letture Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/letture/ Settimanale di informazione regionale Thu, 18 Jan 2024 13:48:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg letture Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/letture/ 32 32 ‘La Bibbia notte e giorno’ quinta edizione anche in diretta streaming https://www.lavoce.it/la-bibbia-notte-e-giorno-quinta-edizione-anche-in-diretta-streaming/ https://www.lavoce.it/la-bibbia-notte-e-giorno-quinta-edizione-anche-in-diretta-streaming/#respond Thu, 18 Jan 2024 13:47:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74620 La Bibbia notte e giorno 2024

Da sabato 20 gennaio dalle 16 a domenica 21 gennaio alle 18 nella chiesa del Santissimo Salvatore a Terni, si svolgerà la quinta edizione di: La Bibbia notte e giorno la lettura della Bibbia, la parte dei Libri Profetici: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, a seguire i Dodici Profeti minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia) che concludono l’Antico Testamento.

Una notte e un giorno, senza interruzioni e commenti nei quali saranno letti integralmente i vari libri dall’inizio alla fine, così come la tradizione e la chiesa li hanno consegnati attraverso i millenni.

Ritrovare le condizioni dell’ascolto e della riflessione attraverso la lettura del Libro per eccellenza è il segno che la commissione Evangelizzazione e Catechesi, settore Apostolato Biblico della diocesi di Terni-Narni-Amelia e Azione Cattolica diocesana, hanno scelto per sottolineare il primato della Parola di Dio, fonte di discernimento e di speranza, nella vita di ogni credente, nella Domenica della Parola indetta dal Papa per la terza domenica di gennaio, che si inserisce all’interno della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e viene vissuta nella diocesi come segno eminentemente ecumenico.

A leggere i passi biblici si alterneranno più di settanta persone di ogni età, categoria sociale e confessione religiosa. Ogni lettore proclama circa otto pagine del testo per circa quindici minuti. I brani proclamati saranno intervallati da un breve spazio musicale. Anche i non credenti possono partecipare nel rispetto della Parola.

All’evento La Bibbia giorno e notte non si partecipa soltanto in qualità di lettori, ma soprattutto nell’ascolto, sia all’interno della chiesa di San Salvatore a Terni, sia seguendola in streaming sulla pagina Facebook Diocesi di Terni-Narni-Amelia, sui canali Youtube Diocesi Terni Narni Amelia, parrocchia Santa Maria della Misericordia Terni.

"In questo anno -spiega Emanuela Buccioni responsabile dell’Settore Apostolato Biblico della diocesi- che inizia con scenari di guerra e violenza sempre più inquietanti assume un significato tutto speciale la quinta edizione de La Bibbia Notte e Giorno. Al di là delle convinzioni religiose di ciascuno, la Bibbia è la lettura che ci accomuna tutti e nella quale ritroviamo molte delle nostre radici culturali e umane. La Bibbia è il libro della Parola, del continuo dialogo tra Dio e l’uomo. Un rapporto confidenziale che oggi sembra essersi perduto e che papa Francesco nella lettera apostolica Aperuit illis ci invita a riprendere con forza: nel fragore del nostro mondo non c’è più posto per l’ascolto e il dialogo".

Per informazioni e contatti: emanuela.buccioni@gmail.com

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La Bibbia notte e giorno 2024

Da sabato 20 gennaio dalle 16 a domenica 21 gennaio alle 18 nella chiesa del Santissimo Salvatore a Terni, si svolgerà la quinta edizione di: La Bibbia notte e giorno la lettura della Bibbia, la parte dei Libri Profetici: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, a seguire i Dodici Profeti minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia) che concludono l’Antico Testamento.

Una notte e un giorno, senza interruzioni e commenti nei quali saranno letti integralmente i vari libri dall’inizio alla fine, così come la tradizione e la chiesa li hanno consegnati attraverso i millenni.

Ritrovare le condizioni dell’ascolto e della riflessione attraverso la lettura del Libro per eccellenza è il segno che la commissione Evangelizzazione e Catechesi, settore Apostolato Biblico della diocesi di Terni-Narni-Amelia e Azione Cattolica diocesana, hanno scelto per sottolineare il primato della Parola di Dio, fonte di discernimento e di speranza, nella vita di ogni credente, nella Domenica della Parola indetta dal Papa per la terza domenica di gennaio, che si inserisce all’interno della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e viene vissuta nella diocesi come segno eminentemente ecumenico.

A leggere i passi biblici si alterneranno più di settanta persone di ogni età, categoria sociale e confessione religiosa. Ogni lettore proclama circa otto pagine del testo per circa quindici minuti. I brani proclamati saranno intervallati da un breve spazio musicale. Anche i non credenti possono partecipare nel rispetto della Parola.

All’evento La Bibbia giorno e notte non si partecipa soltanto in qualità di lettori, ma soprattutto nell’ascolto, sia all’interno della chiesa di San Salvatore a Terni, sia seguendola in streaming sulla pagina Facebook Diocesi di Terni-Narni-Amelia, sui canali Youtube Diocesi Terni Narni Amelia, parrocchia Santa Maria della Misericordia Terni.

"In questo anno -spiega Emanuela Buccioni responsabile dell’Settore Apostolato Biblico della diocesi- che inizia con scenari di guerra e violenza sempre più inquietanti assume un significato tutto speciale la quinta edizione de La Bibbia Notte e Giorno. Al di là delle convinzioni religiose di ciascuno, la Bibbia è la lettura che ci accomuna tutti e nella quale ritroviamo molte delle nostre radici culturali e umane. La Bibbia è il libro della Parola, del continuo dialogo tra Dio e l’uomo. Un rapporto confidenziale che oggi sembra essersi perduto e che papa Francesco nella lettera apostolica Aperuit illis ci invita a riprendere con forza: nel fragore del nostro mondo non c’è più posto per l’ascolto e il dialogo".

Per informazioni e contatti: emanuela.buccioni@gmail.com

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La Bibbia giorno e notte: 24 ore di lettura delle sacre scritture https://www.lavoce.it/la-bibbia-giorno-e-notte-24-ore-di-lettura-delle-sacre-scritture/ Thu, 19 Jan 2023 14:08:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=70130 La Bibbia giorno e notte

Da sabato 21 gennaio dalle 17 alla stessa ora di domenica 22 gennaio nella chiesa del Santissimo Salvatore a Terni, si svolgerà la quarta edizione di La Bibbia giorno e notte la lettura della seconda parte della Bibbia, dei Libri Sapienziali: Proverbi, Qoelet, Cantico dei Cantici, Giobbe, Siracide, Sapienza.

Una notte e un giorno, senza interruzioni e commenti nei quali saranno letti integralmente i vari libri dall’inizio alla fine, così come la tradizione e la chiesa li hanno consegnati attraverso i millenni.

Ascolto e riflessione

Ritrovare le condizioni dell’ascolto e della riflessione attraverso la lettura del Libro per eccellenza, è il segno che la commissione Evangelizzazione e Catechesi, settore Apostolato Biblico della diocesi di Terni-Narni-Amelia e Azione Cattolica diocesana, hanno scelto per sottolineare il primato della Parola di Dio nella vita di ogni credente, nella Domenica della Parola indetta da Papa Francesco per la terza domenica di gennaio, che si inserisce all’interno della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e viene vissuta nella diocesi come segno eminentemente ecumenico.

Coinvolte più di settanta persone

A leggere i passi biblici si alterneranno più di settanta persone di ogni età, categoria sociale e confessione religiosa. Ogni lettore proclama circa sei pagine del testo per circa quindici minuti. I brani proclamati saranno intervallati da un breve spazio musicale. Anche i non credenti possono partecipare nel rispetto della Parola.

Diretta streaming

All’evento La Bibbia giorno e notte non si partecipa soltanto in qualità di lettori, ma soprattutto nell’ascolto, sia all’interno della chiesa di San Salvatore a Terni, sia seguendola in streaming sulla pagina Facebook Diocesi di Terni-Narni-Amelia, sui canali Youtube Diocesi Terni Narni Amelia, parrocchia Santa Maria della Misericordia Terni.

Una lettura che accomuna tutti

"Al di là delle convinzioni religiose di ciascuno -spiega Emanuela Buccioni responsabile dell’Settore Apostolato Biblico della diocesi- la Bibbia è la lettura che ci accomuna tutti e nella quale ritroviamo molte delle nostre radici culturali e umane. E' il libro della Parola, del continuo dialogo tra Dio e l’uomo. Un rapporto confidenziale che oggi sembra essersi perduto e che Papa Francesco nella lettera apostolica Aperuit illis ci invita a riprendere con forza: nel fragore del nostro mondo non c’è più posto per l’ascolto e il dialogo".

Per informazioni e contatti, emanuela.buccioni@gmail.

Celebrazione a Perugia della Domenica della Parola 2023 con l’arcivescovo Ivan Maffeis e lectio a più voci nella Cattedrale di San Lorenzo

Sarà celebrata nella Cattedrale di San Lorenzo di Perugia la Domenica della Parola 2023, nel pomeriggio del 22 gennaio, con l’accoglienza dei fedeli alle ore 16.30, che si tiene ogni anno su indicazione di Papa Francesco nella III domenica del Tempo Ordinario, promossa a livello diocesano dal Servizio per l’animazione biblica e l’Ufficio liturgico. A precedere la celebrazione eucaristica, presieduta dall’arcivescovo Ivan Maffeis, sarà la lectio divina a più voci sul brano evangelico di Marta e Maria (Lc 10,38-42), in programma alle ore 16.45. Padre Giulio Michelini ofm (responsabile del Sab), avrà il compito di fare l'esegesi del brano; l'architetto Micaela Soranzo, proporrà una lettura del brano attraverso le immagini; don Calogero Di Leo (membro del Sab e direttore dell'Ufficio catechistico diocesano), chiuderà la lectio divina con una lettura pastorale del brano. Ad intervallare i tre momenti, saranno proposti canti sul tema della Parola di Dio. All’evento religioso, che culminerà con la celebrazione eucaristica delle ore 18, sono invitati a partecipare sacerdoti, diaconi, uomini e donne a vita consacrata e fedeli laici. A tutti loro è messo a disposizione il sussidio redatto dalla Cei per l’animazione liturgica delle assemblee domenicali e per la formazione personale, scaricabile dal link: http://diocesi.perugia.it/wp-content/uploads/2023/01/Domenica-della-Parola-2023.pdf . Per ulteriori informazioni sulla Domenica della Parola 2023 consultare il sito: www.lapartebuona.it .]]>
La Bibbia giorno e notte

Da sabato 21 gennaio dalle 17 alla stessa ora di domenica 22 gennaio nella chiesa del Santissimo Salvatore a Terni, si svolgerà la quarta edizione di La Bibbia giorno e notte la lettura della seconda parte della Bibbia, dei Libri Sapienziali: Proverbi, Qoelet, Cantico dei Cantici, Giobbe, Siracide, Sapienza.

Una notte e un giorno, senza interruzioni e commenti nei quali saranno letti integralmente i vari libri dall’inizio alla fine, così come la tradizione e la chiesa li hanno consegnati attraverso i millenni.

Ascolto e riflessione

Ritrovare le condizioni dell’ascolto e della riflessione attraverso la lettura del Libro per eccellenza, è il segno che la commissione Evangelizzazione e Catechesi, settore Apostolato Biblico della diocesi di Terni-Narni-Amelia e Azione Cattolica diocesana, hanno scelto per sottolineare il primato della Parola di Dio nella vita di ogni credente, nella Domenica della Parola indetta da Papa Francesco per la terza domenica di gennaio, che si inserisce all’interno della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e viene vissuta nella diocesi come segno eminentemente ecumenico.

Coinvolte più di settanta persone

A leggere i passi biblici si alterneranno più di settanta persone di ogni età, categoria sociale e confessione religiosa. Ogni lettore proclama circa sei pagine del testo per circa quindici minuti. I brani proclamati saranno intervallati da un breve spazio musicale. Anche i non credenti possono partecipare nel rispetto della Parola.

Diretta streaming

All’evento La Bibbia giorno e notte non si partecipa soltanto in qualità di lettori, ma soprattutto nell’ascolto, sia all’interno della chiesa di San Salvatore a Terni, sia seguendola in streaming sulla pagina Facebook Diocesi di Terni-Narni-Amelia, sui canali Youtube Diocesi Terni Narni Amelia, parrocchia Santa Maria della Misericordia Terni.

Una lettura che accomuna tutti

"Al di là delle convinzioni religiose di ciascuno -spiega Emanuela Buccioni responsabile dell’Settore Apostolato Biblico della diocesi- la Bibbia è la lettura che ci accomuna tutti e nella quale ritroviamo molte delle nostre radici culturali e umane. E' il libro della Parola, del continuo dialogo tra Dio e l’uomo. Un rapporto confidenziale che oggi sembra essersi perduto e che Papa Francesco nella lettera apostolica Aperuit illis ci invita a riprendere con forza: nel fragore del nostro mondo non c’è più posto per l’ascolto e il dialogo".

Per informazioni e contatti, emanuela.buccioni@gmail.

Celebrazione a Perugia della Domenica della Parola 2023 con l’arcivescovo Ivan Maffeis e lectio a più voci nella Cattedrale di San Lorenzo

Sarà celebrata nella Cattedrale di San Lorenzo di Perugia la Domenica della Parola 2023, nel pomeriggio del 22 gennaio, con l’accoglienza dei fedeli alle ore 16.30, che si tiene ogni anno su indicazione di Papa Francesco nella III domenica del Tempo Ordinario, promossa a livello diocesano dal Servizio per l’animazione biblica e l’Ufficio liturgico. A precedere la celebrazione eucaristica, presieduta dall’arcivescovo Ivan Maffeis, sarà la lectio divina a più voci sul brano evangelico di Marta e Maria (Lc 10,38-42), in programma alle ore 16.45. Padre Giulio Michelini ofm (responsabile del Sab), avrà il compito di fare l'esegesi del brano; l'architetto Micaela Soranzo, proporrà una lettura del brano attraverso le immagini; don Calogero Di Leo (membro del Sab e direttore dell'Ufficio catechistico diocesano), chiuderà la lectio divina con una lettura pastorale del brano. Ad intervallare i tre momenti, saranno proposti canti sul tema della Parola di Dio. All’evento religioso, che culminerà con la celebrazione eucaristica delle ore 18, sono invitati a partecipare sacerdoti, diaconi, uomini e donne a vita consacrata e fedeli laici. A tutti loro è messo a disposizione il sussidio redatto dalla Cei per l’animazione liturgica delle assemblee domenicali e per la formazione personale, scaricabile dal link: http://diocesi.perugia.it/wp-content/uploads/2023/01/Domenica-della-Parola-2023.pdf . Per ulteriori informazioni sulla Domenica della Parola 2023 consultare il sito: www.lapartebuona.it .]]>
Seguire, per vedere oltre https://www.lavoce.it/seguire-per-vedere-oltre/ Fri, 19 Mar 2021 14:48:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59622 logo reubrica commento al Vangelo

La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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La Vita duella con la morte https://www.lavoce.it/la-vita-duella-con-la-morte/ Fri, 03 Apr 2020 14:46:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56759 logo reubrica commento al Vangelo

Domenica delle Palme – 5 aprile 2020

“Osanna al Figlio di David” è l’inno che introduce la celebrazione della Domenica delle Palme, è anche il canto che l’assemblea in cammino intona dopo le parole del sacerdote che dice: “Imitiamo, fratelli carissimi, le folle di Gerusalemme, che acclamavano Gesù, Re e Signore, e avviamoci in pace”. Con i rami di ulivo, processionalmente si entrava in chiesa, iniziando così la Settimana Santa, accompagnata dall’ascolto della Passione del Signore proclamata ben due volte: la domenica e il Venerdì santo. Un rito caro alle nostre comunità. Quest’anno lo dovremo interiorizzare vivendolo nelle famiglie all’ascolto della parola (qui le letture della Domenica), lasciandoci aiutare dalle immagini ma anche da un particolare atteggiamento spirituale.

La grande settimana

Questa domenica che precede la Pasqua è chiamata dai liturgisti “la grande settimana”, segnata dal mistero del dolore che si arresta al Sabato santo in attesa della Pasqua. Possiamo chiamarla anche “settimana di passione” a motivo non solo della doppia lettura dei testi evangelici della passione, ma anche a motivo ascolto dei quattro canti del Servo di YHWH, definiti del “Servo Sofferente” tratti dal profeta Isaia. Una “colonna sonora” che non crea certo distonia con il contesto che stiamo vivendo. Se qualche volta ci viene da dire: “Dov’è Dio”, questa domenica di risponde: “È qui in mezzo a noi”, egli ha fatto il suo ingresso nel mistero del dolore, affinché noi non perdessimo la speranza. Gesù entra a Gerusalemme, accolto con canti festosi, esultanza di popolo, al grido “Osanna” (Mt 21,9). Ma i canti di festa si tramutano, di lì a qualche giorno, come ci racconta il vangelo della passione, in urla rabbiose che lo condannano a morte (Mt 27,22-23). La folla è uno degli elementi caratteristici delle vicende narrate in questo lungo Evangelo. Dapprima la folla (Mt 21,8) riconosce in Gesù il profeta di Nazareth (v. 11) e l’inviato del Signore (v. 9), poi sempre la folla si erge a giudice in tribunale davanti a Pilato che commette il più grande “peccato di omissione” della storia lavandosi le mani (Mt 27,34). La folla farà da corteo a Giuda che si reca da Gesù per l’arresto, mandata dai sacerdoti e dagli anziani del popolo, armata di bastoni (Mt 26, 47); ad essa Gesù si rivolge chiedendo una spiegazione riguardo a questo atteggiamento, mai emerso quando nei giorni precedenti era al tempio e insegnava (v. 55).

Chissà, quanti sono passati dagli “applausi a Gesù” al grido di condanna!

Quando il testo parla della folla, compaiono sempre i sacerdoti e gli anziani in veste di “suggeritore occulto”. La sua azione trasforma le individualità in viltà, sfruttando la semplicità popolare che degenera in “populismo”. La folla diviene allora l’amplificatore dei peggiori istinti dell’uomo. Qual è l’atteggiamento di Gesù, di fronte alla sua condizione di indagato, accusato, arrestato ed infine di condannato? Il processo di piazza della folla, il processo del sinedrio, sembrano dominare sull’imputato, ma è in realtà Gesù a dominare la situazione. È Lui che decide, Lui stabilisce l’ora e il giorno della condanna e della sentenza. È Lui che decide di non difendersi con una schiera di angeli al suo comando, quando toglie la spada a chi voleva difenderlo dall’arresto (Mt 26, 52-53).

Il bene ed il male

Il Vangelo della Passione evidenzia, anche, lo scontro decisivo tra il bene ed il male. L’atto d’amore supremo di Gesù genera l’odio più profondo e sembra concentrarsi proprio negli ultimi eventi della vita di Gesù. In Lui sembra esserci la consapevolezza che si sta “giocando” la partita decisiva. Il male a sua volta concentra tutta la sua potenza, per trascinare nell’abisso il progetto della salvezza. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello” ascolteremo nella Sequenza di Pasqua, ma il combattimento, nella logica umana, non ha la certezza della facile vittoria. Il male ha la forza di trascinare l’uomo nelle tenebre e se non si scorge il piano inclinato che il Principe delle Tenebre ha preparato. Il degrado raggiunge l’abisso del male e l’uomo si costruisce il suo inferno.

Il duello ha un vincitore apparente.

La morte sembra avere l’ultima parola, ma essa “è stata ingoiata per la vittoria” ci ricorda san Paolo (1Cor 15,54). La vita ha ricollocato la morte nell’ambito del provvisorio, grazie al circuito dell’amore che troviamo espresso nel Vangelo della Passione: l’Eucarestia, il Getzemani, la Croce. In quell’ultima Cena che Gesù trasforma nella prima del tempo nuovo, egli esprime l’atto d’amore nel dono di sé, è la sua consegna ai suoi discepoli e lo spezzare il pane che è il suo corpo, anticipa l’evento della croce. Un atto d’amore compiuto nell’intimità di una tenerezza corrisposta. L’uscita verso il Getzemani, segna la tappa dell’amore, messo alla prova dal dolore dell’abbandono. La ferita interiore del dubbio penetra in profondità, ma il tutto si conferma con la fiducia totale che si fa abbandono tra le braccia del Padre. La croce diviene ormai il talamo nuziale, dove consumare quell’amore indissolubile con l’umanità, già fatto proprio e confermato. Le ferite del male, che hanno segnato l’intimo della volontà e del cuore di Gesù, sono ora visibili sul corpo ormai donato. La croce diventa una sorta di rito esplicativo, del supremo atto d’amore celebrato. San Tommaso tradurrà nell’Adoro te Devote questo “sovrapporsi” di immagini: il corpo sfigurato di Cristo sulla croce, e il Corpo di Cristo che è l’Eucaristia: “sulla croce era nascosta la sola divinità. Ma qui (nell’eucaristia) è celata anche l’umanità”. La fede in entrambe ci salverà. don Andrea Rossi]]>
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Domenica delle Palme – 5 aprile 2020

“Osanna al Figlio di David” è l’inno che introduce la celebrazione della Domenica delle Palme, è anche il canto che l’assemblea in cammino intona dopo le parole del sacerdote che dice: “Imitiamo, fratelli carissimi, le folle di Gerusalemme, che acclamavano Gesù, Re e Signore, e avviamoci in pace”. Con i rami di ulivo, processionalmente si entrava in chiesa, iniziando così la Settimana Santa, accompagnata dall’ascolto della Passione del Signore proclamata ben due volte: la domenica e il Venerdì santo. Un rito caro alle nostre comunità. Quest’anno lo dovremo interiorizzare vivendolo nelle famiglie all’ascolto della parola (qui le letture della Domenica), lasciandoci aiutare dalle immagini ma anche da un particolare atteggiamento spirituale.

La grande settimana

Questa domenica che precede la Pasqua è chiamata dai liturgisti “la grande settimana”, segnata dal mistero del dolore che si arresta al Sabato santo in attesa della Pasqua. Possiamo chiamarla anche “settimana di passione” a motivo non solo della doppia lettura dei testi evangelici della passione, ma anche a motivo ascolto dei quattro canti del Servo di YHWH, definiti del “Servo Sofferente” tratti dal profeta Isaia. Una “colonna sonora” che non crea certo distonia con il contesto che stiamo vivendo. Se qualche volta ci viene da dire: “Dov’è Dio”, questa domenica di risponde: “È qui in mezzo a noi”, egli ha fatto il suo ingresso nel mistero del dolore, affinché noi non perdessimo la speranza. Gesù entra a Gerusalemme, accolto con canti festosi, esultanza di popolo, al grido “Osanna” (Mt 21,9). Ma i canti di festa si tramutano, di lì a qualche giorno, come ci racconta il vangelo della passione, in urla rabbiose che lo condannano a morte (Mt 27,22-23). La folla è uno degli elementi caratteristici delle vicende narrate in questo lungo Evangelo. Dapprima la folla (Mt 21,8) riconosce in Gesù il profeta di Nazareth (v. 11) e l’inviato del Signore (v. 9), poi sempre la folla si erge a giudice in tribunale davanti a Pilato che commette il più grande “peccato di omissione” della storia lavandosi le mani (Mt 27,34). La folla farà da corteo a Giuda che si reca da Gesù per l’arresto, mandata dai sacerdoti e dagli anziani del popolo, armata di bastoni (Mt 26, 47); ad essa Gesù si rivolge chiedendo una spiegazione riguardo a questo atteggiamento, mai emerso quando nei giorni precedenti era al tempio e insegnava (v. 55).

Chissà, quanti sono passati dagli “applausi a Gesù” al grido di condanna!

Quando il testo parla della folla, compaiono sempre i sacerdoti e gli anziani in veste di “suggeritore occulto”. La sua azione trasforma le individualità in viltà, sfruttando la semplicità popolare che degenera in “populismo”. La folla diviene allora l’amplificatore dei peggiori istinti dell’uomo. Qual è l’atteggiamento di Gesù, di fronte alla sua condizione di indagato, accusato, arrestato ed infine di condannato? Il processo di piazza della folla, il processo del sinedrio, sembrano dominare sull’imputato, ma è in realtà Gesù a dominare la situazione. È Lui che decide, Lui stabilisce l’ora e il giorno della condanna e della sentenza. È Lui che decide di non difendersi con una schiera di angeli al suo comando, quando toglie la spada a chi voleva difenderlo dall’arresto (Mt 26, 52-53).

Il bene ed il male

Il Vangelo della Passione evidenzia, anche, lo scontro decisivo tra il bene ed il male. L’atto d’amore supremo di Gesù genera l’odio più profondo e sembra concentrarsi proprio negli ultimi eventi della vita di Gesù. In Lui sembra esserci la consapevolezza che si sta “giocando” la partita decisiva. Il male a sua volta concentra tutta la sua potenza, per trascinare nell’abisso il progetto della salvezza. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello” ascolteremo nella Sequenza di Pasqua, ma il combattimento, nella logica umana, non ha la certezza della facile vittoria. Il male ha la forza di trascinare l’uomo nelle tenebre e se non si scorge il piano inclinato che il Principe delle Tenebre ha preparato. Il degrado raggiunge l’abisso del male e l’uomo si costruisce il suo inferno.

Il duello ha un vincitore apparente.

La morte sembra avere l’ultima parola, ma essa “è stata ingoiata per la vittoria” ci ricorda san Paolo (1Cor 15,54). La vita ha ricollocato la morte nell’ambito del provvisorio, grazie al circuito dell’amore che troviamo espresso nel Vangelo della Passione: l’Eucarestia, il Getzemani, la Croce. In quell’ultima Cena che Gesù trasforma nella prima del tempo nuovo, egli esprime l’atto d’amore nel dono di sé, è la sua consegna ai suoi discepoli e lo spezzare il pane che è il suo corpo, anticipa l’evento della croce. Un atto d’amore compiuto nell’intimità di una tenerezza corrisposta. L’uscita verso il Getzemani, segna la tappa dell’amore, messo alla prova dal dolore dell’abbandono. La ferita interiore del dubbio penetra in profondità, ma il tutto si conferma con la fiducia totale che si fa abbandono tra le braccia del Padre. La croce diviene ormai il talamo nuziale, dove consumare quell’amore indissolubile con l’umanità, già fatto proprio e confermato. Le ferite del male, che hanno segnato l’intimo della volontà e del cuore di Gesù, sono ora visibili sul corpo ormai donato. La croce diventa una sorta di rito esplicativo, del supremo atto d’amore celebrato. San Tommaso tradurrà nell’Adoro te Devote questo “sovrapporsi” di immagini: il corpo sfigurato di Cristo sulla croce, e il Corpo di Cristo che è l’Eucaristia: “sulla croce era nascosta la sola divinità. Ma qui (nell’eucaristia) è celata anche l’umanità”. La fede in entrambe ci salverà. don Andrea Rossi]]>
La vera discepola e apostola https://www.lavoce.it/vera-discepola-apostola/ Fri, 13 Mar 2020 15:23:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56474 logo reubrica commento al Vangelo

Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Con la terza domenica di Quaresima, il cammino verso la Pasqua subisce un’accelerazione e si connota come vero cammino catecumenale. Il Vangelo della samaritana di questa domenica, il Vangelo del cieco nato di domenica prossima e il Vangelo della risurrezione di Lazzaro della domenica successiva identificano l’acqua, la luce e la vita con Cristo stesso. Una Quaresima che ci fa pellegrini verso la riscoperta del nostro battesimo, in un tempo di particolare criticità sia sociale che ecclesiale che mette alla prova la nostra fede.

La mancanza della messa ci unisce

Queste tre grandi icone bibliche quest’anno non saranno proclamate nelle assemblee liturgiche della domenica, a motivo del divieto di celebrare pubblicamente la messa. L’impossibilità di celebrare il giorno del Signore ci fa compagni di strada di tanti cristiani in terra di missione, di tanti malati impossibilitati a recarsi nei luoghi celebrativi.

In queste persone molto spesso si riscontra una vera sete di Cristo e del suo Corpo, un anelito a una pienezza di vita che solo in Cristo sanno di poter trovare. Un tempo, questo, comunque di grazia, dove l’assenza della celebrazione può farci tornare “catecumeni entusiasti” dei doni di grazia che spesso diamo per scontati.

Il Vangelo della samaritana

La samaritana, che incontriamo nel Vangelo di questa domenica si lascia educare da Gesù, che fa emergere in lei il vero desiderio. Un’opera, quella di Gesù, di vera “maieutica dei desideri” ossia capace di far “partorire” le vere necessità della samaritana. “Dammi da bere” (Gv 4,7) chiede Gesù alla donna. Ma chi ha sete? Di quale acqua si parla e per quale sete?

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro dell'Esodo 17, 3-7

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94 (95)

SECONDA LETTURA Rm 5,1-2.5-8

VANGELO Dal Vangelo secondo Giovanni 4,5-42

Il dialogo sembra svolgersi su percorsi paralleli: la samaritana rimane bloccata sulla situazione contingente, parla di secchio e di come attingere al pozzo (v. 10). Gesù, che sembra essersi appostato volutamente al pozzo in attesa della donna, con la sua domanda provoca già una riflessione che va oltre la richiesta. “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?”, dice la donna sorprendendosi, in quanto non scorre ‘buon sangue’ tra i due popoli (v. 9). Una richiesta di aiuto apre una disponibilità più di ogni gentilezza e più ancora di un’autopresentazione.

Gesù, da vero pedagogo, prosegue con domande sempre più incalzanti, che aprono prime delle feritoie, poi delle vere e proprie brecce nel cuore della donna. L’acqua che Gesù le propone ha il gusto dell’acqua di sorgente, è “acqua viva” (v. 10). Questa novità entra nel cuore della donna facendo sorgere in lei dei dubbi sulla sua attuale situazione: che sapore ha l’acqua che ha bevuto finora? Il suo desiderio di infinito, di pienezza di vita, di amore, si è appagato?

In realtà, fino a oggi si è abbeverata a pozze di acqua stagnanti, alle quali si era assuefatta in mancanza di altro. Di fronte alla verità della sua vita, rivelata da Gesù, la donna vacilla nelle sue certezze. Lei che pensava di poter dare da bere si riconosce assetata di amore, di verità e di vita.

Gesù si rivela

Solo ora Gesù si rivela: alla domanda di senso che la donna pone - “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo” (Gv 4,25) - Gesù risponde: “Sono io, che parlo con te” (v. 26). È il nome di Dio rivelato a Mosè sull’Oreb: “Io sono colui che sono”, e mentre si rivela gli affida la missione di liberare il popolo schiavo in Egitto (Es 3,14).

La samaritana, schiava del desiderio di amare, si è lasciata possedere da amori pret-à-porter, non unici e irripetibili come è l’amore vero. L’incontro con l’Amore unico ed eterno la rende libera di andare, lascia persino la sua anfora (Gv 4,28), così indispensabile per attingere l’acqua, e diviene “apostola” della sua gente.

Il cammino della samaritana

È interessante seguire il cammino della samaritana. È una donna religiosa, ma adora un Dio diverso da quello dei giudei; ama ma è in una condizione di adulterio. Eppure Gesù a lei rivela chi è il vero Dio da adorare (vv. 22-24). Gesù non guarda il passato della donna ma si mette accanto a lei per intuire dove sta guardando. Non è questione di luoghi dove celebrare il culto, se a Gerusalemme o su un altro monte (v. 20). Non sempre la celebrazione è la prova della fede di chi partecipa.

Alla samaritana è stato sufficiente un incontro vero con il Signore, in “Spirito e Verità” (vv. 23-24), come ci ricorda il Vangelo di questa domenica. Ciò l’ha resa “discepola e apostola”. Questa domenica, come le prossime, non potremo celebrare il nostro culto; come cristiani siamo ‘costretti’ a un digiuno eucaristico. Ma l’abbondanza delle celebrazioni a cui abbiamo già partecipato ci hanno trasformato in annunciatori gioiosi del Vangelo, e adoratori in Spirito e Verità come vuole il Padre?

Don Andrea Rossi

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Una perfezione senza confini https://www.lavoce.it/perfezione-senza-confini/ Fri, 21 Feb 2020 10:30:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56335 logo reubrica commento al Vangelo

L’anno liturgico, oltre a essere la celebrazione del Mistero pasquale manifestato nella Pasqua settimanale della domenica, è anche una lectio continua sulla Parola di Dio. Il Vangelo proclamato nella liturgia interpreta l’intera storia della salvezza, tramite un “esegeta” d’eccezione: Gesù Cristo, “colui che dà origine alla nostra fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). L’incontro domenicale si configura come una vera catechesi per la nostra vita, un percorso di grazia che in queste domeniche è particolarmente evidente.

"Siate perfetti..."

Il Discorso della montagna, iniziato con le Beatitudini, si conclude questa domenica con un’affermazione inaudita: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). È interessante cogliere il passaggio che Gesù ci propone: passare dalla prima Rivelazione, che ha dato origine alla prima Alleanza con il popolo d’Israele, alla seconda e definitiva Alleanza, di natura universale, che non cancella ma dà compimento.

Il Signore attua la sua pedagogia divina con una prossimità che non “violenta” la capacità di accogliere la Sua grandezza. Egli accompagna la comprensione della inaudita rivelazione del suo mistero a un popolo che si è scelto perché “il più piccolo”, attraverso profeti e mediatori, con gesti e parole comprensibili dentro quel contesto, in quel tempo, a quelle persone.

Quella che gli studiosi chiamano “economia della salvezza” è un vero cammino di comprensione di quel mistero descritto domenica scorsa nella seconda lettura: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate coloro che lo amano”.

Tale progressione della comprensione si esplicita proprio nella successione della storia fino alla pienezza raggiunta in Gesù Cristo, culmine della rivelazione. Ecco perché Gesù afferma: “Vi è stato detto… Ma io vi dico…”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Levitico 19,1-2.17-18

SALMO RESPONSORIALE Salmo 102 (103)

SECONDA LETTURA I Lettera di San Paolo ai Corinzi 3,16-23

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48

Figli dello stesso Padre

Queste domeniche, ascoltando questa parola, noi cogliamo l’essenziale della novità di Cristo. Se il “ma io vi dico” pone un limite a quanto proposto dalla “pedagogia divina” fino a Cristo, il successivo percorso non ha confini, né geografici né storici né tantomeno umani. Il riferimento è l’uomo nuovo Gesù Cristo, perché, come lui, apparteniamo allo stesso Padre (1Cor 3,21-23) e abbiamo la medesima meta: “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

La liturgia odierna orienta la comprensione di “perfezione” non in senso morale o, peggio, moralistico, ma di pienezza e di realizzazione del progetto di Dio, le cui radici le troviamo già nella legge di santità descritta nel libro del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio sono santo” (Lv 19,2), un testo quello del Levitico che ripresenta il Decalogo di Esodo 20, con ulteriori specificazioni e ad uso morale e cultuale.

Le antitesi della domenica precedente e di quella odierna evidenziano un parallelismo, e nello stesso tempo un superamento. “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

Giustizia umana e giustizia divina

Superare la giustizia umana-religiosa per abbracciare quella divina! Così si potrebbero sintetizzare le sei antitesi di queste due domeniche. L’orizzonte sconfinato della misericordia di Dio non cancella i presupposti di giustizia della Legge espressa nei Comandamenti, e potremmo dire che non si sostituisce nemmeno alle esigenze della giustizia civile, ma conferma la fiducia di Dio in un’umanità redenta, capace di riorientare la propria vita al bene.

L’immagine che portiamo impressa di Dio nel nostro cuore può essere concepita come il “Dna della santità” in noi, che il virus del peccato non può cancellare - a meno di una ferrea volontà orientata al male, che rifiuta ogni perdono. Per questo c’è speranza, e il Signore è il primo a fidarsi della sua creatura.

Iperboli d'amore

Le “iperboli” che Gesù usa sono il tentativo dialettico di farci comprendere il cuore del messaggio d’amore del Padre, esplicitato attraverso alcune narrazioni riassunte nelle parabole della misericordia: la pecora perduta (Lc 15,1-79), la dramma perduta (Lc 15,8-10) e, in particolare, il padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Un amore sconfinato che non ha più riferimenti geografici riferiti a un popolo, quello d’Israele, ma l’umanità intera, come ci ricorda la parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37).

Nessuno è straniero nella “patria della fede”, anzi, la fede ci spinge a riconoscere in ogni essere umano la scintilla di Dio, anche se non esplicitata nella professione della fede. Se apriamo gli occhi, scorgiamo uomini e donne “delle beatitudini”, che vivono le esigenze del Vangelo espresse nelle opere di misericordia, anche se si dicono non credenti.

Don Andrea Rossi

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L’anno liturgico, oltre a essere la celebrazione del Mistero pasquale manifestato nella Pasqua settimanale della domenica, è anche una lectio continua sulla Parola di Dio. Il Vangelo proclamato nella liturgia interpreta l’intera storia della salvezza, tramite un “esegeta” d’eccezione: Gesù Cristo, “colui che dà origine alla nostra fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). L’incontro domenicale si configura come una vera catechesi per la nostra vita, un percorso di grazia che in queste domeniche è particolarmente evidente.

"Siate perfetti..."

Il Discorso della montagna, iniziato con le Beatitudini, si conclude questa domenica con un’affermazione inaudita: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). È interessante cogliere il passaggio che Gesù ci propone: passare dalla prima Rivelazione, che ha dato origine alla prima Alleanza con il popolo d’Israele, alla seconda e definitiva Alleanza, di natura universale, che non cancella ma dà compimento.

Il Signore attua la sua pedagogia divina con una prossimità che non “violenta” la capacità di accogliere la Sua grandezza. Egli accompagna la comprensione della inaudita rivelazione del suo mistero a un popolo che si è scelto perché “il più piccolo”, attraverso profeti e mediatori, con gesti e parole comprensibili dentro quel contesto, in quel tempo, a quelle persone.

Quella che gli studiosi chiamano “economia della salvezza” è un vero cammino di comprensione di quel mistero descritto domenica scorsa nella seconda lettura: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate coloro che lo amano”.

Tale progressione della comprensione si esplicita proprio nella successione della storia fino alla pienezza raggiunta in Gesù Cristo, culmine della rivelazione. Ecco perché Gesù afferma: “Vi è stato detto… Ma io vi dico…”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Levitico 19,1-2.17-18

SALMO RESPONSORIALE Salmo 102 (103)

SECONDA LETTURA I Lettera di San Paolo ai Corinzi 3,16-23

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48

Figli dello stesso Padre

Queste domeniche, ascoltando questa parola, noi cogliamo l’essenziale della novità di Cristo. Se il “ma io vi dico” pone un limite a quanto proposto dalla “pedagogia divina” fino a Cristo, il successivo percorso non ha confini, né geografici né storici né tantomeno umani. Il riferimento è l’uomo nuovo Gesù Cristo, perché, come lui, apparteniamo allo stesso Padre (1Cor 3,21-23) e abbiamo la medesima meta: “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

La liturgia odierna orienta la comprensione di “perfezione” non in senso morale o, peggio, moralistico, ma di pienezza e di realizzazione del progetto di Dio, le cui radici le troviamo già nella legge di santità descritta nel libro del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio sono santo” (Lv 19,2), un testo quello del Levitico che ripresenta il Decalogo di Esodo 20, con ulteriori specificazioni e ad uso morale e cultuale.

Le antitesi della domenica precedente e di quella odierna evidenziano un parallelismo, e nello stesso tempo un superamento. “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

Giustizia umana e giustizia divina

Superare la giustizia umana-religiosa per abbracciare quella divina! Così si potrebbero sintetizzare le sei antitesi di queste due domeniche. L’orizzonte sconfinato della misericordia di Dio non cancella i presupposti di giustizia della Legge espressa nei Comandamenti, e potremmo dire che non si sostituisce nemmeno alle esigenze della giustizia civile, ma conferma la fiducia di Dio in un’umanità redenta, capace di riorientare la propria vita al bene.

L’immagine che portiamo impressa di Dio nel nostro cuore può essere concepita come il “Dna della santità” in noi, che il virus del peccato non può cancellare - a meno di una ferrea volontà orientata al male, che rifiuta ogni perdono. Per questo c’è speranza, e il Signore è il primo a fidarsi della sua creatura.

Iperboli d'amore

Le “iperboli” che Gesù usa sono il tentativo dialettico di farci comprendere il cuore del messaggio d’amore del Padre, esplicitato attraverso alcune narrazioni riassunte nelle parabole della misericordia: la pecora perduta (Lc 15,1-79), la dramma perduta (Lc 15,8-10) e, in particolare, il padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Un amore sconfinato che non ha più riferimenti geografici riferiti a un popolo, quello d’Israele, ma l’umanità intera, come ci ricorda la parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37).

Nessuno è straniero nella “patria della fede”, anzi, la fede ci spinge a riconoscere in ogni essere umano la scintilla di Dio, anche se non esplicitata nella professione della fede. Se apriamo gli occhi, scorgiamo uomini e donne “delle beatitudini”, che vivono le esigenze del Vangelo espresse nelle opere di misericordia, anche se si dicono non credenti.

Don Andrea Rossi

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Maestro della nuova sapienza https://www.lavoce.it/maestro-nuova-sapienza/ Thu, 13 Feb 2020 17:21:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56284 logo reubrica commento al Vangelo

Queste domeniche il Vangelo ci ha preso per mano accompagnandoci sul “monte delle Beatitudini”, probabilmente una collina in prossimità di Cafarnao, dalla quale Gesù, secondo la versione di Matteo, presenta il suo discorso programmatico. Il capitolo 5 è introdotto dalle Beatitudini. Gli esegeti attestano che Gesù si presenta come il “nuovo legislatore”, in riferimento a Mosè che riceve le “dieci parole” sul monte Sinai.

La nuova legge

In queste domeniche l’evangelista Matteo compone una stupenda sintesi del rapporto tra la nuova legge, che permea il Regno inaugurato da Gesù, e la legge che segna la prima rivelazione di un Dio che è venuto a dialogare con l’uomo.

Tre termini: Dio, l’uomo, la legge. Intorno a questi tre concetti ruota la riflessone che ci propone la Parola di Dio questa settimana e la prossima. In questa domenica il Vangelo ci mostra il rapporto tra Gesù e la legge data a Mosè. Alcuni interrogativi sottointesi sono alla base delle parole di Gesù (Mt 5,17-25) che introducono una serie di antitesi, che approfondiremo la domenica successiva.

La legge data a Mosè è superata con la novità di Gesù? Cosa aggiunge la sua presenza alla tradizione ebraica? Quale è il valore della legge mosaica dopo la venuta di Gesù? Questi interrogativi erano al centro del dibattito tra farisei, dottori della Legge, rabbini, ma anche nelle prime comunità cristiane, tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal mondo pagano.

La legge di Dio non segue la logica umana

Ma non è forse anche un dibattito aperto nella Chiesa di oggi, che si contrappone di fronte all’interpretazione del Concilio Vaticano II? E si contrappone di fronte al percorso avviato da Papa Francesco? Dio e la sua legge è un binomio che non segue la logica umana sovrano sudditi- obbedienza / disobbedienza- premio / reato-pena.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 15,15-20, NV 15,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 118 (119)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di san Paolo ai Corinzi 2,6-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,17-37

Il “se vuoi” introduce la prima lettura ( Sir15,15), con un approccio liberante per l’uomo. Di fronte alla fedeltà di Dio a se stesso e al suo progetto relazionale, l’umanità è posta di fronte a una scelta: “il fuoco e l’acqua, la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Sir 15,16-17).

Molto spesso immaginiamo un Dio giudice che controlla la nostra vita, un ispettore di polizia o un pubblico ministero che procede a indagini accusatorie, infliggendo una pena senza possibilità di appello. Invece scopriamo un Dio che fin dall’Antico Testamento “propone ma non dispone”, che ha gli occhi su coloro che lo riconoscono facendosi piccoli (Sir 15,19).

Un amore libero e liberante

La Sua libertà però non è indifferente, Egli si rivela perché l’uomo conosca la bellezza del suo sguardo e del suo volere; non mette sullo stesso piano il bene e il male, né tantomeno indica la via del male. Il suo amore, proprio perché libero, è anche liberante, per questo è impegnativo. Non ama per il bisogno di essere riamato, ma ama e basta. Per questo il rifiuto non ha come conseguenza la pena, ma la ricerca costante e fantasiosa - da parte di Dio - di nuovi appostamenti ai crocevia della vita dell’uomo.

La beatitudine descritta nel Salmo (119,1-2) non si trasforma in maledizione per chi non accetta il Suo insegnamento, ma fa disvelare pienamente la bellezza della Sua proposta. Dio non attende la richiesta del salmista, che chiede l’apertura dei nostri occhi sulla bellezza della Sua legge (Sal 119,17-18), ma ci offre gli strumenti necessari per camminare sulle Sue vie. Perché allora alcune volte si sceglie una via diversa e ci si ritrova nel fango della vita?

La sapienza della croce

Può aiutarci, in questo, san Paolo nella seconda lettura, quando ci parla di una sapienza misteriosa, che non è di questo mondo ma divina (1Cor 2,8), e ci fa comprendere quelle cose “che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo”, quelle cose che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

È quella sapientia crucis che si apprende dal magistero della vita, permeato dall’amore motivato dalla fede, capace di scrutare le profondità del Mistero pasquale che illumina anche la “notte oscura”. Questa sapienza non è accessibile ai “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,6), ma è rivelata a quanti hanno accolto il Vangelo delle beatitudini senza preclusioni, a quanti si lasciano plasmare dalla novità di Cristo, crocifisso e risorto.

Questa sapienza, frutto dello Spirito, compone in una stupenda continuità l’antico e il nuovo, collocando la legge di Mosè a fondamento di un’umanità in cammino, che trova la sintesi nel comandamento dell’amore. Si comprende che Dio non lo puoi imprigionare dentro la norma, perché è Lui che la interpreta, e la rende piena in ogni tempo, affinché lo Spirito che guida la Chiesa e i suoi Pastori la interpretino sapientemente per l’umanità di ogni tempo.

Don Andrea Rossi

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Queste domeniche il Vangelo ci ha preso per mano accompagnandoci sul “monte delle Beatitudini”, probabilmente una collina in prossimità di Cafarnao, dalla quale Gesù, secondo la versione di Matteo, presenta il suo discorso programmatico. Il capitolo 5 è introdotto dalle Beatitudini. Gli esegeti attestano che Gesù si presenta come il “nuovo legislatore”, in riferimento a Mosè che riceve le “dieci parole” sul monte Sinai.

La nuova legge

In queste domeniche l’evangelista Matteo compone una stupenda sintesi del rapporto tra la nuova legge, che permea il Regno inaugurato da Gesù, e la legge che segna la prima rivelazione di un Dio che è venuto a dialogare con l’uomo.

Tre termini: Dio, l’uomo, la legge. Intorno a questi tre concetti ruota la riflessone che ci propone la Parola di Dio questa settimana e la prossima. In questa domenica il Vangelo ci mostra il rapporto tra Gesù e la legge data a Mosè. Alcuni interrogativi sottointesi sono alla base delle parole di Gesù (Mt 5,17-25) che introducono una serie di antitesi, che approfondiremo la domenica successiva.

La legge data a Mosè è superata con la novità di Gesù? Cosa aggiunge la sua presenza alla tradizione ebraica? Quale è il valore della legge mosaica dopo la venuta di Gesù? Questi interrogativi erano al centro del dibattito tra farisei, dottori della Legge, rabbini, ma anche nelle prime comunità cristiane, tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal mondo pagano.

La legge di Dio non segue la logica umana

Ma non è forse anche un dibattito aperto nella Chiesa di oggi, che si contrappone di fronte all’interpretazione del Concilio Vaticano II? E si contrappone di fronte al percorso avviato da Papa Francesco? Dio e la sua legge è un binomio che non segue la logica umana sovrano sudditi- obbedienza / disobbedienza- premio / reato-pena.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 15,15-20, NV 15,16-21

SALMO RESPONSORIALE Salmo 118 (119)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di san Paolo ai Corinzi 2,6-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 5,17-37

Il “se vuoi” introduce la prima lettura ( Sir15,15), con un approccio liberante per l’uomo. Di fronte alla fedeltà di Dio a se stesso e al suo progetto relazionale, l’umanità è posta di fronte a una scelta: “il fuoco e l’acqua, la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Sir 15,16-17).

Molto spesso immaginiamo un Dio giudice che controlla la nostra vita, un ispettore di polizia o un pubblico ministero che procede a indagini accusatorie, infliggendo una pena senza possibilità di appello. Invece scopriamo un Dio che fin dall’Antico Testamento “propone ma non dispone”, che ha gli occhi su coloro che lo riconoscono facendosi piccoli (Sir 15,19).

Un amore libero e liberante

La Sua libertà però non è indifferente, Egli si rivela perché l’uomo conosca la bellezza del suo sguardo e del suo volere; non mette sullo stesso piano il bene e il male, né tantomeno indica la via del male. Il suo amore, proprio perché libero, è anche liberante, per questo è impegnativo. Non ama per il bisogno di essere riamato, ma ama e basta. Per questo il rifiuto non ha come conseguenza la pena, ma la ricerca costante e fantasiosa - da parte di Dio - di nuovi appostamenti ai crocevia della vita dell’uomo.

La beatitudine descritta nel Salmo (119,1-2) non si trasforma in maledizione per chi non accetta il Suo insegnamento, ma fa disvelare pienamente la bellezza della Sua proposta. Dio non attende la richiesta del salmista, che chiede l’apertura dei nostri occhi sulla bellezza della Sua legge (Sal 119,17-18), ma ci offre gli strumenti necessari per camminare sulle Sue vie. Perché allora alcune volte si sceglie una via diversa e ci si ritrova nel fango della vita?

La sapienza della croce

Può aiutarci, in questo, san Paolo nella seconda lettura, quando ci parla di una sapienza misteriosa, che non è di questo mondo ma divina (1Cor 2,8), e ci fa comprendere quelle cose “che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo”, quelle cose che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

È quella sapientia crucis che si apprende dal magistero della vita, permeato dall’amore motivato dalla fede, capace di scrutare le profondità del Mistero pasquale che illumina anche la “notte oscura”. Questa sapienza non è accessibile ai “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,6), ma è rivelata a quanti hanno accolto il Vangelo delle beatitudini senza preclusioni, a quanti si lasciano plasmare dalla novità di Cristo, crocifisso e risorto.

Questa sapienza, frutto dello Spirito, compone in una stupenda continuità l’antico e il nuovo, collocando la legge di Mosè a fondamento di un’umanità in cammino, che trova la sintesi nel comandamento dell’amore. Si comprende che Dio non lo puoi imprigionare dentro la norma, perché è Lui che la interpreta, e la rende piena in ogni tempo, affinché lo Spirito che guida la Chiesa e i suoi Pastori la interpretino sapientemente per l’umanità di ogni tempo.

Don Andrea Rossi

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Sale che fa gustare Cristo https://www.lavoce.it/sale-gustare-cristo/ Fri, 07 Feb 2020 10:22:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56225 logo reubrica commento al Vangelo

La luce sembra essere il tema dominante anche di questa prima parte del Tempo ordinario. Il vecchio Simeone la contemplava nel bambino Gesù presentato al tempio, mentre lo offriva a noi. Il tempo di Natale, come una cometa, ha accompagnato la nostra vita di credenti. Questa luce non è un entità astratta, è “Cristo luce del mondo”, come ci ricorda il sacro ministro che apre la grande Veglia pasquale.

Gesù è la luce

Il Vangelo di questa domenica è introdotto dal versetto dell’alleluia: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Questa autorivelazione di Gesù, come ci ricorda il Vangelo di questa domenica, è trasmessa a coloro che lo seguono: “Voi siete la luce del mondo” (Lc 5,14). Una trasmissione che avviene per contatto.

È ancora la Veglia pasquale a rappresentare visibilmente questo passaggio, quando il ministro si ferma nel buio della chiesa e lascia accendere le candele dei fedeli. Il Cristo “Luce da Luce” è Luce per le genti, che partecipano della medesima luce per essere luce del mondo e per il mondo. È compito della luce illuminare, per questo è posta in alto e non viene coperta da un recipiente rovesciato (moggio) per impedirle di fare luce (Lc 5,15).

La similitudine con la città posta sul monte rende ancora più evidente il ruolo di guida e di attrazione verso l’alto. Non è un paradosso questa immagine dei cristiani così descritti da questo Vangelo?

Questo protagonismo non si contrappone all’umiltà e mitezza propostaci da Gesù? Sì, lo diventa ogni volta che leggiamo le parole isolandole dalla Parola, che è Gesù Cristo, dal suo volto tracciato dal Vangelo delle Beatitudini e dalla totalità del Mistero pasquale espresso nel Triduo santo e annunciato nel giorno dell’Epifania: “Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto”. Se l’immagine della luce e della città alta sul monte rivela la necessità della testimonianza, l’immagine del sale esprime la modalità di essere testimoni.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 58,7-10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 111 (112)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 2,1-5

VANGELO Dal Vangelo di Matteo 5,13-16

Sale della terra

Quale è il sale che non perde sapore, che non diventa insipido (Lc 5,13)? Quello che fa il sale: sciogliersi per dare sapore, lasciarsi assorbire per far risaltare il sapore dei cibi. Se il sale si fa “superbo” pensando di essere lui il sapore, viene gettato via insieme ai cibi divenuti immangiabili. Oppure, se non si lascia sciogliere, rimane inutilizzato e, ormai vecchio, non sarà più capace di dare sapore, ha perso la sua sapidità e quindi verrà gettato via.

Il Vangelo di questa domenica in pochi versetti e con alcune immagini ci mette al riparo da ogni parziale interpretazione sull’identità del credente: si è luce solo passando attraverso la capacità di perdere se stessi (sale), perché si vedano le opere buone, rese possibili dalla macerazione del nostro egoismo (Lc 5,16).

Il Vangelo ci spinge ancora oltre: le buone opere sono possibili perché il nostro “spossessarci” rende possibile la dimora di Cristo in noi, unico Signore ai cui rendere gloria. Ne è ben consapevole Paolo, che nell’annunciare il mistero di Dio non si appoggiò alle sue doti umane (1Cor2, 1-2) ma il suo annuncio fu una sola cosa con il Signore Gesù: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Se il Vangelo delle beatitudini, mirabilmente sintetizzato in questa domenica, si legge in sovrapposizione al Vangelo delle opere di misericordia (Mt 25,3148) e declinato nella concretezza della prima lettura (Is 58,7-10), allora la luce sorgerà come l’aurora: solo tali gesti brilleranno nelle tenebre, non la nostra voce che proclama.

Annuncio e testimonianza

Il Vangelo è una persona, la voce è un annuncio, ma la vita è la Parola. Gesti e parole intimamente connessi (Dei Verbum, n. 2) sono la sintesi che rende credibile la nuova evangelizzazione, o meglio l’evangelizzazione di sempre, così come ci ricorda san Paolo VI nella Evangelii nuntiandi al n. 41: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

Non si può separare l’annuncio dalla testimonianza, e quest’ultima passa quasi sempre dal Venerdì santo della vita. Non esistono “scorciatoie” per contemplare il mattino di Pasqua, che nella sua bellezza mostra anche le ferite del Venerdì santo. Questo è il Mistero pasquale da annunciare; e se diviene criterio di lettura della nostra vita, abbiamo la certezza che ogni Venerdì santo avrà il suo mattino di Pasqua.

Solo il nostro egoismo prolungherebbe la notte del dolore senza un’aurora di salvezza.

Don Andrea Rossi

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La luce sembra essere il tema dominante anche di questa prima parte del Tempo ordinario. Il vecchio Simeone la contemplava nel bambino Gesù presentato al tempio, mentre lo offriva a noi. Il tempo di Natale, come una cometa, ha accompagnato la nostra vita di credenti. Questa luce non è un entità astratta, è “Cristo luce del mondo”, come ci ricorda il sacro ministro che apre la grande Veglia pasquale.

Gesù è la luce

Il Vangelo di questa domenica è introdotto dal versetto dell’alleluia: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Questa autorivelazione di Gesù, come ci ricorda il Vangelo di questa domenica, è trasmessa a coloro che lo seguono: “Voi siete la luce del mondo” (Lc 5,14). Una trasmissione che avviene per contatto.

È ancora la Veglia pasquale a rappresentare visibilmente questo passaggio, quando il ministro si ferma nel buio della chiesa e lascia accendere le candele dei fedeli. Il Cristo “Luce da Luce” è Luce per le genti, che partecipano della medesima luce per essere luce del mondo e per il mondo. È compito della luce illuminare, per questo è posta in alto e non viene coperta da un recipiente rovesciato (moggio) per impedirle di fare luce (Lc 5,15).

La similitudine con la città posta sul monte rende ancora più evidente il ruolo di guida e di attrazione verso l’alto. Non è un paradosso questa immagine dei cristiani così descritti da questo Vangelo?

Questo protagonismo non si contrappone all’umiltà e mitezza propostaci da Gesù? Sì, lo diventa ogni volta che leggiamo le parole isolandole dalla Parola, che è Gesù Cristo, dal suo volto tracciato dal Vangelo delle Beatitudini e dalla totalità del Mistero pasquale espresso nel Triduo santo e annunciato nel giorno dell’Epifania: “Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto”. Se l’immagine della luce e della città alta sul monte rivela la necessità della testimonianza, l’immagine del sale esprime la modalità di essere testimoni.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 58,7-10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 111 (112)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 2,1-5

VANGELO Dal Vangelo di Matteo 5,13-16

Sale della terra

Quale è il sale che non perde sapore, che non diventa insipido (Lc 5,13)? Quello che fa il sale: sciogliersi per dare sapore, lasciarsi assorbire per far risaltare il sapore dei cibi. Se il sale si fa “superbo” pensando di essere lui il sapore, viene gettato via insieme ai cibi divenuti immangiabili. Oppure, se non si lascia sciogliere, rimane inutilizzato e, ormai vecchio, non sarà più capace di dare sapore, ha perso la sua sapidità e quindi verrà gettato via.

Il Vangelo di questa domenica in pochi versetti e con alcune immagini ci mette al riparo da ogni parziale interpretazione sull’identità del credente: si è luce solo passando attraverso la capacità di perdere se stessi (sale), perché si vedano le opere buone, rese possibili dalla macerazione del nostro egoismo (Lc 5,16).

Il Vangelo ci spinge ancora oltre: le buone opere sono possibili perché il nostro “spossessarci” rende possibile la dimora di Cristo in noi, unico Signore ai cui rendere gloria. Ne è ben consapevole Paolo, che nell’annunciare il mistero di Dio non si appoggiò alle sue doti umane (1Cor2, 1-2) ma il suo annuncio fu una sola cosa con il Signore Gesù: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Se il Vangelo delle beatitudini, mirabilmente sintetizzato in questa domenica, si legge in sovrapposizione al Vangelo delle opere di misericordia (Mt 25,3148) e declinato nella concretezza della prima lettura (Is 58,7-10), allora la luce sorgerà come l’aurora: solo tali gesti brilleranno nelle tenebre, non la nostra voce che proclama.

Annuncio e testimonianza

Il Vangelo è una persona, la voce è un annuncio, ma la vita è la Parola. Gesti e parole intimamente connessi (Dei Verbum, n. 2) sono la sintesi che rende credibile la nuova evangelizzazione, o meglio l’evangelizzazione di sempre, così come ci ricorda san Paolo VI nella Evangelii nuntiandi al n. 41: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

Non si può separare l’annuncio dalla testimonianza, e quest’ultima passa quasi sempre dal Venerdì santo della vita. Non esistono “scorciatoie” per contemplare il mattino di Pasqua, che nella sua bellezza mostra anche le ferite del Venerdì santo. Questo è il Mistero pasquale da annunciare; e se diviene criterio di lettura della nostra vita, abbiamo la certezza che ogni Venerdì santo avrà il suo mattino di Pasqua.

Solo il nostro egoismo prolungherebbe la notte del dolore senza un’aurora di salvezza.

Don Andrea Rossi

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Il vero culto portato da Cristo https://www.lavoce.it/vero-culto-cristo/ Fri, 31 Jan 2020 12:29:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56172 logo reubrica commento al Vangelo

La celebrazione di questa domenica (Presentazione del Signore al tempio) interrompe il ciclo ordinario delle letture, ma non distoglie dal percorso avviato domenica scorsa. I temi dell’introduzione del Messia nella storia concreta di Israele, che Giovanni Battista attesta, non sono infatti lontani dall’icona biblica presentata questa settimana.

Due figure profetiche, Simeone e Anna, attestano la “realtà” del Bambino e la sua missione. Il vecchio Simeone, “uomo giusto e pio”, attendeva “la consolazione d’Israele” (Lc 2,25); lui e la profetessa Anna, quasi una intera vita consacrata alla preghiera e alla penitenza (v. 37), hanno il privilegio di contemplare “la consolazione d’Israele” e “il vero culto gradito a Dio”. L’indicazione geografica del Tempio, luogo della presenza dello Spirito di Dio, ora, per un attimo, è abitato anche dal Cristo Signore, atteso Consolatore d’Israele e sua gloria, e “luce per illuminare le genti” (v. 32).

Il Cantico di Simeone

Simeone e Anna appaiono come i custodi della sapienza d’Israele e nello stesso tempo i custodi della speranza, certi della realizzazione delle promesse di Dio. La loro fede è premiata con la possibilità di vedere ciò che attendevano; come Giovanni Battista, possono indicare a Israele e al mondo il “Dio con noi” e per noi. Al cuore del testo biblico di questa domenica giganteggia il cantico di Simeone, anticipato dal gesto benedicente con il Bambino in braccio. Il Nunc dimittis, così come il Magnificat e ilBenedictus, eleva a inno i sentimenti personali dei personaggi sulla cui bocca è posto, e nello stesso tempo si fanno voce di un intero popolo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Malachia 3,1-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23 (24)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli Ebrei 2,14-18

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 2,22-32

 

L’ingresso nel tempio di Gerusalemme del Cristo Signore, anche se può identificarsi con una sorta di “presa di possesso”, è ben lontano dalle processioni trionfali di coloro che hanno vinto la loro battaglia con gli eserciti. È ancora lontano anche dal compimento, cantato in un inno inserito nell’Apocalisse : “Alleluja, ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente” (19,6-8).

Da parte sua, il profeta Malachia solennizza il gesto della Sacra Famiglia che entra nel tempio (Ml 3,1) attribuendo a quel Bambino, entrato mestamente tra le braccia dei genitori, una potenza che incute rispetto e paura: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?” (v. 2).

La sua azione purificatrice ha uno scopo ben definito,discernere, vagliare e setacciare i puri di cuore, perché solo la loro offerta sarà gradita (v. 3). Solo coloro che non “inciamperanno” sullo scandalo di un Dio onnipotente che si fa Servo sofferente, e accetteranno la stoltezza di un Dio che decide di essere sconfitto salendo su una croce (1Cor 1,23), celebreranno il vero culto. Il profeta Malachia, in sintonia con gli altri Profeti, chiamerà profanatori coloro che elevano culto a Dio ma dimenticandosi dell’uomo ridotto in miseria. Quale è il vero culto?

Il vero culto

Gli incensi, i noviluni, moltiplicare le preghiere? Con lo stesso tono di Malachia, il profeta Isaia indica una precondizione: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (1,16-17).

I “piccoli di Dio” intonano il Salmo di questa domenica e alzano le porte per agevolare l’ingresso del loro Signore, riconoscendolo al di là di ogni umana attesa. Tutti costoro sono passati attraverso la spada che divide la verità dalla menzogna e che trafiggerà anche Maria, come profetizza Simeone, prefigurando il dolore della madre (Lc 2,35).

Un martirio interiore che costringe all’uscita da se stessi, per permettere l’ingresso di Cristo Signore; che può significare, alcune volte, anche il sangue versato. Un corpo donato e un sangue versato sono il paradigma di ogni vero culto, un unico sacrificio con quello di Cristo, che il Padre accoglie.

Testimoni della vittoria di Cristo

In altre parole: ogni volta che “ci mettiamo la faccia” pagando di persona, attestiamo la verità del sacrificio di Cristo e testimoniamo la sua vittoria sulla morte. Proprio perché Lui l’ha fatto prima di noi, “prendendosi cura non degli angeli” ma di noi, come attesta la seconda lettura, abbiamo la forza di farci suoi imitatori; e ogni volta che ci dimentichiamo di noi stessi per amore, stendiamo un tappeto d’onore al suo venire continuamente nella storia.

Allora la sua venuta sarà veramente trionfale, ma con l’incedere dell’Agnello immolato, che ha vinto il peccato e la morte e continuerà ad essere vittorioso ogni giorno, nella liturgia quotidiana della vita.

Don Andrea Rossi

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La celebrazione di questa domenica (Presentazione del Signore al tempio) interrompe il ciclo ordinario delle letture, ma non distoglie dal percorso avviato domenica scorsa. I temi dell’introduzione del Messia nella storia concreta di Israele, che Giovanni Battista attesta, non sono infatti lontani dall’icona biblica presentata questa settimana.

Due figure profetiche, Simeone e Anna, attestano la “realtà” del Bambino e la sua missione. Il vecchio Simeone, “uomo giusto e pio”, attendeva “la consolazione d’Israele” (Lc 2,25); lui e la profetessa Anna, quasi una intera vita consacrata alla preghiera e alla penitenza (v. 37), hanno il privilegio di contemplare “la consolazione d’Israele” e “il vero culto gradito a Dio”. L’indicazione geografica del Tempio, luogo della presenza dello Spirito di Dio, ora, per un attimo, è abitato anche dal Cristo Signore, atteso Consolatore d’Israele e sua gloria, e “luce per illuminare le genti” (v. 32).

Il Cantico di Simeone

Simeone e Anna appaiono come i custodi della sapienza d’Israele e nello stesso tempo i custodi della speranza, certi della realizzazione delle promesse di Dio. La loro fede è premiata con la possibilità di vedere ciò che attendevano; come Giovanni Battista, possono indicare a Israele e al mondo il “Dio con noi” e per noi. Al cuore del testo biblico di questa domenica giganteggia il cantico di Simeone, anticipato dal gesto benedicente con il Bambino in braccio. Il Nunc dimittis, così come il Magnificat e ilBenedictus, eleva a inno i sentimenti personali dei personaggi sulla cui bocca è posto, e nello stesso tempo si fanno voce di un intero popolo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Malachia 3,1-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23 (24)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli Ebrei 2,14-18

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 2,22-32

 

L’ingresso nel tempio di Gerusalemme del Cristo Signore, anche se può identificarsi con una sorta di “presa di possesso”, è ben lontano dalle processioni trionfali di coloro che hanno vinto la loro battaglia con gli eserciti. È ancora lontano anche dal compimento, cantato in un inno inserito nell’Apocalisse : “Alleluja, ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente” (19,6-8).

Da parte sua, il profeta Malachia solennizza il gesto della Sacra Famiglia che entra nel tempio (Ml 3,1) attribuendo a quel Bambino, entrato mestamente tra le braccia dei genitori, una potenza che incute rispetto e paura: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?” (v. 2).

La sua azione purificatrice ha uno scopo ben definito,discernere, vagliare e setacciare i puri di cuore, perché solo la loro offerta sarà gradita (v. 3). Solo coloro che non “inciamperanno” sullo scandalo di un Dio onnipotente che si fa Servo sofferente, e accetteranno la stoltezza di un Dio che decide di essere sconfitto salendo su una croce (1Cor 1,23), celebreranno il vero culto. Il profeta Malachia, in sintonia con gli altri Profeti, chiamerà profanatori coloro che elevano culto a Dio ma dimenticandosi dell’uomo ridotto in miseria. Quale è il vero culto?

Il vero culto

Gli incensi, i noviluni, moltiplicare le preghiere? Con lo stesso tono di Malachia, il profeta Isaia indica una precondizione: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (1,16-17).

I “piccoli di Dio” intonano il Salmo di questa domenica e alzano le porte per agevolare l’ingresso del loro Signore, riconoscendolo al di là di ogni umana attesa. Tutti costoro sono passati attraverso la spada che divide la verità dalla menzogna e che trafiggerà anche Maria, come profetizza Simeone, prefigurando il dolore della madre (Lc 2,35).

Un martirio interiore che costringe all’uscita da se stessi, per permettere l’ingresso di Cristo Signore; che può significare, alcune volte, anche il sangue versato. Un corpo donato e un sangue versato sono il paradigma di ogni vero culto, un unico sacrificio con quello di Cristo, che il Padre accoglie.

Testimoni della vittoria di Cristo

In altre parole: ogni volta che “ci mettiamo la faccia” pagando di persona, attestiamo la verità del sacrificio di Cristo e testimoniamo la sua vittoria sulla morte. Proprio perché Lui l’ha fatto prima di noi, “prendendosi cura non degli angeli” ma di noi, come attesta la seconda lettura, abbiamo la forza di farci suoi imitatori; e ogni volta che ci dimentichiamo di noi stessi per amore, stendiamo un tappeto d’onore al suo venire continuamente nella storia.

Allora la sua venuta sarà veramente trionfale, ma con l’incedere dell’Agnello immolato, che ha vinto il peccato e la morte e continuerà ad essere vittorioso ogni giorno, nella liturgia quotidiana della vita.

Don Andrea Rossi

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Dalla periferia, la Salvezza https://www.lavoce.it/dalla-periferia-salvezza/ Fri, 24 Jan 2020 08:03:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56081 logo reubrica commento al Vangelo

La terza domenica del tempo ordinario segna il definitivo passaggio dalla profezia sul Regno alla realizzazione del Regno. Un tempo nuovo inizia: “Inizio della buona notizia (Evangelo) che è Gesù Cristo (Mc 1,1), questa buona novella può essere finalmente ascoltata dalla bocca stessa di Colui che è la Parola fatta carne. Questo passo parallelo dell’Evangelista Marco può fare da introduzione a questa domenica: Gesù Cristo è il Regno (Lc 17,21), questa è la vera buona notizia. Dopo il battesimo di Gesù e il compimento della missione profetica di Giovanni, “l’avvento” lascia il posto alla presenza della Parola incarnata che si fa Parola salvifica e sanante. Con L’uscita di scena gioiosa di Giovanni, amico dello sposo, (Gv 3,29-30) si apre la strada alla gioia del “popolo che abitava nelle tenebre”, la luce che è Cristo viene ad illuminare coloro che “abitavano in regione di morte” (Mt 4,16). È interessante cogliere l’indicazione temporale con cui inizia il Vangelo di questa settimana: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea”(Mt 4,12), perché sembra esprimere un certo atteggiamento rinunciatario da parte di Gesù motivato dal dolore per l’amico, ma in realtà sta germogliando il “Virgulto del tronco di Iesse” (Is 11,1) che spunta dalla dalla morte del chicco di grano, (Gv 12,24) macerato dalla testimonianza alla Verità. Non si può tralasciare nemmeno il riferimento geografico: il suo ritorno in Galilea, a Nazareth; non per sostare ma per ripartire ancora verso nord, verso la sua nuova dimora: Cafarnao. L’orizzonte della salvezza si sposta dai luoghi celebrati e cantati dai sacri testi, Gerusalemme e Betlemme, alla “via del mare, al di là del Giordano” (Mt 4,15), perché si adempisse la profezia di Isaia descritta al capitolo 9, un testo che abbiamo ascoltato per intero nella notte di Natale. La via del mare è illuminata dalla luce del Messia, un territorio sconosciuto, considerato al tempo di Gesù bisognoso di purificazione, perché “infestato” dalla promiscuità con altri popoli.  La terra di Zabulon e di Neftali, soggetta a continue invasioni e passaggio di popoli perché terra di confine, di periferia, non solo geograficamente, ma anche lontana dal cuore della fede d’Israele. A Nazareth, luogo “malfamato” e insignificante, come descritto da Natanaele (Gv 1,46) non giungono le melodie dei salmi cantati nel tempio di Gerusalemme, tantomeno raggiungono la città di Cafarnao, la cui melodia si compone delle voci del “compra e vendi” del commercio. Eppure Gesù sceglie come luogo delle sua residenza la città sul Mare di Galilea, anche se il suo domicilio risulterà sconosciuto a motivo del suo continuo peregrinare, senza la certezze di dove posare il capo (Lc 9,58). Un territorio che ci ricorda  Isaia “il Signore ha umiliato nel passato” (Is 8,23) ma ora renderà glorioso. Non sarà la liturgia del tempio di Gerusalemme a santificare quella terra, ma la presenza stessa di Colui che perennemente celebra il culto in Spirito e Verità. Non sarà nemmeno la memoria di antichi re come Davide di Betlemme, figure del Messia a garantire la traditio delle fede d’Israele, ma il “contaminarsi” con i peccatori e i pagani del Figlio di Dio, che porterà a compimento la storia della salvezza preannunciata dai profeti. La terra dei gentili diviene il luogo privilegiato da Dio, non solo per l’inizio dell’annuncio della buona notizia della venuta del Messia, ma lo diventa anche per la missione della Chiesa. Il Signore risorto attende i suoi in Galilea per essere inviati in tutto il mondo; il luogo della “ferialità” diviene il luogo della rivelazione del mistero della salvezza, dove la fede rende possibile i miracoli, dove la fede è accolta da cuori non incrostati da “superfetazioni teologiche” che rischiano di separare Dio dall’uomo. È qui, nella ferialità, luogo della vita quotidiana, che la risposta di fede all’incontro con il risorto, si trasforma nell’eccomi delle scelte della vita. Nelle “incursioni” del Risorto nella vita quotidiana dell’uomo, si celebra l’incontro d’amore di chi si è fatto dono e quando trova un cuore assetato d’amore e di giustizia, questo incontro genera un dinamismo che spinge al dono di sé. Solo un cuore semplice, non sopraffatto dagli egoismi, del potere, dei soldi, della sessualità smodata, consente di giocare la propria libertà investendola nel protagonismo della vita. Se l’alveo della risposta ad una chiamata all’amore che si fa dono, è il luogo della vita quotidiana e il contesto della ferialità, allora l’appello vocazionale non riguarda solo il singolo, ma le nostre stesse comunità affinché diventino grembo fecondo di umanità. Un importante insegnamento per le nostre comunità forse troppo assetate di preti e di culto, ma meno disposte a lasciarsi convertire da ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese. È una comunità credente e credibile che è capace di generare vocazioni all’amore e quindi anche al sacerdozio, non è un prete in più che che può cambiare il contesto.

Don Andrea Rossi

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La terza domenica del tempo ordinario segna il definitivo passaggio dalla profezia sul Regno alla realizzazione del Regno. Un tempo nuovo inizia: “Inizio della buona notizia (Evangelo) che è Gesù Cristo (Mc 1,1), questa buona novella può essere finalmente ascoltata dalla bocca stessa di Colui che è la Parola fatta carne. Questo passo parallelo dell’Evangelista Marco può fare da introduzione a questa domenica: Gesù Cristo è il Regno (Lc 17,21), questa è la vera buona notizia. Dopo il battesimo di Gesù e il compimento della missione profetica di Giovanni, “l’avvento” lascia il posto alla presenza della Parola incarnata che si fa Parola salvifica e sanante. Con L’uscita di scena gioiosa di Giovanni, amico dello sposo, (Gv 3,29-30) si apre la strada alla gioia del “popolo che abitava nelle tenebre”, la luce che è Cristo viene ad illuminare coloro che “abitavano in regione di morte” (Mt 4,16). È interessante cogliere l’indicazione temporale con cui inizia il Vangelo di questa settimana: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea”(Mt 4,12), perché sembra esprimere un certo atteggiamento rinunciatario da parte di Gesù motivato dal dolore per l’amico, ma in realtà sta germogliando il “Virgulto del tronco di Iesse” (Is 11,1) che spunta dalla dalla morte del chicco di grano, (Gv 12,24) macerato dalla testimonianza alla Verità. Non si può tralasciare nemmeno il riferimento geografico: il suo ritorno in Galilea, a Nazareth; non per sostare ma per ripartire ancora verso nord, verso la sua nuova dimora: Cafarnao. L’orizzonte della salvezza si sposta dai luoghi celebrati e cantati dai sacri testi, Gerusalemme e Betlemme, alla “via del mare, al di là del Giordano” (Mt 4,15), perché si adempisse la profezia di Isaia descritta al capitolo 9, un testo che abbiamo ascoltato per intero nella notte di Natale. La via del mare è illuminata dalla luce del Messia, un territorio sconosciuto, considerato al tempo di Gesù bisognoso di purificazione, perché “infestato” dalla promiscuità con altri popoli.  La terra di Zabulon e di Neftali, soggetta a continue invasioni e passaggio di popoli perché terra di confine, di periferia, non solo geograficamente, ma anche lontana dal cuore della fede d’Israele. A Nazareth, luogo “malfamato” e insignificante, come descritto da Natanaele (Gv 1,46) non giungono le melodie dei salmi cantati nel tempio di Gerusalemme, tantomeno raggiungono la città di Cafarnao, la cui melodia si compone delle voci del “compra e vendi” del commercio. Eppure Gesù sceglie come luogo delle sua residenza la città sul Mare di Galilea, anche se il suo domicilio risulterà sconosciuto a motivo del suo continuo peregrinare, senza la certezze di dove posare il capo (Lc 9,58). Un territorio che ci ricorda  Isaia “il Signore ha umiliato nel passato” (Is 8,23) ma ora renderà glorioso. Non sarà la liturgia del tempio di Gerusalemme a santificare quella terra, ma la presenza stessa di Colui che perennemente celebra il culto in Spirito e Verità. Non sarà nemmeno la memoria di antichi re come Davide di Betlemme, figure del Messia a garantire la traditio delle fede d’Israele, ma il “contaminarsi” con i peccatori e i pagani del Figlio di Dio, che porterà a compimento la storia della salvezza preannunciata dai profeti. La terra dei gentili diviene il luogo privilegiato da Dio, non solo per l’inizio dell’annuncio della buona notizia della venuta del Messia, ma lo diventa anche per la missione della Chiesa. Il Signore risorto attende i suoi in Galilea per essere inviati in tutto il mondo; il luogo della “ferialità” diviene il luogo della rivelazione del mistero della salvezza, dove la fede rende possibile i miracoli, dove la fede è accolta da cuori non incrostati da “superfetazioni teologiche” che rischiano di separare Dio dall’uomo. È qui, nella ferialità, luogo della vita quotidiana, che la risposta di fede all’incontro con il risorto, si trasforma nell’eccomi delle scelte della vita. Nelle “incursioni” del Risorto nella vita quotidiana dell’uomo, si celebra l’incontro d’amore di chi si è fatto dono e quando trova un cuore assetato d’amore e di giustizia, questo incontro genera un dinamismo che spinge al dono di sé. Solo un cuore semplice, non sopraffatto dagli egoismi, del potere, dei soldi, della sessualità smodata, consente di giocare la propria libertà investendola nel protagonismo della vita. Se l’alveo della risposta ad una chiamata all’amore che si fa dono, è il luogo della vita quotidiana e il contesto della ferialità, allora l’appello vocazionale non riguarda solo il singolo, ma le nostre stesse comunità affinché diventino grembo fecondo di umanità. Un importante insegnamento per le nostre comunità forse troppo assetate di preti e di culto, ma meno disposte a lasciarsi convertire da ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese. È una comunità credente e credibile che è capace di generare vocazioni all’amore e quindi anche al sacerdozio, non è un prete in più che che può cambiare il contesto.

Don Andrea Rossi

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Il Servo della volontà di Dio https://www.lavoce.it/servo-volonta-dio/ Thu, 16 Jan 2020 17:18:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56040 logo reubrica commento al Vangelo

“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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“Il giorno dopo” (Gv 1,29): così si apre il versetto biblico con cui inizia il Vangelo della II domenica del Tempo ordinario. Un’indicazione temporale che non troviamo nel testo del Vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, che lo tralascia per iniziare con “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui…”.

Dal battesimo di Gesù al Vangelo di domenica

Eppure l’inizio dell’anno liturgico è così permeato da quella celebrazione del mistero dell’Incarnazione - che si conclude con la festa del Battesimo di Gesù - che non è possibile procedere senza quel riferimento al “giorno prima”.

La festa celebrata domenica scorsa è una porta dalla quale si entra nella ferialità liturgica del Tempo ordinario, arricchiti dalla straordinarietà del tempo di Natale e carichi del Mistero celebrato. Per il cristiano, il giorno dopo “l’evento” non è un ricadere nella routine, ma avere la possibilità di sprigionare nel tempo quanto abbiamo assaporato dell’Eterno.

Giovanni Battista sembra essere il testimone del giorno prima che accompagna il tempo nuovo, e sa riconoscere l’uomo nuovo Gesù Cristo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Egli è consapevole del suo battesimo di conversione in attesa del battesimo nello Spirito.

Il suo stare consapevolmente nella tradizione del Primo Testamento non lo blocca di fronte alla no- vità dello Spirito e, pur “nell’ignoranza” affermata ben due volte (“Io non lo conoscevo”, Gv 1,31.33), sa cogliere la novità (v. 32). È questo lo sguardo sapienziale verso il passato! Non basta la conoscenza intellettuale dei testi sacri, né la conoscenza mnemonica del catechismo per essere maestri nella fede.

Il “gigante” Giovanni Battista si fa piccolo di fronte alla novità dello Spirito che reinterpreta i testi antichi con la luce che viene dall’uomo nuovo Gesù: l’Evangelo che dà compimento non solo al Primo Testamento ma alla storia stessa. Lui è il supremo legislatore perché - dice il Battista - “dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,30).

Prima lettura

L’antica profezia del Servo, in Isaia, acquista una luce nuova con l’ingresso nella storia del Figlio di Dio (Is 49,5) e trova in Gesù Cristo una chiara intellegibilità. Il Battista, precursore e testimone fedele del Messia, è tale anche nell’umiltà di sottomettersi alla volontà di Colui che lo ha chiamato.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro di Isaia 49,3.5-6

SALMO RESPONSORIALE Salmo 39 (40)

SECONDA LETTURA Dalla I Lettera di Paolo ai Corinzi 1,1-3

VANGELO Dal Vangelo di Giovanni 1,29-34

 

Salmo

Il Salmo 39 esprime certamente una lode a Dio per un intervento sperato e realizzato, rafforzando la fiducia in Colui che tutto può; ma esprime anche la disponibilità a quella volontà che realizza la propria vita, che porta nel cuore la legge stessa di Dio (vv. 8-9).

Si è fatto carne e si è fatto servo

“Farsi servo” e “fare la volontà”: sembra essere un unico atto, secondo la Parola che oggi riceviamo dalla liturgia. Possiamo riconoscere come attori principali di questo agire sia il Battista che Gesù stesso, il quale - nel suo essere da sempre rivolto presso il Padre in relazione intima con Lui (Gv 1,1) - accoglie l’appello del Padre stesso e l’appello di un’umanità bisognosa di un volto di tenerezza di Dio.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Si è fatto carne per regnare. Non secondo la logica dei re di questo mondo, che declinano il loro potere nel dominare fino a farsi tiranni, ma per farsi Servo fino a diventare l’Agnello immolato, così come Giovanni lo vede e lo annuncia al mondo. Gli angeli annunciano quel Dio che si fa bambino, Giovanni annuncia quel Dio fatto uomo che si fa servo e crocefisso: l’Agnello di Dio che toglie/porta il peccato del mondo.

“Chiamati” e “inviati”, due verbi che nella fede sono consequenziali, in intima connessione, legati da una mutua interiorità. Si è chiamati per essere inviati; l’essere inviati presuppone una chiamata, ma l’atto che declina questi due verbi è l’atto d’amore di Dio, che in modo unico e gratuito ci spinge a uscire da noi stessi.

Seconda lettura

Paolo descrive in modo mirabile l’esperienza dei chiamati: santificati in Cristo Gesù, santi insieme. Un altro binomio dinamico, che esclude un protagonismo egoistico anche nella fede, la quale presuppone l’umiltà dell’ascolto prima della presunzione della parola, perché per essere maestri occorre passare attraverso il vaglio del discepolato.

Quanti “maestri” oggi, senza essere stati discepoli, pontificano dall’alto della loro superbia, distribuendo pagelle ai Papi secondo i propri criteri, rimpiangendo una “Chiesa identitaria” senza alcuna profezia! A questi “profeti di sventura” lo Spirito risponde con la novità della sua azione, che fa sempre nuove tutte le cose e sceglie i Vicari di Cristo e successori di Pietro adatti a ogni tempo. Per questo, in questo tempo, ha scelto Papa Francesco.

Don Andrea Rossi

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Il coraggio di credere ai segni https://www.lavoce.it/coraggio-credere-segni/ Thu, 19 Dec 2019 17:13:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55950 logo reubrica commento al Vangelo

La quarta domenica di Avvento è come una terrazza dalla quale affacciarsi per cogliere l’evento stupendo del compiersi della salvezza: non la pioggia rumorosa di una perturbazione, ma la rugiada silenziosa, che feconda una terra pronta ad accogliere il seme della grazia creatrice. L’antifona di ingresso può ispirare questa lettura sintetica della celebrazione odierna.

Rorate coeli desuper, et nubes pluant iustum: aperiatur terra, et germinet Salvatorem dice il testo di Isaia 45,8, sottolineando l’azione creatrice di Dio nel mistero dell’Incarnazione che scende dall’alto, così come si rivela nell’Annunciazione. La redenzione ha inizio in quell’incontro, una rugiada che scende: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore”.

La creazione ha inizio con quella stessa rugiada che feconda le acque, grembo da cui scaturisce la vita. La creazione germoglia senza l’opera dell’uomo; la redenzione è resa possibile dall’“eccomi” umano di Maria e Giuseppe, così come l’evangelista Matteo ci narra nel Vangelo di oggi. L’annunciazione matteana, diversamente da Luca, sposta l’obiettivo su Giuseppe, l’uomo giusto, custode di Gesù e di Maria.

L’evangelista Matteo scrivendo alle comunità di lingua ebraica che conoscono i testi dell’Antico Testamento, presenta la nascita di Gesù come realizzazione delle profezie di “Colui che deve venire” (Mt 11,3), applicando a Maria il brano di Isaia 7,14: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. Il testo evangelico preciserà che Emmanuele “significa: Dio con noi” (Mt 1,23).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 7,10-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 1,1-7

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 1,18-24

Il brano inizia in modo narrativo ma repentino, con una sorta di titolo: “Così fu generato Gesù Cristo” (Mt 1,18). Il termine “generazione” usato in questo versetto si collega al verbo “generò” che percorre tutta la genealogia dei primi versetti, e non può non richiamare il termine Genesi, che rimanda agli inizi dell’intervento divino nella creazione.

Il brano per un attimo si sofferma su Maria, su quanto è accaduto dopo l’Annunciazione dell’angelo; poi entra nella vicenda di Giuseppe, che diventerà il personaggio principale della scena. Con poche righe il testo fa emergere l’inquietudine di Giuseppe: la sua promessa sposa, che non aveva fatto ancora il suo ingresso nella sua casa, attende un bambino. Il matrimonio ebraico considerava valido il vincolo matrimoniale, con tutte le conseguenze, fin dalla promessa, in attesa dell’ingresso della sposa in casa dello sposo.

È interessante l’atteggiamento di Giuseppe. Molti commenti descrivono questo turbamento, io vorrei introdurre questa chiave di lettura: Giuseppe di trova di fronte a un fatto, il figlio che Maria porta nel grembo non è suo... ma può Maria averlo tradito?

I fatti e la Legge producono delle conseguenze, e la successione prevede la denuncia e la pena. Non c’è spazio per l’azione di Dio in questa successione consequenziale. Giuseppe però si fida di Maria, ne conosce la rettitudine, si apre a un’altra possibilità. E dentro questo spazio di intimità, l’uomo giusto attende un segno, che arriva in sogno: gli parla “un angelo del Signore” (un altro, non Gabriele).

Alcuni studiosi fanno coincidere questa locuzione con l’intervento diretto di Dio: la Paternità divina conforta colui che sarà padre secondo la legge. Infatti, grazie a Giuseppe, Gesù entrerà nella discendenza davidica. Giuseppe darà il nome, lui ne sarà il custode, e il suo insegnamento forgerà l’umanità di Gesù. È grazie a questa paternità umana, nella casa di Nazareth, che Gesù saprà esercitare una “paternità” a immagine della paternità divina. Il segno atteso da Giuseppe, forse invocato più volte nella fede, esprime il totale abbandono alla volontà di Dio.

Il re Acaz, nel rispetto della Legge, non chiese un segno (Is 7,11), come dice Deuteronomio 6,16: “Non tenterete JHWH vostro Dio”. Ma quello di Acaz era rispetto della Legge, o incapacità di fidarsi del “Legislatore”, che è ben più della legge?

“È sua infatti la terra e quanto contiene… egli otterrà benedizione dal Signore”: il Salmo 23 può essere applicato alla fede di Giuseppe, che sa distinguere la legge, che passa, dalla fedeltà del Signore, che rimane per sempre. I fatti successivi dimostreranno che, al “segno” divino, Acaz preferisce le sicurezze umane, confidando nelle alleanze militari.

Chi invoca continuamente la legge rischia di farne un idolo, perché non lascia spazio alla creatività di Dio. Solo la fede sa riconoscere la Sua novità, e proverà a rispondere con qualche “balbettio”; ma il Signore può fare risuonare quel balbettio nell’eternità.

Don Andrea Rossi

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La quarta domenica di Avvento è come una terrazza dalla quale affacciarsi per cogliere l’evento stupendo del compiersi della salvezza: non la pioggia rumorosa di una perturbazione, ma la rugiada silenziosa, che feconda una terra pronta ad accogliere il seme della grazia creatrice. L’antifona di ingresso può ispirare questa lettura sintetica della celebrazione odierna.

Rorate coeli desuper, et nubes pluant iustum: aperiatur terra, et germinet Salvatorem dice il testo di Isaia 45,8, sottolineando l’azione creatrice di Dio nel mistero dell’Incarnazione che scende dall’alto, così come si rivela nell’Annunciazione. La redenzione ha inizio in quell’incontro, una rugiada che scende: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore”.

La creazione ha inizio con quella stessa rugiada che feconda le acque, grembo da cui scaturisce la vita. La creazione germoglia senza l’opera dell’uomo; la redenzione è resa possibile dall’“eccomi” umano di Maria e Giuseppe, così come l’evangelista Matteo ci narra nel Vangelo di oggi. L’annunciazione matteana, diversamente da Luca, sposta l’obiettivo su Giuseppe, l’uomo giusto, custode di Gesù e di Maria.

L’evangelista Matteo scrivendo alle comunità di lingua ebraica che conoscono i testi dell’Antico Testamento, presenta la nascita di Gesù come realizzazione delle profezie di “Colui che deve venire” (Mt 11,3), applicando a Maria il brano di Isaia 7,14: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. Il testo evangelico preciserà che Emmanuele “significa: Dio con noi” (Mt 1,23).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 7,10-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 23

SECONDA LETTURA Dalla Lettera ai Romani 1,1-7

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 1,18-24

Il brano inizia in modo narrativo ma repentino, con una sorta di titolo: “Così fu generato Gesù Cristo” (Mt 1,18). Il termine “generazione” usato in questo versetto si collega al verbo “generò” che percorre tutta la genealogia dei primi versetti, e non può non richiamare il termine Genesi, che rimanda agli inizi dell’intervento divino nella creazione.

Il brano per un attimo si sofferma su Maria, su quanto è accaduto dopo l’Annunciazione dell’angelo; poi entra nella vicenda di Giuseppe, che diventerà il personaggio principale della scena. Con poche righe il testo fa emergere l’inquietudine di Giuseppe: la sua promessa sposa, che non aveva fatto ancora il suo ingresso nella sua casa, attende un bambino. Il matrimonio ebraico considerava valido il vincolo matrimoniale, con tutte le conseguenze, fin dalla promessa, in attesa dell’ingresso della sposa in casa dello sposo.

È interessante l’atteggiamento di Giuseppe. Molti commenti descrivono questo turbamento, io vorrei introdurre questa chiave di lettura: Giuseppe di trova di fronte a un fatto, il figlio che Maria porta nel grembo non è suo... ma può Maria averlo tradito?

I fatti e la Legge producono delle conseguenze, e la successione prevede la denuncia e la pena. Non c’è spazio per l’azione di Dio in questa successione consequenziale. Giuseppe però si fida di Maria, ne conosce la rettitudine, si apre a un’altra possibilità. E dentro questo spazio di intimità, l’uomo giusto attende un segno, che arriva in sogno: gli parla “un angelo del Signore” (un altro, non Gabriele).

Alcuni studiosi fanno coincidere questa locuzione con l’intervento diretto di Dio: la Paternità divina conforta colui che sarà padre secondo la legge. Infatti, grazie a Giuseppe, Gesù entrerà nella discendenza davidica. Giuseppe darà il nome, lui ne sarà il custode, e il suo insegnamento forgerà l’umanità di Gesù. È grazie a questa paternità umana, nella casa di Nazareth, che Gesù saprà esercitare una “paternità” a immagine della paternità divina. Il segno atteso da Giuseppe, forse invocato più volte nella fede, esprime il totale abbandono alla volontà di Dio.

Il re Acaz, nel rispetto della Legge, non chiese un segno (Is 7,11), come dice Deuteronomio 6,16: “Non tenterete JHWH vostro Dio”. Ma quello di Acaz era rispetto della Legge, o incapacità di fidarsi del “Legislatore”, che è ben più della legge?

“È sua infatti la terra e quanto contiene… egli otterrà benedizione dal Signore”: il Salmo 23 può essere applicato alla fede di Giuseppe, che sa distinguere la legge, che passa, dalla fedeltà del Signore, che rimane per sempre. I fatti successivi dimostreranno che, al “segno” divino, Acaz preferisce le sicurezze umane, confidando nelle alleanze militari.

Chi invoca continuamente la legge rischia di farne un idolo, perché non lascia spazio alla creatività di Dio. Solo la fede sa riconoscere la Sua novità, e proverà a rispondere con qualche “balbettio”; ma il Signore può fare risuonare quel balbettio nell’eternità.

Don Andrea Rossi

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Il Mistero supera le attese https://www.lavoce.it/mistero-supera-attese/ Thu, 12 Dec 2019 13:55:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55849 logo reubrica commento al Vangelo

Il cammino liturgico dell’Avvento, con questa terza domenica, subisce un’accelerazione tematica verso il Natale. Il testo della colletta all’inizio della messa ci ricorda la prossimità della celebrazione “del grande mistero della salvezza” e l’antifona, quindi, invita l’assemblea a rallegrarsi perché “il Signore è vicino”.

Il testo che ci invita a gioire contagia anche il colore liturgico dell’abito del celebrante, con la possibilità di vestire la casula rosacea della domenica chiamata Gaudete.

Il clima ormai natalizio è invece tradotto nella liturgia, in particolare nel testo evangelico, con molti interrogativi. Il primo è posto sulla bocca di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3), altri sulla bocca di Gesù, che per ben tre volte scuote la folla chiedendo spiegazioni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? (Mt 11,7-9).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 35,1-6a.8a 10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 145 (146)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Giacomo 5,7-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 11,2-11

Una situazione paradossale: mentre tutto intorno a noi ci dice la certezza del Natale (quale Natale?), la liturgia ci costringe a riflettere su Chi stiamo aspettando, su cosa stiamo aspettando, e quindi sulla qualità dell’attesa.

I personaggi biblici di queste domeniche, Maria e Giovanni Battista, incarnano quanto la Parola ci propone: l’attesa, la mitezza, la pazienza (Gc 5,7-8), la piccolezza, perfino il dubbio. Sì, anche il dubbio è foriero di certezza se si accetta la sfida di una ricerca; sì, anche il dubbio è un elemento della fede, che esso cerca, e la trova in una relazione confidenziale che non ha timore di chiedere ed è paziente nell’attendere una riposta.

Sa attendere come il contadino che, dopo aver rimosso la certezza del raccolto dell’anno precedente, accetta la sfida del nuovo anno: rimuovere la terra, seminare, concimare, innaffiare e attendere… (Gc 5,7).

Nonostante il lungo cammino, tracciato dalle certezze confermate, la fede del contadino, la fede del Battista, la fede di Maria - la nostra fede, aggiungerei -, la fede dei Magi, la fede degli apostoli, non è mai data per acquisita una volta per tutte. Per rimanere fedeli è necessario accettare il rischio di cercare attraverso i segni, alcune volte ambigui, che la Provvidenza disvela sul nostro cammino.

È strana la risposta che riceve Giovanni attraverso i sui discepoli. Non un’affermazione, ma una profezia a cui rimandare, una profezia da decifrare (Is 35,5), che solo l’intima relazione con la “Parola” consente di leggere come risposta; e solo l’intima relazione con Lui consente di entrare dentro quella Parola che si è fatta carne.

Qui scorgiamo quell’intimità amicale tra Gesù e Giovanni. Un legame che rende superflua la risposta esplicita, perché gli amici trovano le certezze nelle confidenze, e la confidenza rende superfluo l’esplicito, che “costringe”, rispetto a un “implicito” che invece apre a una profondità che sa di eterno.

Lo “sposo” e l’“amico dello sposo”, incontratisi, per mezzo dello Spirito, nell’esultanza delle madri, rinnovano un dialogo amicale a distanza, confermandosi vicendevolmente nelle loro identità. Giovanni comprende che colui che ha annunciato è Colui che deve venire, è colui che ha indicato al fiume Giordano dopo il battesimo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Giovanni dal “Golgota” della sua prigione attesta la sua ultima testimonianza alla verità. Lui scompare per fare strada a Colui che è la Via, si lascia illuminare totalmente dalla Luce che rende superflua la lampada; come vero amico dello sposo, lascia la scena allo Sposo. Questo diminuire, che ha l’apparenza della morte, non è accompagnato dal “rito funebre” per il fallimento di una vita, ma dall’esultanza del compimento, che trasforma in speranza ciò che la disperazione aveva soggiogato (Is 35,15).

Ora Giovanni scopre ciò che aveva atteso, ma, soprattutto, scopre che ciò che attendeva ha superato le sue aspettative. La sua morte diventa un inno alla vita, da spendere senza nulla trattenere, nemmeno le sue “certezze” sulla fede, perché la fede non si lascia costringere nemmeno dalle “sante convinzioni”.

Una bella sfida anche per noi. Giovanni al termine della sua vita può pronunciare il suo nunc dimittis: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), i suoi occhi hanno veramente contemplato la salvezza. Questo appaga il senso di una vita, la cui gioia non dipende dalla durata ma dalla pienezza con cui si vive, costruita sull’“eccomi” trasformante, pronunciato come risposta a quella Parola che si è fatta carne.

Don Andrea Rossi

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Il cammino liturgico dell’Avvento, con questa terza domenica, subisce un’accelerazione tematica verso il Natale. Il testo della colletta all’inizio della messa ci ricorda la prossimità della celebrazione “del grande mistero della salvezza” e l’antifona, quindi, invita l’assemblea a rallegrarsi perché “il Signore è vicino”.

Il testo che ci invita a gioire contagia anche il colore liturgico dell’abito del celebrante, con la possibilità di vestire la casula rosacea della domenica chiamata Gaudete.

Il clima ormai natalizio è invece tradotto nella liturgia, in particolare nel testo evangelico, con molti interrogativi. Il primo è posto sulla bocca di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3), altri sulla bocca di Gesù, che per ben tre volte scuote la folla chiedendo spiegazioni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? (Mt 11,7-9).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 35,1-6a.8a 10

SALMO RESPONSORIALE Salmo 145 (146)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Giacomo 5,7-10

VANGELO Dal Vangelo secondo Matteo 11,2-11

Una situazione paradossale: mentre tutto intorno a noi ci dice la certezza del Natale (quale Natale?), la liturgia ci costringe a riflettere su Chi stiamo aspettando, su cosa stiamo aspettando, e quindi sulla qualità dell’attesa.

I personaggi biblici di queste domeniche, Maria e Giovanni Battista, incarnano quanto la Parola ci propone: l’attesa, la mitezza, la pazienza (Gc 5,7-8), la piccolezza, perfino il dubbio. Sì, anche il dubbio è foriero di certezza se si accetta la sfida di una ricerca; sì, anche il dubbio è un elemento della fede, che esso cerca, e la trova in una relazione confidenziale che non ha timore di chiedere ed è paziente nell’attendere una riposta.

Sa attendere come il contadino che, dopo aver rimosso la certezza del raccolto dell’anno precedente, accetta la sfida del nuovo anno: rimuovere la terra, seminare, concimare, innaffiare e attendere… (Gc 5,7).

Nonostante il lungo cammino, tracciato dalle certezze confermate, la fede del contadino, la fede del Battista, la fede di Maria - la nostra fede, aggiungerei -, la fede dei Magi, la fede degli apostoli, non è mai data per acquisita una volta per tutte. Per rimanere fedeli è necessario accettare il rischio di cercare attraverso i segni, alcune volte ambigui, che la Provvidenza disvela sul nostro cammino.

È strana la risposta che riceve Giovanni attraverso i sui discepoli. Non un’affermazione, ma una profezia a cui rimandare, una profezia da decifrare (Is 35,5), che solo l’intima relazione con la “Parola” consente di leggere come risposta; e solo l’intima relazione con Lui consente di entrare dentro quella Parola che si è fatta carne.

Qui scorgiamo quell’intimità amicale tra Gesù e Giovanni. Un legame che rende superflua la risposta esplicita, perché gli amici trovano le certezze nelle confidenze, e la confidenza rende superfluo l’esplicito, che “costringe”, rispetto a un “implicito” che invece apre a una profondità che sa di eterno.

Lo “sposo” e l’“amico dello sposo”, incontratisi, per mezzo dello Spirito, nell’esultanza delle madri, rinnovano un dialogo amicale a distanza, confermandosi vicendevolmente nelle loro identità. Giovanni comprende che colui che ha annunciato è Colui che deve venire, è colui che ha indicato al fiume Giordano dopo il battesimo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Giovanni dal “Golgota” della sua prigione attesta la sua ultima testimonianza alla verità. Lui scompare per fare strada a Colui che è la Via, si lascia illuminare totalmente dalla Luce che rende superflua la lampada; come vero amico dello sposo, lascia la scena allo Sposo. Questo diminuire, che ha l’apparenza della morte, non è accompagnato dal “rito funebre” per il fallimento di una vita, ma dall’esultanza del compimento, che trasforma in speranza ciò che la disperazione aveva soggiogato (Is 35,15).

Ora Giovanni scopre ciò che aveva atteso, ma, soprattutto, scopre che ciò che attendeva ha superato le sue aspettative. La sua morte diventa un inno alla vita, da spendere senza nulla trattenere, nemmeno le sue “certezze” sulla fede, perché la fede non si lascia costringere nemmeno dalle “sante convinzioni”.

Una bella sfida anche per noi. Giovanni al termine della sua vita può pronunciare il suo nunc dimittis: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), i suoi occhi hanno veramente contemplato la salvezza. Questo appaga il senso di una vita, la cui gioia non dipende dalla durata ma dalla pienezza con cui si vive, costruita sull’“eccomi” trasformante, pronunciato come risposta a quella Parola che si è fatta carne.

Don Andrea Rossi

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Amore e fedeltà di Dio … e di Maria https://www.lavoce.it/amore-fedelta-dio-maria/ Fri, 06 Dec 2019 08:07:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55794 logo reubrica commento al Vangelo

Il tempo di Avvento, attestano gli studiosi, è il vero “tempo mariano”. La tradizione popolare del mese di maggio dedicato alla Madonna è superata teologicamente nella sua “marianità” dal tempo di Avvento, dove giganteggia il Vangelo dell’Annunciazione.

È proposto nella solennità dell’Immacolata Concezione nella versione di Luca, e nella quarta domenica nella versione di Matteo. Una splendida sintesi della coloritura mariana del tempo di Avvento emerge dal prefazio II/A della liturgia di Avento: “Dall’antico avversario venne la rovina, / dal grembo verginale della figlia di Sion / è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli / ed è scaturita per tutto il genere umano / la salvezza e la pace. / La grazia che Eva ci tolse / ci è ridonata in Maria. / In lei, madre di tutti gli uomini, / la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, / si apre al dono della vita nuova”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 3,9-15.20

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 (98)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli Efesini 1,3-6.11-12

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38

Una vera sintesi teologica da cui emerge la profondità del mistero della Theotòkos, la Madre di Dio, così divinamente cantata da Dante nel XXXIII canto del Paradiso : “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio…” . La devozione mariana della Chiesa che è in Italia rende così popolare tale profondità teologica da sovvertire le norme liturgiche delle priorità celebrative: ogni volta che la solennità dell’Immacolata Concezione coincide con la domenica di Avvento, la prima precede liturgicamente la domenica propria.

Quest’anno, quindi, ci lasciamo guidare nella riflessione della II domenica di Avvento dai testi liturgici della solennità mariana. L’invocazione benedicente che introduce il testo di Paolo nella Lettera agli Efesini ha la sua radice nell’azione di benedizione del Padre, ricolmandoci di ogni grazia in Cristo. Il testo ci colloca tra i “prescelti prima della creazione”: una condizione, in un certo modo, non distante da quella dei nostri progenitori. La narrazione di Genesi quindi ci riguarda da vicino: la nostra umanità, il nostro essere uomini e donne porta dentro di sé il Dna del Creatore e, nello stesso tempo, il virus della sua negazione.

Il “dove sei?” di Dio (Gen 3,9) non indica l’incapacità del Creatore di ritrovare la sua creatura, ma la condizione da desaparecidos della creatura, che ha perso se stessa perché ha perso Dio, “via, verità e vita”. La paura scaturisce dalla nuova immagine che l’uomo si è fatto del suo Dio, un Dio a sua immagine che punisce, che si vendica per il torto subito.

Il “dove sei” sul versante del Creatore - che è Padre e “Consolatore” - indica il desiderio di Dio di andare a riprendere l’umanità là dove si è persa, e tale volontà inaugura il progetto di redenzione. La “tremenda vendetta” di Dio (per usare un linguaggio umano), invece, è il definitivo giudizio sull’uomo, Sua creatura, a cui viene ridonata la “libertà possibile” ferita dal peccato, e nello stesso tempo viene sancita la scelta irrevocabile del Tentatore, a cui non viene più concesso il potere di nuocere in modo irreparabile. La suprema giustizia diviene così sinonimo di misericordia.

Il cosiddetto “protovangelo” (Gen 3,15) anticipa l’alba di redenzione descritta nell’Annunciazione, a cui fa eco il canto nuovo del Salmo 98, che profeticamente vede il mistero dell’Incarnazione come suprema manifestazione di Dio. Amore e fedeltà non sono un atto ma un processo, una via che Dio traccia verso l’uomo, una via illuminata dalla Pasqua, visibile all’umanità per ricostruire la sua dignità e non consentire al virus del peccato di distruggere il Dna della santità.

La pienezza di grazia constatata dall’angelo in Maria (Lc 1,28) è la conferma che la libertà è la prima a essere ferita quando si apre la porta al peccato, lasciandoci convincere dalla tentazione. In Maria il progetto del Creatore trova invece la conferma, negata dai nostri progenitori, al progetto di una pienezza di vita in armonia con tutto il creato.

Dio, ricominciando daccapo, ha trovato una fanciulla nella quale ha voluto ricreare il prezioso giardino dell’Eden, dal quale far rinascere l’Uomo nuovo, il nuovo Adamo.

L’“eccomi” di Maria è il culmine di una fedeltà quotidiana che ha consentito la fedeltà di Dio annunciata nel libro della Genesi. Una fedeltà che spinge il Creatore alla contemplazione della sua opera: l’uomo a sua immagine e somiglianza. La fedeltà di Dio è stupendamente cantata nel Preconio pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, / che è stato distrutto con la morte del Cristo. / Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”.

Don Andrea Rossi

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Il tempo di Avvento, attestano gli studiosi, è il vero “tempo mariano”. La tradizione popolare del mese di maggio dedicato alla Madonna è superata teologicamente nella sua “marianità” dal tempo di Avvento, dove giganteggia il Vangelo dell’Annunciazione.

È proposto nella solennità dell’Immacolata Concezione nella versione di Luca, e nella quarta domenica nella versione di Matteo. Una splendida sintesi della coloritura mariana del tempo di Avvento emerge dal prefazio II/A della liturgia di Avento: “Dall’antico avversario venne la rovina, / dal grembo verginale della figlia di Sion / è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli / ed è scaturita per tutto il genere umano / la salvezza e la pace. / La grazia che Eva ci tolse / ci è ridonata in Maria. / In lei, madre di tutti gli uomini, / la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, / si apre al dono della vita nuova”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro della Genesi 3,9-15.20

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97 (98)

SECONDA LETTURA Dalla Lettera di Paolo agli Efesini 1,3-6.11-12

VANGELO Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38

Una vera sintesi teologica da cui emerge la profondità del mistero della Theotòkos, la Madre di Dio, così divinamente cantata da Dante nel XXXIII canto del Paradiso : “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio…” . La devozione mariana della Chiesa che è in Italia rende così popolare tale profondità teologica da sovvertire le norme liturgiche delle priorità celebrative: ogni volta che la solennità dell’Immacolata Concezione coincide con la domenica di Avvento, la prima precede liturgicamente la domenica propria.

Quest’anno, quindi, ci lasciamo guidare nella riflessione della II domenica di Avvento dai testi liturgici della solennità mariana. L’invocazione benedicente che introduce il testo di Paolo nella Lettera agli Efesini ha la sua radice nell’azione di benedizione del Padre, ricolmandoci di ogni grazia in Cristo. Il testo ci colloca tra i “prescelti prima della creazione”: una condizione, in un certo modo, non distante da quella dei nostri progenitori. La narrazione di Genesi quindi ci riguarda da vicino: la nostra umanità, il nostro essere uomini e donne porta dentro di sé il Dna del Creatore e, nello stesso tempo, il virus della sua negazione.

Il “dove sei?” di Dio (Gen 3,9) non indica l’incapacità del Creatore di ritrovare la sua creatura, ma la condizione da desaparecidos della creatura, che ha perso se stessa perché ha perso Dio, “via, verità e vita”. La paura scaturisce dalla nuova immagine che l’uomo si è fatto del suo Dio, un Dio a sua immagine che punisce, che si vendica per il torto subito.

Il “dove sei” sul versante del Creatore - che è Padre e “Consolatore” - indica il desiderio di Dio di andare a riprendere l’umanità là dove si è persa, e tale volontà inaugura il progetto di redenzione. La “tremenda vendetta” di Dio (per usare un linguaggio umano), invece, è il definitivo giudizio sull’uomo, Sua creatura, a cui viene ridonata la “libertà possibile” ferita dal peccato, e nello stesso tempo viene sancita la scelta irrevocabile del Tentatore, a cui non viene più concesso il potere di nuocere in modo irreparabile. La suprema giustizia diviene così sinonimo di misericordia.

Il cosiddetto “protovangelo” (Gen 3,15) anticipa l’alba di redenzione descritta nell’Annunciazione, a cui fa eco il canto nuovo del Salmo 98, che profeticamente vede il mistero dell’Incarnazione come suprema manifestazione di Dio. Amore e fedeltà non sono un atto ma un processo, una via che Dio traccia verso l’uomo, una via illuminata dalla Pasqua, visibile all’umanità per ricostruire la sua dignità e non consentire al virus del peccato di distruggere il Dna della santità.

La pienezza di grazia constatata dall’angelo in Maria (Lc 1,28) è la conferma che la libertà è la prima a essere ferita quando si apre la porta al peccato, lasciandoci convincere dalla tentazione. In Maria il progetto del Creatore trova invece la conferma, negata dai nostri progenitori, al progetto di una pienezza di vita in armonia con tutto il creato.

Dio, ricominciando daccapo, ha trovato una fanciulla nella quale ha voluto ricreare il prezioso giardino dell’Eden, dal quale far rinascere l’Uomo nuovo, il nuovo Adamo.

L’“eccomi” di Maria è il culmine di una fedeltà quotidiana che ha consentito la fedeltà di Dio annunciata nel libro della Genesi. Una fedeltà che spinge il Creatore alla contemplazione della sua opera: l’uomo a sua immagine e somiglianza. La fedeltà di Dio è stupendamente cantata nel Preconio pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, / che è stato distrutto con la morte del Cristo. / Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”.

Don Andrea Rossi

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È ora di svegliarsi! https://www.lavoce.it/ora-svegliarsi/ Fri, 29 Nov 2019 12:47:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55757 logo reubrica commento al Vangelo

[caption id="attachment_55760" align="alignleft" width="200"] Don Andrea Rossi[/caption]

Da questa settimana, a scrivere per noi il commento alla Parola di Dio domenicale sarà don Andrea Rossi. Nel salutarlo con affetto, ospitando il suo primo contributo, ringraziamo Giuseppina Bruscolotti che ci ha aiutato a meditare i due Testamenti in questi ultimi anni.

Qualche nota biografica su don Andrea Rossi. Nato a Orvieto il 19 gennaio 1968, fin da giovanissimo è stato particolarmente attivo nella vita ecclesiale e sociale del suo paese di origine, Baschi, dove è stato anche consigliere comunale (oltre che un ottimo giocatore di calcio!). Consegue il diploma in Ragioneria ed esercita la professione fino all’età di 28 anni, quando decide di entrare in Seminario.Il 29 giugno 2002 viene ordinato sacerdote da mons. Decio Lucio Grandoni.

Presso il Seminario regionale di Assisi è anche stato per due volte vice rettore, molto stimato dai seminaristi e responsabile propedeutico, mentre nella diocesi di Orvieto-Todi ha diretto per diverso tempo gli uffici di Pastoralegiovanile e vocazionale. Molto importanti nel suo cammino umano e spirituale sono sicuramente stati la missione della Chiesa di Orvieto-Todi in Albania, alla quale ha partecipato con zelo ed entusiasmo più volte, e l’Azione cattolica, di cui oggi è assistente unitario sia a livello diocesano che regionale.

Attualmente vive a Collepepe insieme al giovane sacerdote don Lorenzo Romagna. Ai due presbiteri è affidata la guida di sei parrocchie: Collepepe, Collazzone, Gaglietole, Ripabianca, Casalalta-Canalicchio ed Ammeto. Don Andrea è anche moderatore dell’Unità pastorale San Cassiano e vicario foraneo del Vicariato di San Terenziano. Dal dicembre 2013, il vescovo Benedetto Tuzia lo ha nominato presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero; ruolo da subito svolto con competenza e con notevole impegno, lo stesso che sempre profonde in ogni ambito del suo ministero presbiterale.

L’inizio dell’Avvento è preceduto da alcuni gesti: il cambio del volume del breviario, la sostituzione del lezionario, la ricollocazione delle “strisce di stoffa” del messale sul “Proprio” della celebrazione e dei prefazi specifici. Gesti semplici, pratici, forse banali, che non richiedono, per la loro strumentalità, una particolare riflessione. Eppure ci consentono di riaprire l’orizzonte sul significato del tempo. Il tempo nuovo che ci propone la liturgia e, con un po’ di attenzione, anche un esame di coscienza sul tempo trascorso.

Ogni anno ci troviamo a celebrare l’Avvento: una ripetitività alienante che spinge a trovare surrogati di straordinarietà, o consapevolezza dell’attimo che segna il presente in modo unico e irripetibile? Un “eterno ritorno” o un incedere fatto di tornanti che ci portano alla sommità dell’eternità?

Il Vangelo di Matteo, che ci accompagnerà per tutto questo anno liturgico, ci mostra attraverso le parole di Gesù, narrandoci fatti passati, come nella quotidianità eventi straordinari segnano il presente e ipotecano il futuro: “Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti...”.

L’attenzione sul momento contingente non chiude lo sguardo sul presente, ma, a partire dalla situazione concreta della vita, il profeta ci insegna - guidati dallo Spirito - che è possibile allargare lo sguardo sul futuro, addirittura squarciare il velo che ci separa dall’eternità.

“Alla fine dei giorni”: così il testo del profeta Isaia ci introduce nel tempo di Avvento e dà senso a un’attesa che va oltre il contesto storico - il suo e del popolo d’Israele - , ma nello stesso tempo anche al nostro attendere, perché la liturgia ha questa potenza.

La parola del profeta risuona con parole simili anche in Michea 4,1-5: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno i popoli”.

Una visione rivelativa che un altro veggente svilupperà in altro libro biblico: l’ Apocalisse, dove la persecuzione cristiana non genera disperazione, e la testimonianza rivela una piena e totale identificazione con Cristo.

È un altro testo fondamentale per misurare la qualità della nostra vita di fede, che attraverso continue sovrapposizioni di immagine ci dà il senso e il fine della storia.

Le nostre attese, le nostre speranze hanno una prospettiva nella fede che appaga le nostre aspirazioni di pace, di giustizia, perché solo il Signore sarà il giudice, e solo la sua giustizia è foriera di pace - così ci indica ancora Gesù in questa pagina di Vangelo. La qualità del nostro attendere dipende dalla qualità di ciò che attendiamo e da quanto siamo disposti a lottare per costruire il futuro già scritto dalla vittoria di Cristo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 2,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 121

SECONDA LETTURA Dalla lettera di Paolo ai Romani 13,11-14a

VANGELO Dal vangelo di Matteo 24,37-44

C’è una visione in Isaia che ci fa sognare: un cammino di popoli disposti a uscire dai propri egoismi, in cui le identità non si trasformano in un grigiore indistinto, ma rendono visibile tutte le cromie della creazione, e in cammino ricercano la pienezza, coerente con il progetto dell’inizio, ma che la storia ha deviato. Camminando sui sentieri del Signore, si riscoprono figli di un unico Padre.

La pace diviene allora non solo un progetto ma il dinamismo trasformante la realtà stessa: ciò che è servito per la guerra si fa strumento di equità, perché tutti abbiano il necessario raggiungendo la giustizia, condizione indispensabile per la pace. Un dono, e nello stesso tempo una conquista.

Un dono da chiedere, che non ci esime dall’essere costruttori di pace. Una conquista che richiede una disponibilità alla lotta, nell’umile atteggiamento del mite che non si piega, ma è disposto a pagare di persona per realizzarla. Dalla visione di Isaia all’imperativo di Paolo di “svegliarsi dal sonno”, motivato dalla prossimità della salvezza. Il passo sembra breve, per sottolineare che l’avvicendarsi dei giorni avvicina al momento dell’incontro con il Signore, di cui non si conosce l’effettiva realizzazione. Nessuno conosce il tempo e l’ora, ma è certo che verrà.

Da qui l’invito alla prontezza che ci rivolge il Vangelo, come il padrone che non conosce l’ora in cui il ladro “visiterà” la sua casa. Dalla similitudine alla realtà, Paolo ci invita a “comportarci onestamente, come in pieno giorno”, alla luce del sole, perché le tenebre sono il luogo del male dove impera il signore delle tenebre.

Ma noi siamo “figli della luce”, chiamati a rinnegare le tenebre perché abbiamo conosciuto colui che è “Luce da Luce”, venuto nella carne. Lo attendiamo nella sua seconda venuta, e lo contempliamo e lo accogliamo ora nel sacramento della sua presenza: quella liturgica, e soprattutto in coloro che lo rivelano nella povertà della condizione umana, verso i quali ogni cosa che facciamo l’abbiamo fatta a Lui.

Don Andrea Rossi

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[caption id="attachment_55760" align="alignleft" width="200"] Don Andrea Rossi[/caption]

Da questa settimana, a scrivere per noi il commento alla Parola di Dio domenicale sarà don Andrea Rossi. Nel salutarlo con affetto, ospitando il suo primo contributo, ringraziamo Giuseppina Bruscolotti che ci ha aiutato a meditare i due Testamenti in questi ultimi anni.

Qualche nota biografica su don Andrea Rossi. Nato a Orvieto il 19 gennaio 1968, fin da giovanissimo è stato particolarmente attivo nella vita ecclesiale e sociale del suo paese di origine, Baschi, dove è stato anche consigliere comunale (oltre che un ottimo giocatore di calcio!). Consegue il diploma in Ragioneria ed esercita la professione fino all’età di 28 anni, quando decide di entrare in Seminario.Il 29 giugno 2002 viene ordinato sacerdote da mons. Decio Lucio Grandoni.

Presso il Seminario regionale di Assisi è anche stato per due volte vice rettore, molto stimato dai seminaristi e responsabile propedeutico, mentre nella diocesi di Orvieto-Todi ha diretto per diverso tempo gli uffici di Pastoralegiovanile e vocazionale. Molto importanti nel suo cammino umano e spirituale sono sicuramente stati la missione della Chiesa di Orvieto-Todi in Albania, alla quale ha partecipato con zelo ed entusiasmo più volte, e l’Azione cattolica, di cui oggi è assistente unitario sia a livello diocesano che regionale.

Attualmente vive a Collepepe insieme al giovane sacerdote don Lorenzo Romagna. Ai due presbiteri è affidata la guida di sei parrocchie: Collepepe, Collazzone, Gaglietole, Ripabianca, Casalalta-Canalicchio ed Ammeto. Don Andrea è anche moderatore dell’Unità pastorale San Cassiano e vicario foraneo del Vicariato di San Terenziano. Dal dicembre 2013, il vescovo Benedetto Tuzia lo ha nominato presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero; ruolo da subito svolto con competenza e con notevole impegno, lo stesso che sempre profonde in ogni ambito del suo ministero presbiterale.

L’inizio dell’Avvento è preceduto da alcuni gesti: il cambio del volume del breviario, la sostituzione del lezionario, la ricollocazione delle “strisce di stoffa” del messale sul “Proprio” della celebrazione e dei prefazi specifici. Gesti semplici, pratici, forse banali, che non richiedono, per la loro strumentalità, una particolare riflessione. Eppure ci consentono di riaprire l’orizzonte sul significato del tempo. Il tempo nuovo che ci propone la liturgia e, con un po’ di attenzione, anche un esame di coscienza sul tempo trascorso.

Ogni anno ci troviamo a celebrare l’Avvento: una ripetitività alienante che spinge a trovare surrogati di straordinarietà, o consapevolezza dell’attimo che segna il presente in modo unico e irripetibile? Un “eterno ritorno” o un incedere fatto di tornanti che ci portano alla sommità dell’eternità?

Il Vangelo di Matteo, che ci accompagnerà per tutto questo anno liturgico, ci mostra attraverso le parole di Gesù, narrandoci fatti passati, come nella quotidianità eventi straordinari segnano il presente e ipotecano il futuro: “Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti...”.

L’attenzione sul momento contingente non chiude lo sguardo sul presente, ma, a partire dalla situazione concreta della vita, il profeta ci insegna - guidati dallo Spirito - che è possibile allargare lo sguardo sul futuro, addirittura squarciare il velo che ci separa dall’eternità.

“Alla fine dei giorni”: così il testo del profeta Isaia ci introduce nel tempo di Avvento e dà senso a un’attesa che va oltre il contesto storico - il suo e del popolo d’Israele - , ma nello stesso tempo anche al nostro attendere, perché la liturgia ha questa potenza.

La parola del profeta risuona con parole simili anche in Michea 4,1-5: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno i popoli”.

Una visione rivelativa che un altro veggente svilupperà in altro libro biblico: l’ Apocalisse, dove la persecuzione cristiana non genera disperazione, e la testimonianza rivela una piena e totale identificazione con Cristo.

È un altro testo fondamentale per misurare la qualità della nostra vita di fede, che attraverso continue sovrapposizioni di immagine ci dà il senso e il fine della storia.

Le nostre attese, le nostre speranze hanno una prospettiva nella fede che appaga le nostre aspirazioni di pace, di giustizia, perché solo il Signore sarà il giudice, e solo la sua giustizia è foriera di pace - così ci indica ancora Gesù in questa pagina di Vangelo. La qualità del nostro attendere dipende dalla qualità di ciò che attendiamo e da quanto siamo disposti a lottare per costruire il futuro già scritto dalla vittoria di Cristo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Isaia 2,1-5

SALMO RESPONSORIALE Salmo 121

SECONDA LETTURA Dalla lettera di Paolo ai Romani 13,11-14a

VANGELO Dal vangelo di Matteo 24,37-44

C’è una visione in Isaia che ci fa sognare: un cammino di popoli disposti a uscire dai propri egoismi, in cui le identità non si trasformano in un grigiore indistinto, ma rendono visibile tutte le cromie della creazione, e in cammino ricercano la pienezza, coerente con il progetto dell’inizio, ma che la storia ha deviato. Camminando sui sentieri del Signore, si riscoprono figli di un unico Padre.

La pace diviene allora non solo un progetto ma il dinamismo trasformante la realtà stessa: ciò che è servito per la guerra si fa strumento di equità, perché tutti abbiano il necessario raggiungendo la giustizia, condizione indispensabile per la pace. Un dono, e nello stesso tempo una conquista.

Un dono da chiedere, che non ci esime dall’essere costruttori di pace. Una conquista che richiede una disponibilità alla lotta, nell’umile atteggiamento del mite che non si piega, ma è disposto a pagare di persona per realizzarla. Dalla visione di Isaia all’imperativo di Paolo di “svegliarsi dal sonno”, motivato dalla prossimità della salvezza. Il passo sembra breve, per sottolineare che l’avvicendarsi dei giorni avvicina al momento dell’incontro con il Signore, di cui non si conosce l’effettiva realizzazione. Nessuno conosce il tempo e l’ora, ma è certo che verrà.

Da qui l’invito alla prontezza che ci rivolge il Vangelo, come il padrone che non conosce l’ora in cui il ladro “visiterà” la sua casa. Dalla similitudine alla realtà, Paolo ci invita a “comportarci onestamente, come in pieno giorno”, alla luce del sole, perché le tenebre sono il luogo del male dove impera il signore delle tenebre.

Ma noi siamo “figli della luce”, chiamati a rinnegare le tenebre perché abbiamo conosciuto colui che è “Luce da Luce”, venuto nella carne. Lo attendiamo nella sua seconda venuta, e lo contempliamo e lo accogliamo ora nel sacramento della sua presenza: quella liturgica, e soprattutto in coloro che lo rivelano nella povertà della condizione umana, verso i quali ogni cosa che facciamo l’abbiamo fatta a Lui.

Don Andrea Rossi

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Il tempo è vicino https://www.lavoce.it/tempo-vicino/ Fri, 15 Nov 2019 17:29:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55728 logo reubrica commento al Vangelo

“Io ho progetti di pace e non di sventura, voi mi invocherete e io vi esaudirò”, annuncia l’Antifona d’ingresso anticipando il messaggio luminoso anziché tenebroso come potrebbe risultare ad un ascolto superficiale della liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo ordinario.

Prima lettura

La prima lettura tratta dal libro del profeta Malachia parla infatti di “superbi” che verranno resi come “paglia”, bruciati, privi di “radice” e di “germoglio”. Malachia riflette il clima del suo tempo caratterizzato da apatia e da disinteresse e sfiducia nei riguardi del divino. Probabilmente la sua attività viene esercitata tra il periodo della ricostruzione del tempio (515) e quello della riforma di Esdra e Neemia, una fase in cui l’entusiasmo del ‘ritorno’ aveva ceduto il passo all’appiattimento morale e religioso.

Soprattutto viene messa in discussione la logica retributiva, come se Dio non tenesse conto delle azioni degli uomini e delle loro conseguenze. Ma il Signore tramite Malachia addita agli scettici il ‘giorno del giudizio’ che tuttavia per quanti temono il suo nome non sarà di sventura perché per essi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale (97) ci presenta il Signore in qualità di giudice. La liturgia ci propone l’ascolto degli ultimi versetti, là dove il salmista menziona gli strumenti utilizzati per la lode tributata nel tempio (cetra, strumenti a corde, tromba, corno) abbinandoli alla vivace festa che la natura fa “davanti al re che viene a giudicare la terra”.

Parla di mare che risuona, di fiumi che battono le mani, di montagne che esultano, insomma gli elementi della natura si ‘umanizzano’ e producono una lode cosmica che esalta il Signore il cui giudizio dei popoli è giusto e retto.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Malachia 3,19-20a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II lettera di Paolo ai tessalonicesi 3,7-12

VANGELO Vangelo di Luca 21,5-19

 

Seconda lettura

La seconda Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi affronta una questione un po’ delicata cui l’autore cerca di riparare con paterna ed autorevole direzione. Si è infatti resa nota la vita disordinata che alcuni membri della comunità conducono consistente nella trascuratezza degli impegni lavorativi e nella perdita di tempo in attività inutili.

Mentre in altri ambiti della stessa Lettera questa devianza è dovuta alla convinzione dell’imminenza del ‘giorno del Signore’ per cui è vano darsi da fare, in questo caso è da attribuire ad un vero e proprio stato di pigrizia che ha coinvolto anche alcuni credenti e che turba la convivenza civile e religiosa. L’apostolo interviene intimando ai lettori di vivere onestamente, abbandonando agitazioni e allarmismi e soprattutto di “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca è tratta dal cap. 21, capitolo immediatamente precedente quello del racconto della Passione. Gesù si trova infatti nel Tempio e tiene l’ultimo discorso pubblico che questa volta verte intorno ai tempi escatologici. Il pretesto è proprio il tempio, “ornato di belle pietre”, ma per il quale Gesù ‘annuncia’ la fine imminente verificatasi poi nel 70 d.C. ad opera del (futuro imperatore) Tito Flavio Vespasiano. 

Alla domanda posta da alcuni “quando?”, Gesù risponde elencando alcuni segni, ma soprattutto proponendo un atteggiamento da osservare: stare in guardia dai falsi maestri!

Al tempo di Gesù si presentavano di tanto in tanto sedicenti messia che trasmettevano timore e ansia tra il popolo annunciando l’arrivo della fine del mondo. Eventi come guerre o carestie potevano essere interpretati come conferma delle funeste profezie. Anche Gesù si rifà al linguaggio apocalittico annunciando sconvolgenti fenomeni celesti, ma lo scopo del suo insegnamento non è quello di incutere paura ma di assicurare che il corso degli eventi naturali e sociali, è nelle mani di Dio.

Nel seguito del testo il messaggio si fa più evidente. Gesù parla esplicitamente di “sinagoghe”, di “re e governanti”, di difese nei “tribunali”, di persecuzioni non solo dall’esterno ma anche all’interno della comunità e delle famiglie. Ma sta proprio qui la chiave di tutto! Come è nello stile di Gesù, le situazioni si rovesciano: ciò che apparentemente segna la sconfitta, la fine di tutto, si trasforma in fecondità e nascita!

In questo contesto tribolato, la perseveranza nella fede letteralmente- “guadagna” le vite: è quanto la storia del cristianesimo ha poi costatato, ovvero che “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani” (Tertulliano). La perseveranza del credente, specie nel momento della prova, produce una testimonianza di inaudita fecondità spirituale.

La pagina del Vangelo ci chiede di non pensare solo a noi stessi ma di dare una coerente testimonianza di fede che giova anche a chi ci osserva certi che anche il più minimo atto che offriamo per amore ha un valore infinito perché è la parola di Gesù ad assicurarcelo: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

Giuseppina Bruscolotti

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“Io ho progetti di pace e non di sventura, voi mi invocherete e io vi esaudirò”, annuncia l’Antifona d’ingresso anticipando il messaggio luminoso anziché tenebroso come potrebbe risultare ad un ascolto superficiale della liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo ordinario.

Prima lettura

La prima lettura tratta dal libro del profeta Malachia parla infatti di “superbi” che verranno resi come “paglia”, bruciati, privi di “radice” e di “germoglio”. Malachia riflette il clima del suo tempo caratterizzato da apatia e da disinteresse e sfiducia nei riguardi del divino. Probabilmente la sua attività viene esercitata tra il periodo della ricostruzione del tempio (515) e quello della riforma di Esdra e Neemia, una fase in cui l’entusiasmo del ‘ritorno’ aveva ceduto il passo all’appiattimento morale e religioso.

Soprattutto viene messa in discussione la logica retributiva, come se Dio non tenesse conto delle azioni degli uomini e delle loro conseguenze. Ma il Signore tramite Malachia addita agli scettici il ‘giorno del giudizio’ che tuttavia per quanti temono il suo nome non sarà di sventura perché per essi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale (97) ci presenta il Signore in qualità di giudice. La liturgia ci propone l’ascolto degli ultimi versetti, là dove il salmista menziona gli strumenti utilizzati per la lode tributata nel tempio (cetra, strumenti a corde, tromba, corno) abbinandoli alla vivace festa che la natura fa “davanti al re che viene a giudicare la terra”.

Parla di mare che risuona, di fiumi che battono le mani, di montagne che esultano, insomma gli elementi della natura si ‘umanizzano’ e producono una lode cosmica che esalta il Signore il cui giudizio dei popoli è giusto e retto.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal libro del profeta Malachia 3,19-20a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II lettera di Paolo ai tessalonicesi 3,7-12

VANGELO Vangelo di Luca 21,5-19

 

Seconda lettura

La seconda Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi affronta una questione un po’ delicata cui l’autore cerca di riparare con paterna ed autorevole direzione. Si è infatti resa nota la vita disordinata che alcuni membri della comunità conducono consistente nella trascuratezza degli impegni lavorativi e nella perdita di tempo in attività inutili.

Mentre in altri ambiti della stessa Lettera questa devianza è dovuta alla convinzione dell’imminenza del ‘giorno del Signore’ per cui è vano darsi da fare, in questo caso è da attribuire ad un vero e proprio stato di pigrizia che ha coinvolto anche alcuni credenti e che turba la convivenza civile e religiosa. L’apostolo interviene intimando ai lettori di vivere onestamente, abbandonando agitazioni e allarmismi e soprattutto di “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca è tratta dal cap. 21, capitolo immediatamente precedente quello del racconto della Passione. Gesù si trova infatti nel Tempio e tiene l’ultimo discorso pubblico che questa volta verte intorno ai tempi escatologici. Il pretesto è proprio il tempio, “ornato di belle pietre”, ma per il quale Gesù ‘annuncia’ la fine imminente verificatasi poi nel 70 d.C. ad opera del (futuro imperatore) Tito Flavio Vespasiano. 

Alla domanda posta da alcuni “quando?”, Gesù risponde elencando alcuni segni, ma soprattutto proponendo un atteggiamento da osservare: stare in guardia dai falsi maestri!

Al tempo di Gesù si presentavano di tanto in tanto sedicenti messia che trasmettevano timore e ansia tra il popolo annunciando l’arrivo della fine del mondo. Eventi come guerre o carestie potevano essere interpretati come conferma delle funeste profezie. Anche Gesù si rifà al linguaggio apocalittico annunciando sconvolgenti fenomeni celesti, ma lo scopo del suo insegnamento non è quello di incutere paura ma di assicurare che il corso degli eventi naturali e sociali, è nelle mani di Dio.

Nel seguito del testo il messaggio si fa più evidente. Gesù parla esplicitamente di “sinagoghe”, di “re e governanti”, di difese nei “tribunali”, di persecuzioni non solo dall’esterno ma anche all’interno della comunità e delle famiglie. Ma sta proprio qui la chiave di tutto! Come è nello stile di Gesù, le situazioni si rovesciano: ciò che apparentemente segna la sconfitta, la fine di tutto, si trasforma in fecondità e nascita!

In questo contesto tribolato, la perseveranza nella fede letteralmente- “guadagna” le vite: è quanto la storia del cristianesimo ha poi costatato, ovvero che “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani” (Tertulliano). La perseveranza del credente, specie nel momento della prova, produce una testimonianza di inaudita fecondità spirituale.

La pagina del Vangelo ci chiede di non pensare solo a noi stessi ma di dare una coerente testimonianza di fede che giova anche a chi ci osserva certi che anche il più minimo atto che offriamo per amore ha un valore infinito perché è la parola di Gesù ad assicurarcelo: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

Giuseppina Bruscolotti

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“Io credo: risorgerò” https://www.lavoce.it/io-credo-risorgero/ Fri, 08 Nov 2019 18:16:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55710 logo reubrica commento al Vangelo

“Il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna”, ascoltiamo domenica - XXXII del Tempo ordinario - dal Secondo libro dei Maccabei.

Prima lettura

Ad affermarlo è uno dei “sette fratelli” martirizzati per la causa del Signore Dio d’Israele. L’episodio è collocato nel periodo in cui la Giudea è stata dominata dal crudele Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), sovrano seleucide che ha promosso un’azione politica finalizzata a distruggere le tradizioni religiose giudaiche. Questo il contesto.

Avendo vista fallire la conquista dell’Egitto (168 a.C.), Antioco IV si dirige a Gerusalemme, la devasta, comincia a perseguitare gli ebrei, fa bruciare le sacre Scritture, depreda e profana il Tempio, vieta - sotto minaccia di morte - la circoncisione, l’alimentazione kasher e l’osservanza del sabato.

In questa fase, e prima della riconquista da parte di Giuda Maccabeo, si pone la narrazione relativa a una donna e ai suoi sette figli, colpevoli di non aver voluto mangiare carni suine per fedeltà ai loro princìpi religiosi.

Viene quindi descritto il processo in tutta la sua atrocità perché, via via, ognuno dei sette figli viene istigato a profanare la Legge con torture e mutilazioni corporali. Ma, sorretti dall’eroica fede della madre, tutti e sette accettano di morire, certi che “è preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale Salmo 16 riguarda la supplica di un perseguitato.

Si tratta di David, in fuga dalla violenta crisi di gelosia impadronitasi del cuore e della mente di re Saul, che lo cerca per ucciderlo.

David allora si affida consapevolmente al Signore, che lo “ascolta”: il nemico non può prevalere, anche perché il Signore custodisce il Suo consacrato “come pupilla degli occhi”, espressione per dire che il Signore ne ha una cura paragonabile a quella che si ha per gli occhi, gli organi più delicati e più preziosi del corpo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei maccabei 7,1-2.9-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 16

Seconda lettura

Circa la pagina della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (il seguito di quella ascoltata domenica scorsa), è interessante notare che questa volta sono i mittenti a chiedere ai destinatari di pregare per loro, e il motivo è sempre la causa del Vangelo, perché “la parola del Signore corra e sia glorificata”.

Come nella I lettura e nel Salmo, anche qui l’autore menziona gli “uomini corrotti e malvagi” probabilmente gli oppositori del Vangelo - dalle minacce dei quali auspica di essere liberato. Per sé e per i lettori, l’Apostolo annuncia tuttavia l’esito vittorioso perché fonda la certezza sul Signore che “è fedele” e per questo li “custodirà dal maligno”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci presenta l’incontro di Gesù con i sadducei intorno alla questione della risurrezione. I sadducei erano gli aristocratici della ‘casta’ sacerdotale e la loro peculiarità era quella di ritenere autorevole solo la parte della Bibbia coincidente con il Pentateuco.

In virtù di questo, non credevano nella risurrezione dei morti, ambito teologico che riguarderebbe altri libri della Bibbia, ma non il Pentateuco. Ciò che chiedono a Gesù in merito al caso della donna sposata sette volte, e al suo destino oltre la morte, non è mosso da sincero interesse, ma dalla volontà di ridicolizzare Gesù.

La questione è anche posta in modo preciso perché i sadducei si appellano al precetto del ‘levirato’ (Dt 25), secondo cui se un uomo muore senza aver generato figli, la vedova deve sposarsi con il fratello di lui e dare alla luce dei figli, dei quali il primogenito continuerà legalmente la discendenza del defunto.

Qui si pone il caso particolare di una donna sposata con sette fratelli, uno dopo l’altro, per ottenere da almeno uno di loro la continuità legale del primo marito defunto, ma non riesce ad avere figli. Dunque, “alla risurrezione, di chi sarà moglie?”.

La risposta di Gesù che ammutolisce i sadducei, e che conferma la risurrezione, viene fondata proprio su uno di quei libri studiati dai sadducei. Gesù cita infatti l’ Esodo (3,15) che presenta il Signore come “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” ovvero il Signore della vita che ha stretto un’alleanza eterna con quanti hanno risposto alla Sua chiamata.

Gesù non fa altro che additare la Scrittura, e i libri del Pentateuco in particolare, come punto di partenza per la verità sulla risurrezione. E il testo continua: “Dissero alcuni degli scribi: ‘Maestro, hai detto bene’”.

Il dialogo è iniziato con la provocazione dei sadducei e concluso con l’approvazione degli scribi. Non che Gesù abbia bisogno di esperti in sacra Scrittura (scribi) per confermare il più importante dei suoi insegnamenti - che è anche il fondamento del cristianesimo - , ma sembra volerci condurre ad apprezzare il fatto che già ‘da lontano’ nella Scrittura, ‘prima’ di lui, è annunciata la risurrezione dalla morte, seppure in modo velato.

“Dio ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nell’Antico e l’Antico fosse svelato nel Nuovo” (DV 14).

Giuseppina Bruscolotti

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“Il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna”, ascoltiamo domenica - XXXII del Tempo ordinario - dal Secondo libro dei Maccabei.

Prima lettura

Ad affermarlo è uno dei “sette fratelli” martirizzati per la causa del Signore Dio d’Israele. L’episodio è collocato nel periodo in cui la Giudea è stata dominata dal crudele Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), sovrano seleucide che ha promosso un’azione politica finalizzata a distruggere le tradizioni religiose giudaiche. Questo il contesto.

Avendo vista fallire la conquista dell’Egitto (168 a.C.), Antioco IV si dirige a Gerusalemme, la devasta, comincia a perseguitare gli ebrei, fa bruciare le sacre Scritture, depreda e profana il Tempio, vieta - sotto minaccia di morte - la circoncisione, l’alimentazione kasher e l’osservanza del sabato.

In questa fase, e prima della riconquista da parte di Giuda Maccabeo, si pone la narrazione relativa a una donna e ai suoi sette figli, colpevoli di non aver voluto mangiare carni suine per fedeltà ai loro princìpi religiosi.

Viene quindi descritto il processo in tutta la sua atrocità perché, via via, ognuno dei sette figli viene istigato a profanare la Legge con torture e mutilazioni corporali. Ma, sorretti dall’eroica fede della madre, tutti e sette accettano di morire, certi che “è preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati”.

Salmo

Anche il Salmo responsoriale Salmo 16 riguarda la supplica di un perseguitato.

Si tratta di David, in fuga dalla violenta crisi di gelosia impadronitasi del cuore e della mente di re Saul, che lo cerca per ucciderlo.

David allora si affida consapevolmente al Signore, che lo “ascolta”: il nemico non può prevalere, anche perché il Signore custodisce il Suo consacrato “come pupilla degli occhi”, espressione per dire che il Signore ne ha una cura paragonabile a quella che si ha per gli occhi, gli organi più delicati e più preziosi del corpo.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei maccabei 7,1-2.9-14

SALMO RESPONSORIALE Salmo 16

Seconda lettura

Circa la pagina della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (il seguito di quella ascoltata domenica scorsa), è interessante notare che questa volta sono i mittenti a chiedere ai destinatari di pregare per loro, e il motivo è sempre la causa del Vangelo, perché “la parola del Signore corra e sia glorificata”.

Come nella I lettura e nel Salmo, anche qui l’autore menziona gli “uomini corrotti e malvagi” probabilmente gli oppositori del Vangelo - dalle minacce dei quali auspica di essere liberato. Per sé e per i lettori, l’Apostolo annuncia tuttavia l’esito vittorioso perché fonda la certezza sul Signore che “è fedele” e per questo li “custodirà dal maligno”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci presenta l’incontro di Gesù con i sadducei intorno alla questione della risurrezione. I sadducei erano gli aristocratici della ‘casta’ sacerdotale e la loro peculiarità era quella di ritenere autorevole solo la parte della Bibbia coincidente con il Pentateuco.

In virtù di questo, non credevano nella risurrezione dei morti, ambito teologico che riguarderebbe altri libri della Bibbia, ma non il Pentateuco. Ciò che chiedono a Gesù in merito al caso della donna sposata sette volte, e al suo destino oltre la morte, non è mosso da sincero interesse, ma dalla volontà di ridicolizzare Gesù.

La questione è anche posta in modo preciso perché i sadducei si appellano al precetto del ‘levirato’ (Dt 25), secondo cui se un uomo muore senza aver generato figli, la vedova deve sposarsi con il fratello di lui e dare alla luce dei figli, dei quali il primogenito continuerà legalmente la discendenza del defunto.

Qui si pone il caso particolare di una donna sposata con sette fratelli, uno dopo l’altro, per ottenere da almeno uno di loro la continuità legale del primo marito defunto, ma non riesce ad avere figli. Dunque, “alla risurrezione, di chi sarà moglie?”.

La risposta di Gesù che ammutolisce i sadducei, e che conferma la risurrezione, viene fondata proprio su uno di quei libri studiati dai sadducei. Gesù cita infatti l’ Esodo (3,15) che presenta il Signore come “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” ovvero il Signore della vita che ha stretto un’alleanza eterna con quanti hanno risposto alla Sua chiamata.

Gesù non fa altro che additare la Scrittura, e i libri del Pentateuco in particolare, come punto di partenza per la verità sulla risurrezione. E il testo continua: “Dissero alcuni degli scribi: ‘Maestro, hai detto bene’”.

Il dialogo è iniziato con la provocazione dei sadducei e concluso con l’approvazione degli scribi. Non che Gesù abbia bisogno di esperti in sacra Scrittura (scribi) per confermare il più importante dei suoi insegnamenti - che è anche il fondamento del cristianesimo - , ma sembra volerci condurre ad apprezzare il fatto che già ‘da lontano’ nella Scrittura, ‘prima’ di lui, è annunciata la risurrezione dalla morte, seppure in modo velato.

“Dio ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nell’Antico e l’Antico fosse svelato nel Nuovo” (DV 14).

Giuseppina Bruscolotti

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Il giusto non giudica https://www.lavoce.it/giusto-non-giudica/ Fri, 25 Oct 2019 08:13:11 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55605 logo reubrica commento al Vangelo

“La preghiera del povero attraversa le nubi”, sentenzia l’Autore del Libro del Siracide che ascoltiamo domenica XXX del TO.

Prima lettura

L’opera poetica del libro del Siracide affronta i più disparati temi di sapienza popolare quali ad esempio la convivenza civile, la responsabilità personale, la scelta della moglie giusta, le varie attività lavorative, …, e, relativamente alla pagina di nostro interesse, la questione che si pone è quella giustizia divina descritta tuttavia in modo ‘ambivalente’.

Il Signore viene infatti presentato come un giudice imparziale che non fa “preferenza di persone”, ma nello stesso tempo risulta essere ‘parziale’ in quanto si schiera dalla parte degli “oppressi” che hanno subito ingiustizie.

Il Siracide a proposito evidenzia alcune categorie di poveri tra cui la vedova le cui lacrime (questo si legge dal Testo per intero) insieme alla preghiera non possono che arrivare al Signore poiché, come insegna anche il Talmud, non c’è porta celeste che possa resistere alle lacrime di dolore (Baba Mesi‘a). Il Signore ascolta quindi il grido dei poveri che senza arrendersi insistono facendo sì che la loro richiesta oltrepassi le “nubi” per impetrare “soddisfazione” ed “equità”.

Salmo

Anche il Salmo alfabetico (34) con cui rispondiamo alla prima lettura riprende i temi della ‘parzialità’ divina e dell’esaudimento del grido dei poveri.

Soprattutto parla della funzione di riscattatore ( goel ) che il Signore assolve a favore dell’intera vita dei suoi “servi” intendendo cioè sia la difesa dell’aspetto biologico dell’uomo terreno che quello spirituale ed eterno in quanto “non sarà condannato chi in lui si rifugia”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 35,15b-17.20-22a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 33

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera a Timoteo 4,6-8.16-18

VANGELO Dal Vangelo di Luca 18,9-14

Seconda lettura

La seconda lettura tratta dalla II Lettera di san Paolo a Timoteo ci presenta ancora i temi della giustizia resa dal Signore all’oppresso e della salvezza eterna promessa ai credenti. In questo caso l’oppresso è lo stesso Paolo che, volgendo alla conclusione la Lettera indirizzata al suo discepolo e sentendo vicino il momento di lasciare questa terra, ripercorre la sua vita passata non per esaltare se stesso, ma per incoraggiare Timoteo ad adempiere fedelmente il suo ministero.

L’Apostolo ricorre alla metafora ‘atletica’ parlando di “combattimento” ( agonia ) di “corsa” ( dromon ) impiegati nell’estenuante opera di evangelizzazione e di “corona” ( stefanos ) conquistata mantenendo sempre salda la “fede”. Paolo scrive con questo tono così colmo di pathos perché di fatto ha vissutoun’estrema solitudine, un abbandono totale da parte dei suoi relativamente ad una situazione in cui ha rischiato di venir ucciso, ma il Signore l’ha sottratto “dalla bocca del leone”, ovvero l’ha scampato dal pericolo della condanna a morte (Sal 22,21; Dn 6).

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci propone l’ascolto della parabola del fariseo e del pubblicano, parabola racchiusa tra il primo versetto in cui è l’Autore ad evidenziare il motivo dell’insegnamento e l’ultimo in cui è Gesù ad esporre la risoluzione del motivo iniziale. Si tratta di due uomini che ‘salgono’ al tempio a pregare il cui atteggiamento attira il nostro interesse.

Il fariseo inizia bene la sua preghiera: Dio è chiamato subito in causa e il motivo è il ringraziamento. (Questo rientrava nella prassi religiosa giudaica, basta considerare i Salmi o tante altre preghiere). Poi però la preghiera del fariseo evolve in un elenco di categorie a cui orgogliosamente afferma “tra sé” di non appartenere: “ladri, ingiusti, adulteri” e vi aggiunge il “pubblicano” presente. Non solo.

Questo fariseo pratica più di quanto la Legge suggerisce: dice infatti di digiunare due volte alla settimana, quando in realtà il digiuno era imposto nel giorno dell’espiazione (Lv 16; 23); afferma di pagare la decima su quanto possiede, quando invece tale dovere riguardava solo colui che vendeva (Dt 12).

Effettivamente, presentato così, il ritratto morale del fariseo risulta impeccabile! Ad esso subentra la descrizione del pubblicano: rimane in lontananza, non alza gli occhi, si batte il petto in segno di contrizione, si definisce ‘peccatore’ e rivolge al Signore l’accorato appello alla pietà verso di lui. Il fariseo dice di sé cose vere, altrettanto lo è per il pubblicano che era ufficialmente riconosciuto come ‘peccatore’ o frequentatore di peccatori (5,30.32; 7,34; 15,1).

La soluzione sta infatti - come dicevamo - nei versetti iniziale e finale: non può esserci compatibilità tra l’‘essere giusti’ e il disprezzo per gli altri. E il risultato finale è proprio un ribaltamento dei ruoli: il pubblicano che si definisce sinceramente peccatore viene “esaltato”, il fariseo orgoglioso del suo essere ‘giusto’ se ne ritorna “umiliato”.

Questo non significa affatto assumere un atteggiamento contrario alla ‘legge’ del Vangelo, quanto piuttosto evitare la presunzione di giudicare gli altri non ritenendo possibile che gli altri possano davvero pentirsi e credere soprattutto al carattere misericordioso del Signore che nelle Sue vie imperscrutabili può raggiungere anche i cuori più ostinati e riaccoglierli nella comunione con Lui.

Giuseppina Bruscolotti

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“La preghiera del povero attraversa le nubi”, sentenzia l’Autore del Libro del Siracide che ascoltiamo domenica XXX del TO.

Prima lettura

L’opera poetica del libro del Siracide affronta i più disparati temi di sapienza popolare quali ad esempio la convivenza civile, la responsabilità personale, la scelta della moglie giusta, le varie attività lavorative, …, e, relativamente alla pagina di nostro interesse, la questione che si pone è quella giustizia divina descritta tuttavia in modo ‘ambivalente’.

Il Signore viene infatti presentato come un giudice imparziale che non fa “preferenza di persone”, ma nello stesso tempo risulta essere ‘parziale’ in quanto si schiera dalla parte degli “oppressi” che hanno subito ingiustizie.

Il Siracide a proposito evidenzia alcune categorie di poveri tra cui la vedova le cui lacrime (questo si legge dal Testo per intero) insieme alla preghiera non possono che arrivare al Signore poiché, come insegna anche il Talmud, non c’è porta celeste che possa resistere alle lacrime di dolore (Baba Mesi‘a). Il Signore ascolta quindi il grido dei poveri che senza arrendersi insistono facendo sì che la loro richiesta oltrepassi le “nubi” per impetrare “soddisfazione” ed “equità”.

Salmo

Anche il Salmo alfabetico (34) con cui rispondiamo alla prima lettura riprende i temi della ‘parzialità’ divina e dell’esaudimento del grido dei poveri.

Soprattutto parla della funzione di riscattatore ( goel ) che il Signore assolve a favore dell’intera vita dei suoi “servi” intendendo cioè sia la difesa dell’aspetto biologico dell’uomo terreno che quello spirituale ed eterno in quanto “non sarà condannato chi in lui si rifugia”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del Siracide 35,15b-17.20-22a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 33

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera a Timoteo 4,6-8.16-18

VANGELO Dal Vangelo di Luca 18,9-14

Seconda lettura

La seconda lettura tratta dalla II Lettera di san Paolo a Timoteo ci presenta ancora i temi della giustizia resa dal Signore all’oppresso e della salvezza eterna promessa ai credenti. In questo caso l’oppresso è lo stesso Paolo che, volgendo alla conclusione la Lettera indirizzata al suo discepolo e sentendo vicino il momento di lasciare questa terra, ripercorre la sua vita passata non per esaltare se stesso, ma per incoraggiare Timoteo ad adempiere fedelmente il suo ministero.

L’Apostolo ricorre alla metafora ‘atletica’ parlando di “combattimento” ( agonia ) di “corsa” ( dromon ) impiegati nell’estenuante opera di evangelizzazione e di “corona” ( stefanos ) conquistata mantenendo sempre salda la “fede”. Paolo scrive con questo tono così colmo di pathos perché di fatto ha vissutoun’estrema solitudine, un abbandono totale da parte dei suoi relativamente ad una situazione in cui ha rischiato di venir ucciso, ma il Signore l’ha sottratto “dalla bocca del leone”, ovvero l’ha scampato dal pericolo della condanna a morte (Sal 22,21; Dn 6).

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci propone l’ascolto della parabola del fariseo e del pubblicano, parabola racchiusa tra il primo versetto in cui è l’Autore ad evidenziare il motivo dell’insegnamento e l’ultimo in cui è Gesù ad esporre la risoluzione del motivo iniziale. Si tratta di due uomini che ‘salgono’ al tempio a pregare il cui atteggiamento attira il nostro interesse.

Il fariseo inizia bene la sua preghiera: Dio è chiamato subito in causa e il motivo è il ringraziamento. (Questo rientrava nella prassi religiosa giudaica, basta considerare i Salmi o tante altre preghiere). Poi però la preghiera del fariseo evolve in un elenco di categorie a cui orgogliosamente afferma “tra sé” di non appartenere: “ladri, ingiusti, adulteri” e vi aggiunge il “pubblicano” presente. Non solo.

Questo fariseo pratica più di quanto la Legge suggerisce: dice infatti di digiunare due volte alla settimana, quando in realtà il digiuno era imposto nel giorno dell’espiazione (Lv 16; 23); afferma di pagare la decima su quanto possiede, quando invece tale dovere riguardava solo colui che vendeva (Dt 12).

Effettivamente, presentato così, il ritratto morale del fariseo risulta impeccabile! Ad esso subentra la descrizione del pubblicano: rimane in lontananza, non alza gli occhi, si batte il petto in segno di contrizione, si definisce ‘peccatore’ e rivolge al Signore l’accorato appello alla pietà verso di lui. Il fariseo dice di sé cose vere, altrettanto lo è per il pubblicano che era ufficialmente riconosciuto come ‘peccatore’ o frequentatore di peccatori (5,30.32; 7,34; 15,1).

La soluzione sta infatti - come dicevamo - nei versetti iniziale e finale: non può esserci compatibilità tra l’‘essere giusti’ e il disprezzo per gli altri. E il risultato finale è proprio un ribaltamento dei ruoli: il pubblicano che si definisce sinceramente peccatore viene “esaltato”, il fariseo orgoglioso del suo essere ‘giusto’ se ne ritorna “umiliato”.

Questo non significa affatto assumere un atteggiamento contrario alla ‘legge’ del Vangelo, quanto piuttosto evitare la presunzione di giudicare gli altri non ritenendo possibile che gli altri possano davvero pentirsi e credere soprattutto al carattere misericordioso del Signore che nelle Sue vie imperscrutabili può raggiungere anche i cuori più ostinati e riaccoglierli nella comunione con Lui.

Giuseppina Bruscolotti

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I lebbrosi purificati https://www.lavoce.it/lebbrosi-purificati/ Fri, 11 Oct 2019 11:49:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55441 logo reubrica commento al Vangelo

“Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”, professa Naaman il Siro davanti al profeta Eliseo.

Prima lettura

È quanto ascoltiamo domenica XXVIII del TO dalla I lettura tratta dal secondo Libro dei Re, libro che riporta la storia e la ‘fine’ dei regni del Nord e del Sud.

Relativamente al nostro episodio, ci troviamo in Samaria (Nord) nel momento in cui Eliseo esercita la sua attività profetica (IX-VIII sec) e compie il noto miracolo, citato anche da Gesù (Lc 4,27), in cui Naaman - “personaggio autorevole” che godeva la stima del re di Aram e di tutto il popolo - ottiene la purificazione dalla lebbra.

Forse non si tratta di vera e propria lebbra in quanto continua a mantenere le relazioni con gli altri, ma di certo rientra nell’elenco di una delle malattie della pelle (Lv 13,1) per cui era necessario ottenere la purificazione ed essere dichiarato ‘puro’ dal sacerdote (Lv 13,6-7).

Naaman non è israelita, è uno straniero appartenente al popolo arameo eppure sulla parola del profeta Eliseo accetta di sottoporsi al ‘semplice’ rito dell’immersione nel fiume Giordano e, vedendosi purificato e ritornata la pelle come quella di un ragazzo, riconosce e professa l’esistenza dell’unico Dio che è il Dio d’Israele. Non solo.

Constatando il privilegio di cui gode Israele di risiedere nella terra che il Signore gli ha donato, fa caricare un po’ di terra per portarla a Damasco sulla quale offrirà il sacrificio al Dio d’Israele, rifiutando così il culto idolatrico.

Salmo

Alla I lettura rispondiamo: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”.

Sono le parole del Salmo 97, Salmo che nonostante sia composto di soli 9 versetti, almeno cinque volte esprime la logica salvifica del Signore che sì, ha ricordato la “sua fedeltà alla casa d’Israele”, ma con la Sua giustizia, la Sua vittoria e la Sua salvezza vuole raggiungere anche tutte le “genti”, tutti gli “abitanti” e tutti i “confini della terra”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei Re 5,14-17

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera di Paolo a Timoteo 2,8-13

VANGELO Dal Vangelo di Luca 17,11-19

Seconda lettura

Anche nella II Lettera di san Paolo a Timoteo leggiamo la disponibilità dell’Apostolo a fare da tramite perché “quelli che Dio ha scelto raggiungano la salvezza che è in Cristo”. Paolo si esprime specificando “anch’essi” ovvero quanti, seppur non provenienti dal giudaismo, sono aperti all’accoglienza del Vangelo.

Nonostante le catene che tengono prigioniero Paolo, “la Parola di Dio non è incatenata” e continua così il suo percorso missionario. Con ciò l’apostolo intende incoraggiare Timoteo, anch’egli in una fase difficile, perché creda nel beneficio delle ‘catene’, nella fecondità che deriva dalle persecuzioni a vantaggio dell’evangelizzazione e lo sollecita a perseverare con Cristo che, nonostante le infedeltà dei discepoli, “rimane fedele”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci dà modo di approfondire la logica ‘universalistica’ di Dio. Si tratta dell’episodio dei ‘dieci lebbrosi purificati’, episodio esposto solo dall’evangelista Luca e in un contesto in cui (cc. 15-17), più che compiere miracoli, Gesù trasmette insegnamenti relativi al perdono, alla misericordia, alla fedeltà, alla generosità e all’umiltà.

In questo caso, Gesù non solo insegna ma testimonia il carattere universale della salvezza che è venuto a portare nel mondo, un valore che forse trovava difficoltà ad essere accolto se esposto solo a parole. Gesù allora opera il prodigio perchè a Lui si rivolgono i lebbrosi ed i fatti parlano: vengono guariti tutti indipendentemente dall’origine etnico-religiosa. Tuttavia la differenza si evidenzia nel comportamento dei dieci purificati: soltanto uno torna indietro a ringraziare Gesù.

Tutti e dieci riconoscono l’autorevolezza e il potere di Gesù e tutti credono che Gesù li esaudisca perchè tutti si avviano a presentarsi al sacerdote, ma soltanto il samaritano dimostra di aver fatto un vero e proprio incontro con Lui. I gesti che il samaritano compie verso Gesù (lode, prostrazione e ringraziamento) hanno la priorità sul dovere di espletare il rito del presentarsi al sacerdote.

Gesù nell’elogiarlo lo identifica come ‘straniero’ (allogenes) marcando così la superiorità della sua fede su quella degli altri guariti e anche su quella degli apostoli che poco prima gli avevano chiesto di accrescere la loro fede (Lc 17,6).

L’imperativo e la ‘conferma’ che Gesù rivolge al samaritano (“Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato”) ci fanno dedurre che possono essere ottenute la purificazione e la guarigione, ma non automaticamente la salvezza.

La purificazione dalla lebbra e la guarigione del corpo riguardano l’uomo in ‘superficie’, ma non entrano nell’interiorità. La salvezza riguarda piuttosto tutto l’uomo, anima e corpo, e il samaritano dimostra di volere ed ha ottenuto un totale distacco dal male spirituale e corporale. Il samaritano, uno ‘straniero’. “È significativo che Naaman e il samaritano siano due stranieri.

Quanti stranieri, anche persone di altre religioni, ci danno esempio di valori che noi talvolta dimentichiamo o tralasciamo. Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole” (Papa Francesco, 09.10.’16).

Giuseppina Bruscolotti

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“Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”, professa Naaman il Siro davanti al profeta Eliseo.

Prima lettura

È quanto ascoltiamo domenica XXVIII del TO dalla I lettura tratta dal secondo Libro dei Re, libro che riporta la storia e la ‘fine’ dei regni del Nord e del Sud.

Relativamente al nostro episodio, ci troviamo in Samaria (Nord) nel momento in cui Eliseo esercita la sua attività profetica (IX-VIII sec) e compie il noto miracolo, citato anche da Gesù (Lc 4,27), in cui Naaman - “personaggio autorevole” che godeva la stima del re di Aram e di tutto il popolo - ottiene la purificazione dalla lebbra.

Forse non si tratta di vera e propria lebbra in quanto continua a mantenere le relazioni con gli altri, ma di certo rientra nell’elenco di una delle malattie della pelle (Lv 13,1) per cui era necessario ottenere la purificazione ed essere dichiarato ‘puro’ dal sacerdote (Lv 13,6-7).

Naaman non è israelita, è uno straniero appartenente al popolo arameo eppure sulla parola del profeta Eliseo accetta di sottoporsi al ‘semplice’ rito dell’immersione nel fiume Giordano e, vedendosi purificato e ritornata la pelle come quella di un ragazzo, riconosce e professa l’esistenza dell’unico Dio che è il Dio d’Israele. Non solo.

Constatando il privilegio di cui gode Israele di risiedere nella terra che il Signore gli ha donato, fa caricare un po’ di terra per portarla a Damasco sulla quale offrirà il sacrificio al Dio d’Israele, rifiutando così il culto idolatrico.

Salmo

Alla I lettura rispondiamo: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”.

Sono le parole del Salmo 97, Salmo che nonostante sia composto di soli 9 versetti, almeno cinque volte esprime la logica salvifica del Signore che sì, ha ricordato la “sua fedeltà alla casa d’Israele”, ma con la Sua giustizia, la Sua vittoria e la Sua salvezza vuole raggiungere anche tutte le “genti”, tutti gli “abitanti” e tutti i “confini della terra”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal II Libro dei Re 5,14-17

SALMO RESPONSORIALE Salmo 97

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera di Paolo a Timoteo 2,8-13

VANGELO Dal Vangelo di Luca 17,11-19

Seconda lettura

Anche nella II Lettera di san Paolo a Timoteo leggiamo la disponibilità dell’Apostolo a fare da tramite perché “quelli che Dio ha scelto raggiungano la salvezza che è in Cristo”. Paolo si esprime specificando “anch’essi” ovvero quanti, seppur non provenienti dal giudaismo, sono aperti all’accoglienza del Vangelo.

Nonostante le catene che tengono prigioniero Paolo, “la Parola di Dio non è incatenata” e continua così il suo percorso missionario. Con ciò l’apostolo intende incoraggiare Timoteo, anch’egli in una fase difficile, perché creda nel beneficio delle ‘catene’, nella fecondità che deriva dalle persecuzioni a vantaggio dell’evangelizzazione e lo sollecita a perseverare con Cristo che, nonostante le infedeltà dei discepoli, “rimane fedele”.

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci dà modo di approfondire la logica ‘universalistica’ di Dio. Si tratta dell’episodio dei ‘dieci lebbrosi purificati’, episodio esposto solo dall’evangelista Luca e in un contesto in cui (cc. 15-17), più che compiere miracoli, Gesù trasmette insegnamenti relativi al perdono, alla misericordia, alla fedeltà, alla generosità e all’umiltà.

In questo caso, Gesù non solo insegna ma testimonia il carattere universale della salvezza che è venuto a portare nel mondo, un valore che forse trovava difficoltà ad essere accolto se esposto solo a parole. Gesù allora opera il prodigio perchè a Lui si rivolgono i lebbrosi ed i fatti parlano: vengono guariti tutti indipendentemente dall’origine etnico-religiosa. Tuttavia la differenza si evidenzia nel comportamento dei dieci purificati: soltanto uno torna indietro a ringraziare Gesù.

Tutti e dieci riconoscono l’autorevolezza e il potere di Gesù e tutti credono che Gesù li esaudisca perchè tutti si avviano a presentarsi al sacerdote, ma soltanto il samaritano dimostra di aver fatto un vero e proprio incontro con Lui. I gesti che il samaritano compie verso Gesù (lode, prostrazione e ringraziamento) hanno la priorità sul dovere di espletare il rito del presentarsi al sacerdote.

Gesù nell’elogiarlo lo identifica come ‘straniero’ (allogenes) marcando così la superiorità della sua fede su quella degli altri guariti e anche su quella degli apostoli che poco prima gli avevano chiesto di accrescere la loro fede (Lc 17,6).

L’imperativo e la ‘conferma’ che Gesù rivolge al samaritano (“Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato”) ci fanno dedurre che possono essere ottenute la purificazione e la guarigione, ma non automaticamente la salvezza.

La purificazione dalla lebbra e la guarigione del corpo riguardano l’uomo in ‘superficie’, ma non entrano nell’interiorità. La salvezza riguarda piuttosto tutto l’uomo, anima e corpo, e il samaritano dimostra di volere ed ha ottenuto un totale distacco dal male spirituale e corporale. Il samaritano, uno ‘straniero’. “È significativo che Naaman e il samaritano siano due stranieri.

Quanti stranieri, anche persone di altre religioni, ci danno esempio di valori che noi talvolta dimentichiamo o tralasciamo. Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole” (Papa Francesco, 09.10.’16).

Giuseppina Bruscolotti

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Fede semplice ma vera https://www.lavoce.it/fede-semplice-vera/ Fri, 04 Oct 2019 10:33:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55378 logo reubrica commento al Vangelo

“È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza”, ascoltiamo dalla I lettura di domenica XXVII del TO.

Prima lettura

Il brano è tratto dal libro del profeta Abacuc, profeta che esercita la sua missione nella fase in cui -a partire dalla battaglia di Carchemis (605 a. C.)- Nabucodonosor si affaccia con prepotenza sullo scenario del Vicino Oriente Antico.

Già ai primi versetti del primo capitolo (1,6) viene descritto l’incombere dei babilonesi ignari che la loro potenza è ‘usata’ dal Signore per punire gli israeliti divenuti idolatri. Ecco allora presentarsi Abacuc la cui attività profetica si svolge in modo insolito poiché osa chiedere conto a Dio del Suo operato.

Si domanda infatti: perché il Signore per punire gli israeliti si serve di un popolo più peccatore di loro? Perché fa trionfare il malvagio a discapito di un popolo che sì, ha sbagliato, ma non è poi così degenere? Perché permette che ad avere la meglio sia l’ingiustizia?

La risposta che arriva tramite lo stesso Abacuc è quella per cui il Signore per salvare il Suo popolo si serve di sistemi inconcepibili all’uomo e che tuttavia questa fase di prova ha un “termine” e che la sorte del giusto sarà comunque gloriosa in quanto “vivrà per la sua fede”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla I lettura fa presente un tempo di prova cui sono stati sottoposti gli israeliti. Parla infatti di “Massa e Meriba”, ovvero di un episodio legato al percorso dei quarant’anni nel deserto. Oltre all’invito alla lode del Signore espresso con degli imperativi che danno il senso del dinamismo completo della persona (Venite! Cantiamo, acclamiamo!), il Salmo esorta a non “indurire il cuore” nel tempo della prova.

Il cuore indurito non favorisce lo spazio all’accoglienza della Parola di Dio, lascia l’uomo ‘senza riposo’ cioè in balìa dei suoi pensieri, impossibilitato a vedere con gli occhi della fede le “opere” del Signore che sono sempre finalizzate al bene degli uomini.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Abacuc 1,2-3; 2,2-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera a Timoteo 1,6-8.13-14

VANGELO Dal Vangelo di Luca 17,5-10

Seconda lettura

La II lettura è tratta dalla pagina iniziale della II Lettera di San Paolo a TimoteoSecondo quanto si evince dal Testo, l’apostolo scrive nel momento in cui lui è prigioniero e la comunità di Timoteovive tra contrarietà e persecuzioni.

Paolo incoraggia perciò il discepolo-pastore a reagire a questa difficile fase facendo leva soprattutto sulla consapevolezza del dono ricevuto da Dio attraverso “l’imposizione delle mani”.Questo dono cui Paolo fa riferimento è lo Spirito Santo che imprime nei consacrati “la forza, la carità e la prudenza”per rispondere agli eventi contemporanei.

Le prove che Timoteo deve sostenere per il Vangelo costituiscono anche un’occasione di comunione spirituale con il suo padre nella fede (“soffri con me per il Vangelo”). L’opera evangelizzatrice cui Timoteo è preposto in virtù degli insegnamenti che ha ricevuto, non è frutto di un’iniziativa personale, ma costituisce il “bene prezioso” che viene “affidato” dal Signore a chi come Timoteo ha ottenuto la Sua fiducia.

Vangelo

Il brano del Vangelo secondo Luca presenta due insegnamenti che apparentemente sembrano casuali, non legati: la potenza della fede e la gratuità del servizio. La pagina ha inizio con una richiesta degli apostoli al Signore: “accresci la nostra fede!”. La risposta di Gesù è di un’affascinante concretezza perché prende spunto dall’ambiente agricolo circostante: “granello di senape” e “gelso”.

Il granello di senape è il più piccolo dei semi, quasi invisibile, eppure produce una grande pianta. Il gelso è un albero che ha lunghe radici e per questo è portato come esempio per l’impossibilità ad essere sradicato con facilità. Questo insegnamento non è un invito a servirsi della fede per la spettacolarità, per indurre alla visione di fatti eclatanti, quanto piuttosto a nutrire una fede vera, di abbandono fiducioso nel Signore, fede che per sua indole mostra inevitabilmente l’incalcolabile potenza divina.

Poi Gesù continua il Suo discorso con una provocazione che rivolge agli apostoli: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola?”. Non gli dirà piuttosto: “prepara da mangiare?”. Questo esempio si rifà allo status del servo al tempo di Gesù (e non solo al suo tempo!) per cui anche se un servo aveva lavorato in campagna, non per questo era esente dal lavoro in casa. Quindi non esisteva il ‘diritto’ del servo al riposo, né per il padrone il ‘dovere’ di ringraziare perché il tutto rientrava nella normalità del vivere quotidiano.

Questo rapporto tra il padrone e il servo (seppur negativo ai nostri giorni) è lo specchio di quello che dovrebbe essere il legame tra l’uomo e Dio: non perché l’apolosto ricopre importanti responsabilità deve aspettarsi qualcosa di più dal Signore. Il servizio al Signore e al Suo Vangelo va svolto non con il criterio del ‘ti do, quindi mi dai’, ma con il cuore libero da pretese.

In definitiva il messaggio è ‘spettacolarmente’ positivo: la fede non deriva dallo sforzo volontaristico, ma è dono del Signore e chi ha l’umiltà di accoglierla necessariamente vedrà lo ‘sradicamento’ di situazioni impossibili; chi serve il Signore con cuore disinteressato, specie se svolge ruoli particolari, conoscerà immancabilmente il favore divino perché chi serve il Signore “Il Padre lo onorerà (Gv 12,26).

Giuseppina Bruscolotti

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“È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza”, ascoltiamo dalla I lettura di domenica XXVII del TO.

Prima lettura

Il brano è tratto dal libro del profeta Abacuc, profeta che esercita la sua missione nella fase in cui -a partire dalla battaglia di Carchemis (605 a. C.)- Nabucodonosor si affaccia con prepotenza sullo scenario del Vicino Oriente Antico.

Già ai primi versetti del primo capitolo (1,6) viene descritto l’incombere dei babilonesi ignari che la loro potenza è ‘usata’ dal Signore per punire gli israeliti divenuti idolatri. Ecco allora presentarsi Abacuc la cui attività profetica si svolge in modo insolito poiché osa chiedere conto a Dio del Suo operato.

Si domanda infatti: perché il Signore per punire gli israeliti si serve di un popolo più peccatore di loro? Perché fa trionfare il malvagio a discapito di un popolo che sì, ha sbagliato, ma non è poi così degenere? Perché permette che ad avere la meglio sia l’ingiustizia?

La risposta che arriva tramite lo stesso Abacuc è quella per cui il Signore per salvare il Suo popolo si serve di sistemi inconcepibili all’uomo e che tuttavia questa fase di prova ha un “termine” e che la sorte del giusto sarà comunque gloriosa in quanto “vivrà per la sua fede”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla I lettura fa presente un tempo di prova cui sono stati sottoposti gli israeliti. Parla infatti di “Massa e Meriba”, ovvero di un episodio legato al percorso dei quarant’anni nel deserto. Oltre all’invito alla lode del Signore espresso con degli imperativi che danno il senso del dinamismo completo della persona (Venite! Cantiamo, acclamiamo!), il Salmo esorta a non “indurire il cuore” nel tempo della prova.

Il cuore indurito non favorisce lo spazio all’accoglienza della Parola di Dio, lascia l’uomo ‘senza riposo’ cioè in balìa dei suoi pensieri, impossibilitato a vedere con gli occhi della fede le “opere” del Signore che sono sempre finalizzate al bene degli uomini.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Abacuc 1,2-3; 2,2-4

SALMO RESPONSORIALE Salmo 94

SECONDA LETTURA Dalla II Lettera a Timoteo 1,6-8.13-14

VANGELO Dal Vangelo di Luca 17,5-10

Seconda lettura

La II lettura è tratta dalla pagina iniziale della II Lettera di San Paolo a TimoteoSecondo quanto si evince dal Testo, l’apostolo scrive nel momento in cui lui è prigioniero e la comunità di Timoteovive tra contrarietà e persecuzioni.

Paolo incoraggia perciò il discepolo-pastore a reagire a questa difficile fase facendo leva soprattutto sulla consapevolezza del dono ricevuto da Dio attraverso “l’imposizione delle mani”.Questo dono cui Paolo fa riferimento è lo Spirito Santo che imprime nei consacrati “la forza, la carità e la prudenza”per rispondere agli eventi contemporanei.

Le prove che Timoteo deve sostenere per il Vangelo costituiscono anche un’occasione di comunione spirituale con il suo padre nella fede (“soffri con me per il Vangelo”). L’opera evangelizzatrice cui Timoteo è preposto in virtù degli insegnamenti che ha ricevuto, non è frutto di un’iniziativa personale, ma costituisce il “bene prezioso” che viene “affidato” dal Signore a chi come Timoteo ha ottenuto la Sua fiducia.

Vangelo

Il brano del Vangelo secondo Luca presenta due insegnamenti che apparentemente sembrano casuali, non legati: la potenza della fede e la gratuità del servizio. La pagina ha inizio con una richiesta degli apostoli al Signore: “accresci la nostra fede!”. La risposta di Gesù è di un’affascinante concretezza perché prende spunto dall’ambiente agricolo circostante: “granello di senape” e “gelso”.

Il granello di senape è il più piccolo dei semi, quasi invisibile, eppure produce una grande pianta. Il gelso è un albero che ha lunghe radici e per questo è portato come esempio per l’impossibilità ad essere sradicato con facilità. Questo insegnamento non è un invito a servirsi della fede per la spettacolarità, per indurre alla visione di fatti eclatanti, quanto piuttosto a nutrire una fede vera, di abbandono fiducioso nel Signore, fede che per sua indole mostra inevitabilmente l’incalcolabile potenza divina.

Poi Gesù continua il Suo discorso con una provocazione che rivolge agli apostoli: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola?”. Non gli dirà piuttosto: “prepara da mangiare?”. Questo esempio si rifà allo status del servo al tempo di Gesù (e non solo al suo tempo!) per cui anche se un servo aveva lavorato in campagna, non per questo era esente dal lavoro in casa. Quindi non esisteva il ‘diritto’ del servo al riposo, né per il padrone il ‘dovere’ di ringraziare perché il tutto rientrava nella normalità del vivere quotidiano.

Questo rapporto tra il padrone e il servo (seppur negativo ai nostri giorni) è lo specchio di quello che dovrebbe essere il legame tra l’uomo e Dio: non perché l’apolosto ricopre importanti responsabilità deve aspettarsi qualcosa di più dal Signore. Il servizio al Signore e al Suo Vangelo va svolto non con il criterio del ‘ti do, quindi mi dai’, ma con il cuore libero da pretese.

In definitiva il messaggio è ‘spettacolarmente’ positivo: la fede non deriva dallo sforzo volontaristico, ma è dono del Signore e chi ha l’umiltà di accoglierla necessariamente vedrà lo ‘sradicamento’ di situazioni impossibili; chi serve il Signore con cuore disinteressato, specie se svolge ruoli particolari, conoscerà immancabilmente il favore divino perché chi serve il Signore “Il Padre lo onorerà (Gv 12,26).

Giuseppina Bruscolotti

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