità. Ogni uomo e ogni donna, infatti, scopre la propria libertà nel momento in cui si lascia toccare dall’autorità dell’amore. Noi, infatti, siamo liberi in quanto siamo stati amati e diventiamo consapevoli dell’amore che Dio, in forma misteriosa, e il prossimo, in forma visibile, ci hanno riservato. Ogni nostro atto di libertà parte da questa abilitazione che abbiamo ricevuto dall’altro e dall’Alto: l’altro e l’Alto ci abilitano ad essere liberi. Nella libertà possiamo fare memoria di questa origine, e dunque restare liberi, oppure troncare il rapporto con questa origine svuotando così la nostra libertà”.

Il “peccato originale”: come spiegarlo in un contesto contemporaneo dove si fa una certa fatica a comprendere un peccato di cui non si è autori?

“Il peccato originale è un modo di spiegare e rendere accessibile il fatto che l’uomo si trova in una situazione di bisogno di salvezza, non perché abbia compiuto qualcosa di disdicevole o di peccaminoso con la propria volontà, ma perché si trova in una condizione di finitudine che non riesce a risolvere semplicemente con le proprie forze. Quindi, potremmo dire che il peccato originale è un modo classico di definire ciò che oggi potremmo tradurre con ‘non venire a capo della propria esistenza da soli’. Essere liberati da questo, poi, vuol dire entrare in una relazione salda e sicura, che è quello che chiamiamo comunione col Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. Questo rapporto con il Dio trinitario libera dal peccato originale e rende possibile una vita virtuosa, che può cadere anche in peccati gravi e che quindi può smentire sé stessa ma mai in modo definitivo; cioè siamo sempre sulla soglia di una possibile riabilitazione e rilancio della comunione. Questo modo di pensare aiuta anche a capire le illusioni, molto più di oggi che non di un tempo, di un mondo che pensa di emanciparsi dal male progettando tutte le cose bene: la progettazione della propria vita personale, della civiltà, della società, senza rughe e senza macchie è un progetto umano che non viene a capo di sé stesso e dunque entra inevitabilmente in crisi. Il bisogno di una autorità altra e più alta, per venire a capo di sé, è il principio di salvezza, che può essere pensato solo in un orizzonte più ampio che è quello della grazia, la quale è più originale del peccato originale. E di questo facciamo esperienza nel battesimo”.

Come coniugare libertà ed autorità, che nel pensiero comune potrebbero essere viste in antitesi?

“Il linguaggio moderno, che ha le sue giustificazioni sul piano politico a causa soprattutto degli ultimi 200 anni di storia, ci porta a dire che per avere libertà devi negare l’autorità, ma questo è un formalismo politico che fa dimenticare che l’atto libero, specificamente umano, è sempre abilitato da una autorità, la quale non è l’imposizione di un comportamento ma è un’altra libertà che ti rende libero. Per spiegarmi: solo quando una persona ti parla tu cominci a parlare, poi ti puoi pure immaginare che il parlare sia tuo originario, ma in realtà l’hai preso dall’altro, è da tuo padre e tua madre che hai imparato a parlare e loro sono le autorità e sono delle autorità se ti hanno dato parole di bene. Dobbiamo pensare la vera autorità come un’altra libertà che è condizione della tua, uscendo dallo stereotipo con cui a volte diciamo ‘la tua libertà finisce dove comincia quella dell’altro’, perché in realtà la tua libertà comincia dove comincia quella di un altro. Non si diventa liberi se non si incontrano delle autorità, come i genitori, gli insegnati, i preti, i datori di lavoro, ecc., che danno gli strumenti per liberarsi”.

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La “dipendenza” rende schiavi. Ma si può vincere https://www.lavoce.it/dipendenza-rende-schiavi-si-puo-vincere/ https://www.lavoce.it/dipendenza-rende-schiavi-si-puo-vincere/#respond Thu, 07 Mar 2024 11:36:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75149

Papa Francesco nel suo Messaggio per la Quaresima 2024 ha parlato di libertà e di fratelli e sorelle ancora oppressi dalla schiavitù. Potremmo indicare, nel contesto contemporaneo, come schiavitù anche la dipendenza. Un numero elevato di giovani ed anche di adulti, infatti, vivono una dipendenza che non si riferisce al solo abuso di alcol, di droghe o di altre sostanze, ma anche da abitudini replicate nel tempo.

I numeri delle dipendenze dei giovani

L’Istituto superiore di sanità, lo scorso anno, faceva sapere che “oltre un milione e 150mila adolescenti in Italia sono a rischio di dipendenza da cibo, quasi 500mila potrebbero avere una dipendenza da videogiochi mentre quasi 100mila presentano caratteristiche compatibili con la presenza di una dipendenza da social media, ed è diffuso anche il fenomeno dell’isolamento sociale (conosciuto come Hikikomori nella sua manifestazione clinica estrema), che riguarda l’1,8% degli studenti medi e l’1,6% di quelli delle superiori”.

Ne parliamo con Riccardo Angeletti, medico-psicoterapeuta esperto in prevenzione e cura delle vecchie e delle nuove dipendenze.

Dott. Angeletti, cosa si intende per “dipendenza”?

“La dipendenza tecnicamente è una malattia cronica recidivante: nasce nel tempo con la messa in atto di una particolare abitudine radicata, come l’uso di sostanza o l’attuare certi comportamenti. Dico recidivante perché un soggetto, ormai libero dalla dipendenza, potrebbe purtroppo ricaderci. La caratteristica principale, che permette di riconoscere una dipendenza, è la chiara modificazione e alterazione dei comportamenti e delle abitudini, perché l’unica cosa che mi dà piacere è quella sostanza o quel comportamento. Qualche esempio per intenderci: una persona dedita al lavoro, precisa, oculata, che non spende mai di soldi, ad un certo punto comincia a non essere più produttivo, a tralasciare le cose, a comprare compulsivamente; o uno studente sempre bravo a scuola che cala drasticamente nel rendimento e che non vuole più andarci. Questi sono cambiamenti comportamentali che possono, seppure non sia un assoluto, far sospettare una dipendenza. Nella persona colpita, invece, un campanello di allarme può essere la comparsa del senso di colpa: l’uso di sostanze o la messa in atto di comportamenti particolari possono suscitare un senso di sconfitta perché, pur trovando piacere in ciò che assume o in quello che fa, non vogliono perdere il controllo”.

Si sente spesso parlare di “new addictions” (nuove dipendenze): cosa sono e quali sono?

“Le nuove dipendenze non hanno a che fare con l’uso di alcol o droghe, come nel caso di quelle che vengono chiamate vecchie dipendenze, ma con comportamenti o attività lecite, socialmente accettate, come lavorare, fare acquisti, navigare su internet, fare sesso, ecc… Sono, quindi, dipendenze da comportamenti che diventano nel tempo compulsivi, come ad esempio: lo shopping, la visione di materiale pornografico, il gioco d’azzardo, l’uso di videogames, la navigazione nel web, l’assunzione di cibo, ma anche lo sport, il lavoro, le relazioni affettive…”.

… addirittura esiste la dipendenza da selfie…

“Sì, l’Associazione psichiatrica americana, ha ufficialmente riconosciuto la dipendenza da selfie, come una vera e propria mania e disturbo mentale. Nel selfie in sé non c’è nulla di male, ma quando questo diventa una routine quotidiana e quando di fronte all’impossibilità di postare le foto si manifestano sintomi di astinenza, siamo di fronte alla dipendenza”.

Le nuove dipendenze hanno elementi comuni?

“Come dicevamo, queste si riferiscono a comportamenti o abitudini socialmente accettati, quindi diventano dipendenze quando ci sono degli elementi - che sono comuni anche se ogni dipendenza ha delle caratteristiche specifiche - come l’impossibilità a resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento e la sensazione crescente di tensione che precede l’inizio del comportamento, come pure il piacere o il sollievo durante la messa in atto del comportamento e la percezione di perdita di controllo, ed anche la persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative”.

Come è possibile intervenire? Cosa si può fare?

“Per prima cosa la prevenzione: bisogna conoscere cosa sia una dipendenza, da sostanze o da comportamenti, per riconoscerla e dunque prevenirla, soprattutto quando si passa dall’uso all’abuso. Anche il dialogare è importante per la prevenzione, soprattutto il dialogo tra giovani e adulti, dove quest’ultimi non possono dimenticare la loro funzione educativa, lasciando il ragazzo ad autoregolarsi. Poi c’è il trattamento vero e proprio della dipendenza, dove la terapia cognitivo-comportamentale riscuote più successo. Serve dunque l’affidamento ad un professionista o a dei centri specializzati. Una cosa deve essere chiara: dalla dipendenza non ci si libera da soli!”.

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Papa Francesco nel suo Messaggio per la Quaresima 2024 ha parlato di libertà e di fratelli e sorelle ancora oppressi dalla schiavitù. Potremmo indicare, nel contesto contemporaneo, come schiavitù anche la dipendenza. Un numero elevato di giovani ed anche di adulti, infatti, vivono una dipendenza che non si riferisce al solo abuso di alcol, di droghe o di altre sostanze, ma anche da abitudini replicate nel tempo.

I numeri delle dipendenze dei giovani

L’Istituto superiore di sanità, lo scorso anno, faceva sapere che “oltre un milione e 150mila adolescenti in Italia sono a rischio di dipendenza da cibo, quasi 500mila potrebbero avere una dipendenza da videogiochi mentre quasi 100mila presentano caratteristiche compatibili con la presenza di una dipendenza da social media, ed è diffuso anche il fenomeno dell’isolamento sociale (conosciuto come Hikikomori nella sua manifestazione clinica estrema), che riguarda l’1,8% degli studenti medi e l’1,6% di quelli delle superiori”.

Ne parliamo con Riccardo Angeletti, medico-psicoterapeuta esperto in prevenzione e cura delle vecchie e delle nuove dipendenze.

Dott. Angeletti, cosa si intende per “dipendenza”?

“La dipendenza tecnicamente è una malattia cronica recidivante: nasce nel tempo con la messa in atto di una particolare abitudine radicata, come l’uso di sostanza o l’attuare certi comportamenti. Dico recidivante perché un soggetto, ormai libero dalla dipendenza, potrebbe purtroppo ricaderci. La caratteristica principale, che permette di riconoscere una dipendenza, è la chiara modificazione e alterazione dei comportamenti e delle abitudini, perché l’unica cosa che mi dà piacere è quella sostanza o quel comportamento. Qualche esempio per intenderci: una persona dedita al lavoro, precisa, oculata, che non spende mai di soldi, ad un certo punto comincia a non essere più produttivo, a tralasciare le cose, a comprare compulsivamente; o uno studente sempre bravo a scuola che cala drasticamente nel rendimento e che non vuole più andarci. Questi sono cambiamenti comportamentali che possono, seppure non sia un assoluto, far sospettare una dipendenza. Nella persona colpita, invece, un campanello di allarme può essere la comparsa del senso di colpa: l’uso di sostanze o la messa in atto di comportamenti particolari possono suscitare un senso di sconfitta perché, pur trovando piacere in ciò che assume o in quello che fa, non vogliono perdere il controllo”.

Si sente spesso parlare di “new addictions” (nuove dipendenze): cosa sono e quali sono?

“Le nuove dipendenze non hanno a che fare con l’uso di alcol o droghe, come nel caso di quelle che vengono chiamate vecchie dipendenze, ma con comportamenti o attività lecite, socialmente accettate, come lavorare, fare acquisti, navigare su internet, fare sesso, ecc… Sono, quindi, dipendenze da comportamenti che diventano nel tempo compulsivi, come ad esempio: lo shopping, la visione di materiale pornografico, il gioco d’azzardo, l’uso di videogames, la navigazione nel web, l’assunzione di cibo, ma anche lo sport, il lavoro, le relazioni affettive…”.

… addirittura esiste la dipendenza da selfie…

“Sì, l’Associazione psichiatrica americana, ha ufficialmente riconosciuto la dipendenza da selfie, come una vera e propria mania e disturbo mentale. Nel selfie in sé non c’è nulla di male, ma quando questo diventa una routine quotidiana e quando di fronte all’impossibilità di postare le foto si manifestano sintomi di astinenza, siamo di fronte alla dipendenza”.

Le nuove dipendenze hanno elementi comuni?

“Come dicevamo, queste si riferiscono a comportamenti o abitudini socialmente accettati, quindi diventano dipendenze quando ci sono degli elementi - che sono comuni anche se ogni dipendenza ha delle caratteristiche specifiche - come l’impossibilità a resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento e la sensazione crescente di tensione che precede l’inizio del comportamento, come pure il piacere o il sollievo durante la messa in atto del comportamento e la percezione di perdita di controllo, ed anche la persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative”.

Come è possibile intervenire? Cosa si può fare?

“Per prima cosa la prevenzione: bisogna conoscere cosa sia una dipendenza, da sostanze o da comportamenti, per riconoscerla e dunque prevenirla, soprattutto quando si passa dall’uso all’abuso. Anche il dialogare è importante per la prevenzione, soprattutto il dialogo tra giovani e adulti, dove quest’ultimi non possono dimenticare la loro funzione educativa, lasciando il ragazzo ad autoregolarsi. Poi c’è il trattamento vero e proprio della dipendenza, dove la terapia cognitivo-comportamentale riscuote più successo. Serve dunque l’affidamento ad un professionista o a dei centri specializzati. Una cosa deve essere chiara: dalla dipendenza non ci si libera da soli!”.

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Liberi di scegliere, per volontà di Dio https://www.lavoce.it/liberi-di-scegliere-per-volonta-di-dio/ https://www.lavoce.it/liberi-di-scegliere-per-volonta-di-dio/#respond Thu, 22 Feb 2024 17:11:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74982

Nel suo Messaggio per la Quaresima, papa Francesco ha posto al centro della riflessione la libertà, a partire dall’esperienza del popolo d’Israele narrata nel libro dell’Esodo e dai brani evangelici delle tentazioni. Questo tema, in contesto di fede e non solo, apre ad una ulteriore riflessione, quella sul libero arbitrio.

I riferimenti alla libertà nella Sacra Scrittura

La Sacra Scrittura riporta espressioni che sottolineano la libertà dell’uomo, data anzitutto dalla facoltà di prendere scelte, dettate dal proprio pensiero, e di compiere atti, frutto della propria iniziativa.

Il libro del Siracide ad esempio, afferma che “Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balia del suo proprio volere” (15, 14). Non può, a questo punto, non tornare alla mente come nei primi capitoli del libro della Genesi, per l'appunto nei racconti di creazione, l’uomo è dotato di libertà. Infatti, colui e colei che Dio ha creato ad immagine e somiglianza sua, lo si vede sin da subito capace di libertà.

Libertà, questa, da non confondersi con l’esaltazione dell’autonomia, bensì da comprendere all’interno di un quadro, quello del racconto della Genesi, che ci rivela come l’uomo è sì libero ma al contempo non è Dio ma Adamo, creato a “immagine” di Dio ma soggetto all’esperienza del limite: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2, 16).

La libertà dell’uomo, fin dall’atto creativo, è messa alla prova. Ciò, però, non è per rendere l’uomo fittiziamente libero o addirittura prigioniero, ma piuttosto per introdurre l’umanità in un cammino caratterizzato dalla fiducia - di conoscenza del suo Creatore.

La scelta dell'uomo tra ciò che è bene e ciò che è male

La libertà dell’uomo, dunque, fin dalle origini sembrerebbe posta di fronte alla scelta tra ciò che è bene e ciò che è male, dove, sempre se si legge Genesi, scegliere il male conduce alla morte: “perché nel giorno in cui tu nei mangerai [dell’albero del bene e del male, n.d.r.] certamente dovrai morire” (2, 17).

Sarà, poi, possibile accedere a quest’albero, secondo il libro dell’Apocalisse, solo quando l’uomo entrerà nella Gerusalemme celeste: “Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città” (22, 14). Ora, il libero arbitrio non ha che fare con la sola scelta tra il bene ed il male ma è possibilità di compiere o no determinati atti, di scegliere quello anziché quell’altro, in ogni istante della propria esistenza.

Il libero arbitrio

In ambito di fede “libero arbitrio” è anche possibilità di aderire o meno al Vangelo e di viverlo in uno stato di vita piuttosto che in un altro, nel contesto comunque della vocazione universale alla santità. Una volta, infatti, che si accoglie il Vangelo, l’uomo è chiamato a camminare in “novità di vita” e questa può assumere diverse forme. Ed anche qui entra in gioco la libertà. Quello che comunemente chiamiamo “discernimento vocazionale”, infatti, esige come presupposto la libertà stessa: libertà data da Dio che attende una risposta pienamente libera e consapevole, e libertà anche da parte di coloro che accompagnano la persona nel processo di scelta.

Il discernimento vocazionale

Molte volte si sente parlare del “padre” o della “madre” spirituale, del “direttore” spirituale, come di coloro che nell’esperienza di fede di ogni cristiano, ed ancor più per le persone in discernimento vocazionale, aiutano in questo cammino. L’accompagnamento vocazionale o spirituale è “porsi al fianco” non per dirigere ma, appunto, per accompagnare, cioè ‘camminare con’ ed aiutare a scegliere nella libertà. Una libertà che concede perfino di sbagliare, seppure né l’accompagnato e tantomeno l’accompagnatore lo desiderano, e anche di ritornare sui propri passi. In questa logica può sembrare una sottigliezza, ed invece non lo è, dire che c’è da diffidare di coloro che accompagnano, o meglio ancora che credono di farlo, utilizzando perlopiù la forma verbale dell’imperativo anziché del condizionale. Chi accompagna consiglia, non comanda.

Solo uno ha la facoltà di consegnare dei comandamenti ed è Dio, e anche lui attende la risposta libera dell’uomo. Si potrebbe pensare che parlare di libero arbitrio a partire dal racconto di Genesi ed arrivare al discernimento vocazionale e alla dinamica dell’accompagnamento sia un volo pindarico, eppure proprio il comprendere la libertà umana come dono di Dio, come esperienza del limite, come possibilità di preferire ciò che è bene da ciò che è male, e (purtroppo!) viceversa, permette di avere le fondamenta per ogni scelta e per ogni relazione di aiuto nella scelta. Se così non fosse si rischierebbe di abusare della libertà e di compromettere la vocazione particolare della persona.

Don Francesco Verzini rettore del Seminario regionale umbro
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Nel suo Messaggio per la Quaresima, papa Francesco ha posto al centro della riflessione la libertà, a partire dall’esperienza del popolo d’Israele narrata nel libro dell’Esodo e dai brani evangelici delle tentazioni. Questo tema, in contesto di fede e non solo, apre ad una ulteriore riflessione, quella sul libero arbitrio.

I riferimenti alla libertà nella Sacra Scrittura

La Sacra Scrittura riporta espressioni che sottolineano la libertà dell’uomo, data anzitutto dalla facoltà di prendere scelte, dettate dal proprio pensiero, e di compiere atti, frutto della propria iniziativa.

Il libro del Siracide ad esempio, afferma che “Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balia del suo proprio volere” (15, 14). Non può, a questo punto, non tornare alla mente come nei primi capitoli del libro della Genesi, per l'appunto nei racconti di creazione, l’uomo è dotato di libertà. Infatti, colui e colei che Dio ha creato ad immagine e somiglianza sua, lo si vede sin da subito capace di libertà.

Libertà, questa, da non confondersi con l’esaltazione dell’autonomia, bensì da comprendere all’interno di un quadro, quello del racconto della Genesi, che ci rivela come l’uomo è sì libero ma al contempo non è Dio ma Adamo, creato a “immagine” di Dio ma soggetto all’esperienza del limite: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2, 16).

La libertà dell’uomo, fin dall’atto creativo, è messa alla prova. Ciò, però, non è per rendere l’uomo fittiziamente libero o addirittura prigioniero, ma piuttosto per introdurre l’umanità in un cammino caratterizzato dalla fiducia - di conoscenza del suo Creatore.

La scelta dell'uomo tra ciò che è bene e ciò che è male

La libertà dell’uomo, dunque, fin dalle origini sembrerebbe posta di fronte alla scelta tra ciò che è bene e ciò che è male, dove, sempre se si legge Genesi, scegliere il male conduce alla morte: “perché nel giorno in cui tu nei mangerai [dell’albero del bene e del male, n.d.r.] certamente dovrai morire” (2, 17).

Sarà, poi, possibile accedere a quest’albero, secondo il libro dell’Apocalisse, solo quando l’uomo entrerà nella Gerusalemme celeste: “Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città” (22, 14). Ora, il libero arbitrio non ha che fare con la sola scelta tra il bene ed il male ma è possibilità di compiere o no determinati atti, di scegliere quello anziché quell’altro, in ogni istante della propria esistenza.

Il libero arbitrio

In ambito di fede “libero arbitrio” è anche possibilità di aderire o meno al Vangelo e di viverlo in uno stato di vita piuttosto che in un altro, nel contesto comunque della vocazione universale alla santità. Una volta, infatti, che si accoglie il Vangelo, l’uomo è chiamato a camminare in “novità di vita” e questa può assumere diverse forme. Ed anche qui entra in gioco la libertà. Quello che comunemente chiamiamo “discernimento vocazionale”, infatti, esige come presupposto la libertà stessa: libertà data da Dio che attende una risposta pienamente libera e consapevole, e libertà anche da parte di coloro che accompagnano la persona nel processo di scelta.

Il discernimento vocazionale

Molte volte si sente parlare del “padre” o della “madre” spirituale, del “direttore” spirituale, come di coloro che nell’esperienza di fede di ogni cristiano, ed ancor più per le persone in discernimento vocazionale, aiutano in questo cammino. L’accompagnamento vocazionale o spirituale è “porsi al fianco” non per dirigere ma, appunto, per accompagnare, cioè ‘camminare con’ ed aiutare a scegliere nella libertà. Una libertà che concede perfino di sbagliare, seppure né l’accompagnato e tantomeno l’accompagnatore lo desiderano, e anche di ritornare sui propri passi. In questa logica può sembrare una sottigliezza, ed invece non lo è, dire che c’è da diffidare di coloro che accompagnano, o meglio ancora che credono di farlo, utilizzando perlopiù la forma verbale dell’imperativo anziché del condizionale. Chi accompagna consiglia, non comanda.

Solo uno ha la facoltà di consegnare dei comandamenti ed è Dio, e anche lui attende la risposta libera dell’uomo. Si potrebbe pensare che parlare di libero arbitrio a partire dal racconto di Genesi ed arrivare al discernimento vocazionale e alla dinamica dell’accompagnamento sia un volo pindarico, eppure proprio il comprendere la libertà umana come dono di Dio, come esperienza del limite, come possibilità di preferire ciò che è bene da ciò che è male, e (purtroppo!) viceversa, permette di avere le fondamenta per ogni scelta e per ogni relazione di aiuto nella scelta. Se così non fosse si rischierebbe di abusare della libertà e di compromettere la vocazione particolare della persona.

Don Francesco Verzini rettore del Seminario regionale umbro
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Messaggio del Papa per la Quaresima: parola chiave libertà https://www.lavoce.it/messaggio-del-papa-per-la-quaresima-parola-chiave-liberta/ https://www.lavoce.it/messaggio-del-papa-per-la-quaresima-parola-chiave-liberta/#respond Mon, 19 Feb 2024 08:00:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74956

Con il recente messaggio per la Quaresima 2024, papa Francesco ha posto l’attenzione su un tema caro all’epoca moderna e contemporanea: la libertà. Prendendo avvio dagli eventi narrati nel libro dell’Esodo e, poi, dall’esperienza che Gesù fa nel deserto, sino alla sua morte e risurrezione, il Pontefice ha messo in relazione la libertà e, dunque, la liberazione, nella loro dimensione teologica ed etica. Infatti, la cristianità può lasciare in eredità alla contemporaneità il significato profondo della libertà, per l’esperienza che i credenti fanno della salvezza operata da Dio in Cristo.

La Quaresima ci accompagna, attraverso un cammino di sei settimane, alla celebrazione della Pasqua, ossia alla celebrazione del mistero di passione, morte e risurrezione di Cristo; evento, questo, che ha liberato l’uomo dalla schiavitù del peccato e della morte, affinché l’umanità potesse far ritorno a Dio, per essere in comunione con lui ed avere la vita eterna. Questa esperienza redentrice, che si rinnova continuamente nella Pasqua annuale introdotta dalla Quaresima e nei sacramenti, forgia nel profondo l’uomo, facendo della sua liberazione e libertà la radice del suo operare nel mondo.

L'amore misericordioso di Dio è il motore che spinge l'uomo a ricercare la libertà altrui

Afferma l’apostolo Paolo, nella Lettera ai Romani, che coloro che partecipano alla morte e risurrezione di Cristo, per mezzo del battesimo - dunque tutti i cristiani - possono camminare in novità di vita (cfr. Rm 6, 4), pertanto l’esperienza dell’amore misericordioso di Dio, che sempre perdona e dona vita, è il motore che spinge l’uomo a ricercare la libertà altrui e ad impegnarsi per liberazione altrui. D’altronde “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4, 11), come lo stesso Gesù aveva già detto ai suoi nella cena pasquale: “vi ho dato un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

L'uomo destinatario della liberazione operata da Dio diventa egli stesso strumento per riconsegnare la libertà agli oppressi

E come l’amore liberante di Dio è sorgente della nostra libertà, così il nostro amore è possibilità di liberazione dei fratelli e delle sorelle oppressi dalla bramosia umana. Difatti essendo l’uomo destinatario della liberazione operata da Dio, in forza di questa esperienza, diventa egli stesso strumento per riconsegnare la libertà agli oppressi. Sempre l’apostolo Paolo direbbe, anche se in occasione del racconto della cena del Signore, “io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11, 23). In questa catena di ricezione e trasmissione è inserito ogni battezzato che ha vissuto la liberazione e, quindi, la riconsegna della propria libertà e a sua volta trasmette ciò che egli ha vissuto. Anche perché ogni forma di sopruso, che ancor oggi molti uomini e donne vivono, è in profonda contrapposizione con il Vangelo e, perciò, non può lasciare tranquille le coscienze dei cristiani.

L'amore di Dio, sorgente di libertà, abbraccia l'intera umanità

Ora, la logica dell’amore di Dio, sorgente di libertà, è gratuita ed universale e, dunque, abbraccia l’intera umanità; perciò, non si può pensare che l’amore del cristiano si ponga dei limiti, anzi si estende addirittura ai persecutori e ai nemici (cfr. Mt 5, 43-44). La parabola del buon samaritano, ad esempio, mostra come i pregiudizi, legati all’appartenenza etnicoreligiosa, sono superati dall’amore compassionevole. Un amore che, oltre ad essere universale e gratuito, ha come ulteriore qualità la concretezza: concreta è stata la compassione del samaritano, fatta di gesti di cura, concreto è stato l’amore di Cristo che “avendo amato i suoi che erano nel mondo, lì amò sino alla fine” (Gv 13, 1), con il dono totale di sé sulla croce.

La libertà trova il suo senso nell'amore e l'amore è promessa certa di libertà

Perciò tra amore e libertà c’è un indissolubile legame: la libertà non trova il suo autentico senso se non nell’amore e l’amore è promessa certa di libertà. Per questo, la grande vocazione degli uomini e delle donne del nostro tempo è la costruzione della fratellanza e dell’amicizia tra gli uomini e tra i popoli, connotata dall’amore vicendevole e non dal sospetto verso l’altro, affinché ognuno possa godere di quella libertà necessaria per vivere una vita pienamente umana.

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Con il recente messaggio per la Quaresima 2024, papa Francesco ha posto l’attenzione su un tema caro all’epoca moderna e contemporanea: la libertà. Prendendo avvio dagli eventi narrati nel libro dell’Esodo e, poi, dall’esperienza che Gesù fa nel deserto, sino alla sua morte e risurrezione, il Pontefice ha messo in relazione la libertà e, dunque, la liberazione, nella loro dimensione teologica ed etica. Infatti, la cristianità può lasciare in eredità alla contemporaneità il significato profondo della libertà, per l’esperienza che i credenti fanno della salvezza operata da Dio in Cristo.

La Quaresima ci accompagna, attraverso un cammino di sei settimane, alla celebrazione della Pasqua, ossia alla celebrazione del mistero di passione, morte e risurrezione di Cristo; evento, questo, che ha liberato l’uomo dalla schiavitù del peccato e della morte, affinché l’umanità potesse far ritorno a Dio, per essere in comunione con lui ed avere la vita eterna. Questa esperienza redentrice, che si rinnova continuamente nella Pasqua annuale introdotta dalla Quaresima e nei sacramenti, forgia nel profondo l’uomo, facendo della sua liberazione e libertà la radice del suo operare nel mondo.

L'amore misericordioso di Dio è il motore che spinge l'uomo a ricercare la libertà altrui

Afferma l’apostolo Paolo, nella Lettera ai Romani, che coloro che partecipano alla morte e risurrezione di Cristo, per mezzo del battesimo - dunque tutti i cristiani - possono camminare in novità di vita (cfr. Rm 6, 4), pertanto l’esperienza dell’amore misericordioso di Dio, che sempre perdona e dona vita, è il motore che spinge l’uomo a ricercare la libertà altrui e ad impegnarsi per liberazione altrui. D’altronde “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4, 11), come lo stesso Gesù aveva già detto ai suoi nella cena pasquale: “vi ho dato un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

L'uomo destinatario della liberazione operata da Dio diventa egli stesso strumento per riconsegnare la libertà agli oppressi

E come l’amore liberante di Dio è sorgente della nostra libertà, così il nostro amore è possibilità di liberazione dei fratelli e delle sorelle oppressi dalla bramosia umana. Difatti essendo l’uomo destinatario della liberazione operata da Dio, in forza di questa esperienza, diventa egli stesso strumento per riconsegnare la libertà agli oppressi. Sempre l’apostolo Paolo direbbe, anche se in occasione del racconto della cena del Signore, “io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11, 23). In questa catena di ricezione e trasmissione è inserito ogni battezzato che ha vissuto la liberazione e, quindi, la riconsegna della propria libertà e a sua volta trasmette ciò che egli ha vissuto. Anche perché ogni forma di sopruso, che ancor oggi molti uomini e donne vivono, è in profonda contrapposizione con il Vangelo e, perciò, non può lasciare tranquille le coscienze dei cristiani.

L'amore di Dio, sorgente di libertà, abbraccia l'intera umanità

Ora, la logica dell’amore di Dio, sorgente di libertà, è gratuita ed universale e, dunque, abbraccia l’intera umanità; perciò, non si può pensare che l’amore del cristiano si ponga dei limiti, anzi si estende addirittura ai persecutori e ai nemici (cfr. Mt 5, 43-44). La parabola del buon samaritano, ad esempio, mostra come i pregiudizi, legati all’appartenenza etnicoreligiosa, sono superati dall’amore compassionevole. Un amore che, oltre ad essere universale e gratuito, ha come ulteriore qualità la concretezza: concreta è stata la compassione del samaritano, fatta di gesti di cura, concreto è stato l’amore di Cristo che “avendo amato i suoi che erano nel mondo, lì amò sino alla fine” (Gv 13, 1), con il dono totale di sé sulla croce.

La libertà trova il suo senso nell'amore e l'amore è promessa certa di libertà

Perciò tra amore e libertà c’è un indissolubile legame: la libertà non trova il suo autentico senso se non nell’amore e l’amore è promessa certa di libertà. Per questo, la grande vocazione degli uomini e delle donne del nostro tempo è la costruzione della fratellanza e dell’amicizia tra gli uomini e tra i popoli, connotata dall’amore vicendevole e non dal sospetto verso l’altro, affinché ognuno possa godere di quella libertà necessaria per vivere una vita pienamente umana.

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Lockdown. La nostra libertà non è stata violata https://www.lavoce.it/lockdown-la-nostra-liberta-non-e-stata-violata/ Thu, 07 May 2020 16:49:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57081

Vale più la libertà o la salute? è una domanda che abbiamo sentito spesso in questo lungo periodo di restrizioni, non ancora del tutto finito, e Dio non voglia che si debba tornare alla chiusura completa. Ed è una domanda mal posta, perché la libertà illimitata non esiste e non potrà mai esistere. Secondo un detto molto comune, la libertà finisce dove cominciano i diritti degli altri. In condizioni normali siamo liberi di andare a spasso dove e quanto vogliamo, perché di solito questo non danneggia nessuno. Ma se mette in pericolo la salute (non solo e non tanto la propria, quanto quella degli altri) allora è doveroso rinunciarci. Mi ha stupito vedere qualche illustre giurista che, al contrario, invocava il valore supremo della libertà e sosteneva che il Governo avesse violato la Costituzione, niente meno. Ma proprio la Costituzione, all’articolo 16, prevede che la sacrosanta libertà di movimento sul territorio possa subire, per legge, limitazioni per motivi di sanità. In questo caso i motivi di sanità c’erano e come; basta ripensare a quelle scene terribili dei camion dell’Esercito carichi di bare che portavano via dalla provincia di Bergamo, perché lì non c’era più posto nei cimiteri. E tuttavia qualcuno ha protestato ancora, con l’argomento che l’art. 16 parla di “legge” mentre noi avevamo decreti del Presidente del Consiglio, che sono atti amministrativi e non leggi. Sbagliato. I poteri straordinari sono stati conferiti al Presidente del Consiglio con il decreto legge n. 6 del 23 febbraio, convertito in legge - dopo il voto delle Camere - il 5 marzo. Ed è una legge in linea con la Costituzione, perché specifica minuziosamente quali e quanti tipi di provvedimenti potranno essere emanati, e a quali condizioni. Dunque il potere affidato al Governo (e per i rispettivi territori, anche alle Regioni e ai Comuni) non è generico né illimitato, ma ben precisato in tutti i suoi aspetti, e comunque riferito strettamente all’emergenza Covid e solo a quella. Non c’è stato alcun arbitrio e non c’era spazio perché ce ne fosse. Si potrà discutere se il Governo abbia preso sempre le decisioni giuste, ma i princìpi più alti del nostro Stato sono stati rispettati. Pier Giorgio Lignani]]>

Vale più la libertà o la salute? è una domanda che abbiamo sentito spesso in questo lungo periodo di restrizioni, non ancora del tutto finito, e Dio non voglia che si debba tornare alla chiusura completa. Ed è una domanda mal posta, perché la libertà illimitata non esiste e non potrà mai esistere. Secondo un detto molto comune, la libertà finisce dove cominciano i diritti degli altri. In condizioni normali siamo liberi di andare a spasso dove e quanto vogliamo, perché di solito questo non danneggia nessuno. Ma se mette in pericolo la salute (non solo e non tanto la propria, quanto quella degli altri) allora è doveroso rinunciarci. Mi ha stupito vedere qualche illustre giurista che, al contrario, invocava il valore supremo della libertà e sosteneva che il Governo avesse violato la Costituzione, niente meno. Ma proprio la Costituzione, all’articolo 16, prevede che la sacrosanta libertà di movimento sul territorio possa subire, per legge, limitazioni per motivi di sanità. In questo caso i motivi di sanità c’erano e come; basta ripensare a quelle scene terribili dei camion dell’Esercito carichi di bare che portavano via dalla provincia di Bergamo, perché lì non c’era più posto nei cimiteri. E tuttavia qualcuno ha protestato ancora, con l’argomento che l’art. 16 parla di “legge” mentre noi avevamo decreti del Presidente del Consiglio, che sono atti amministrativi e non leggi. Sbagliato. I poteri straordinari sono stati conferiti al Presidente del Consiglio con il decreto legge n. 6 del 23 febbraio, convertito in legge - dopo il voto delle Camere - il 5 marzo. Ed è una legge in linea con la Costituzione, perché specifica minuziosamente quali e quanti tipi di provvedimenti potranno essere emanati, e a quali condizioni. Dunque il potere affidato al Governo (e per i rispettivi territori, anche alle Regioni e ai Comuni) non è generico né illimitato, ma ben precisato in tutti i suoi aspetti, e comunque riferito strettamente all’emergenza Covid e solo a quella. Non c’è stato alcun arbitrio e non c’era spazio perché ce ne fosse. Si potrà discutere se il Governo abbia preso sempre le decisioni giuste, ma i princìpi più alti del nostro Stato sono stati rispettati. Pier Giorgio Lignani]]>
8 marzo. La Parola alle donne, nella società e nella Chiesa https://www.lavoce.it/8-marzo-la-parola-alle-donne-nella-societa-e-nella-chiesa/ Tue, 08 Mar 2016 16:36:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45645 La campagna di Amnesty international di denuncia della prassi delle dpose - bambine
La campagna di Amnesty international di denuncia della prassi delle dpose – bambine

In questo inizio di marzo 2016 una buona notizia apre spiragli di speranza per le bambine del mondo. La Corte Costituzionale dello Zimbabwe ha deliberato che nessuno può sposarsi prima di aver compiuto 18 anni, una decisione che dovrebbe mettere fine alla pratica delle spose – bambine. Si stima che nel mondo vi siano 700 milioni di ragazze date in sposa prima dei 18 anni e 250milioni prima dei 15. La notizia è nel supplemento mensile dell’Osservatore Romano “Donne – Chiesa – Mondo”.

Ogni mese il quotidiano del Papa racconta fatti, raccoglie opinioni, fa scrivere donne dai cinque continenti, religiose e laiche. Insomma dà voce a quella parte di umanità che nel mondo è più spesso dalla parte delle vittime che non dei vincitori. E il supplemento di questo mese è dedicato al tema “Donne che predicano”. Un tema forte in una Chiesa che stenta a riconoscere alle donne la stessa dignità battesimale degli uomini, che invece andrebbe recuperata, per uomini e donne, proprio in relazione a questo punto. Lo sottolinea nello stesso supplemento (i testi sono anche online su www.vatican.va) il priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, in un intervento storico biblico, che mostra come non vi siano nel Vangelo ostacoli alla predicazione dei laici e che fin dai primi secoli questa facoltà è stata riconosciuta anche alle donne. “Sarebbe importante – scrive Bianchi – che, senza mutare nulla della dottrina tradizionale, si desse la possibilità a laici, uomini e donne, di prendere la parola nell’assemblea liturgica, ad alcune precise condizioni” e prosegue indicando quali.

In un mondo in cui le donne sono ridotte a corpo da usare (che siano le spose bambine o le vittime della tratta per la prostituzione, o che siano le modelle o le veline delle nostre tv, o le ‘madri surrogate’ o le vittime degli stupri di guerra e tanto altro ancora) è significativo che il giornale del Papa dedichi a questo tema proprio il supplemento che esce prima della Giornata internazionale della donna che si celebra l’8 marzo.

Schiacciato tra il dibattito sul gender e una profonda diffidenza verso tutto ciò che sa di ‘femminismo’ il mondo cattolico italiano non sembra aver compreso quanto il discorso sulla donna possa costituire uno stimolo e una ricchezza per la comprensione stessa dell’uomo, quanto possa far crescere in umanità la società tutta.

Un anno fa, il 7 febbraio, Papa Francesco affidava al Pontificio Consiglio per la cultura il compito di “studiare criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano non ospiti, ma pienamente partecipi dei diversi ambiti della vita sociale ed ecclesiale”, ed indicava quattro tematiche su cui lavorare, e concludeva “Non bisogna lasciare sole le donne a portare questo peso e a prendere decisioni, ma tutte le istituzioni, compresa la comunità ecclesiale, sono chiamate a garantire la libertà di scelta per le donne, affinché abbiano la possibilità di assumere responsabilità sociali ed ecclesiali, in un modo armonico con la vita familiare”.

Prendere in mano magistero della Chiesa su questo tema potrebbe essere un modo per celebrare questo 8 marzo.

Maria Rita Valli

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Quaranta rose bianche https://www.lavoce.it/quaranta-rose-bianche/ Wed, 24 Jun 2015 08:01:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=36394 Un momento della commemorazione
Le celebrazioni all’interno del Mausoleo dei 40 Martiri a Gubbio

Non un semplice rituale, ma l’occasione per meditare e riflettere su un episodio da non dimenticare, anzi da tener vivo e da trasmettere alle generazioni più giovani per alimentare la cultura della pace, della tolleranza, della convivenza tra i popoli.

Ancora una volta è stato questo il filo conduttore delle celebrazioni a Gubbio per il 71° anniversario dell’eccidio dei 40 Martiri (22 giugno 1944), che hanno avuto il loro riferimento nel Mausoleo costruito sul luogo stesso del massacro compiuto dalle truppe tedesche: spietata rappresaglia per quanto avvenuto due giorni prima quando nell’allora bar Nafissi di corso Garibaldi venne ucciso un ufficiale medico tedesco e ferito un altro militare.

La cerimonia, coordinata dal presidente dell’Associazione famiglie 40 Martiri, Marcello Rogari – presenti il sindaco Filippo Stirati, la presidente della Regione Catiuscia Marini, il vicario vescovile mons. Fausto Panfili, rappresentanti delle forze armate, dei Comuni del comprensorio, delle associazioni d’arma e combattentistiche -, nella parte iniziale ha avuto i giovani come protagonisti.

Dapprima il Consiglio comunale dei ragazzi ha depositato mazzi di fiori sul muro della fucilazione; quindi gli allievi e allieve della V B delle elementari di via Perugina (insegnante Roberta Lattuada) hanno recitato e cantato la poesia Quaranta rose bianche, opera di Tonino Menichetti, messa in musica da Nicola Conci.

Subito dopo, gli interventi delle autorità. Rogari ha indicato nella “cultura della memoria l’anticorpo della violenza”, mentre il sindaco Stirati ha definito la “vicenda dei 40 Martiri parte costitutiva di un patrimonio da trasferire alle nuove generazioni”. “Sono trascorsi 71 anni da quel terribile 22 giugno – ha esordito la Marini -, ma il ricordo di quella strage è ancora forte e indelebile nella coscienza civile di tutti noi, consapevoli che proprio il sacrificio di queste vittime innocenti ha consentito la nascita della Repubblica italiana e l’affermazione di princìpi fondamentali della nostra democrazia, come pace e libertà.

L'omaggio floreale
L’omaggio floreale

Princìpi che soprattutto oggi, quando in diverse parti del mondo e della nostra Europa soffiano venti di guerre e violenza e si affermano culture basate su odio, razzismo e discriminazione, assumono una ancor più forte attualità”.

Tra i presenti Antonio Marionni, all’epoca giovane seminarista che fece da interprete al vescovo Ubaldi, il quale aveva provato in tutti i modi a scongiurare l’eccidio, arrivando a offrire la sua vita in cambio di quella degli ostaggi.

 LE VITTIME

G iuseppe Allegrucci, Carlo Baldelli, Virgilio Baldonio, Sante Bartolini, Enea Battaglini, Ferdinando e Francesco Bedini, Ubaldo Bellucci, Cesare, Enrico e Giuseppe Cacciamani, Gino Farabi, Alberto Felizianetti, Francesco Gaggioli, Miranda e Zelinda Ghigi, Alessandro Lisarelli, Raffaele Marchegiani, Ubaldo Mariotti, Innocenzo Migliarini, Guerrino e Luigi Minelli, Franco e Luigi Moretti, Gustavo Pannacci, Marino Paoletti, Attilio Piccotti, Francesco Pierotti, Guido Profili, Raffaele Rampini, Nazzareno Rogari, Gastone Romanelli, Vittorio Roncigli, Luciano Roselli, Domenico e Francesco Rossi, Enrico Scarabotta, Giacomo Sollevanti, Luigi Tomrelli, Giovanni Zizolfi.

 

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C’è chi emigra e chi va in letargo https://www.lavoce.it/ce-chi-emigra-e-chi-va-in-letargo/ Fri, 17 Apr 2015 09:50:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31542 Solo la primavera riesce a dare un segnale diffuso di risurrezione e di vita. Una serie di iniziative culturali e pastorali hanno rimesso in moto persone e comunità. Alle liturgie del tempo pasquale che si sono protratte a lungo – essendo state celebrate due date di Pasqua, il 5 aprile per i cattolici e il 12 per gli ortodossi – si sono aggiunti eventi in moltissimi centri. Cito per tutti il Festival di scienza e filosofia di Foligno, la Festa delle famiglie di Spoleto, il Festival del giornalismo a Perugia. Una di tali iniziative mi ha sollecitato una riflessione sull’attualità e i problemi che ci travagliano: quelli delle migrazioni. Sabato 18 aprile al Museo della migrazione di Gualdo Tadino si apre una mostra che riguarda l’emigrazione italiana all’estero, e si celebra l’XI edizione di un concorso sul tema, volto a lumeggiare gli addii, gli incontri e gli scontri degli italiani che si sono recati in un Paese straniero in cerca di una vita migliore. Un’ottima iniziativa che si arricchisce ogni anno di più di documenti e ricordi.

Questo tema, che ci riguarda per il passato e per altri aspetti anche per il presente (i giovani e i “cervelli” che vanno all’estero) ci rimanda alle tragiche vicende del Mediterraneo e alla minaccia di un’‘invasione’ che si annuncia per i prossimi mesi e che ha tutta l’aria di una catastrofe. Mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, questa mattina (mercoledì 15) nella sala dei Notari di Perugia ha detto che nel Mediterraneo in questi anni si calcola che siano morte oltre 30 mila persone. Dovrebbe essere un mare che unisce le coste, anzi “il mare di Dio” è stato chiamato – sempre secondo Mogavero – perché vi si affacciano le tre grandi religioni monoteistiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. Ha ricordato che in altri tempi, anche se non sono mancate le lotte, era possibile la convivenza, tanto che a Palermo si parlavano 4 lingue e si redigevano documenti in ebraico, in greco, in latino e in arabo.

Anche oggi sarebbe possibile tale convivenza in una situazione di flussi moderati e normali di migranti, come avviene a Mazara dove i ragazzi che vanno a scuola o all’oratorio non avvertono come ostacolo la diversa religione e non sentono come un problema le differenze culturali, che vengono mediate dalla scuola e dal vivere sociale. Tutto ciò che ha detto mons. Mogavero è positivo e incoraggiante. Ma appena usciti dalla sala, aperti i computer, tablet e cellulari vari, abbiamo saputo delle uccisioni, delle ragazze rapite, delle fosse comuni, dei cristiani uccisi come tali e perché tali; e abbiamo letto minacciose e tracotanti profezie di invasione e di strage. Per arrivare alla situazione prefigurata dal Vescovo di Mazara si dovrà risolvere il fenomeno della migrazione selvaggia e di massa, lasciata in mano a commercianti di vite umane senza scrupoli. Lo si dovrà fare con mezzi adeguati, che non sono le buone parole e neppure le condanne verbali a scopo elettorale, ma decisivi interventi proporzionati alle emergenze umanitarie e della salvaguardia della minima condizione di sopravvivenza dell’ordine sociale. Le migrazioni provocano conseguenze catastrofiche come una guerra, è stato detto in passato, quando ancora si trattava di un fenomeno molto più ristretto. Ora tutto ciò è esploso con la crisi dei Paesi a maggioranza e ‘conduzione’ musulmana, e con la deriva fondamentalista e fanatica di correnti diffuse di terrorismo pseudo-teologico. A Mazara si è resa possibile una convivenza perché vi è una Chiesa e una cultura che ha per fondamento l’accettazione dell’altro, chiunque sia, e l’accoglienza del diverso nel rispetto della sua libertà di coscienza.

Questo non sarà mai possibile in un contesto culturale in cui predomina il disprezzo degli altri, e persino di opere artistiche e archeologiche che hanno segnato la storia dell’umanità. C’è strada da fare per tutti, a cominciare da chi ha in mano le sorti dei popoli – Europa, Onu, Stati ricchi, commercianti di armi – che sembrano piombati in un profondo e cinico letargo.

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MENO GIORNALI MENO LIBERI https://www.lavoce.it/meno-giornali-meno-liberi/ Fri, 13 Feb 2015 13:22:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=30331 meno-giornali-meno-liberiDuecento testate, 3.000 posti di lavoro di giornalisti, grafici e poligrafici, 300 milioni di copie in meno: se Governo e Parlamento non ripristineranno i contributi per l’editoria 2013 (tagliati retroattivamente a bilanci già chiusi) e 2014 sono questi i numeri del disastro che si abbatterà sull’editoria non profit italiana, con costi per lo Stato più alti del valore del fondo. Nel 2014 chiuse 30 testate storiche, hanno perso la propria occupazione circa 800 giornalisti. Espulsi dal mondo del lavoro anche mille grafici e poligrafici. ACI Comunicazione, Mediacoop, FILE, FISC, FNSI, Articolo 21, SLC-CGIL, ANSO e USPI lanciano oggi la campagna “Meno Giornali = Meno Liberi”.

(Roma, 12 febbraio 2015) – Una palla di giornali malamente accartocciati: è il simbolo della campagna di comunicazione “Meno Giornali = Meno Liberi” lanciata oggi da 9 associazioni e sindacati del settore (Alleanza delle Cooperative Italiane Comunicazione, Mediacoop, Federazione Italiana Liberi Editori, Federazione Italiana Settimanali Cattolici, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Articolo 21, Sindacato Lavoratori Comunicazione CGIL, Associazione Nazionale

Stampa Online, Unione Stampa Periodica Italiana) per salvaguardare il pluralismo dell’informazione e per una riforma urgente dell’editoria.

Il primo atto è una petizione, pubblicata sul sito www.menogiornalimenoliberi.it e su tutti i social network con l’hashtag #menogiornalimenoliberi, con cui si chiede di mettere mano ai tagli immotivati del contributo diretto all’editoria e di avviare subito un Tavolo di confronto sull’indispensabile riforma dell’intero sistema dell’informazione (giornali, radio, tv, internet).

Sono oltre 200 le testate non profit che rischiano di chiudere sul territorio nazionale, lasciando sul campo 3.000 posti di lavoro tra giornalisti, grafici e poligrafici. Quotidiani locali, riviste di idee, periodici di comunità, settimanali cattolici, organi di informazione delle minoranze linguistiche, ma anche giornali nazionali

di opinione.

È questo il mondo messo in crisi dal taglio dei contributi 2013 (dimezzati retroattivamente a bilanci già chiusi) e 2014. Sono 300 milioni di copie distribuite in meno ogni anno, 500mila pagine di informazione che verranno a mancare, con danni gravissimi per l’indotto (tipografie, trasporti, distributori, edicole) e le economie locali. I promotori calcolano che i costi per lo Stato saranno largamente superiori al valore del Fondo per il contributo diretto all’Editoria, individuabile, per il 2015, in circa 90 milioni di euro.

Nel corso dell’ultimo anno hanno chiuso una trentina di testate, tra cui alcune storiche come “Il Salvagente”, e hanno perso la propria occupazione circa 800 giornalisti. Duramente colpita anche la categoria dei grafici e poligrafici, più di mille dei quali sono stati espulsi dal mondo del lavoro.

Il paradosso è che in questo modo le cooperative e le realtà editoriali senza scopo di lucro pagheranno due volte gli abusi che si sono verificati in passato e che giustamente sono stati denunciati a più riprese: prima perché c’erano soggetti che ricevevano indebitamente i contributi, ora perché la battaglia per l’abolizione

dei finanziamenti pubblici portata avanti da alcune forze politiche rischia di farle scomparire per sempre.

I promotori ricordano invece che la Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea impegna ogni Paese a promuovere e garantire la libertà di espressione e di informazione, mentre lo Stato italiano è agli ultimi posti in Europa per l’investimento pro capite a sostegno del pluralismo dell’informazione. Un richiamo, quest’ultimo, fatto proprio anche dal Presidente Mattarella, che nel suo discorso di insediamento ha ricordato come garantire la Costituzione significhi

«garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia».

«Senza questi giornali – scrivono i promotori nell’appello – l’informazione italiana sarebbe in mano a pochi grandi gruppi editoriali e in molte regioni e comuni rimarrebbe un unico soggetto, monopolista di fatto, dell’informazione locale e regionale. Senza questi giornali, impegnati da sempre a narrare e confrontare con voce indipendente testimonianze e inchieste connesse a specifiche aree di aggregazione sociale e culturale e ad affrontare con coraggio tematiche di particolare rilevanza a livello nazionale, l’informazione italiana perderebbe una parte indispensabile delle proprie esperienze».

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“Siamo tutti Charlie”. O no? https://www.lavoce.it/siamo-tutti-charlie-o-no/ Fri, 16 Jan 2015 12:25:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29812 Siamo tutti Charlie. O no? Vediamo. Se, per solidarietà, ci vogliamo mettere dalla parte delle vittime dell’odio fanatico e sanguinario, sì, anche noi siamo Charlie. Anche perché quell’odio domani potrebbe rivolgersi contro qualcuno ancora più vicino al nostro modo di essere e di sentire. È già successo, per esempio in Algeria nel 1996 con la strage di sette monaci trappisti. Succede ancora in Nigeria, con le stragi di Boko Haram contro tutto ciò che appare occidentale, cristianesimo compreso. O nel territorio del sedicente Califfato, e altrove. Sarebbe dunque sciocco fare dei distinguo, e guardare ai vignettisti di Charlie Hébdo come a qualcuno che non ci appartiene. Altra cosa però sarebbe fare – come in effetti molti stanno facendo – delle vignette di quel giornale una bandiera di libertà, addirittura il vessillo dell’identità dell’Europa contemporanea. No, se si tratta di questo, io non sono Charlie. A maggior ragione se chi innalza quelle vignette come un vessillo è chi mette il veto a un innocente presepe “per non offendere i musulmani”. Bisogna discernere ciò che è offensivo e ciò che non lo è. Le vignette di Charlie Hébdo sono offensive. Valgono esattamente quelle dei giornalacci che in Italia, al tempo della persecuzione degli ebrei, rappresentavano i “giudei” come esseri loschi e ripugnanti, nel fisico e nel morale. L’unica differenza, a vantaggio dei vignettisti di Charlie, è che nel loro veleno sono sempre stati ecumenici e imparziali, colpendo tutti, dal Papa e dal Presidente della Repubblica francese in giù, quindi non si può dire che siano unilaterali e faziosi. Però la liberté non può essere quella di offendere; va insieme alla égalité e alla fraternité, dunque è (anche) rispetto e tolleranza. Se un musulmano si sente offeso perché vede un presepe o un Crocifisso, l’intollerante è lui; ma se io vedo una vignetta oscena su Maometto mi sento offeso io, e intollerante è chi la disegna e chi la pubblica. Accanto al sacrosanto vessillo della libertà di opinione e di parola, voglio anche quello del rispetto reciproco. È così che si cresce nella pace.

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Sui fatti di Parigi dopo l’attacco a Charlie Hebdo. “Le battaglie culturali e se si vuole religiose, si combattono con la cultura, con l’arma della parola e non con la parola consegnata alle armi” https://www.lavoce.it/sui-fatti-di-parigi-le-battaglie-culturali-e-se-si-vuole-religiose-si-combattono-con-la-cultura-con-larma-della-parola-e-non-con-la-parola-consegnata-alle-armi/ Sat, 10 Jan 2015 16:40:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29755 Sarà pubblicato su Il Giornale dell’Umbria di domani, domenica 11 gennaio, questo breve commento ai fatti di Parigi, del direttore de La Voce nonché direttore del Centro ecumenico e universitario San Martino nel quale il dialogo con l’islam è iniziato negli anni ¡60, gli anni del Concilio Vaticano II.

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È sempre una buona regola di ricordarsi prima di parlare o di scrivere di farlo in modo da non offendere o disturbare l’interlocutore, ma è una situazione anomala e tragica doversi ricordare che da quello che scrivi può dipendere la tua vita. A questo siamo giunti ed è un buco nero nel tessuto della civiltà.

Le battaglie culturali e se si vuole religiose, si combattono con la cultura, con l’arma della parola e non con la parola consegnata alle armi. Sarà bene che qualcuno non si scordi che questo passaggio dalle parole ai fatti è stato proposto nella cultura occidentale. Ora succede che si abbia uno scontro di civiltà (Huntinghton 1996) che facilmente degenera nello scontro tra forme diverse di barbarie scaturite da vicendevole disconoscenza, equivoco e incomprensione.

Chi pensa di fare qualcosa di positivo per frenare la deriva verso una presunta guerra di religione non deve limitarsi a deprecare e lamentarsi ritenendo sufficiente che funzionino bene i servizi segreti e la repressione. I problemi sono più complessi e profondi, come complesso e difficile da comprendere è la gerarchia dei valori propria di un fedele dell’Islam, che non riesce a fare i conti con la modernità.

Al fondo si tratta di mettere in chiaro il valore e i limiti della libertà da una parte e i valori e i limiti della fede dall’altra.

La religione non è mai disgiunta dalla ragione e dal rispetto della dignità e libertà umana: “il Sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato”.

Quel Dio cui si appellano i terroristi non esiste se non nel loro delirante fanatismo.

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Insulti contro le Sentinelle in piedi https://www.lavoce.it/insulti-contro-le-sentinelle-in-piedi/ https://www.lavoce.it/insulti-contro-le-sentinelle-in-piedi/#comments Fri, 10 Oct 2014 11:05:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28364 Le Sentinelle a Perugia in piazza IV Novembre
Le Sentinelle a Perugia in piazza IV Novembre

Sentinelle violente?

Le “Sentinelle in piedi sono scese in piazza anche a Perugia e a Terni, ma mentre a Perugia la manifestazione si è svolta senza particolari proteste a Terni, in Piazza della Repubblica, i circa settanta manifestanti hanno subito la contestazione di una trentina di persone che hanno circondato le Sentinelle in una sorta di girotondo. Polizia e carabinieri sono intervenuti, alcuni contro-manifestanti sono stati identificati, una persona risulta essere stata denunciata. Grida scandalo contro le forze dell’ordine che hanno svolto il loro lavoro l’associazione Omphalos arcigay di Perugia che in lungo comunicato descrive i contromanifestanti (quelli che volevano impedire la manifestazione delle Sentinelle con modi “rumorosi”) come vittime mentre descrive i manifestanti (quelli che sono stati in piedi in silenzio a leggere, per un’ora) come “signori dicono di difendere la società e la famiglia schiacciando la dignità delle persone omosessuali”, e li paragonano al Ku Klux Klan. “Sembra che quel giorno, – scrivono – chi si opponeva alla violenza delle Sentinelle, avesse infranto la normativa sull’ordine pubblico”. Probabilmente si sono ispirati allo scrittore Roberto Saviano che il 5 ottobre sul suo profilo Facebook ha definito le manifestazioni delle Sentinelle “di forte violenza culturale”. Lasciamo ai lettori la risposta alla domanda: chi è violento e contro chi?

Le accuse dei contromanifestanti verso una manifestazione pacifica

È finita tra tensioni, contestazioni e insulti la “veglia” promossa domenica scorsa in diverse piazze italiane, tra cui Perugia e Terni, da “Sentinelle in piedi” per opporsi alla proposta di legge “Scalfarotto” che se approvata estenderebbe quanto la Legge Reale-Mancino prevede per le “discriminazioni odio o violenza per motivi razziali, etnici nazionali religiosi”, ai reati basati sulla discriminazione in base all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Se ciò avvenisse, sostengono le Sentinelle, non si potrà più dire che famiglia è solo l’unione tra un uomo e una donna, nè si potranno più esprimere opinioni contrarie, per esempio, sull’adozione dei bambini da parte di coppie gay. Scopo della manifestazione, che consiste nello stare in piedi, a due metri di distanza l’uno dall’altro, leggendo un libro in silenzio, è vegliare – dichiarano i promotori – “per la libertà di espressione, per poter essere liberi di affermare che il matrimonio è soltanto tra un uomo e una donna, che un bambino ha il diritto ad avere la sua mamma e il suo papà e che loro hanno il diritto di educare liberamente i loro figli”. Aosta, Torino, Rovereto, Genova, Bologna, Pisa, Napoli, Milano, Napoli, Brescia, Cremona, Lecce, Trieste alcune delle piazze teatro delle contestazioni.

Insulti, aggressioni, lanci di uova. “La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi: persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà di espressione non ha religione o appartenenza politica”, spiegano le “Sentinelle”. Ma la manifestazione ha visto contrapposti in più piazze simpatizzanti del movimento e contromanifestanti. E se a Bergamo è stato identificato un giovane vestito alla guisa del “grande dittatore” di Chaplin, Bologna ha registrato scontri tra militanti di Forza nuova che si erano mescolati ai manifestanti ed esponenti di associazioni Lgbt.

“Ci sono state cariche della polizia contro i contromanifestanti e alcuni militanti di Forza nuova”, racconta la rivista Tempi, mentre “le Sentinelle hanno cercato di terminare la manifestazione, pur in un clima difficile, bersagliati da bestemmie e insulti di ogni tipo”. Urla e spintoni anche a piazza Carignano, a Torino, accompagnati dallo slogan “Torino non è omofoba”, scandito da contromanifestanti dei centri sociali.

A Rovereto, riferisce Pro Vita, “una ventina di sedicenti anarchici hanno aggredito i manifestanti” e, “in particolare, un sacerdote – non proprio giovanissimo – amico e sostenitore di Pro Vita, don Matteo Graziola, è stato fatto oggetto di lancio di uova, è stato percosso, gli sono stati sottratti e distrutti effetti personali”, mentre “uno dei portavoce delle Sentinelle ha subito contusioni al volto”. Insulti, spintoni, lanci di uova hanno caratterizzato le contestazioni verso la manifestazione a Napoli, come pure a Milano e Trieste, e in tante altre piazze.

Le reazioni. “Tornano i violenti attacchi squadristi degli anni Settanta”, denuncia Riccardo Cascioli, direttore del giornale online Nuova Bussola Quotidiana, che dedica ampio spazio alla manifestazione, chiedendo alle autorità civili di tutelare “il diritto costituzionale a esprimere la propria opinione”.

Ed Eugenia Roccella (Ncd) ha annunciato che presenterà un’interrogazione parlamentare su “un attacco vergognoso, oltretutto pianificato e organizzato, visto che si è svolto con le stesse modalità in tutta Italia”. “Non è tollerabile impedire agli altri di esprimere le proprie opinioni aggredendo fisicamente le persone con idee diverse”, rimarca il questore di Bologna, Vincenzo Stingone, ricordando che “anche due poliziotti sono rimasti feriti, uno colpito al volto con una cinghia”. E, sempre a Bologna, pure il sindaco Virginio Merola ha ribadito che “ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, ma nessuno ha diritto di farlo con la forza, le violenze e le aggressioni”, e che “Forza nuova o qualunque realtà neonazista non ha cittadinanza in questa città”.

Parla infine di “vicenda triste ma largamente anticipata”, l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri, per il quale i “margini di libertà sono evidentemente in progressiva riduzione nel nostro Paese”. Frattanto, terminate le manifestazioni nelle piazze, la contrapposizione si è ora spostata sui social network, dove non si risparmiano critiche e insulti contro le “Sentinelle in piedi”.

Francesco Rossi

Aggressioni alle Sentinelle in piedi. Belletti: Ddal Parlamento ci aspettiamo una corale condanna

Gran brutta vicenda quella delle aggressioni alle Sentinelle in piedi, troppo repentina e troppo estesa per essere frutto di casualità e non di concertazione e  volontà ben precise. Ed è una gran brutta vicenda non solo per chi condivide lo spirito e i valori difesi delle Sentinelle, ma per chiunque abbia a cuore la libertà di espressione. Non si tratta di entrare nel merito delle questioni (anche noi, peraltro, siamo assolutamente convinti che un bambino ha bisogno di un padre e di una madre), quanto piuttosto di riflettere su come si possano regolare le divergenti (legittimamente divergenti) posizioni su un tema tanto sensibile e delicato dal punto di vista, etico, valoriale e culturale con una legge che si ricollega alla legge Mancino, nata per contrastare azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista e al razzismo. Ma evidentemente quando si hanno poche ragioni per sostenere le proprie tesi si passa alle vie di fatto. Ora ci aspettiamo di sentire dal Parlamento una corale e chiara condanna contro chi afferma esplicitamente che le sentinelle non hanno il diritto di manifestare pacificamente. Vogliamo vedere l’impegno personale contro la violenza e la sopraffazione dei violenti: nome per nome. Vogliamo vedere nel Parlamento, nome per nome, chi crede nella democrazia, e vuole che anche chi non la pensa come lui possa esprimere liberamente il proprio parere, in modo non violento. Come fanno le Sentinelle, e come non fa chi insulta, bestemmia, provoca, a volte colpisce e malmena. E sempre in Parlamento vorremmo chiedere a chi nei mesi scorsi ha sostenuto e votato il disegno di legge Scalfarotto se i fatti dei giorni scorsi sono sufficienti a dimostrare che quel progetto di legge legittima culturalmente e legalizza giuridicamente un atteggiamento liberticida e ideologico che introduce a sua volta una discriminazione al contrario. Un atteggiamento che andrebbe, questo sì, perseguito ai sensi della legge Mancino. E a questi parlamentari progressisti vorremmo infine chiedere se hanno ben chiaro che in ballo c’è la libertà di espressione di tutti, non solo di quella delle sentinelle.

Francesco Belletti
presidente del Forum

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https://www.lavoce.it/insulti-contro-le-sentinelle-in-piedi/feed/ 3
Chi ha paura del Sinodo? https://www.lavoce.it/chi-ha-paura-del-sinodo/ Thu, 09 Oct 2014 17:14:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28305 Ho letto con un certo stupore su un giornale cattolico – simile al nostro, della diocesi di Piacenza – un titolo sparato in prima pagina: “Chi ha paura del Sinodo sulla famiglia?”. Già, chi ha paura e perché? C’è chi teme che non si arrivi a decidere positivamente sulla comunione ai divorziati risposati, e sarebbero i progressisti. Altri temono invece che si arrivi a una decisione a favore, mettendo in discussione princìpi e regole fondamentali della tradizione cattolica, e questi sarebbero i tradizionalisti, reazionari o moderati. Tutto questo sulla base di interventi sulla stampa, libri e interviste a prelati e teologi, prima ancora che iniziasse la stessa assemblea dei padri sinodali.

Appena iniziata e ascoltate le prime parole, tutto è risultato risibilmente messo da parte. Papa Francesco, infatti, nella sua introduzione ai lavori (che si protrarranno fino al 19 ottobre) ha coraggiosamente invitato i vescovi e gli altri membri del Sinodo: “Dite tutto quello che avete in animo con parresìa e ascoltatevi l’un l’altro con umiltà”. Parresìa è una parola greca che significa libertà di parola e coraggio nel dire tutto (pan, tutto; rhema, discorso). Parleranno, dunque, e diranno tutto, poi si vedrà e si valuterà, senza fretta di concludere perché ci sarà un secondo tempo nel 2015, e poi c’è tutto il tempo della Chiesa, che – come disse Giovanni XXIII – non è “un museo archeologico” ma una realtà viva, umana e divina, in divenire, o meglio in pellegrinaggio lungo i secoli, sempre bisognosa di rinnovamento, aggiornamento, riforma: termini dinamici che indicano percorsi di libertà e responsabilità nei confronti del suo unico Maestro e Signore Gesù Cristo.

Ma ci sono altre paure, ad esempio quella delle “Sentinelle in piedi”. Hanno paura del Sinodo la sinistra estrema e le varie organizzazioni di gay, lesbiche e transessuali che irrompono nelle manifestazioni silenziose delle Sentinelle, considerandole una provocazione. Meraviglia che anche un intellettuale famoso, e per vari aspetti meritevole di stima, si sia accodato al coro dei lamentosi pronti a ravvisare ovunque parole e gesti nel segno dell’omofobia: Roberto Saviano. Il quale ha dichiarato che, pur essendo le Sentinelle libere di esprimere il proprio pensiero, ha trovato la loro manifestazione “un gesto – seppur pacifico nei modi – di forte violenza culturale”. Le Sentinelle che cosa, di fatto, vogliono comunicare? Molto semplicemente che il matrimonio è fatto da un uomo e una donna, e che il figlio deve avere un padre e una madre.

A questo proposito, al di sopra dell’articolo che riportava la dichiarazione di Saviano sfolgoravano – con evidente soddisfazione – un uomo da una parte, uno dall’altra, sorridenti, con un bimbo in mezzo che posava la manina sulla spalla di uno, quello di sinistra (forse quello che funge da madre?). Il bimbo era quasi sorridente. Chi lo guarda, lo è di meno… ma queste cose oggi, secondo Saviano e altri maîtres à penser, non si possono dire perché sarebbero offensive per i gay. In realtà, le persone non sono toccate da alcuna condanna. Nella loro vita personale e nelle scelte soggettive, nessuno invade la loro privacy (“Chi sono io per giudicare una persona?” – Papa Francesco). Ma chiediamo, in silenzio, che evitino di condannare chi pensa e vive diversamente da loro.

All’ultimo momento ho scoperto un’altra paura che fa veramente paura: Papa Francesco sarebbe stato eletto in modo erroneo, e quindi la sua elezione sarebbe invalida, e per di più Bergoglio non manifesta una “vera fede” perché non si inginocchia dopo la consacrazione dell’eucaristia, e ancora: la sua predicazione è difforme e spesso contraria alla tradizione cattolica, al Vangelo e al Concilio Vaticano II rettamente interpretato, per cui la Chiesa si trova in una grande tempesta e possono prevedersi avvenimenti catastrofici.

Non abbiamo tempo, voglia, né spazio per approfondire ciò che è scritto in questo nuovo libro di Antonio Socci. Ma, senza ripetere le espressioni forti usate da Maurizio Crippa su Il Foglio del 2 ottobre, la lettura sia pure rapida di queste 284 pagine fa nascere una grande pena per un uomo intelligente e buono quale è l’autore, che si è lasciato incantare dalla propria autoreferenzialità e sicurezza senza tenere conto dei generi letterari, della diversità dei modi di esprimersi, dei registri comunicativi propri di Papa Francesco, che la gente riesce a capire; di un pensiero, quello di Bergoglio, volutamente e consapevolmente “incompiuto”. Paragonandosi poi a Rosmini e ad altri personaggi della storia che hanno criticato la Chiesa, il libro e il suo autore si pone fuori di ogni contestualizzazione, fuori cioè dalla storia.

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Ma quale “processo”! https://www.lavoce.it/abat-jour-19/ Thu, 11 Sep 2014 13:45:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27903 DON ANGELO fanucci“Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!”: è la frase che viene attribuita a Robespierre sul punto di essere ghigliottinato. Tutti ormai sanno che quella frase non venne mai pronunciata, ma tant’è, come finalino edificante non di un processo, ma di un’avventura atroce ed esaltante, ci sta proprio bene. Quello contro l’“incorruttibile” viene spacciato per un processo, in realtà fu solo una mattanza perpetrata da un gruppo rivoluzionario emergente contro un gruppo perdente.

Anche il Vangelo di domenica scorsa viene – ahimé! – interpretato come un processo. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”.

Un processo a forma di piramide, o (se volete) di cono, che salendo si restringe fino a quel drammatico: “Trattalo come un pagano o un pubblicano”, collocato sul punto più alto. “Consideralo a tutti gli effetti come uno scomunicato”: questa la pessima traduzione che anche oggi – ahimé! – viene offerta da quanti l’omelia non l’hanno preparata.

“Pessima” perché quello in atto nella Chiesa dei primi tempi non era un processo, tale da approdare indifferentemente a una condanna o a un’assoluzione, ma un tentativo di recuperare l’errante a tutti i costi, senza emarginarlo, salvando tutto quanto rimaneva salvabile nel suo errato comportamento: Gesù sapeva bene che nessun uomo può vedere giudicata la propria umanità sulla base di una singola scelta, per quanto radicale. quel “trattalo come un pagano o un pubblicano” andava tradotto con: “Trattalo come io tratto i pagani e i pubblicani”. E sappiamo bene come Lui trattasse i pagani e i pubblicani, incurante del fatto che le sue “cene con gli amici” (con quegli amici) provocassero l’orticaria ai Big del potere religioso-politico, poverini!, che non potevano nemmeno agevolmente grattarsi a causa della pesantezza dei vestimenti che indossavano.

Scomunica. Quanti roghi, ieri! Quanti attacchi oggi!, a testa bassa e corna innestate, contro chi, come Papa Francesco, nell’impegno a evangelizzare mette in prima fila l’uomo. Se disponete di internet, cliccate “Attacchi a Papa Francesco” e vedrete! Ci sono dei cardinali. C’è Giuliano Ferrara, con tutto il suo peso di teologo adolescente. C’è (e come poteva mancare?) Beppe Grillo, che forse un giorno smetterà di fare il comico.

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La “politica” del Papa è la preghiera https://www.lavoce.it/la-politica-del-papa-e-la-preghiera/ Fri, 30 May 2014 19:39:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25222 Ogni equivoco e ogni esitazione sono stati eliminati nei due grandi avvenimenti del fine settimana scorsa, in cui la nostra attenzione si è appuntata sulle elezioni europee e sul pellegrinaggio di Papa Francesco nella terra santa di Gesù, degli ebrei e dei musulmani. Le esitazioni, le incertezze, i dubbi dei giorni precedenti sono di colpo scomparsi in forza della bella e sorprendente affermazione di Matteo Renzi e del successo del Papa Bergoglio nel suo pellegrinaggio.

Sappiamo tutto nei particolari, non è necessario ripetere le vicende nei dettagli. Mi risuona però alla mente la frase del Patriarca Bartolomeo quando, nel suo discorso, ha detto: “La storia non può essere programmata, l’ultima parola non appartiene all’uomo ma a Dio. Le guardie del potere secolare hanno sorvegliato invano questa tomba … Qualsiasi sforzo dell’umanità contemporanea di modellare il suo futuro autonomamente e senza Dio è una vana presunzione”. I nemici di Gesù avevano programmato tutto: il sepolcro, le guardie, la difesa se fosse scomparso il cadavere. Tutto fu vano. Moltissime altre programmazioni, politiche, culturali e sociali, sono state fatte nella storia, e tutto è saltato.

Una di queste – ripetuta da secoli sotto forme diverse – è quella per cui la religione, le religioni, il cristianesimo in particolare, sarebbero scomparse con l’avvento di un nuovo modo di pensare, con la diffusione delle conoscenze scientifiche e tecniche, con l’avvento della società a dimensione razionale secondo i parametri della libertà, uguaglianza, fraternità.

Nei giorni 24-26 maggio abbiamo assistito alle varie fasi del pellegrinaggio di papa Francesco in Giordania, Israele e Palestina presi spesso anche da intima commozione nel vedere i gesti e nell’ascoltare le parole di Francesco, un Papa vero, un autentico discepolo di Gesù (gesuita), che esprime sincerità, autenticità, partecipazione e relazione con la vita concreta delle persone: un uomo religioso carico di umanità, riconosciuto protagonista, annunciatore di pace dall’intera umanità. Questo mi ha fatto ripensare ad un libro di tanti anni fa scritto da un gesuita francese, divenuto poi cardinale, che affrontava il tema della preghiera nella dimensione politica (Jean Daniélou, L’oraison, problème politique 1965).

Questo Papa, pregando e parlando di fede religiosa ha fatto politica senza entrare negli schieramenti, senza dare fastidio ai protocolli tra Stati, senza offendere nessuno, invitando a pregare insieme il Padre comune a cristiani, ebrei e musulmani, senza badare alle sfumature. Egli sa andare oltre recinti prestabiliti e sclerotizzati nel tempo, in uscita dal tempio, senza violare la abitazioni degli uomini e gli spazi della loro libertà e dignità, facendo leva sui sentimenti profondi che agitano la coscienza di ogni essere umano.

La preghiera è considerata da papa Francesco la maggiore alleata della pace, la via prescelta da Dio per donare la pace. Farà passi molto più spediti di tanti formali colloqui di pace che si sono realizzati in vari momenti della storia travagliata dai rapporti tra israeliani e palestinesi, quando si compirà l’annunciato incontro di preghiera in Vaticano tra Papa Francesco, Shimon Peres e Abu Mazen: il cristiano, l’ebreo e il musulmano. La storia dell’Europa è piena di eventi, buoni e cattivi, relativi a questa classica triade religiosa che ha dominato le vicende politiche.

Qualcuno ha pensato, anche di recente, di cancellare la fede religiosa per una società radicalmente secolarizzata, che consentirà ai popoli di vivere in pace. Il Papa risponde che non con la secolarizzazione ma con la conversione a Dio, l’unico Signore del mondo e della vita di ciascuna delle Sue creature. “Non lasciateci soli” ha detto Francesco all’udienza di mercoledì. Anche noi quindi pregheremo il Dio della pace.

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Coraggio e speranza, resistenza e resa https://www.lavoce.it/coraggio-e-speranza-resistenza-e-resa/ Fri, 16 May 2014 07:38:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25001 Tutti, tranne i disperati, hanno in se stessi un po’ di coraggio e di speranza di vedere realizzarsi un mondo migliore, o almeno più vivibile e umano. Il coraggio è insito nella struttura psicologica della persona: consente di alzarsi ogni mattina e affrontare gli impegni e le difficoltà della vita. Ci vuole coraggio anche per salire dentro un ascensore, guidare la macchina, farsi curare una malattia; e ognuno spera che anche gli altri abbiano il coraggio di fare, e fare bene, ciò che fanno. Se andiamo a vedere nel nostro passato, individuale e collettivo, troviamo che queste due parole hanno caratterizzato la nostra storia. Un collega giornalista, Cesaroni di Ancona, ha scritto: “Con coraggio e speranza si attendeva la nascita di un figlio senza sapere se fosse maschio o femmina, con coraggio e speranza si seminava in attesa di un raccolto più o meno soddisfacente a seconda dell’andamento delle stagioni, con coraggio e speranza ci si sposava e si intraprendeva un viaggio, un lavoro, si accendevano amicizie, ci si metteva a tavola con degli sconosciuti”, poi nomina Schuman, Adenauer e De Gasperi che intrapresero la costruzione dell’Unione europea con coraggio e speranza, ed ebbero ragione. Oggi come stanno le cose? Pensiamoci un momento. Sembra un ragionamento semplicistico che non tiene conto della complessità delle situazioni né del cambiamento di prospettiva del mondo attuale, che ha perso confini e punti di riferimento. Il pessimismo e il sospetto oggi si annidano nella mente di molti per l’afflusso continuo di comunicazione negativa, apportatrice di notizie terribili a valanga. Peggio, vi è il sospetto che sotto la mole dell’informazione vi siano depositi di fatti e di misfatti che non vengono a galla. E allora, alla coppia coraggio e speranza penso che se ne debba aggiungerne un’altra: resistenza e resa. Non è di mia invenzione, mi viene dalla lettura delle lettere dal campo di sterminio di Flossemburg del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer: resistenza al male di ogni tipo, con mezzi che si hanno, e che implica il coraggio di “agire contro”, anche contro la propria pigrizia e la propria tristezza; e la resa nel senso di affidarsi e confidarsi con Colui che sta all’origine e al vertice dell’universo, ricordandosi che la storia non dipende solo da noi ma anche dagli altri e dall’Altro, l’invisibile protagonista che vuole la salvezza per le Sue creature. Questa fiducia frena la tracotanza del male, contrasta le forze negative e dà fiato e vigore alla speranza, anche a quel filo di speranza rimasta nel fondo dell’anima dei disperati della terra. Si parla nella pagina delle lettere (pag. 12) di “spiritualità” della politica, per ridare senso e valore allo stare insieme nella città, nonché in Italia, in Europa e nel mondo intero. Questi sono gli orizzonti degli uomini saggi, e di coloro che si dicono cristiani. Non è facile. Soprattutto perché vi sono coloro che spandono a piene mani e a voce spiegata tutto il veleno, capace di corrodere ogni umana resistenza che non sia basata su quello “spirito di fortezza” di cui ha parlato Papa Francesco e di cui sono testimoni affidabili ed eroici i tanti martiri della verità e della libertà, cristiani e altri, che emergono dalle nebbie della rassegnazione dei popoli e della vigliaccheria di coloro che si ritengono potenti.

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Chiesa umbra. Convegno “Il destino della libertà”: per generare un futuro migliore https://www.lavoce.it/chiesa-umbra-convegno-il-destino-della-liberta-per-generare-un-futuro-migliore/ Fri, 09 May 2014 12:57:16 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24857 L’intervento di Zygmunt Bauman in una sala dei Notari gremita
L’intervento di Zygmunt Bauman in una sala dei Notari gremita

È essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole ma, prima di tutto, avere capacità di scelta. Cioè saper scegliere in piena autonomia, assumendosi le responsabilità delle proprie decisioni di fronte agli altri. Allo stesso tempo la libertà si accorda sempre con la speranza, che per un cristiano è Gesù”. Con queste parole, e citando Papa Francesco, il card. Gualtiero Bassetti (clicca qui per scaricare il pdf con il testo integrale) ha aperto il convegno “Il destino della libertà. Quale società dopo la crisi economica”, svoltosi in sala dei Notari a Perugia il 6 maggio. L’iniziativa era promossa dalla Ceu, in collaborazione con il progetto culturale della Cei e, tra gli altri, degli atenei perugini. Alla tavola rotonda, oltre al card. Bassetti, hanno partecipato Zygmunt Bauman, sociologo polacco che ha descritto la contemporaneità attraverso la metafora di “società liquida”; Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, autori del libro Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi – che ha ispirato l’incontro – e, in qualità di moderatore, Roberto Righetto, caporedattore delle pagine culturali di Avvenire. Dopo l’intervento del Cardinale, Bauman (clicca qui per scaricare il pdf) ha iniziato la sua relazione presentando due possibili visioni della libertà: “Potrebbe essere intesa come un rapporto sociale nel quale affermare se stessi e i propri desideri, a danno degli altri e creando divisione, o come il diritto di scegliere, con responsabilità: una libertà incentrata più sul dare che sul prendere” . L’ospite, prendendo spunto dall’ultima pubblicazione di Jeremy Rifkin, ha poi confrontato le differenze del modello economico attuale con quello dei “beni comuni collaborativi”, che, “secondo questo studioso, sono fondati su interessi collaborativi e incentivati da un profondo desiderio di connettersi con gli altri e di condividere”. Sempre partendo da Rifkin, Bauman ha proposto di valutare con cautela le nuove tecnologie e internet, che “può anche servire a perpetuare e rafforzare conflitti e antagonismi”, se non addirittura portare ad accentuare la differenza tra ricchi e poveri, piuttosto che rappresentare un “grande passo avanti nella storia della democrazia”. Chiara Giaccardi ha quindi introdotto il concetto di generatività, e ricordato che “troppo spesso abbiamo la preoccupazione della libertà che ci tolgono gli altri, mentre dovremmo riscoprire il senso di responsabilità e della gratitudine verso coloro che hanno dato anche la vita per la nostra libertà”. Mauro Magatti, infine, ha spiegato cosa si intenda per generatività: l’atteggiamento di uscire da una dinamica egocentrica, per aprirsi al prossimo, dando vita a qualcosa di positivo. L’esperto ha poi concluso presentando “piste da seguire per ripensare al fondamento del nostro vivere insieme”, basandosi sul modello generativo e dedicando particolare attenzione alla scuola, a internet, all’impresa e alla libertà religiosa; elementi, questi, che andrebbero tutti ripensati.

Nel 2013 il convegno al Lyrick

L’incontro che si è svolto alla Sala dei Notari il 6 maggio scorso è nato per dare continuità al convegno internazionale che si è tenuto al Teatro Lyrick di Santa Maria degli Angeli il 29 e 30 novembre 2013. Promosso sempre dalla Ceu, dal progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, dall’Università degli studi e dall’Università per gli stranieri di Perugia sul tema “Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali”?, muoveva le sue premesse dal rapporto stringente tra la crisi di senso dell’uomo moderno e la crisi economica della società occidentale. In particolare è stata un’occasione di discussione e riflessione, rivolta a credenti e non credenti, su due tematiche oggi di grande attualità: la “secolarizzazione” e il “nuovo umanesimo”. A parlare del tema sono intervenuti intellettuali del mondo culturale laico e cattolico, di calibro nazionale e internazionale.

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Ceu e Cei organizzano a Perugia la conferenza “Il destino della libertà” https://www.lavoce.it/ceu-e-cei-organizzano-a-perugia-la-conferenza-il-destino-della-liberta/ Fri, 02 May 2014 13:00:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24638 Il tavolo dei relatori e la platea durante il convegno
Il tavolo dei relatori e la platea durante il convegno

Il 6 maggio a Perugia, in sala dei Notari, dalle ore 17 alle 19 si svolgerà la conferenza “Il destino della libertà. Quale società dopo la crisi economica”.

L’iniziativa è organizzata dalla Conferenza episcopale umbra in collaborazione con il Progetto culturale della Cei, l’Università degli studi di Perugia, l’Università per Stranieri, la Pastorale giovanile e la Pastorale universitaria di Perugia, con la partecipazione di numerosi enti ed associazioni come l’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid), Confcooperative, le Acli, la Coldiretti, l’associazione culturale Stromata, e con il sostegno della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia e dell’azienda Massinelli.

La conferenza rappresenta uno dei frutti del convegno internazionale “Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali” che si è svolto ad Assisi il 29-30 novembre scorsi. Un convegno importante, che ha visto la partecipazione di centinaia di persone e che ha rappresentato un momento fondamentale per gettare le basi di un nuovo e fecondo dialogo tra molti settori della società italiana e tra alcune delle più importanti istituzioni culturali della Regione.

Affinché il convegno di Assisi non resti un fatto isolato, la Conferenza episcopale umbra ha pensato di dar vita ad alcune iniziative di alto profilo culturale dislocate sul territorio umbro.

La prima, appunto “Il destino della libertà”, prende spunto dalla recente pubblicazione Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, scritto a quattro mani da Mauro Magatti e Chiara Giaccardi. Tre gli obiettivi della conferenza: sviluppare una riflessione sul tema della libertà in rapporto ai grandi mutamenti sociali che la crisi economica sta imponendo alla società contemporanea; elaborare la proposta di un nuovo modello di sviluppo che promuova il bene comune e difenda la dignità umana alla luce della persistente stagnazione del modello produttivo occidentale; coinvolgere associazioni e istituzioni che operano nel campo culturale, economico e sociale promuovendo sinergie virtuose tra di esse.

Saranno presenti il card. Gualtiero Bassetti, i docenti dell’Università Cattolica di Milano Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, il professore emerito dell’Università di Leeds Zygmunt Bauman e il giornalista Roberto Righetto, caporedattore delle pagine culturali di Avvenire, che presiederà l’evento.

Per ulteriori informazioni si può consultare il sito www.destinodellaliberta.it, la fan page Facebook “Il destino della libertà” e l’account Twitter @DestinoLiberta.

È possibile inoltre contattare la segreteria organizzativa all’indirizzo mail destinodellaliberta@gmail.com o al numero telefonico 327 3396993.

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Due papi, due santi https://www.lavoce.it/due-papi-due-santi/ Thu, 17 Apr 2014 12:57:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24542 PapaumbriaHo avuto una leggera incrinatura mentale sul titolo da dare a questa riflessione. Scrivere “Due papi due santi” oppure “Due santi due papi”? Sono santi e perciò sono diventati papi, oppure sono papi e per questo sono stati dichiarati santi? Questione di lana caprina, si potrà dire. Ma in questi giorni molti commentatori e storici hanno messo in evidenza che i due personaggi che vengono dichiarati solennemente santi sono tali per grazia di Dio e per loro meriti e non per lo stato di pontefici. In altri termini, scavando nella storia di Carol Woityla e di Angelo Roncalli vi sono tracce che indicano la loro virtù e i grandi doni di grazia ricevuti dallo Spirito che sarebbero emersi anche se non fossero diventati papi. Infati non tutti i papi sono santi. È indubbio che vi sono state nella storia delle canonizzazioni di tipo oggettivo e istituzionale destinate a far emergere la funzione storica e l’influsso esercitato nella storia della Chiesa: diciamo un uso “politico” della canonizzazione. Un esempio tipico è quello di Costantino che gli ortodossi considerano santo per aver dato la libertà ai cristiani con il famoso “Editto di Milano” del 313, e non per meriti personali avendo trascorso una vita tutt’altro che evangelica. Possiamo dire una santità oggettiva, risultata dalle scelte politiche, più che per le virtù praticate. Altra osservazione messa in giro da alcuni tradizionalisti in questi giorni è rivolta ad osservare la “strana” santità di personaggi che hanno avuto una vita normale e bella, piena di soddisfazioni e di riconoscimenti che non sembra paragonabile alla vita di padre Pio da Pietrelcina e di tanti altri Santi della tradizione cattolica. Come se la santità fosse riservata a precisi canoni di comportamento e di spiritualità. I nostri due papi non sono santi perché papi, ma perché riconosciuti degni di questo titolo e posti sul candelabro perché tutti possano continuare a vedere le loro opere buone e glorificare il Padre, e prenderli come guide ed esempi di vita cristiana. Potremmo dire che sono santi e papi nello stesso tempo e in maniera simbiotica. Una santità che si è espressa nella loro vita privata ed è come esplosa nell’esercizio del governo della Chiesa universale. Un grande evento dello Spirito che ha voluto esaltare il carisma e il ministero, la persona e la funzione, la vocazione e la missione, come segno di unità nella pluriformità dalle azioni e dei modi di essere, degli stili di vita, della formazione teologica e culturale. Il papa Francesco da cui dipende in ultima istanza la decisione di “canonizzare” Woityla e Roncalli ha usato il dono del discernimento e non ha fatto una scelta trasversale sommaria dichiarando santi tutti i papi – che tali in generale si potrebbero ritenere almeno da Pio IX a Giovanni Paolo II – ed è stato aiutato in tale decisione di giudizio definitivo dal “sensus ecclesiae”, che in termini banali potremme dire il fiuto del popolo, l’odore di santità, il profumo di vangelo, che il popolo ha recepito da subito, in maniera corale e cordiale, dalla acclamazione al “Papa Buono” al grido “Santo subito” di piazza San Pietro. Sappiamo quanta stima e fiducia papa Francesco riservi al popolo nella sua semplice e immediata percezione di fede, nel suo intuito spirituale. Francesco è il Papa che ha cominciato il suo ministero petrino chiedendo la benedizione del popolo. Se andiamo a vedere la storia della Chiesa possiamo ricordarci che spesso è stata determinante la vox populi per considerare qualcuno santo. Francesco d’Assisi, ad esempio, è stato dichiarato santo due anni dopo la sua morte (1228) in questo modo. Nella Chiesa il popolo di Dio nel suo complesso, guidato dallo Spirito, in comunione con i suoi pastori, è protagonista, soggetto, destinatario e custode della santità, ricchezza e respiro dell’umanità. La festa della Chiesa e la gioia del mondo intero per questa doppia canonizzazione è un evento della Storia e una vittoria dello Spirito che ancora oggi aleggia sulla creazione in cerca di armonia e di pace. Di ciò ognuno di noi deve essere profondamente grato.

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La risposta di Dio al Male https://www.lavoce.it/la-risposta-di-dio-al-male/ Thu, 17 Apr 2014 11:06:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=24507 Il celebre Crocifisso dipinto da Diego Velazquez (1631), conservato al Prado di Madrid
Il celebre Crocifisso dipinto da Diego Velazquez (1631), conservato al Prado di Madrid

Mercoledì, “a metà della Settimana santa” – come ha evidenziato lui stesso – Papa Francesco ha interrotto le catechesi sui doni dello Spirito per meditare sul tempo liturgico in corso. “Oggi – ha detto – la liturgia ci presenta un episodio triste: il racconto del tradimento di Giuda, che si reca dai capi del Sinedrio per mercanteggiare e consegnare loro il suo Maestro. ‘Quanto mi date se io ve lo consegno?’. Gesù in quel momento ha un prezzo”.

“Questo atto drammatico – ha proseguito Bergoglio – segna l’inizio della Passione di Cristo, un percorso doloroso che Egli sceglie con assoluta libertà. Lo dice chiaramente Lui stesso: ‘Io do la mia vita… Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo’ (Gv 10,17-18). E così, con questo tradimento, incomincia quella via dell’umiliazione, della spogliazione di Gesù. Come se fosse nel mercato: questo costa trenta denari… Una volta intrapresa la via dell’umiliazione e della spogliazione, Gesù la percorre fino in fondo”.

“Gesù raggiunge la completa umiliazione con la morte di croce. Si tratta della morte peggiore, quella che era riservata agli schiavi e ai delinquenti. Gesù era considerato un profeta, ma muore come un delinquente. Guardando Gesù nella sua Passione, noi vediamo come in uno specchio le sofferenze dell’umanità e troviamo la risposta divina al mistero del male, del dolore, della morte. Tante volte avvertiamo orrore per il male e il dolore che ci circonda e ci chiediamo: ‘Perché Dio lo permette?’. È una profonda ferita per noi vedere la sofferenza e la morte, specialmente quella degli innocenti! Quando vediamo soffrire i bambini è una ferita al cuore: è il mistero del male. E Gesù prende tutto questo male, tutta questa sofferenza su di sé. Questa settimana farà bene a tutti noi guardare il Crocifisso, baciare le piaghe di Gesù, baciarle nel crocifisso. Lui ha preso su di sé tutta la sofferenza umana, si è rivestito di questa sofferenza”.

“Noi attendiamo – ha detto ancora il Papa – che Dio nella Sua onnipotenza sconfigga l’ingiustizia, il male, il peccato e la sofferenza con una vittoria divina trionfante. Dio ci mostra invece una vittoria umile che umanamente sembra un fallimento. Possiamo dire che Dio vince nel fallimento! Il Figlio di Dio, infatti, appare sulla croce come uomo sconfitto: patisce, è tradito, è vilipeso e infine muore. Ma Gesù permette che il male si accanisca su di Lui e lo prende su di sé per vincerlo. La sua passione non è un incidente; la sua morte, quella morte, era ‘scritta’. Davvero non troviamo tante spiegazioni. Si tratta di un mistero sconcertante, il mistero della grande umiltà di Dio: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16).Questa settimana pensiamo tanto al dolore di Gesù e diciamo a noi stessi: questo è per me. Anche se io fossi stato l’unica persona al mondo, Lui l’avrebbe fatto…

Quando tutto sembra perduto, quando non resta più nessuno perché percuoteranno ‘il pastore e saranno disperse le pecore del gregge’ (Mt 26,31), è allora che interviene Dio con la potenza della risurrezione. La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre, e là si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro, interviene Dio e risuscita.

Gesù, che ha scelto di passare per questa via, ci chiama a seguirlo nel suo stesso cammino di umiliazione. Quando in certi momenti della vita non troviamo alcuna via di uscita alle nostre difficoltà, quando sprofondiamo nel buio più fitto, è il momento della nostra umiliazione e spogliazione totale, l’ora in cui sperimentiamo che siamo fragili e peccatori. È proprio allora, in quel momento, che non dobbiamo mascherare il nostro fallimento, ma aprirci fiduciosi alla speranza in Dio, come ha fatto Gesù”.

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