immigrati Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/immigrati/ Settimanale di informazione regionale Sun, 10 Nov 2024 16:04:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg immigrati Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/immigrati/ 32 32 Il pasticcio… governo magistratura https://www.lavoce.it/il-pasticcio-governo-magistratura/ https://www.lavoce.it/il-pasticcio-governo-magistratura/#respond Sat, 09 Nov 2024 16:04:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78507

Vediamo di capire qualche cosa del pasticcio che sta creando un contrasto fra il Governo italiano e la magistratura. In linea di principio, ogni Stato ha il potere di selezionare gli stranieri che vogliono entrare nel suo territorio, e di respingere alla frontiera quelli che non hanno i permessi in regola, o addirittura non hanno affatto documenti.

È stato sempre così. Nel tempo, sono intervenute diverse convenzioni internazionali, di livelli diversi, che hanno stabilito eccezioni in favore dei soggetti più deboli. Così, è vietato rigettare alla frontiera quelli che sono in pericolo di vita (è il caso dei naufraghi dei barconi); vanno messi in salvo e poi si penserà a rimpatriarli. Poi ci sono le convenzioni a protezione dei rifugiati, ossia di quelli che chiedono asilo politico; se ne hanno i requisiti, debbono essere accolti e protetti.

Il problema è che in genere chi si presenta per chiedere asilo non ha con sé nessun documento e di lui si sa solo quello che racconta. Perciò è inevitabile spendere un po’ di tempo (che a volte può essere anche molto) per fare le verifiche del caso. Intanto, il richiedente asilo non può essere espulso; però c’è un altro problema: se rimane libero, c'è il rischio che si eclissi e non si faccia più trovare.

Allora le convenzioni internazionali – e le direttive della UE che sono assai minuziose – consentono che in questo intervallo il richiedente asilo sia internato in un apposito centro di permanenza, diciamo una specie di carcere (come quelli che la Meloni ha fatto fare in Albania). Inoltre, questo internamento deve essere convalidato dall’autorità giudiziaria: questo lo chiede la nostra Costituzione perché è un provvedimento che incide sulla libertà personale.

Il giudice cui spetta emettere questa convalida deve verificare che ci siano tutte le condizioni richieste per mettere sotto chiave quelle persone; e deve farlo avendo riguardo alle leggi nazionali ma anche alle convenzioni internazionali e alle direttive della UE. Queste ultime sono quelle che pesano di più, perché se c’è un contrasto fra loro e la legge nazionale, prevalgono di diritto quelle europee. Se c’è un dubbio di interpretazione, il giudice deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia della UE, che ha sede a Lussemburgo (e intanto il richiedente asilo è a piede libero). Il tutto non è un bel pasticcio?

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Vediamo di capire qualche cosa del pasticcio che sta creando un contrasto fra il Governo italiano e la magistratura. In linea di principio, ogni Stato ha il potere di selezionare gli stranieri che vogliono entrare nel suo territorio, e di respingere alla frontiera quelli che non hanno i permessi in regola, o addirittura non hanno affatto documenti.

È stato sempre così. Nel tempo, sono intervenute diverse convenzioni internazionali, di livelli diversi, che hanno stabilito eccezioni in favore dei soggetti più deboli. Così, è vietato rigettare alla frontiera quelli che sono in pericolo di vita (è il caso dei naufraghi dei barconi); vanno messi in salvo e poi si penserà a rimpatriarli. Poi ci sono le convenzioni a protezione dei rifugiati, ossia di quelli che chiedono asilo politico; se ne hanno i requisiti, debbono essere accolti e protetti.

Il problema è che in genere chi si presenta per chiedere asilo non ha con sé nessun documento e di lui si sa solo quello che racconta. Perciò è inevitabile spendere un po’ di tempo (che a volte può essere anche molto) per fare le verifiche del caso. Intanto, il richiedente asilo non può essere espulso; però c’è un altro problema: se rimane libero, c'è il rischio che si eclissi e non si faccia più trovare.

Allora le convenzioni internazionali – e le direttive della UE che sono assai minuziose – consentono che in questo intervallo il richiedente asilo sia internato in un apposito centro di permanenza, diciamo una specie di carcere (come quelli che la Meloni ha fatto fare in Albania). Inoltre, questo internamento deve essere convalidato dall’autorità giudiziaria: questo lo chiede la nostra Costituzione perché è un provvedimento che incide sulla libertà personale.

Il giudice cui spetta emettere questa convalida deve verificare che ci siano tutte le condizioni richieste per mettere sotto chiave quelle persone; e deve farlo avendo riguardo alle leggi nazionali ma anche alle convenzioni internazionali e alle direttive della UE. Queste ultime sono quelle che pesano di più, perché se c’è un contrasto fra loro e la legge nazionale, prevalgono di diritto quelle europee. Se c’è un dubbio di interpretazione, il giudice deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia della UE, che ha sede a Lussemburgo (e intanto il richiedente asilo è a piede libero). Il tutto non è un bel pasticcio?

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Immigrati tra cittadinanza formale e cittadinanza attiva – La “provocazione” di Rolando Marini/2 https://www.lavoce.it/immigrati-tra-cittadinanza-formale-e-cittadinanza-attiva-la-provocazione-di-rolando-marini-2/ https://www.lavoce.it/immigrati-tra-cittadinanza-formale-e-cittadinanza-attiva-la-provocazione-di-rolando-marini-2/#respond Sat, 21 Sep 2024 08:41:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77724

Parlare di cittadinanza rispetto a chi non ce l’ha, come molti immigrati, sembra fuori luogo. Sembra, ma non è esattamente così. Facciamo un percorso attraverso alcuni tipi di cittadinanza riguardanti gli immigrati, o meglio i cittadini non italiani e non comunitari residenti da noi. Anche perché è un problema che si porrà davanti ai nuovi flussi, seppure sembrino diversi dal passato.

Nati in Italia, perché no ius soli?

La cittadinanza italiana viene raggiunta secondo regole ben precise. Alcuni ne chiedono una riforma. Di alcune di queste si è parlato diverse volte nel dibattito politico degli anni recenti, specialmente in ordine alla possibilità di riconoscerla ai minorenni, ad esempio secondo lo ius soli , cioè per il fatto di essere nati in Italia. Un dibattito parlamentare conclusosi in modo confuso alla fine del 2017. Ma nel 2022 si è arenato in Parlamento anche lo ius scholae . Afferma Save the Children Italia nel suo sito: “Quello che chiediamo è uno ius soli condizionato dalla residenza legale dei genitori in Italia, come già accade in molti altri Paesi europei”. Ancora Save the Children ci dice che le nuove generazioni esprimono una “domanda di appartenenza” alla comunità nazionale che rimane solo parzialmente soddisfatta. In base al rapporto ormai pluriennale che ho con studenti di famiglie straniere che hanno fatto tutto o quasi tutto il percorso di studi in Italia e sono venuti all’università, posso dire che quella che giuridicamente si chiama naturalizzazione è nei fatti. Nessuno può ragionevolmente pretendere che lascino alle spalle o nascondano elementi identitari dei paesi e delle culture dei genitori. Ma loro hanno le basi solide per sentirsi ed essere cittadini europei.

Integrazione non è "assimilazione"

Pensando agli immigrati residenti, però, osservo che ci sono altre forme di appartenenza a una comunità civile (a una civitas ) che vanno oltre l’acquisizione formale della cittadinanza nazionale. E riguardano il modo di porsi attivamente dentro una comunità e interagire con gli altri, all’interno di un quadro di regole scritte e - soprattutto non scritte. Tutte quelle forme, dal vivere quotidiano spicciolo in avanti, che congiungono la partecipazione alla responsabilità. Certo, arriviamo a un punto delicato del discorso, poiché si rischia di disegnare un quadro di doveri attesi, come se si ponessero condizioni e requisiti da soddisfare. Parlo in effetti di processi d’integrazione, parola a molti invisa perché richiama tendenze a un’assimilazione di tipo etnocentrico. Ma il problema sostanziale consiste nell’adesione o meno ai regimi normativi di una società, mantenendone il pluralismo e però preservandone la coesione. È il problema dei problemi nella prospettiva della società multiculturale.

Oltre la cittadinanza: membri di una comunità civile

Ma dico, proseguendo a esercitare una funzione critica: in qualsiasi città occorre che venga rispettato un patto di convivenza su cui tutti i cittadini, indistintamente, sono chiamati a impegnarsi. Fare e fare bene la raccolta differenziata, rispettare gli spazi urbani, seguire le regole sanitarie (ad esempio le vaccinazioni), sapere come funzionano gli uffici pubblici, tenersi informati, ecc. Per non parlare di altri aspetti, più avanzati, come il consumo consapevole, la difesa dell’ambiente, la solidarietà sociale in senso esteso. Utopia? Non direi. Il fatto è che molti immigrati continuano a collocarsi dentro uno spazio relazionale e sociale in cui esiste solo lavoro, parentele o amicizie di gruppo nazionale (o religioso) e collegamento con la famiglia lontana. Uno spazio riservato e non esposto all’impegno civico, spesso alimentato dall’isolazionismo delle comunità migranti. Problema noto della figura dello straniero nelle scienze sociali: partecipazione limitata alla vita civile della società “ospitante”. Riserva mentale, con l’aggravante dell’autogiustificazione. Con il rischio, già concreto, di accentuare la percezione di una società patologicamente frammentata, in cui le differenze diventano un fattore disgregante piuttosto che un’opportunità. Rolando Marini ProRettore Università per Stranieri di Perugia (Intervento tenuto al secondo incontro di Voci dal mondo)]]>

Parlare di cittadinanza rispetto a chi non ce l’ha, come molti immigrati, sembra fuori luogo. Sembra, ma non è esattamente così. Facciamo un percorso attraverso alcuni tipi di cittadinanza riguardanti gli immigrati, o meglio i cittadini non italiani e non comunitari residenti da noi. Anche perché è un problema che si porrà davanti ai nuovi flussi, seppure sembrino diversi dal passato.

Nati in Italia, perché no ius soli?

La cittadinanza italiana viene raggiunta secondo regole ben precise. Alcuni ne chiedono una riforma. Di alcune di queste si è parlato diverse volte nel dibattito politico degli anni recenti, specialmente in ordine alla possibilità di riconoscerla ai minorenni, ad esempio secondo lo ius soli , cioè per il fatto di essere nati in Italia. Un dibattito parlamentare conclusosi in modo confuso alla fine del 2017. Ma nel 2022 si è arenato in Parlamento anche lo ius scholae . Afferma Save the Children Italia nel suo sito: “Quello che chiediamo è uno ius soli condizionato dalla residenza legale dei genitori in Italia, come già accade in molti altri Paesi europei”. Ancora Save the Children ci dice che le nuove generazioni esprimono una “domanda di appartenenza” alla comunità nazionale che rimane solo parzialmente soddisfatta. In base al rapporto ormai pluriennale che ho con studenti di famiglie straniere che hanno fatto tutto o quasi tutto il percorso di studi in Italia e sono venuti all’università, posso dire che quella che giuridicamente si chiama naturalizzazione è nei fatti. Nessuno può ragionevolmente pretendere che lascino alle spalle o nascondano elementi identitari dei paesi e delle culture dei genitori. Ma loro hanno le basi solide per sentirsi ed essere cittadini europei.

Integrazione non è "assimilazione"

Pensando agli immigrati residenti, però, osservo che ci sono altre forme di appartenenza a una comunità civile (a una civitas ) che vanno oltre l’acquisizione formale della cittadinanza nazionale. E riguardano il modo di porsi attivamente dentro una comunità e interagire con gli altri, all’interno di un quadro di regole scritte e - soprattutto non scritte. Tutte quelle forme, dal vivere quotidiano spicciolo in avanti, che congiungono la partecipazione alla responsabilità. Certo, arriviamo a un punto delicato del discorso, poiché si rischia di disegnare un quadro di doveri attesi, come se si ponessero condizioni e requisiti da soddisfare. Parlo in effetti di processi d’integrazione, parola a molti invisa perché richiama tendenze a un’assimilazione di tipo etnocentrico. Ma il problema sostanziale consiste nell’adesione o meno ai regimi normativi di una società, mantenendone il pluralismo e però preservandone la coesione. È il problema dei problemi nella prospettiva della società multiculturale.

Oltre la cittadinanza: membri di una comunità civile

Ma dico, proseguendo a esercitare una funzione critica: in qualsiasi città occorre che venga rispettato un patto di convivenza su cui tutti i cittadini, indistintamente, sono chiamati a impegnarsi. Fare e fare bene la raccolta differenziata, rispettare gli spazi urbani, seguire le regole sanitarie (ad esempio le vaccinazioni), sapere come funzionano gli uffici pubblici, tenersi informati, ecc. Per non parlare di altri aspetti, più avanzati, come il consumo consapevole, la difesa dell’ambiente, la solidarietà sociale in senso esteso. Utopia? Non direi. Il fatto è che molti immigrati continuano a collocarsi dentro uno spazio relazionale e sociale in cui esiste solo lavoro, parentele o amicizie di gruppo nazionale (o religioso) e collegamento con la famiglia lontana. Uno spazio riservato e non esposto all’impegno civico, spesso alimentato dall’isolazionismo delle comunità migranti. Problema noto della figura dello straniero nelle scienze sociali: partecipazione limitata alla vita civile della società “ospitante”. Riserva mentale, con l’aggravante dell’autogiustificazione. Con il rischio, già concreto, di accentuare la percezione di una società patologicamente frammentata, in cui le differenze diventano un fattore disgregante piuttosto che un’opportunità. Rolando Marini ProRettore Università per Stranieri di Perugia (Intervento tenuto al secondo incontro di Voci dal mondo)]]>
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Per comunità immigrate più responsabili – La “provocazione” di Rolando Marini/1 https://www.lavoce.it/per-comunita-immigrate-piu-responsabili-la-provocazione-di-rolando-marini-1/ https://www.lavoce.it/per-comunita-immigrate-piu-responsabili-la-provocazione-di-rolando-marini-1/#respond Fri, 20 Sep 2024 16:21:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=77718

Sono passati ben 34 anni dalla promulgazione della legge regionale umbra che, in modo lungimirante e anticipatorio, impegnava le istituzioni su un’ampia gamma di interventi a favore degli immigrati non comunitari e dei loro familiari. La legge regionale 18 del 1990, riletta oggi, sorprende per la capacità di disegnare un quadro di prospettiva di quella che chiamiamo società multiculturale o interetnica. Queste espressioni si rivelano spesso inadeguate a rappresentare le trasformazioni, anche contraddittorie, che ci troviamo a vivere e a osservare in conseguenza dei flussi migratori. Ma quella legge, senza usarle, ne offriva una sostanza politica e progettuale, basata sulla pluralità dei gruppi sociali e sulla loro interazione dialogante e solidaristica. Tante cose immaginate, che hanno dato vita al sistema dell’accoglienza, alla cura delle identità, alla co-progettazione di eventi culturali e interventi di sostegno, alla ricerca sociale sull’immigrazione. Hanno definito un quadro di riferimento per le azioni di sistema che, a tutti i livelli appunto, sono tese al godimento dei diritti sociali da parte degli immigrati, i diritti che contano dopo l’accoglienza (lavoro, salute, istruzione, formazione).

Una legge innovativa

Un modello, anche perché prevedeva e ha largamente realizzato – va ammesso – un intreccio collaborativo virtuoso tra varie entità: istituzioni, associazioni locali laiche e religiose, associazioni di migranti vecchie e nuove. Queste azioni di sistema, grazie alla programmazione incardinata nella legge 18, hanno creato innovazione sociale. Poi non solo in Umbria, che pure ha fatto da apripista. In che senso? Un sistema misto composto da stato, enti locali, sindacati e moltissimo terzo settore, cioè cooperative, associazioni, entità della Chiesa (si pensi al ruolo cruciale e ingente delle Caritas diocesane).

Un nuovo modello di welfare per gli immigrati

Un nuovo modello di welfare, che prova a gestire (forse virtuosamente, ma con tante falle) le scarse risorse che lo “stato sociale” di oggi riesce a indirizzare verso le nuove frontiere dei diritti e della coesione sociale (queste due cose vanno insieme, ancora). Creazione innovativa e anche creativa di cittadinanza sociale. A fianco dell’assistenza ai “bisognosi”, che comunque mantiene la sua tipica rilevanza nel mondo migrante, si è sviluppato un aspetto virtuoso che tuttavia oggi segnala un problema emergente o una “controindicazione”. Si è infatti formato un ampio campo di mediazione culturale, o meglio di intermediazione e facilitazione comunicativa e burocratica nel rapporto con la pubblica amministrazione. Quello che serve ad assistere e orientare i cittadini immigrati a fruire dei servizi, a svolgere le pratiche che precedono la fruizione dei servizi: permesso o carta di soggiorno, contratto di lavoro, Isee, documenti, domande e iscrizioni varie (tipiche attività di un patronato). Ma assistenza non è neanche sinonimo di cittadinanza.

Dopo 34 anni: dall'assistenza alla cittadinanza attiva

Dicevo all’inizio che sono passati 34 anni da quella bella legge. Le associazioni dei migranti sono cresciute insieme con questo sistema. Penso però che si siano sin troppo abituate ad uno schema assistenziale. E su questo siano, in larga parte (salvo le eccellenze), rimaste ferme. Ferme a pensare ad uno svantaggio immodificabile, un empowerment non percorribile. Questo vale a livello individuale, certo; ma soprattutto a livello di comunità, da cui potrebbe partire l’impulso proattivo. I cittadini immigrati e le loro comunità e associazioni dovrebbero assumere un approccio diverso: passare dalla cittadinanza passiva a quella attiva. Non delegante in automatico, ma più partecipante e responsabile. Rolando Marini ProRettore Università per Stranieri di Perugia (Intervento tenuto al primo incontro di Voci dal mondo, a Terni)]]>

Sono passati ben 34 anni dalla promulgazione della legge regionale umbra che, in modo lungimirante e anticipatorio, impegnava le istituzioni su un’ampia gamma di interventi a favore degli immigrati non comunitari e dei loro familiari. La legge regionale 18 del 1990, riletta oggi, sorprende per la capacità di disegnare un quadro di prospettiva di quella che chiamiamo società multiculturale o interetnica. Queste espressioni si rivelano spesso inadeguate a rappresentare le trasformazioni, anche contraddittorie, che ci troviamo a vivere e a osservare in conseguenza dei flussi migratori. Ma quella legge, senza usarle, ne offriva una sostanza politica e progettuale, basata sulla pluralità dei gruppi sociali e sulla loro interazione dialogante e solidaristica. Tante cose immaginate, che hanno dato vita al sistema dell’accoglienza, alla cura delle identità, alla co-progettazione di eventi culturali e interventi di sostegno, alla ricerca sociale sull’immigrazione. Hanno definito un quadro di riferimento per le azioni di sistema che, a tutti i livelli appunto, sono tese al godimento dei diritti sociali da parte degli immigrati, i diritti che contano dopo l’accoglienza (lavoro, salute, istruzione, formazione).

Una legge innovativa

Un modello, anche perché prevedeva e ha largamente realizzato – va ammesso – un intreccio collaborativo virtuoso tra varie entità: istituzioni, associazioni locali laiche e religiose, associazioni di migranti vecchie e nuove. Queste azioni di sistema, grazie alla programmazione incardinata nella legge 18, hanno creato innovazione sociale. Poi non solo in Umbria, che pure ha fatto da apripista. In che senso? Un sistema misto composto da stato, enti locali, sindacati e moltissimo terzo settore, cioè cooperative, associazioni, entità della Chiesa (si pensi al ruolo cruciale e ingente delle Caritas diocesane).

Un nuovo modello di welfare per gli immigrati

Un nuovo modello di welfare, che prova a gestire (forse virtuosamente, ma con tante falle) le scarse risorse che lo “stato sociale” di oggi riesce a indirizzare verso le nuove frontiere dei diritti e della coesione sociale (queste due cose vanno insieme, ancora). Creazione innovativa e anche creativa di cittadinanza sociale. A fianco dell’assistenza ai “bisognosi”, che comunque mantiene la sua tipica rilevanza nel mondo migrante, si è sviluppato un aspetto virtuoso che tuttavia oggi segnala un problema emergente o una “controindicazione”. Si è infatti formato un ampio campo di mediazione culturale, o meglio di intermediazione e facilitazione comunicativa e burocratica nel rapporto con la pubblica amministrazione. Quello che serve ad assistere e orientare i cittadini immigrati a fruire dei servizi, a svolgere le pratiche che precedono la fruizione dei servizi: permesso o carta di soggiorno, contratto di lavoro, Isee, documenti, domande e iscrizioni varie (tipiche attività di un patronato). Ma assistenza non è neanche sinonimo di cittadinanza.

Dopo 34 anni: dall'assistenza alla cittadinanza attiva

Dicevo all’inizio che sono passati 34 anni da quella bella legge. Le associazioni dei migranti sono cresciute insieme con questo sistema. Penso però che si siano sin troppo abituate ad uno schema assistenziale. E su questo siano, in larga parte (salvo le eccellenze), rimaste ferme. Ferme a pensare ad uno svantaggio immodificabile, un empowerment non percorribile. Questo vale a livello individuale, certo; ma soprattutto a livello di comunità, da cui potrebbe partire l’impulso proattivo. I cittadini immigrati e le loro comunità e associazioni dovrebbero assumere un approccio diverso: passare dalla cittadinanza passiva a quella attiva. Non delegante in automatico, ma più partecipante e responsabile. Rolando Marini ProRettore Università per Stranieri di Perugia (Intervento tenuto al primo incontro di Voci dal mondo, a Terni)]]>
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Ius scholae. Dibattito tra identità e inclusione https://www.lavoce.it/ius-scholae-dibattito-tra-identita-e-inclusione/ https://www.lavoce.it/ius-scholae-dibattito-tra-identita-e-inclusione/#respond Fri, 30 Aug 2024 10:48:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78356

Il dibattito sullo ius scholae si è riacceso nell’ultimo mese grazie alle dichiarazioni del vicepremier e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha apertamente sostenuto la necessità di introdurre questa riforma, nonostante non fosse prevista nel programma del governo. “È quel che ha bisogno il Paese. L’Italia è cambiata”, ha dichiarato Tajani.

Sono oltre un milione gli italiani senza cittadinanza che aspettano con ansia la decisione della Camera dei deputati in merito alla proposta di legge sulla cittadinanza, per introdurre lo ius scholae. Questa riforma permetterebbe di concedere la cittadinanza italiana ai figli di migranti, nati in Italia o arrivati nel Paese entro i 12 anni, senza dover attendere la maggiore età. Basterebbe aver frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia per poter accedere a questo diritto. Tuttavia, nonostante le numerose proposte presentate negli anni per modificare i meccanismi di accesso alla cittadinanza, ogni tentativo è stato finora fallimentare. La legislazione attualmente in vigore in Italia è basata sullo ius sanguinis, che prevede che un bambino possa essere considerato italiano solo se lo è almeno uno dei genitori. Per tutti gli altri, privi di tale requisito, la cittadinanza può essere richiesta solo al compimento dei 18 anni. Ma anche dopo il raggiungimento della maggiore età, il percorso per ottenere la cittadinanza è lungo e spesso pieno di ostacoli burocratici, lasciando molti giovani ancora in attesa del riconoscimento di questo diritto. Le testimonianze di coloro che vivono questa condizione emergono con forza nel dibattito, per questo abbiamo chiesto ad alcuni dei giovani del progetto “Voci dal mondo” di raccontarci la loro esperienza in fatto di cittadinanza. Khelia, una ragazza di 27 anni di Perugia, figlia di immigrati africani, riflette sulla fortuna di essere nata da genitori che avevano già ottenuto la cittadinanza italiana. “Non credo che essere cittadini italiani dipenda dal merito o dagli studi. Sarebbe giusto che ragazzi come me, dopo un ciclo di studi, possano ottenerla”, afferma Khelia, evidenziando le disparità di trattamento tra chi, come lei, è nato da genitori già cittadini, e chi invece deve affrontare un lungo percorso per ottenerla. Ouns, 25 anni, nata in Italia da genitori tunisini, sottolinea l’urgenza di riformare una legge ormai inadeguata ai cambiamenti della società italiana. Dopo aver frequentato la scuola italiana per dieci anni, ha finalmente ottenuto la cittadinanza a 18 anni, ma si chiede perché ciò non possa avvenire prima. “La cittadinanza non deve essere considerata un premio, ma un riconoscimento naturale per chi cresce e si forma in Italia”, afferma. Infine, la storia di Janeth, nata in Ecuador e cresciuta in Italia, evidenzia le difficoltà pratiche legate alla mancanza di cittadinanza, che l’hanno penalizzata in diverse occasioni, come quando ha perso la possibilità di partecipare a uno stage a Londra a causa dei tempi lunghi per ottenere un visto. “Siamo italiani di fatto, ma non di diritto. Cosa significa davvero appartenere a un Paese? Quante prove dobbiamo superare prima di essere riconosciuti come cittadini italiani?”, si chiede Janeth, che ha ottenuto la cittadinanza solo all’età di 27 anni, dopo un percorso lungo e frustrante.  

Come funziona la legge sulla cittadinanza oggi?

La legge attuale è del 1992 e prevede che la cittadinanza venga ereditata alla nascita se almeno uno dei due genitori è italiano ( ius sanguinis , cioè “legge del sangue”). Ad oggi un bambino nato in Italia da genitori stranieri può richiedere la cittadinanza solo dopo i 18 anni e solo se ha vissuto ininterrottamente in Italia. Gli altri cittadini stranieri, invece, possono ottenerla dopo una residenza di almeno dieci anni.

Che differenza c’è tra ius scholae e ius soli?

lus scholae: la cittadinanza viene assegnata dopo aver frequentato un ciclo studi per un determinato periodo di tempo. lus soli: la cittadinanza del Paese in cui si nasce viene ottenuta automaticamente. Non è la prima volta che la politica parla di riforma della legge sulla cittadinanza. Nel 2015 la Camera aveva approvato una legge che prevedeva una forma di ius soli , ma il testo non venne mai approvato dal Senato. Nella scorsa legislatura, il Parlamento ha discusso di ius scholae, ma la legge non è stata approvata. Valentina Russo]]>

Il dibattito sullo ius scholae si è riacceso nell’ultimo mese grazie alle dichiarazioni del vicepremier e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha apertamente sostenuto la necessità di introdurre questa riforma, nonostante non fosse prevista nel programma del governo. “È quel che ha bisogno il Paese. L’Italia è cambiata”, ha dichiarato Tajani.

Sono oltre un milione gli italiani senza cittadinanza che aspettano con ansia la decisione della Camera dei deputati in merito alla proposta di legge sulla cittadinanza, per introdurre lo ius scholae. Questa riforma permetterebbe di concedere la cittadinanza italiana ai figli di migranti, nati in Italia o arrivati nel Paese entro i 12 anni, senza dover attendere la maggiore età. Basterebbe aver frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia per poter accedere a questo diritto. Tuttavia, nonostante le numerose proposte presentate negli anni per modificare i meccanismi di accesso alla cittadinanza, ogni tentativo è stato finora fallimentare. La legislazione attualmente in vigore in Italia è basata sullo ius sanguinis, che prevede che un bambino possa essere considerato italiano solo se lo è almeno uno dei genitori. Per tutti gli altri, privi di tale requisito, la cittadinanza può essere richiesta solo al compimento dei 18 anni. Ma anche dopo il raggiungimento della maggiore età, il percorso per ottenere la cittadinanza è lungo e spesso pieno di ostacoli burocratici, lasciando molti giovani ancora in attesa del riconoscimento di questo diritto. Le testimonianze di coloro che vivono questa condizione emergono con forza nel dibattito, per questo abbiamo chiesto ad alcuni dei giovani del progetto “Voci dal mondo” di raccontarci la loro esperienza in fatto di cittadinanza. Khelia, una ragazza di 27 anni di Perugia, figlia di immigrati africani, riflette sulla fortuna di essere nata da genitori che avevano già ottenuto la cittadinanza italiana. “Non credo che essere cittadini italiani dipenda dal merito o dagli studi. Sarebbe giusto che ragazzi come me, dopo un ciclo di studi, possano ottenerla”, afferma Khelia, evidenziando le disparità di trattamento tra chi, come lei, è nato da genitori già cittadini, e chi invece deve affrontare un lungo percorso per ottenerla. Ouns, 25 anni, nata in Italia da genitori tunisini, sottolinea l’urgenza di riformare una legge ormai inadeguata ai cambiamenti della società italiana. Dopo aver frequentato la scuola italiana per dieci anni, ha finalmente ottenuto la cittadinanza a 18 anni, ma si chiede perché ciò non possa avvenire prima. “La cittadinanza non deve essere considerata un premio, ma un riconoscimento naturale per chi cresce e si forma in Italia”, afferma. Infine, la storia di Janeth, nata in Ecuador e cresciuta in Italia, evidenzia le difficoltà pratiche legate alla mancanza di cittadinanza, che l’hanno penalizzata in diverse occasioni, come quando ha perso la possibilità di partecipare a uno stage a Londra a causa dei tempi lunghi per ottenere un visto. “Siamo italiani di fatto, ma non di diritto. Cosa significa davvero appartenere a un Paese? Quante prove dobbiamo superare prima di essere riconosciuti come cittadini italiani?”, si chiede Janeth, che ha ottenuto la cittadinanza solo all’età di 27 anni, dopo un percorso lungo e frustrante.  

Come funziona la legge sulla cittadinanza oggi?

La legge attuale è del 1992 e prevede che la cittadinanza venga ereditata alla nascita se almeno uno dei due genitori è italiano ( ius sanguinis , cioè “legge del sangue”). Ad oggi un bambino nato in Italia da genitori stranieri può richiedere la cittadinanza solo dopo i 18 anni e solo se ha vissuto ininterrottamente in Italia. Gli altri cittadini stranieri, invece, possono ottenerla dopo una residenza di almeno dieci anni.

Che differenza c’è tra ius scholae e ius soli?

lus scholae: la cittadinanza viene assegnata dopo aver frequentato un ciclo studi per un determinato periodo di tempo. lus soli: la cittadinanza del Paese in cui si nasce viene ottenuta automaticamente. Non è la prima volta che la politica parla di riforma della legge sulla cittadinanza. Nel 2015 la Camera aveva approvato una legge che prevedeva una forma di ius soli , ma il testo non venne mai approvato dal Senato. Nella scorsa legislatura, il Parlamento ha discusso di ius scholae, ma la legge non è stata approvata. Valentina Russo]]>
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Terni. La parrocchia con un oratorio multiculturale https://www.lavoce.it/terni-la-parrocchia-con-un-oratorio-multiculturale/ https://www.lavoce.it/terni-la-parrocchia-con-un-oratorio-multiculturale/#respond Tue, 30 Jul 2024 08:34:35 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78353 La chiesa e l'oratorio di Santa Maria del Carmelo a Terni

“Questa zona è una delle periferie di Terni e negli ultimi anni è diventata una realtà multietnica. Una periferia non solo fisica, ma anche esistenziale, con tante necessità e tante esigenze, soprattutto dal punto di vista sociale”.

Don Giuseppe Zen da pochi mesi è direttore della Caritas diocesana di Terni-Narni-Amelia e - in questa veste - si è trovato a portare avanti un progetto iniziato tre anni fa. “Per cercare di intervenire sui problemi che riguardano la sfera sociale - aggiunge il sacerdote - , è partita una collaborazione tra la parrocchia di Santa Maria del Carmelo e quella di San Giovanni Evangelista. Il progetto si chiama ‘GoLife’ e non a caso, perché indica una sorta di ritorno alla vita, perché l’intento è proprio questo: ridare vita e speranza in questa zona di Terni”. Un progetto che nasce in collaborazione con Pepita, la cooperativa che mette in campo formatori ed educatori esperti che, ormai da molti anni, operano in tanti oratori umbri. “Siamo al terzo anno di progetto - spiega ancora don Giuseppe - e stiamo vedendo proprio i primi risultati sul territorio perché è stato possibile rivitalizzare la zona, grazie al grande lavoro degli animatori. Tutto ciò anche grazie alla progettazione e ai fondi 8xmille”. Facendo lo slalom tra i gruppi dei ragazzini che si ritrovano in parrocchia per il centro estivo, balza subito agli occhi che la maggior parte di loro non sono italiani e alcuni nemmeno cristiani. “Quando siamo arrivati qui tre anni fa - ci racconta Gaia Corrieri di Pepita - , abbiamo trovato questo campetto abitato dai ragazzi, che però erano tutti divisi fra di loro in base alla loro etnia, alla loro lingua e alla loro cultura. Sono tre anni che stiamo cercando di creare, invece, una aggregazione sociale, valorizzando tutti i ragazzi e le ragazze. Questo anche grazie agli spazi di gioco esterni e anche interni della parrocchia, che ci permettono di fare attività invernali ed estive, per riqualificare e ampliare la ricchezza di questo quartiere”. Dunque, Gaia, le tante e diverse provenienze degli abitanti non sono un problema, giusto? “In realtà, la multietnia e l’intercultura generano una cultura popolare e sociale ricca, come anche l’integrazione fra i bambini genera amicizia e dialogo fra le realtà, cose che quando siamo arrivati tre anni fa non c’erano. Diciamo che le famiglie di questi ragazzi del quartiere stanno pian piano riconoscendo il valore dell’oratorio di Santa Maria del Carmelo e del progetto Caritas perché trovano educatori preparati, formati e capaci di offrire determinati servizi”. Quali, in particolare, le attività? “Durante l’inverno, un servizio primario è sicuramente il doposcuola. Siamo molto legati alle scuole del territorio che ospitano bambini delle elementari e delle medie, che spesso sono estremamente in difficoltà. Non solo per questioni linguistiche ma anche proprio di comprensione dei programmi scolastici italiani. Perciò, in oratorio con i volontari della parrocchia portiamo avanti un servizio di doposcuola gratuito che supporta le famiglie con difficoltà economica e permette ai ragazzi di poter avere un aiuto concreto. E poi tante attività di gioco e di sport che permettano il dialogo e relazione fra le varie etnie. L’obiettivo di Pepita è fare in modo che l’oratorio diventi una casa per tutti, per chiunque vuole instaurare relazioni. La cosa bellissima è che alla nostra realtà si sono avvicinati dei giovani adolescenti delle superiori che si sono messi a servizio dei più piccoli della comunità per le varie attività oratoriali. Una crescita individuale e di gruppo, che ci permette di rafforzare una speranza per il futuro, oltre la conclusione del progetto”. Daniele Morini]]>
La chiesa e l'oratorio di Santa Maria del Carmelo a Terni

“Questa zona è una delle periferie di Terni e negli ultimi anni è diventata una realtà multietnica. Una periferia non solo fisica, ma anche esistenziale, con tante necessità e tante esigenze, soprattutto dal punto di vista sociale”.

Don Giuseppe Zen da pochi mesi è direttore della Caritas diocesana di Terni-Narni-Amelia e - in questa veste - si è trovato a portare avanti un progetto iniziato tre anni fa. “Per cercare di intervenire sui problemi che riguardano la sfera sociale - aggiunge il sacerdote - , è partita una collaborazione tra la parrocchia di Santa Maria del Carmelo e quella di San Giovanni Evangelista. Il progetto si chiama ‘GoLife’ e non a caso, perché indica una sorta di ritorno alla vita, perché l’intento è proprio questo: ridare vita e speranza in questa zona di Terni”. Un progetto che nasce in collaborazione con Pepita, la cooperativa che mette in campo formatori ed educatori esperti che, ormai da molti anni, operano in tanti oratori umbri. “Siamo al terzo anno di progetto - spiega ancora don Giuseppe - e stiamo vedendo proprio i primi risultati sul territorio perché è stato possibile rivitalizzare la zona, grazie al grande lavoro degli animatori. Tutto ciò anche grazie alla progettazione e ai fondi 8xmille”. Facendo lo slalom tra i gruppi dei ragazzini che si ritrovano in parrocchia per il centro estivo, balza subito agli occhi che la maggior parte di loro non sono italiani e alcuni nemmeno cristiani. “Quando siamo arrivati qui tre anni fa - ci racconta Gaia Corrieri di Pepita - , abbiamo trovato questo campetto abitato dai ragazzi, che però erano tutti divisi fra di loro in base alla loro etnia, alla loro lingua e alla loro cultura. Sono tre anni che stiamo cercando di creare, invece, una aggregazione sociale, valorizzando tutti i ragazzi e le ragazze. Questo anche grazie agli spazi di gioco esterni e anche interni della parrocchia, che ci permettono di fare attività invernali ed estive, per riqualificare e ampliare la ricchezza di questo quartiere”. Dunque, Gaia, le tante e diverse provenienze degli abitanti non sono un problema, giusto? “In realtà, la multietnia e l’intercultura generano una cultura popolare e sociale ricca, come anche l’integrazione fra i bambini genera amicizia e dialogo fra le realtà, cose che quando siamo arrivati tre anni fa non c’erano. Diciamo che le famiglie di questi ragazzi del quartiere stanno pian piano riconoscendo il valore dell’oratorio di Santa Maria del Carmelo e del progetto Caritas perché trovano educatori preparati, formati e capaci di offrire determinati servizi”. Quali, in particolare, le attività? “Durante l’inverno, un servizio primario è sicuramente il doposcuola. Siamo molto legati alle scuole del territorio che ospitano bambini delle elementari e delle medie, che spesso sono estremamente in difficoltà. Non solo per questioni linguistiche ma anche proprio di comprensione dei programmi scolastici italiani. Perciò, in oratorio con i volontari della parrocchia portiamo avanti un servizio di doposcuola gratuito che supporta le famiglie con difficoltà economica e permette ai ragazzi di poter avere un aiuto concreto. E poi tante attività di gioco e di sport che permettano il dialogo e relazione fra le varie etnie. L’obiettivo di Pepita è fare in modo che l’oratorio diventi una casa per tutti, per chiunque vuole instaurare relazioni. La cosa bellissima è che alla nostra realtà si sono avvicinati dei giovani adolescenti delle superiori che si sono messi a servizio dei più piccoli della comunità per le varie attività oratoriali. Una crescita individuale e di gruppo, che ci permette di rafforzare una speranza per il futuro, oltre la conclusione del progetto”. Daniele Morini]]>
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Piazza della Pace diventa cuore di integrazione a Terni https://www.lavoce.it/piazza-della-pace-diventa-cuore-di-integrazione-a-terni/ https://www.lavoce.it/piazza-della-pace-diventa-cuore-di-integrazione-a-terni/#respond Tue, 30 Jul 2024 08:23:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=78350

Oltre che luogo simbolico per i valori della pace e del dialogo, piazza della Pace a Terni è anche lo spazio urbano - nel cuore del quartiere “Villaggio Italia” - dove si affacciano vari luoghi di aggregazione e di socialità, come la Cittadella delle associazioni.

Viorica Bunduc è una sociologa di origini rumene, che abita in Italia da oltre vent’anni e collabora come consulente del sindaco Bandecchi in vari ambiti, tra i quali le migrazioni. “Lavoro nel Terzo settore da più di 15 anni - spiega Viorica - e mi occupo in particolare di migrazioni, di donne, di bambini e ragazzi. Di tutti quelli che hanno bisogno di noi. Per tutti noi arriva un momento della vita in cui abbiamo bisogno di una mano tesa. Ecco, io cerco di essere quella mano tesa e insieme alle altre associazioni facciamo tanti progetti, anche qui alla Cittadella, dove cerco di dare una mano al Comune come volontaria”. La dottoressa Bunduc, che molti a Terni conoscono col nome di Viola, è la coordinatrice del laboratorio territoriale Punto di ascolto sociologico, in rappresentanza dell’Associazione sociologi italiani. “Quando si parla di migranti aggiunge - , tutti tirano fuori i barconi, le guerre ma si parla troppo poco dei dati delle comunità. Qui a Terni, ad esempio, il 62,9% degli stranieri è formato da europei, il 32,3% da rumeni. Poi ci sono albanesi, ucraini e il 14,4% è fatto da africani, il 7,3% da asiatici. Questo ci fa pensare che le politiche sociali da mettere in atto sono diverse da territori con una maggioranza di migranti africani”. Come si può lavorare per l’inclusione e l’integrazione, chiediamo a Viorica. “Se non teniamo conto dei bisogni e dello scopo con cui i migranti arrivano sul territorio - ci dice la sociologa - , non si potrà mai fare una buona integrazione. Dobbiamo cercare di alleggerire i traumi del migrante che arriva qui, con le sue speranze e aspettative. Anche perché spesso non trova quello che spera. Ma dobbiamo rendere più leggera anche la paura di chi accoglie e ospita, perché le persone vedono arrivare a casa propria altre persone che non conoscono. Ne hanno paura”. E allora, conoscersi significa anche mostrare la propria identità di origine e le proprie tradizioni. Per questo Viorica è arrivata in piazza della Pace, insieme al marito e alla figlia, con i costumi tradizionali della Romania, il suo paese di origine. “Non è la prima volta che li indossiamo, qui a Terni. Un paio di anni fa, proprio qui su questa piazza, abbiamo organizzato una festa interculturale, in cui tutte le comunità del territorio hanno partecipato con i propri costumi. Questo rappresenta le mie origini”. Dalla Romania arriva anche Gina Dumitriu, presidente dell’associazione Fiore Blu, che si occupa proprio di integrazione di chi ha origini rumene sul territorio. “La nostra associazione nasce nel 2008 e il fiore blu è proprio un simbolo per dire che non dobbiamo mai dimenticarci chi siamo e da dove veniamo. Qui a Terni siamo impegnati per la cittadinanza attiva e non solo per l’integrazione. Alla Cittadella delle associazioni siamo partiti con il nostro centro di assistenza, consulenza e informazioni con il volontariato e adesso è riconosciuto dal governo della Romania e dell’ambasciata rumena in Italia”. Gina spiega che l’associazione si occupa di tante cose, dalle pratiche come le pensioni internazionali e l’assistenza fiscale, fino alla trascrizione degli atti civili. E poi una scuola di lingua, corsi di arteterapia, pittura, artigianato. “Mi ha aiutato tantissimo - spiega Gina - il fatto che sono un’insegnante. E devo dire che qui le nuove generazioni sono molto aperte a quello che significa integrazione e multicultura”. Se la presidente Dumitriu si occupa della comunità rumena, Esohe Ehigiator guida l’associazione “Arcobaleno e il mare” e si occupa di migranti nigeriani, grazie anche a servizi che permettono loro di non dover andare in consolato a Roma. “In realtà, la nostra associazione, come altre che fanno parte della Cittadella - spiega Esohe - si occupa di tutte le persone vulnerabili, di ogni età e di ogni etnia. Di solito, non molliamo finché non vediamo che la persona è in grado di camminare con le sue gambe, a cominciare dalle donne e dai loro figli. Tanti bambini mi chiamano ‘zia’ - ci dice contenta perché sono riusciti a crescere grazie all’associazione e alle nostre attività. E ora guardiamo con grande attenzione e soddisfazione ai giovani migranti di seconda generazione, perché il futuro dei nostri territori e delle nostre comunità è nelle loro mani”. Daniele Morini]]>

Oltre che luogo simbolico per i valori della pace e del dialogo, piazza della Pace a Terni è anche lo spazio urbano - nel cuore del quartiere “Villaggio Italia” - dove si affacciano vari luoghi di aggregazione e di socialità, come la Cittadella delle associazioni.

Viorica Bunduc è una sociologa di origini rumene, che abita in Italia da oltre vent’anni e collabora come consulente del sindaco Bandecchi in vari ambiti, tra i quali le migrazioni. “Lavoro nel Terzo settore da più di 15 anni - spiega Viorica - e mi occupo in particolare di migrazioni, di donne, di bambini e ragazzi. Di tutti quelli che hanno bisogno di noi. Per tutti noi arriva un momento della vita in cui abbiamo bisogno di una mano tesa. Ecco, io cerco di essere quella mano tesa e insieme alle altre associazioni facciamo tanti progetti, anche qui alla Cittadella, dove cerco di dare una mano al Comune come volontaria”. La dottoressa Bunduc, che molti a Terni conoscono col nome di Viola, è la coordinatrice del laboratorio territoriale Punto di ascolto sociologico, in rappresentanza dell’Associazione sociologi italiani. “Quando si parla di migranti aggiunge - , tutti tirano fuori i barconi, le guerre ma si parla troppo poco dei dati delle comunità. Qui a Terni, ad esempio, il 62,9% degli stranieri è formato da europei, il 32,3% da rumeni. Poi ci sono albanesi, ucraini e il 14,4% è fatto da africani, il 7,3% da asiatici. Questo ci fa pensare che le politiche sociali da mettere in atto sono diverse da territori con una maggioranza di migranti africani”. Come si può lavorare per l’inclusione e l’integrazione, chiediamo a Viorica. “Se non teniamo conto dei bisogni e dello scopo con cui i migranti arrivano sul territorio - ci dice la sociologa - , non si potrà mai fare una buona integrazione. Dobbiamo cercare di alleggerire i traumi del migrante che arriva qui, con le sue speranze e aspettative. Anche perché spesso non trova quello che spera. Ma dobbiamo rendere più leggera anche la paura di chi accoglie e ospita, perché le persone vedono arrivare a casa propria altre persone che non conoscono. Ne hanno paura”. E allora, conoscersi significa anche mostrare la propria identità di origine e le proprie tradizioni. Per questo Viorica è arrivata in piazza della Pace, insieme al marito e alla figlia, con i costumi tradizionali della Romania, il suo paese di origine. “Non è la prima volta che li indossiamo, qui a Terni. Un paio di anni fa, proprio qui su questa piazza, abbiamo organizzato una festa interculturale, in cui tutte le comunità del territorio hanno partecipato con i propri costumi. Questo rappresenta le mie origini”. Dalla Romania arriva anche Gina Dumitriu, presidente dell’associazione Fiore Blu, che si occupa proprio di integrazione di chi ha origini rumene sul territorio. “La nostra associazione nasce nel 2008 e il fiore blu è proprio un simbolo per dire che non dobbiamo mai dimenticarci chi siamo e da dove veniamo. Qui a Terni siamo impegnati per la cittadinanza attiva e non solo per l’integrazione. Alla Cittadella delle associazioni siamo partiti con il nostro centro di assistenza, consulenza e informazioni con il volontariato e adesso è riconosciuto dal governo della Romania e dell’ambasciata rumena in Italia”. Gina spiega che l’associazione si occupa di tante cose, dalle pratiche come le pensioni internazionali e l’assistenza fiscale, fino alla trascrizione degli atti civili. E poi una scuola di lingua, corsi di arteterapia, pittura, artigianato. “Mi ha aiutato tantissimo - spiega Gina - il fatto che sono un’insegnante. E devo dire che qui le nuove generazioni sono molto aperte a quello che significa integrazione e multicultura”. Se la presidente Dumitriu si occupa della comunità rumena, Esohe Ehigiator guida l’associazione “Arcobaleno e il mare” e si occupa di migranti nigeriani, grazie anche a servizi che permettono loro di non dover andare in consolato a Roma. “In realtà, la nostra associazione, come altre che fanno parte della Cittadella - spiega Esohe - si occupa di tutte le persone vulnerabili, di ogni età e di ogni etnia. Di solito, non molliamo finché non vediamo che la persona è in grado di camminare con le sue gambe, a cominciare dalle donne e dai loro figli. Tanti bambini mi chiamano ‘zia’ - ci dice contenta perché sono riusciti a crescere grazie all’associazione e alle nostre attività. E ora guardiamo con grande attenzione e soddisfazione ai giovani migranti di seconda generazione, perché il futuro dei nostri territori e delle nostre comunità è nelle loro mani”. Daniele Morini]]>
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La battaglia pseudolegale contro i luoghi di culto https://www.lavoce.it/battaglia-pseudolegale-contro-luoghi-culto/ https://www.lavoce.it/battaglia-pseudolegale-contro-luoghi-culto/#respond Wed, 27 Mar 2024 13:00:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75489

La settimana scorsa abbiamo parlato della scuola lombarda che ha deciso una giornata di chiusura in occasione della principale festività islamica, avendo preso atto che la metà degli studenti avrebbe comunque fatto vacanza. Oggi parliamo di Monfalcone, cittadina in provincia di Gorizia, dove risiedono migliaia di immigrati, in gran parte bengalesi di religione islamica occupati come operai nei cantieri navali.

Da tempo tutti questi immigrati sono alla ricerca di un luogo adatto per tenervi i propri riti di culto, ma sono ostacolati dall’amministrazione comunale, in persona della sindaca che su questo sta costruendo la sua candidatura al Parlamento europeo. Sa benissimo che non può vietare (come vorrebbero i suoi elettori) agli islamici di avere un luogo di culto, ma fa come Bertoldo che, condannato all’impiccagione, aveva chiesto al re il privilegio di scegliere l’albero: appena quelli trovano una sede, gli uffici comunali hanno un pretesto pseudolegale per dire che lì non si può.

A dire che si tratta di pretesti pseudolegali non sono io, ma il Tar di Trieste e il Consiglio di Stato, con decisioni pubblicate in questi giorni, con lodevole celerità. Il Tar di Trieste, con una sentenza del 23 marzo, ha dovuto spiegare che se qualcuno vuole utilizzare un ampio cortile come luogo di preghiera, non ha senso dire che quel piazzale è “inagibile”, perché il concetto di agibilità riguarda solo i fabbricati. Se i musulmani di Monfalcone vogliono invece pregare nella sala riunioni del loro centro culturale, il Comune dice che se una sala è adibita a conferenze non è legittimo utilizzarla per la preghiera comune; ma la causa farà la stessa fine (ciascuno di noi ha assistito a messe celebrate negli ambienti più diversi, senza che a nessuno venisse in mente di dire che fosse illegale).

Si capisce che questi interventi del Comune di Monfalcone non sono dettati da scrupoli legalitari, ma dalla volontà di emarginare e umiliare un gruppo sociale sentito come estraneo. Si può capire che molti cattolici – compreso chi scrive – provino dolore vedendo le antiche chiese delle nostre città finire in abbandono perché mancano i fedeli e i celebranti, mentre una religione in crescita, praticata da stranieri immigrati, cerca i suoi spazi. Ma non basta impedire l’apertura delle moschee perché le chiese abbandonate dopo secoli di vita tornino a riempirsi.

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La settimana scorsa abbiamo parlato della scuola lombarda che ha deciso una giornata di chiusura in occasione della principale festività islamica, avendo preso atto che la metà degli studenti avrebbe comunque fatto vacanza. Oggi parliamo di Monfalcone, cittadina in provincia di Gorizia, dove risiedono migliaia di immigrati, in gran parte bengalesi di religione islamica occupati come operai nei cantieri navali.

Da tempo tutti questi immigrati sono alla ricerca di un luogo adatto per tenervi i propri riti di culto, ma sono ostacolati dall’amministrazione comunale, in persona della sindaca che su questo sta costruendo la sua candidatura al Parlamento europeo. Sa benissimo che non può vietare (come vorrebbero i suoi elettori) agli islamici di avere un luogo di culto, ma fa come Bertoldo che, condannato all’impiccagione, aveva chiesto al re il privilegio di scegliere l’albero: appena quelli trovano una sede, gli uffici comunali hanno un pretesto pseudolegale per dire che lì non si può.

A dire che si tratta di pretesti pseudolegali non sono io, ma il Tar di Trieste e il Consiglio di Stato, con decisioni pubblicate in questi giorni, con lodevole celerità. Il Tar di Trieste, con una sentenza del 23 marzo, ha dovuto spiegare che se qualcuno vuole utilizzare un ampio cortile come luogo di preghiera, non ha senso dire che quel piazzale è “inagibile”, perché il concetto di agibilità riguarda solo i fabbricati. Se i musulmani di Monfalcone vogliono invece pregare nella sala riunioni del loro centro culturale, il Comune dice che se una sala è adibita a conferenze non è legittimo utilizzarla per la preghiera comune; ma la causa farà la stessa fine (ciascuno di noi ha assistito a messe celebrate negli ambienti più diversi, senza che a nessuno venisse in mente di dire che fosse illegale).

Si capisce che questi interventi del Comune di Monfalcone non sono dettati da scrupoli legalitari, ma dalla volontà di emarginare e umiliare un gruppo sociale sentito come estraneo. Si può capire che molti cattolici – compreso chi scrive – provino dolore vedendo le antiche chiese delle nostre città finire in abbandono perché mancano i fedeli e i celebranti, mentre una religione in crescita, praticata da stranieri immigrati, cerca i suoi spazi. Ma non basta impedire l’apertura delle moschee perché le chiese abbandonate dopo secoli di vita tornino a riempirsi.

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I migranti non possono essere fermati https://www.lavoce.it/i-migranti-non-possono-essere-fermati/ https://www.lavoce.it/i-migranti-non-possono-essere-fermati/#respond Fri, 22 Sep 2023 15:55:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73427

Ancora una volta è al centro dell’attenzione il tema immigrazione; e più specificamente di quel flusso di immigrati che arriva via mare dalle coste libiche e tunisine a quelle siciliane (Lampedusa, ma non solo). Quando l’attuale maggioranza di Governo era all’opposizione, praticamente approfittava di ogni nuovo sbarco per sollevare una polemica contro l’inefficienza dei Governi allora in carica.

Adesso gli sbarchi sono molti di più, ma non ne daremo la colpa al Governo: dipendono dal fatto che nei Paesi di provenienza le condizioni di vita sono sempre più difficili e sono state aggravate anche da catastrofi come il terremoto in Marocco e i cataclismi in Libia. Ma soprattutto – ne abbiamo già parlato più volte – il problema di fondo dell’intero Continente africano è la pressione demografica.

Nel 1988 la popolazione dell’Africa si stimava in 570 milioni di persone. Alla fine del 2022 – il dato più recente che trovo – era un miliardo e 340 milioni: 770 milioni in più. Nello stesso periodo la popolazione del Continente europeo è rimasta praticamente invariata (700 milioni o poco più). Non basta: l’Africa continua e continuerà a crescere con lo stesso ritmo, l’Europa finora ha evitato il crollo demografico solo grazie all’immigrazione e all’allungamento della durata media della vita.

Gli Stati africani hanno un indice di crescita fra il 2 e il 3 per cento all’anno, quelli europei lo hanno in genere negativo (nonostante gli immigrati, che una volta qui sono più prolifici dei vecchi residenti), e l’Italia è fra quelli che da questo punto di vista sta peggio. Qui da noi, da un anno all’altro si tagliano le classi perché ci sono meno scolari; laggiù, ogni anno aumenta il numero di quelli che cercano invano un posto nelle scuole, poi un posto di lavoro, una casa. Il tutto in un Continente ricchissimo di risorse naturali ma povero di strutture sociali e culturali, di servizi collettivi, di istituzioni pubbliche solide.

Nell’Africa subsahariana ci sono Paesi dove la sottonutrizione riguarda il 20, il 30, il 50 per cento della popolazione. E vorreste che non scappino con qualsiasi mezzo, per venire a vivere in un Continente, l’Europa, dove di tutto il cibo che si produce è più quello che si spreca che quello che si consuma realmente? Rassegniamoci, nulla potrà fermarli.

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Ancora una volta è al centro dell’attenzione il tema immigrazione; e più specificamente di quel flusso di immigrati che arriva via mare dalle coste libiche e tunisine a quelle siciliane (Lampedusa, ma non solo). Quando l’attuale maggioranza di Governo era all’opposizione, praticamente approfittava di ogni nuovo sbarco per sollevare una polemica contro l’inefficienza dei Governi allora in carica.

Adesso gli sbarchi sono molti di più, ma non ne daremo la colpa al Governo: dipendono dal fatto che nei Paesi di provenienza le condizioni di vita sono sempre più difficili e sono state aggravate anche da catastrofi come il terremoto in Marocco e i cataclismi in Libia. Ma soprattutto – ne abbiamo già parlato più volte – il problema di fondo dell’intero Continente africano è la pressione demografica.

Nel 1988 la popolazione dell’Africa si stimava in 570 milioni di persone. Alla fine del 2022 – il dato più recente che trovo – era un miliardo e 340 milioni: 770 milioni in più. Nello stesso periodo la popolazione del Continente europeo è rimasta praticamente invariata (700 milioni o poco più). Non basta: l’Africa continua e continuerà a crescere con lo stesso ritmo, l’Europa finora ha evitato il crollo demografico solo grazie all’immigrazione e all’allungamento della durata media della vita.

Gli Stati africani hanno un indice di crescita fra il 2 e il 3 per cento all’anno, quelli europei lo hanno in genere negativo (nonostante gli immigrati, che una volta qui sono più prolifici dei vecchi residenti), e l’Italia è fra quelli che da questo punto di vista sta peggio. Qui da noi, da un anno all’altro si tagliano le classi perché ci sono meno scolari; laggiù, ogni anno aumenta il numero di quelli che cercano invano un posto nelle scuole, poi un posto di lavoro, una casa. Il tutto in un Continente ricchissimo di risorse naturali ma povero di strutture sociali e culturali, di servizi collettivi, di istituzioni pubbliche solide.

Nell’Africa subsahariana ci sono Paesi dove la sottonutrizione riguarda il 20, il 30, il 50 per cento della popolazione. E vorreste che non scappino con qualsiasi mezzo, per venire a vivere in un Continente, l’Europa, dove di tutto il cibo che si produce è più quello che si spreca che quello che si consuma realmente? Rassegniamoci, nulla potrà fermarli.

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Altri modi di narrare gli sbarchi di immigrati https://www.lavoce.it/altri-modi-di-narrare-gli-sbarchi-di-immigrati/ https://www.lavoce.it/altri-modi-di-narrare-gli-sbarchi-di-immigrati/#respond Thu, 21 Sep 2023 10:48:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73410

di Marco Pagniello*

Sono certamente giorni difficili quelli che stiamo vivendo sul fronte immigrazione. Le immagini che arrivano da Lampedusa ci raccontano le tensioni, le fatiche e le paure di queste ultime ore, ma ci riportano a immagini già viste e ci dicono che è tempo di cambiare, di fare altre scelte coraggiose e condivise perché questo momento non diventi l’ennesimo già visto, ma sia un punto di partenza, rappresenti una svolta nel percorso che noi tutti, insieme, possiamo e dobbiamo fare per scrivere una pagina nuova nella storia delle politiche migratorie italiane.

In più occasioni abbiamo sottolineato come non si possa più parlare di emergenza poiché ormai il fenomeno è sistematico. Ciclicamente registriamo da anni fasi di picco e le tragedie che hanno devastato alcuni Paesi dell’Africa di recente; ma anche i tanti drammi, le carestie e le guerre civili che si vivono in altri sono un elemento che influisce sugli sbarchi e su questi picchi di arrivo. Sono persone che fuggono perché i loro diritti e la loro vita sono in pericolo costante; persone cui il viaggio nel deserto e in mare sembra meno pericoloso che rimanere in certi contesti. Ma queste considerazioni, che tutti conosciamo, ci dicono che possiamo realmente incidere e produrre un cambiamento se invertiamo la narrazione e scegliamo di avviare una svolta nella costruzione delle politiche di accoglienza e inclusione in Italia e in Europa.

Un percorso che ci deve vedere tutti uniti, e in cui tutti possono dare il proprio contributo uscendo dalle logiche di contrapposizione. La Chiesa non si è tirata mai indietro, e non lo ha fatto in questi mesi e in queste ultime settimane: un lavoro costante e prezioso che ci permette da anni di accompagnare le persone che arrivano, ma anche le comunità verso un percorso di conoscenza reciproca e di ospitalità fiduciosa dell’altro.

Comprendiamo la fatica e siamo consapevoli degli sforzi delle autorità tutte, degli enti locali e anche delle altre organizzazioni; ma è evidente e necessario lavorare insieme e non divisi, valorizzare il lavoro e le buone pratiche già attive che dicono che è possibile costruire vie di ingresso dignitose e sicure, percorsi di inclusione e azioni di empowerment efficaci i cui risultati ci fanno crescere e migliorare insieme, sostenersi e dialogare in tavoli istituzionali ad hoc e sui territori. In un’ottica di solidarietà ma anche di reale ed efficace sussidiarietà, che non si esauriscano con il finire della bella stagione, che non siano una risposta temporanea, ma siano un punto di partenza nuovo, un passo verso il cambiamento.

* direttore di Caritas italiana
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di Marco Pagniello*

Sono certamente giorni difficili quelli che stiamo vivendo sul fronte immigrazione. Le immagini che arrivano da Lampedusa ci raccontano le tensioni, le fatiche e le paure di queste ultime ore, ma ci riportano a immagini già viste e ci dicono che è tempo di cambiare, di fare altre scelte coraggiose e condivise perché questo momento non diventi l’ennesimo già visto, ma sia un punto di partenza, rappresenti una svolta nel percorso che noi tutti, insieme, possiamo e dobbiamo fare per scrivere una pagina nuova nella storia delle politiche migratorie italiane.

In più occasioni abbiamo sottolineato come non si possa più parlare di emergenza poiché ormai il fenomeno è sistematico. Ciclicamente registriamo da anni fasi di picco e le tragedie che hanno devastato alcuni Paesi dell’Africa di recente; ma anche i tanti drammi, le carestie e le guerre civili che si vivono in altri sono un elemento che influisce sugli sbarchi e su questi picchi di arrivo. Sono persone che fuggono perché i loro diritti e la loro vita sono in pericolo costante; persone cui il viaggio nel deserto e in mare sembra meno pericoloso che rimanere in certi contesti. Ma queste considerazioni, che tutti conosciamo, ci dicono che possiamo realmente incidere e produrre un cambiamento se invertiamo la narrazione e scegliamo di avviare una svolta nella costruzione delle politiche di accoglienza e inclusione in Italia e in Europa.

Un percorso che ci deve vedere tutti uniti, e in cui tutti possono dare il proprio contributo uscendo dalle logiche di contrapposizione. La Chiesa non si è tirata mai indietro, e non lo ha fatto in questi mesi e in queste ultime settimane: un lavoro costante e prezioso che ci permette da anni di accompagnare le persone che arrivano, ma anche le comunità verso un percorso di conoscenza reciproca e di ospitalità fiduciosa dell’altro.

Comprendiamo la fatica e siamo consapevoli degli sforzi delle autorità tutte, degli enti locali e anche delle altre organizzazioni; ma è evidente e necessario lavorare insieme e non divisi, valorizzare il lavoro e le buone pratiche già attive che dicono che è possibile costruire vie di ingresso dignitose e sicure, percorsi di inclusione e azioni di empowerment efficaci i cui risultati ci fanno crescere e migliorare insieme, sostenersi e dialogare in tavoli istituzionali ad hoc e sui territori. In un’ottica di solidarietà ma anche di reale ed efficace sussidiarietà, che non si esauriscano con il finire della bella stagione, che non siano una risposta temporanea, ma siano un punto di partenza nuovo, un passo verso il cambiamento.

* direttore di Caritas italiana
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Cinica politica sugli immigrati https://www.lavoce.it/cinica-politica-immigrati/ https://www.lavoce.it/cinica-politica-immigrati/#respond Wed, 14 Jun 2023 15:42:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=72004 immigrati al lavoro nei campi

di Stefano De Martis

Da qualche tempo il tema degli immigrati come “pericolo” è tornato a fare breccia nell’opinione pubblica, e non solo in Italia. Non che fosse stato del tutto cancellato dai menù della propaganda politica, piuttosto era stato sopravanzato da altre paure, queste sì fondate e reali: prima la pandemia, poi la guerra. Il Covid però è stato sostanzialmente sconfitto; e alla guerra, purtroppo, si rischia di fare in qualche modo l’abitudine, se proprio non arriva dentro casa... Questo, almeno, è quanto riferiscono sondaggisti e sociologi.

La paura degli immigrati

Ma non si fa fatica ad averne conferma empirica anche attraverso un’osservazione meno rigorosa delle dinamiche della comunicazione e dell’informazione. Del resto la paura degli immigrati, che pure trova terreno fertile nelle conseguenze profonde di una globalizzazione ideologizzata e scomposta, è al centro di un circolo vizioso da cui è difficile uscire: gli stessi soggetti, politici e non, che riescono a inculcarla e ad alimentarla nell’opinione pubblica, poi ne sono fortemente condizionati perché si ritrovano a dover assecondare gli impulsi che loro stessi hanno sollecitato.

La Ue non riesce ad imprimere una svolta alla politica migratoria

Quando poi sono in vista dei passaggi elettorali – e, a prescindere da rilevanti appuntamenti nei singoli Stati, tra un anno si voterà comunque in tutta l’Unione europea –, il meccanismo diventa ancor più stringente. Ed è uno dei motivi per cui l’Ue non riesce a imprimere una svolta effettiva alla politica migratoria, anzi compie un passo avanti e uno indietro, come ha dimostrato anche il recentissimo accordo di Bruxelles. “Un compromesso cinico-politico”, lo ha definito il commissario europeo Paolo Gentiloni, ed è tutto dire. Lo spauracchio degli stranieri fa leva su pulsioni così intense che diventa difficile contrastarlo con argomenti razionali, anche ponendosi non su un piano umanitario e solidale – che dovrebbe essere prioritario quando si tratta di persone – ma su quello dell’economia.

Necessario il contributo degli immigrati

La situazione demografica del nostro Paese, per esempio, rende assolutamente necessario il contributo degli immigrati. Sono mesi che lo ripetono imprenditori e associazioni di categoria. Anche investendo tutte le energie possibili sulla promozione della natalità, com’è doveroso fare, almeno nei prossimi vent’anni non si potrà contare su “un aumento endogeno delle forze di lavoro”, per usare le parole di Ignazio Visco nella sua ultima relazione da governatore della Banca d’Italia

Potenziare i canali di ingresso regolari

In uno scenario del genere – fermo restando il dovere universale di salvare e di accogliere chi è in fuga –, la preoccupazione numero uno delle autorità politiche dovrebbe essere il potenziamento dei canali di ingresso regolari e dei percorsi di integrazione. L’accento continua invece a essere posto su rimpatri e respingimenti, in ossequio a una narrazione che vede l’arrivo degli immigrati come un’invasione da contrastare con ogni mezzo, addirittura evocando lo spettro della “sostituzione etnica”. In realtà, mentre gli sbarchi aumentano (e questo pone senza dubbio un problema in termini di accoglienza), il numero dei migranti effettivamente presenti sul territorio nazionale rimane sostanzialmente stabile dal 2018, con poco meno di 6 milioni di presenze.

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immigrati al lavoro nei campi

di Stefano De Martis

Da qualche tempo il tema degli immigrati come “pericolo” è tornato a fare breccia nell’opinione pubblica, e non solo in Italia. Non che fosse stato del tutto cancellato dai menù della propaganda politica, piuttosto era stato sopravanzato da altre paure, queste sì fondate e reali: prima la pandemia, poi la guerra. Il Covid però è stato sostanzialmente sconfitto; e alla guerra, purtroppo, si rischia di fare in qualche modo l’abitudine, se proprio non arriva dentro casa... Questo, almeno, è quanto riferiscono sondaggisti e sociologi.

La paura degli immigrati

Ma non si fa fatica ad averne conferma empirica anche attraverso un’osservazione meno rigorosa delle dinamiche della comunicazione e dell’informazione. Del resto la paura degli immigrati, che pure trova terreno fertile nelle conseguenze profonde di una globalizzazione ideologizzata e scomposta, è al centro di un circolo vizioso da cui è difficile uscire: gli stessi soggetti, politici e non, che riescono a inculcarla e ad alimentarla nell’opinione pubblica, poi ne sono fortemente condizionati perché si ritrovano a dover assecondare gli impulsi che loro stessi hanno sollecitato.

La Ue non riesce ad imprimere una svolta alla politica migratoria

Quando poi sono in vista dei passaggi elettorali – e, a prescindere da rilevanti appuntamenti nei singoli Stati, tra un anno si voterà comunque in tutta l’Unione europea –, il meccanismo diventa ancor più stringente. Ed è uno dei motivi per cui l’Ue non riesce a imprimere una svolta effettiva alla politica migratoria, anzi compie un passo avanti e uno indietro, come ha dimostrato anche il recentissimo accordo di Bruxelles. “Un compromesso cinico-politico”, lo ha definito il commissario europeo Paolo Gentiloni, ed è tutto dire. Lo spauracchio degli stranieri fa leva su pulsioni così intense che diventa difficile contrastarlo con argomenti razionali, anche ponendosi non su un piano umanitario e solidale – che dovrebbe essere prioritario quando si tratta di persone – ma su quello dell’economia.

Necessario il contributo degli immigrati

La situazione demografica del nostro Paese, per esempio, rende assolutamente necessario il contributo degli immigrati. Sono mesi che lo ripetono imprenditori e associazioni di categoria. Anche investendo tutte le energie possibili sulla promozione della natalità, com’è doveroso fare, almeno nei prossimi vent’anni non si potrà contare su “un aumento endogeno delle forze di lavoro”, per usare le parole di Ignazio Visco nella sua ultima relazione da governatore della Banca d’Italia

Potenziare i canali di ingresso regolari

In uno scenario del genere – fermo restando il dovere universale di salvare e di accogliere chi è in fuga –, la preoccupazione numero uno delle autorità politiche dovrebbe essere il potenziamento dei canali di ingresso regolari e dei percorsi di integrazione. L’accento continua invece a essere posto su rimpatri e respingimenti, in ossequio a una narrazione che vede l’arrivo degli immigrati come un’invasione da contrastare con ogni mezzo, addirittura evocando lo spettro della “sostituzione etnica”. In realtà, mentre gli sbarchi aumentano (e questo pone senza dubbio un problema in termini di accoglienza), il numero dei migranti effettivamente presenti sul territorio nazionale rimane sostanzialmente stabile dal 2018, con poco meno di 6 milioni di presenze.

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Gli immigrati e la pensione https://www.lavoce.it/gli-immigrati-e-la-pensione/ https://www.lavoce.it/gli-immigrati-e-la-pensione/#respond Thu, 20 Apr 2023 17:04:11 +0000 https://www.lavoce.it/?p=71184 Logo rubrica Il punto

 

Nelle diatribe fra coloro che vorrebbero restringere (se non chiudere) le porte ai migranti, e coloro che invece sono per l’accoglienza, i secondi portano, fra l’altro, un argomento utilitaristico. Dicono che è nel nostro interesse avere molti immigrati perché “saranno loro a pagare le nostre pensioni”, s’intende con i contributi che verseranno i loro datori di lavoro. Questo argomento ai più risulta incomprensibile. Il fatto è che molti non sanno come funziona il meccanismo delle pensioni; non per colpa loro, ma perché chi lo sa non lo spiega.

Ci provo io adesso. I più credono che i loro contributi versati mese per mese siano messi a loro nome in una specie di salvadanaio, e che la loro pensione sarà presa da lì; credono insomma che la pensione sia la pura e semplice restituzione dei contributi. Invece non è così; anche perché, quando questo sistema è stato costruito, la moneta si svalutava massicciamente di anno in anno e accantonare i soldi non aveva senso. Prendete un pensionato che oggi ha 80 anni (ce ne sono molti più anziani): quando ha cominciato a lavorare, diciamo 60 anni fa, il suo stipendio mensile era intorno alle 50.000 lire, che oggi sarebbero 25 (!) euro. In quegli anni, però, mentre la moneta si svalutava, l’economia nazionale cresceva, cresceva anche il numero degli occupati, crescevano i loro stipendi e i contributi che loro (o i loro datori di lavoro) pagavano. Quindi il sistema pensionistico è stato costruito con la formula della “ripartizione”: le pensioni si pagano, ogni mese, prelevandole dai contributi riscossi il giorno prima.

Quando l’economia è in crescita, il meccanismo basta e avanza. Adesso però, e ormai da qualche anno, si verifica che l’economia nazionale non cresce più, e soprattutto cala il numero di quanti lavorano e pagano i contributi. Nello stesso tempo – grazie a Dio e al progresso della scienza medica – la vita media si allunga; quindi aumenta la quota di pensionati sul totale della popolazione. Allora bisogna far pagare pro capite più contributi; ma così aumenta il costo del lavoro e gli imprenditori assumono meno persone. Insomma, si rischia che non ci siano più soldi per le pensioni. Questo spiega la legge Fornero. E spiega anche perché – al di là di tutti i discorsi umanitari – ci conviene reclutare più manodopera a basso costo facendo entrare più migranti. Non è bello dirlo, ma è così.

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Nelle diatribe fra coloro che vorrebbero restringere (se non chiudere) le porte ai migranti, e coloro che invece sono per l’accoglienza, i secondi portano, fra l’altro, un argomento utilitaristico. Dicono che è nel nostro interesse avere molti immigrati perché “saranno loro a pagare le nostre pensioni”, s’intende con i contributi che verseranno i loro datori di lavoro. Questo argomento ai più risulta incomprensibile. Il fatto è che molti non sanno come funziona il meccanismo delle pensioni; non per colpa loro, ma perché chi lo sa non lo spiega.

Ci provo io adesso. I più credono che i loro contributi versati mese per mese siano messi a loro nome in una specie di salvadanaio, e che la loro pensione sarà presa da lì; credono insomma che la pensione sia la pura e semplice restituzione dei contributi. Invece non è così; anche perché, quando questo sistema è stato costruito, la moneta si svalutava massicciamente di anno in anno e accantonare i soldi non aveva senso. Prendete un pensionato che oggi ha 80 anni (ce ne sono molti più anziani): quando ha cominciato a lavorare, diciamo 60 anni fa, il suo stipendio mensile era intorno alle 50.000 lire, che oggi sarebbero 25 (!) euro. In quegli anni, però, mentre la moneta si svalutava, l’economia nazionale cresceva, cresceva anche il numero degli occupati, crescevano i loro stipendi e i contributi che loro (o i loro datori di lavoro) pagavano. Quindi il sistema pensionistico è stato costruito con la formula della “ripartizione”: le pensioni si pagano, ogni mese, prelevandole dai contributi riscossi il giorno prima.

Quando l’economia è in crescita, il meccanismo basta e avanza. Adesso però, e ormai da qualche anno, si verifica che l’economia nazionale non cresce più, e soprattutto cala il numero di quanti lavorano e pagano i contributi. Nello stesso tempo – grazie a Dio e al progresso della scienza medica – la vita media si allunga; quindi aumenta la quota di pensionati sul totale della popolazione. Allora bisogna far pagare pro capite più contributi; ma così aumenta il costo del lavoro e gli imprenditori assumono meno persone. Insomma, si rischia che non ci siano più soldi per le pensioni. Questo spiega la legge Fornero. E spiega anche perché – al di là di tutti i discorsi umanitari – ci conviene reclutare più manodopera a basso costo facendo entrare più migranti. Non è bello dirlo, ma è così.

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Il bracciante ucciso da ‘noi’ https://www.lavoce.it/il-bracciante-ucciso-da-noi/ https://www.lavoce.it/il-bracciante-ucciso-da-noi/#comments Fri, 02 Jul 2021 08:16:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61294

Un immigrato irregolare è morto di fatica - letteralmente - mentre lavorava come bracciante agricolo, pagato una miseria, naturalmente in nero. Episodi simili si ripetono in Italia. Quando succedono, ci si indigna contro i “padroni” esosi e spietati e contro l’inefficienza di chi dovrebbe vigilare a tutela dei lavoratori. Tutto giusto; ma la realtà è assai più complicata.

Ma chi comanda il mercato?

Il fatto è che negli ultimi decenni la filiera agroalimentare - il percorso fanno che i prodotti dal campo alla nostra tavola - si è fatta molto lunga. Passa attraverso diversi livelli di grossisti, centrali di acquisto e industrie di trasformazione; culmina nella grande distribuzione, le catene di supermercati. A ogni passaggio, qualcuno si intasca un pezzetto di quello che alla fine il consumatore pagherà. Ma chi comanda il mercato e stabilisce il prezzo finale al consumatore è la grande distribuzione. La filosofia del supermercato è che il cliente, anche se entra solo per comperare un litro di latte, più cose vede, più gli viene voglia di comprarne. Bisogna dunque attirarlo promettendogli prezzi stracciati per gli alimenti di base, quelli di cui non potrebbe fare a meno - il pane, la pasta, la salsa di pomodoro, le verdure - così che gli restino ancora abbastanza soldi per comperare tutte le altre cose, dai cosmetici al cibo per cani e gatti (un tempo alle amate bestiole si davano gli avanzi e gli scarti di cucina, e poi che si arrangiassero con i topi). Ma se il prezzo finale lo decide il supermercato, chi lavora nelle fasi precedenti deve adeguarsi.

Più debole del coltivatore è … il bracciante

Tutto poi si scarica sul coltivatore, che non ha margini di trattativa: se non accetta quel pochissimo che gli offrono, i suoi pomodori restano sul campo, e la grande distribuzione si rifornirà dove il lavoro costa meno, magari in Africa o in Cina. Più debole ancora del coltivatore è il bracciante clandestino; ma in realtà tutti e due sono sfruttati, anche se fra di loro non c’è comunanza di interessi né tanto meno solidarietà. E almeno un pochino, chi se ne approfitta è il consumatore. Pensateci, quando riempite il carrello.]]>

Un immigrato irregolare è morto di fatica - letteralmente - mentre lavorava come bracciante agricolo, pagato una miseria, naturalmente in nero. Episodi simili si ripetono in Italia. Quando succedono, ci si indigna contro i “padroni” esosi e spietati e contro l’inefficienza di chi dovrebbe vigilare a tutela dei lavoratori. Tutto giusto; ma la realtà è assai più complicata.

Ma chi comanda il mercato?

Il fatto è che negli ultimi decenni la filiera agroalimentare - il percorso fanno che i prodotti dal campo alla nostra tavola - si è fatta molto lunga. Passa attraverso diversi livelli di grossisti, centrali di acquisto e industrie di trasformazione; culmina nella grande distribuzione, le catene di supermercati. A ogni passaggio, qualcuno si intasca un pezzetto di quello che alla fine il consumatore pagherà. Ma chi comanda il mercato e stabilisce il prezzo finale al consumatore è la grande distribuzione. La filosofia del supermercato è che il cliente, anche se entra solo per comperare un litro di latte, più cose vede, più gli viene voglia di comprarne. Bisogna dunque attirarlo promettendogli prezzi stracciati per gli alimenti di base, quelli di cui non potrebbe fare a meno - il pane, la pasta, la salsa di pomodoro, le verdure - così che gli restino ancora abbastanza soldi per comperare tutte le altre cose, dai cosmetici al cibo per cani e gatti (un tempo alle amate bestiole si davano gli avanzi e gli scarti di cucina, e poi che si arrangiassero con i topi). Ma se il prezzo finale lo decide il supermercato, chi lavora nelle fasi precedenti deve adeguarsi.

Più debole del coltivatore è … il bracciante

Tutto poi si scarica sul coltivatore, che non ha margini di trattativa: se non accetta quel pochissimo che gli offrono, i suoi pomodori restano sul campo, e la grande distribuzione si rifornirà dove il lavoro costa meno, magari in Africa o in Cina. Più debole ancora del coltivatore è il bracciante clandestino; ma in realtà tutti e due sono sfruttati, anche se fra di loro non c’è comunanza di interessi né tanto meno solidarietà. E almeno un pochino, chi se ne approfitta è il consumatore. Pensateci, quando riempite il carrello.]]>
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In questo numero: Ddl Zan, migranti, sinodalità, vescovi e diocesi, arte https://www.lavoce.it/in-questo-numero-ddl-zan-migranti-sinodalita-vescovi-e-diocesi-arte/ Thu, 01 Jul 2021 15:50:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61257

l’editoriale:  Ddl Zan, diritti da bilanciare

di Francesco Bonini Ha fatto molto discutere. Tuttavia alla fine è emerso con chiarezza il senso della nota verbale recapitata dalla Santa Sede al governo italiano a proposito del disegno di legge Zan: un contributo al dialogo. Per arrivare ad una soluzione legislativa rispettosa della libertà. In particolare di quelle libertà tutelate dalla Costituzione e sottolineate anche dagli accordi concordatari, la libertà di espressione e quella di educazione, oltre ovviamente la libertà di religione. Nel merito dunque evidente sintonia, lo ha ricordato anche il cardinale Parolin, con quanto la Cei aveva già affermato da ultimo in termini molto chiari lo scorso 28 aprile in una Nota della Presidenza. Ma… Questa settimana su La Voce (Leggi tutto nell'edizione digitale)

Focus

Sinodalità: cuore, non ingranaggio

di Diana Papa Siamo alla vigilia di un percorso voluto da Papa Francesco: scoprire e vivere la sinodalità nel popolo di Dio. Ognuno, al di là del proprio stato di vita, è stato pensato, voluto, creato, chiamato e inviato dal Signore per edificare il suo popolo santo e custodire il bene comune. Dio affida ad ognuno (…)

Bracciante morto per colpa di chi?

di Pier Giorgio Lignani Un immigrato irregolare è morto di fatica - letteralmente - mentre lavorava come bracciante agricolo, pagato una miseria, naturalmente in nero. Episodi simili si ripetono (…)

Nel giornale

Chiese unite dal Vescovo

Mons. Domenico Sorrentino è stato nominato da Papa Francesco vescovo della Chiesa di Foligno. Ma allo stesso tempo conserva il proprio incarico presso la diocesi di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino. Si definisce “unione in persona episcopi”, nella persona del vescovo. Nel senso che le due diocesi rimangono formalmente distinte, ed è “solo” l’identicità del Pastore a collegarle. Tuttavia è una strategia che Papa Francesco sta seguendo in modo sempre più sistematico. Ed è evidente che lo scopo ultimo non sta semplicemente nel facilitare le sostituzioni nelle sedi episcopali vacanti, bensì nel ridisegnare la geografia delle Chiese. “In uscita” verso le pressanti esigenze pastorali del futuro.

CHIESA E DDL ZAN

Approfondiamo ulteriormente la questione, in cui vengono messi in causa diritti di tipo diverso garantiti dalla Costituzione italiana. A scanso di equivoci e (voluti) fraintendimenti, esaminiamo anzitutto con più attenzione le perplessità manifestate dal Vaticano e dalla Cei

50 ANNI DI CARITAS

Il mezzo secolo di esistenza di Caritas italiana cade in un periodo ancora fortemente segnato dalla pandemia e dalle sue conseguenze sulla società. Un motivo in più per celebrare l’evento guardando in avanti anziché al passato. E non solo facendo “assistenza”

SANITÀ

Anche in Umbria, man mano che arrivano i pensionamenti, si profila il rischio che scarseggino medici di famiglia e pediatri. E non perché mancano i laureati, ma perché...

ARTE

L’arte barocca amava i giochi di specchi, e adesso a Perugia si sdoppia e si riunisce. Grazie a una mostra che mette insieme le collezioni della Galleria nazionale e della Fondazione Crp]]>

l’editoriale:  Ddl Zan, diritti da bilanciare

di Francesco Bonini Ha fatto molto discutere. Tuttavia alla fine è emerso con chiarezza il senso della nota verbale recapitata dalla Santa Sede al governo italiano a proposito del disegno di legge Zan: un contributo al dialogo. Per arrivare ad una soluzione legislativa rispettosa della libertà. In particolare di quelle libertà tutelate dalla Costituzione e sottolineate anche dagli accordi concordatari, la libertà di espressione e quella di educazione, oltre ovviamente la libertà di religione. Nel merito dunque evidente sintonia, lo ha ricordato anche il cardinale Parolin, con quanto la Cei aveva già affermato da ultimo in termini molto chiari lo scorso 28 aprile in una Nota della Presidenza. Ma… Questa settimana su La Voce (Leggi tutto nell'edizione digitale)

Focus

Sinodalità: cuore, non ingranaggio

di Diana Papa Siamo alla vigilia di un percorso voluto da Papa Francesco: scoprire e vivere la sinodalità nel popolo di Dio. Ognuno, al di là del proprio stato di vita, è stato pensato, voluto, creato, chiamato e inviato dal Signore per edificare il suo popolo santo e custodire il bene comune. Dio affida ad ognuno (…)

Bracciante morto per colpa di chi?

di Pier Giorgio Lignani Un immigrato irregolare è morto di fatica - letteralmente - mentre lavorava come bracciante agricolo, pagato una miseria, naturalmente in nero. Episodi simili si ripetono (…)

Nel giornale

Chiese unite dal Vescovo

Mons. Domenico Sorrentino è stato nominato da Papa Francesco vescovo della Chiesa di Foligno. Ma allo stesso tempo conserva il proprio incarico presso la diocesi di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino. Si definisce “unione in persona episcopi”, nella persona del vescovo. Nel senso che le due diocesi rimangono formalmente distinte, ed è “solo” l’identicità del Pastore a collegarle. Tuttavia è una strategia che Papa Francesco sta seguendo in modo sempre più sistematico. Ed è evidente che lo scopo ultimo non sta semplicemente nel facilitare le sostituzioni nelle sedi episcopali vacanti, bensì nel ridisegnare la geografia delle Chiese. “In uscita” verso le pressanti esigenze pastorali del futuro.

CHIESA E DDL ZAN

Approfondiamo ulteriormente la questione, in cui vengono messi in causa diritti di tipo diverso garantiti dalla Costituzione italiana. A scanso di equivoci e (voluti) fraintendimenti, esaminiamo anzitutto con più attenzione le perplessità manifestate dal Vaticano e dalla Cei

50 ANNI DI CARITAS

Il mezzo secolo di esistenza di Caritas italiana cade in un periodo ancora fortemente segnato dalla pandemia e dalle sue conseguenze sulla società. Un motivo in più per celebrare l’evento guardando in avanti anziché al passato. E non solo facendo “assistenza”

SANITÀ

Anche in Umbria, man mano che arrivano i pensionamenti, si profila il rischio che scarseggino medici di famiglia e pediatri. E non perché mancano i laureati, ma perché...

ARTE

L’arte barocca amava i giochi di specchi, e adesso a Perugia si sdoppia e si riunisce. Grazie a una mostra che mette insieme le collezioni della Galleria nazionale e della Fondazione Crp]]>
Il paradosso dell’immigrato https://www.lavoce.it/il-paradosso-immigrato/ Fri, 12 Mar 2021 12:14:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59517 Logo rubrica Il punto

Con questi interminabili lockdown sono aumentati - o forse soltanto si notano di più - i giovani immigrati irregolari che si aggirano per le vie del centro chiedendo un soldino ai passanti. Anche le persone meglio disposte si chiedono: “Ma perché non si cercano un lavoro?” o anche: “Ma perché il Comune non li utilizza per qualche lavoretto di pubblica utilità, pagandoli a ore?”.

Proviamo a rispondere. Le leggi sul lavoro, si sa, sono molto stringenti, a meno che non si voglia operare in nero; e far lavorare in nero un immigrato irregolare è doppiamente illegale. Chi fa lavorare in nero un cittadino italiano può regolarizzarlo in ogni momento, pagando un’ammenda; se invece lo fa con un immigrato irregolare, è un reato penale, e comunque non c’è possibilità di regolarizzazione.

La legge sull’immigrazione dice, in sostanza, che lo straniero che non ha un regolare contratto di lavoro non può avere il permesso di soggiorno; ma chi non ha il permesso di soggiorno non può avere un contratto di lavoro. Un cittadino senegalese o marocchino dovrebbe aspettare a casa sua che un cittadino italiano lo chiami a lavorare per lui tramite l’Ambasciata d’Italia sul posto, rispettando una serie di condizioni - talune anche bizzarre - che qui manca lo spazio di elencare. Tutto questo è ispirato al concetto che lo straniero che viene a lavorare in Italia “ruba il posto” a un italiano disoccupato, e quindi bisogna scoraggiare sia lui/ lei sia il datore di lavoro che lo vorrebbe assumere.

Così si arriva all’assurdo che sul suolo italiano ci sono stranieri che, in base al diritto internazionale, non possono essere espulsi, per motivi umanitari o perché richiedenti asilo in attesa di risposta; e però nel frattempo le leggi di marca sovranista vietano di farli lavorare, anche quando del loro lavoro ci sarebbe bisogno. Poi i benpensanti si lamentano perché ci sono tanti nullafacenti che chiedono l’elemosina, vivono di espedienti a volte anche illeciti, o sono ospitati in centri di accoglienza a spese dello Stato...

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Con questi interminabili lockdown sono aumentati - o forse soltanto si notano di più - i giovani immigrati irregolari che si aggirano per le vie del centro chiedendo un soldino ai passanti. Anche le persone meglio disposte si chiedono: “Ma perché non si cercano un lavoro?” o anche: “Ma perché il Comune non li utilizza per qualche lavoretto di pubblica utilità, pagandoli a ore?”.

Proviamo a rispondere. Le leggi sul lavoro, si sa, sono molto stringenti, a meno che non si voglia operare in nero; e far lavorare in nero un immigrato irregolare è doppiamente illegale. Chi fa lavorare in nero un cittadino italiano può regolarizzarlo in ogni momento, pagando un’ammenda; se invece lo fa con un immigrato irregolare, è un reato penale, e comunque non c’è possibilità di regolarizzazione.

La legge sull’immigrazione dice, in sostanza, che lo straniero che non ha un regolare contratto di lavoro non può avere il permesso di soggiorno; ma chi non ha il permesso di soggiorno non può avere un contratto di lavoro. Un cittadino senegalese o marocchino dovrebbe aspettare a casa sua che un cittadino italiano lo chiami a lavorare per lui tramite l’Ambasciata d’Italia sul posto, rispettando una serie di condizioni - talune anche bizzarre - che qui manca lo spazio di elencare. Tutto questo è ispirato al concetto che lo straniero che viene a lavorare in Italia “ruba il posto” a un italiano disoccupato, e quindi bisogna scoraggiare sia lui/ lei sia il datore di lavoro che lo vorrebbe assumere.

Così si arriva all’assurdo che sul suolo italiano ci sono stranieri che, in base al diritto internazionale, non possono essere espulsi, per motivi umanitari o perché richiedenti asilo in attesa di risposta; e però nel frattempo le leggi di marca sovranista vietano di farli lavorare, anche quando del loro lavoro ci sarebbe bisogno. Poi i benpensanti si lamentano perché ci sono tanti nullafacenti che chiedono l’elemosina, vivono di espedienti a volte anche illeciti, o sono ospitati in centri di accoglienza a spese dello Stato...

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Bonus affitto. “Perugia solidale” diffida la Giunta Tesei: 5 anni requisito discriminante https://www.lavoce.it/bonus-affitto-perugia-solidale-diffida-la-giunta-tesei-5-anni-requisito-discriminante/ Thu, 30 Jul 2020 12:30:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57583

Per le persone in difficoltà con il pagamento dell’affitto il Governo ha riproposto il bonus affitto nel Decreto Rilancio. Si tratta di una misura economica che esiste da diverso tempo per chi intende contrattare con il proprietario una riduzione dell’affitto immobiliare. Le risorse nazionali quest’anno sono pari a 50 milioni di euro ridistribuite tra Regioni e Comuni che, con appositi bandi, stabiliscono i criteri di acesso al bonus affitto.

Affitto: i fondi messi dal Governo

Per le famiglie umbre a basso reddito, il Governo ha stanziato oltre un milione di euro ai quali si aggiungono altre risorse regionali, stabilite con la delibera della Giunta del 20 maggio 2020, per un totale complessivo di oltre 2 milioni e 600 mila euro.

La Regione richiede 5 anni di residenza

Nella delibera regionale, inoltre, è stato stabilito che relativamente ai requisiti di cittadinanza, residenza, attività lavorativa e stato di bisogno dei beneficiari, i comuni applichino il requisito della residenza o dell’attività lavorativa nella regione da almeno 5 anni consecutivi, come previsto dalla disciplina in materia di edilizia residenziale sociale stabilita dal Regolamento regionale 1/2014 coordinato con il regolamento 4/2018. Una disciplina, dunque, già vigente e approvata dalla Giunta Marini ma sulla quale non tutti sono d’accordo.

Per “Perugia solidale” è richiesta discriminante

Il 27 luglio, in piazza Italia a Perugia, è andata in scena la protesta “in difesa dei diritti costituzionali, del diritto all’abitare di tutti e del principio di uguaglianza sostanziale”. Così, Nunzia Parra, avvocato del comitato Perugia Solidale, spiega le motivazioni che hanno portato la sua organizzazione - nata ad aprile, in piena pandemia - a scendere in piazza insieme ad altre associazioni. Al centro della protesta, il requisito “discriminatorio” della “residenza protratta” o in alternativa, l’occupazione lavorativa nel territorio regionale per cinque anni consecutivi.

La Corte Costituzionale ha bocciato un caso simile

“Qualche mese fa, in un caso analogo, la Corte Costituzionale - spiega Parra - ha bocciato una legge regionale della Lombardia perché condizionava l’accesso ai servizi abitativi a requisiti identici a quelli inseriti nei bandi umbri, sancendo il principio generale che il diritto all’abitare deve essere limitato semplicemente allo stato di bisogno”. In base alla sentenza, sostiene l’avvocato, “le risorse predisposte dallo Stato e dalle Regioni devono essere date a tutti i cittadini e stranieri indistintamente, tenendo conto dell’unico requisito che è lo stato di bisogno dell’avente diritto”.
La decisione della Giunta dell’Umbria, recepita dai bandi dei Comuni umbri - secondo il comitato - ha dunque “limitato l’accesso al bonus affitto per le persone che, pur versando in uno stato economico di necessità, non hanno il requisito della residenza protratta”.

Solo a Perugia già presentate mille domande

Solo al Comune di Perugia, che ha posticipato la scadenza del bando al 31 luglio, sono arrivate un migliaio di domande, però non è ancora possibile fare una stima di quanti saranno esclusi a partire dal requisito della residenza. “Molte famiglie - spiega Parra -, sapendo di non avere questo requisito, non presenteranno domanda a monte. Il loro stato di bisogno, però, aumenterà senza avere un valido sussidio per uscire da questo stato. Stiamo facendo un lavoro di indagine sul diritto all’abitare in questa regione attraverso un questionario. Questo requisito discriminatorio- continua l’avvocato - tocca non solo gli stranieri, ma anche coloro che hanno vissuto nella nostra regione e poi, per ragioni di lavoro o di studio, hanno cambiato la residenza. Ed ora, tornati in Umbria, non hanno accesso al bonus affitto”.

Il Comitato diffida la Regione

Il comitato Perugia Solidale, in questi mesi, si è adoperato per dare un apporto concreto “con beni materiali, a quanti non riescono ad arrivare alla fine del mese. Sono diversi i nuclei familiari, per un totale di oltre 200 persone, a cui settimanalmente viene distribuita la spesa e “durante la quarantena - racconta Parra - sono state anche aiutate quelle famiglie che non avevano gli strumenti per far seguire la didattica a distanza ai propri figli. Come avvocati del comitato - continua Parra - abbiamo già diffidato la giunta Tesei, l’assessore regionali alle politiche sociali Luca Coletto e i vari sindaci in cui è radicato il comitato, il Comune di Perugia e quello di Marsciano per citarne alcuni”, ma la battaglia continua. “Chiediamo - conclude Parra - la rimozione dei requisiti discriminatori previsti nella delibera regionale nonché in tutti gli altri bandi dei comuni umbri e la riapertura dei termini per dare a tutti coloro che stanno in uno stato di bisogno la possibilità di fare la richiesta del bonus in tempi rapidi”.]]>

Per le persone in difficoltà con il pagamento dell’affitto il Governo ha riproposto il bonus affitto nel Decreto Rilancio. Si tratta di una misura economica che esiste da diverso tempo per chi intende contrattare con il proprietario una riduzione dell’affitto immobiliare. Le risorse nazionali quest’anno sono pari a 50 milioni di euro ridistribuite tra Regioni e Comuni che, con appositi bandi, stabiliscono i criteri di acesso al bonus affitto.

Affitto: i fondi messi dal Governo

Per le famiglie umbre a basso reddito, il Governo ha stanziato oltre un milione di euro ai quali si aggiungono altre risorse regionali, stabilite con la delibera della Giunta del 20 maggio 2020, per un totale complessivo di oltre 2 milioni e 600 mila euro.

La Regione richiede 5 anni di residenza

Nella delibera regionale, inoltre, è stato stabilito che relativamente ai requisiti di cittadinanza, residenza, attività lavorativa e stato di bisogno dei beneficiari, i comuni applichino il requisito della residenza o dell’attività lavorativa nella regione da almeno 5 anni consecutivi, come previsto dalla disciplina in materia di edilizia residenziale sociale stabilita dal Regolamento regionale 1/2014 coordinato con il regolamento 4/2018. Una disciplina, dunque, già vigente e approvata dalla Giunta Marini ma sulla quale non tutti sono d’accordo.

Per “Perugia solidale” è richiesta discriminante

Il 27 luglio, in piazza Italia a Perugia, è andata in scena la protesta “in difesa dei diritti costituzionali, del diritto all’abitare di tutti e del principio di uguaglianza sostanziale”. Così, Nunzia Parra, avvocato del comitato Perugia Solidale, spiega le motivazioni che hanno portato la sua organizzazione - nata ad aprile, in piena pandemia - a scendere in piazza insieme ad altre associazioni. Al centro della protesta, il requisito “discriminatorio” della “residenza protratta” o in alternativa, l’occupazione lavorativa nel territorio regionale per cinque anni consecutivi.

La Corte Costituzionale ha bocciato un caso simile

“Qualche mese fa, in un caso analogo, la Corte Costituzionale - spiega Parra - ha bocciato una legge regionale della Lombardia perché condizionava l’accesso ai servizi abitativi a requisiti identici a quelli inseriti nei bandi umbri, sancendo il principio generale che il diritto all’abitare deve essere limitato semplicemente allo stato di bisogno”. In base alla sentenza, sostiene l’avvocato, “le risorse predisposte dallo Stato e dalle Regioni devono essere date a tutti i cittadini e stranieri indistintamente, tenendo conto dell’unico requisito che è lo stato di bisogno dell’avente diritto”.
La decisione della Giunta dell’Umbria, recepita dai bandi dei Comuni umbri - secondo il comitato - ha dunque “limitato l’accesso al bonus affitto per le persone che, pur versando in uno stato economico di necessità, non hanno il requisito della residenza protratta”.

Solo a Perugia già presentate mille domande

Solo al Comune di Perugia, che ha posticipato la scadenza del bando al 31 luglio, sono arrivate un migliaio di domande, però non è ancora possibile fare una stima di quanti saranno esclusi a partire dal requisito della residenza. “Molte famiglie - spiega Parra -, sapendo di non avere questo requisito, non presenteranno domanda a monte. Il loro stato di bisogno, però, aumenterà senza avere un valido sussidio per uscire da questo stato. Stiamo facendo un lavoro di indagine sul diritto all’abitare in questa regione attraverso un questionario. Questo requisito discriminatorio- continua l’avvocato - tocca non solo gli stranieri, ma anche coloro che hanno vissuto nella nostra regione e poi, per ragioni di lavoro o di studio, hanno cambiato la residenza. Ed ora, tornati in Umbria, non hanno accesso al bonus affitto”.

Il Comitato diffida la Regione

Il comitato Perugia Solidale, in questi mesi, si è adoperato per dare un apporto concreto “con beni materiali, a quanti non riescono ad arrivare alla fine del mese. Sono diversi i nuclei familiari, per un totale di oltre 200 persone, a cui settimanalmente viene distribuita la spesa e “durante la quarantena - racconta Parra - sono state anche aiutate quelle famiglie che non avevano gli strumenti per far seguire la didattica a distanza ai propri figli. Come avvocati del comitato - continua Parra - abbiamo già diffidato la giunta Tesei, l’assessore regionali alle politiche sociali Luca Coletto e i vari sindaci in cui è radicato il comitato, il Comune di Perugia e quello di Marsciano per citarne alcuni”, ma la battaglia continua. “Chiediamo - conclude Parra - la rimozione dei requisiti discriminatori previsti nella delibera regionale nonché in tutti gli altri bandi dei comuni umbri e la riapertura dei termini per dare a tutti coloro che stanno in uno stato di bisogno la possibilità di fare la richiesta del bonus in tempi rapidi”.]]>
Perché occorre una “sanatoria” https://www.lavoce.it/perche-occorre-una-sanatoria/ https://www.lavoce.it/perche-occorre-una-sanatoria/#comments Fri, 15 May 2020 14:06:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57153 Logo rubrica Il punto

Si discute di nuovo di un’ipotesi di regolarizzazione (o sanatoria) dei lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, e di conseguenza occupati “in nero”. A quanto pare, sono centinaia di migliaia. Si oppone la Lega di Salvini, e questo si può capire perché dell’identità di quel partito fa parte la diffidenza - a dir poco - nei confronti degli extracomunitari, tanto più se poveri. Si capisce di meno se l’opposizione alla sanatoria viene da altre parti. Questi ultimi pensano che, se il lavoratore straniero non è in regola, vuol dire che sta violando la legge (lapalissiano), e dunque non merita di essere legalizzato. Probabilmente chi ragiona così non si rende conto del pasticcio che è la legge attuale sull’immigrazione per quanto riguarda il lavoro subordinato. In estrema sintesi, la legge vigente dice questo: se non hai il permesso di soggiorno non puoi avere il contratto di lavoro, ma se non hai il contratto di lavoro non puoi avere il permesso di soggiorno. Però è un fatto che, per certi tipi di lavoro, se vuoi un lavorante, lo devi cercare fra gli extracomunitari.

Allora, che cosa si dovrebbe fare secondo la legge?

Risposta: chi vuole un lavoratore straniero deve fare domanda all’autorità competente, la quale verificherà che in tutta Italia non ci sia una persona disoccupata in grado di fare quel lavoro. Dopodiché spetta al datore di lavoro indicare nome, cognome e indirizzo (sì, avete capito bene) del senegalese o filippino che vuole chiamare in Italia. Lo straniero andrà all’Ambasciata italiana nel suo Paese, presenterà tutti i documenti del caso; l’Ambasciata verificherà che lì non ci siano emigrati italiani disposti a tornare, e alla fine darà il visto di ingresso. Facile, no? Sulla carta è un sistema perfetto, ma c’è un problema: non funziona e, così com’è, non può funzionare. Però, siccome ci sono tanti italiani che hanno bisogno di un lavorante straniero, e tanti stranieri che cercano lavoro in Italia, ecco che il fenomeno del lavoro irregolare diventa enorme. Non è una bella cosa; ma, a questo punto, la regolarizzazione è necessaria. Pier Giorgio Lignani]]>
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Si discute di nuovo di un’ipotesi di regolarizzazione (o sanatoria) dei lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, e di conseguenza occupati “in nero”. A quanto pare, sono centinaia di migliaia. Si oppone la Lega di Salvini, e questo si può capire perché dell’identità di quel partito fa parte la diffidenza - a dir poco - nei confronti degli extracomunitari, tanto più se poveri. Si capisce di meno se l’opposizione alla sanatoria viene da altre parti. Questi ultimi pensano che, se il lavoratore straniero non è in regola, vuol dire che sta violando la legge (lapalissiano), e dunque non merita di essere legalizzato. Probabilmente chi ragiona così non si rende conto del pasticcio che è la legge attuale sull’immigrazione per quanto riguarda il lavoro subordinato. In estrema sintesi, la legge vigente dice questo: se non hai il permesso di soggiorno non puoi avere il contratto di lavoro, ma se non hai il contratto di lavoro non puoi avere il permesso di soggiorno. Però è un fatto che, per certi tipi di lavoro, se vuoi un lavorante, lo devi cercare fra gli extracomunitari.

Allora, che cosa si dovrebbe fare secondo la legge?

Risposta: chi vuole un lavoratore straniero deve fare domanda all’autorità competente, la quale verificherà che in tutta Italia non ci sia una persona disoccupata in grado di fare quel lavoro. Dopodiché spetta al datore di lavoro indicare nome, cognome e indirizzo (sì, avete capito bene) del senegalese o filippino che vuole chiamare in Italia. Lo straniero andrà all’Ambasciata italiana nel suo Paese, presenterà tutti i documenti del caso; l’Ambasciata verificherà che lì non ci siano emigrati italiani disposti a tornare, e alla fine darà il visto di ingresso. Facile, no? Sulla carta è un sistema perfetto, ma c’è un problema: non funziona e, così com’è, non può funzionare. Però, siccome ci sono tanti italiani che hanno bisogno di un lavorante straniero, e tanti stranieri che cercano lavoro in Italia, ecco che il fenomeno del lavoro irregolare diventa enorme. Non è una bella cosa; ma, a questo punto, la regolarizzazione è necessaria. Pier Giorgio Lignani]]>
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L’agricoltura italiana chiede immigrati https://www.lavoce.it/lagricoltura-italiana-chiede-immigrati/ Tue, 14 Apr 2020 07:21:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56875 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

Bisogna dare atto alla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che si sta dando un gran da fare per evitare che il 40% del prodotto agricolo di questa primavera finisca al macero. Perché è questo il rischio che gli esperti paventano. C’è il grande problema della carenza di braccianti stagionali. Normalmente sarebbero immigrati, anche perché gli stessi agricoltori non possono garantire salari alti, in quanto i prezzi sono imposti dalla grande distribuzione, e perché sono pochi gli italiani che si adattano a lavorare come braccianti stagionali. A pensarci bene, proprio questa situazione appare come la risposta più efficace e concreta al luogo comune condiviso all’infinito da molti, a quella convinzione così radicata in tanti, secondo cui gli immigrati ci vengono a “rubare” il lavoro. La ministra Bellanova sta facendo un pressing asfissiante sull’ambasciatore romeno affinché favorisca la venuta in Italia di stagionali del suo Paese. Di fatto, per ragioni sanitarie, oggi sono tanti i Paesi che non consentono di raggiungere l’Italia; e in altri casi gli immigrati già presenti sul nostro territorio sono impossibilitati a prestare le proprie braccia per lavorare la terra. Insomma, scopriamo che gli immigrati ci servono, ne abbiamo bisogno. Ne ha bisogno la nostra economia e la nostra tavola. Forse un giorno capiremo che la loro presenza fa bene anche alla nostra crescita umana e cristiana. Don Tonio Dell’Olio]]>
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Bisogna dare atto alla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che si sta dando un gran da fare per evitare che il 40% del prodotto agricolo di questa primavera finisca al macero. Perché è questo il rischio che gli esperti paventano. C’è il grande problema della carenza di braccianti stagionali. Normalmente sarebbero immigrati, anche perché gli stessi agricoltori non possono garantire salari alti, in quanto i prezzi sono imposti dalla grande distribuzione, e perché sono pochi gli italiani che si adattano a lavorare come braccianti stagionali. A pensarci bene, proprio questa situazione appare come la risposta più efficace e concreta al luogo comune condiviso all’infinito da molti, a quella convinzione così radicata in tanti, secondo cui gli immigrati ci vengono a “rubare” il lavoro. La ministra Bellanova sta facendo un pressing asfissiante sull’ambasciatore romeno affinché favorisca la venuta in Italia di stagionali del suo Paese. Di fatto, per ragioni sanitarie, oggi sono tanti i Paesi che non consentono di raggiungere l’Italia; e in altri casi gli immigrati già presenti sul nostro territorio sono impossibilitati a prestare le proprie braccia per lavorare la terra. Insomma, scopriamo che gli immigrati ci servono, ne abbiamo bisogno. Ne ha bisogno la nostra economia e la nostra tavola. Forse un giorno capiremo che la loro presenza fa bene anche alla nostra crescita umana e cristiana. Don Tonio Dell’Olio]]>
Dossier immigrazione 2019. La verità sui numeri dell’immigrazione https://www.lavoce.it/dossier-immigrazione-2019-verita/ Thu, 31 Oct 2019 12:44:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55673

Davvero gli immigrati portano anche benefici economici per il nostro Paese? Secondo i dati raccolti nel Dossier statistico immigrazione 2019 curato dal Centro studi e ricerche Idos è proprio così. “L’immigrazione è un fenomeno che va sicuramente governato, ma dobbiamo saper cogliere anche i molti benefici che la multiculturalità può portare ai nostri territori, anche in termini di ricchezza economica”.

I vantaggi economici dell'immigrazione

Lo ha sottolineato Eleonora Bigi, responsabile della Sezione immigrazione della Regione Umbria, nel presentare il Dossier all’Umbria giovedì scorso. Sebbene inseriti nel mercato occupazionale in condizioni di svantaggio (professioni non qualificate, lavori più precari, sovraistruiti per il 34,4%), ai lavoratori immigrati è infatti ascrivibile il 9% del Pil nazionale, pari ad un valore aggiunto di 139 miliardi di euro annui, secondo i dati della Fondazione Leone Moressa raccolti da Idos.

Inoltre, anche nel 2018 il saldo nazionale tra entrate e uscite complessive è risultato positivo per lo Stato italiano di 200.000 euro nell’ipotesi minima, considerando quanto gli immigrati assicurano all’erario in pagamento di tasse, contributi previdenziali, pratiche di rilascio e rinnovo dei permessi.

Ma qual è il numero esatto degli stranieri nel nostro territorio?

Il dato fornito dal Dossier per il 2018 su base Eurostat e Istat è di 5.255.503, pari all’8,7% della popolazione totale residente in Italia. L’Italia non è il primo Paese per numero di residenti stranieri ma il terzo, dopo la Germania (9,7 milioni) e il Regno Unito (6,3 milioni). Allo stesso modo, anche l’Umbria non è la prima regione per presenze straniere, ma è la quinta dopo Emilia Romagna, Lombardia, Lazio e Toscana.

I residenti stranieri in Umbria sono 97.541, in calo continuo dal 2014, quando erano 99.922. Dei 97.541 stranieri residenti in Umbria, 61.308 sono originari di Paesi dell’Europa, 34.643 sono cittadini Ue. Da dove provengono nello specifico? Il primo Paese è la Romania (26.509), seguono Albania (13.093), Marocco (9.590) e Ucraina (4.980).

Numeri in calo. Quanto c'entrano i Decreti sicurezza?

Il lieve calo dei residenti stranieri non è dovuto solo, come si potrebbe pensare, ad un calo degli arrivi, ma più che altro al processo di stabilizzazione dei nuovi cittadini, molti dei quali dopo anni in Italia, acquisiscono la cittadinanza. A questo proposito però entrano in gioco i due Decreti sicurezza emanati quest’anno dal precedente Governo Lega-5Stelle che hanno colpito sia gli immigrati già presenti che quellidiretti in Italia.

Sono cambiate infatti le norme che regolamentavano la concessione di permessi e cittadinanza e, se è vero che sono calati gli arrivi quest’anno (da 119.310 casi nel 2017 a 23.370 nel 2018, fino ad arrivare a 7.710 nei primi mesi del 2019), è anche vero che il calo era già iniziato già nel 2017 prima dei Decreti sicurezza, a seguito degli accordi con la Libia. Inoltre questo crollo degli arrivi via mare è stato spesso pagato in termini di vite umane.

Meno sbarchi corrispondono a meno morti, come dice la propaganda?

Non proprio. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni cui il Dossier fa riferimento riporta che nel 2017 i morti erano 2.800, mentre nel 2018 sono scesi a 1.314. Ma se nel 2017 ne moriva 1 ogni 50 in rapporto a quanti partivano, nel 2018 il tasso è salito a 1 morto ogni 35 di quelli che hanno tentato la traversata.

“I miliziani libici con cui abbiamo fatto l’accordo e a cui mandiamo le navi che respingiamo sono gli stessi che torturano le persone nei centri di detenzione. I governanti di ieri e di oggi lo sanno e questa è una violazione di tutte le norme umanitarie”. Ha detto commentando i dati Giuseppe Casucci, del Dipartimento nazionale politiche migratorie Uil.

Cosa succede nei singoli Comuni dopo i Decreti sicurezza

“Ma soprattutto il Decreto sicurezza ha colpito chi già era in Italia e ha prodotto l’impossibilità per questa gente di avere un conto corrente, di poter accedere ai servizi pubblici, di poter partecipare a corsi di formazione e in poche parole di integrarsi. Per non parlare della domanda di cittadinanza, con termini di attesa passati da 2 anni a 4”.

“Cosa accade dopo i Decreti Salvini e perché come Anci abbiamo puntato molto sul sistema degli Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati)? Perchè il sistema Sprar era governato dalle città e non subìto”. Ad affermarlo è Silvio Ranieri , di Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) Umbria.

In Umbria sono 14 i Comuni che hanno uno Sprar. “Lo Sprar non affrontava solo il problema di dove collocare gli immigrati, ma anche di come collocarli e integrarli”. Ora invece, dopo il Decreto sicurezza, gli Sprar sono riservati solo ai minori non accompagnati. “Ancora non si vedono gli effetti, ma l’anno prossimo, alla scadenza di tutti i progetti Sprar come erano una volta, ci ritroveremo molte persone in giro per le città”.

Leggi anche: "Quando quelli che emigrano per cercare possibilità di lavoro siamo noi - I dati degli italiani e degli umbri all'estero".

Valentina Russo

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Davvero gli immigrati portano anche benefici economici per il nostro Paese? Secondo i dati raccolti nel Dossier statistico immigrazione 2019 curato dal Centro studi e ricerche Idos è proprio così. “L’immigrazione è un fenomeno che va sicuramente governato, ma dobbiamo saper cogliere anche i molti benefici che la multiculturalità può portare ai nostri territori, anche in termini di ricchezza economica”.

I vantaggi economici dell'immigrazione

Lo ha sottolineato Eleonora Bigi, responsabile della Sezione immigrazione della Regione Umbria, nel presentare il Dossier all’Umbria giovedì scorso. Sebbene inseriti nel mercato occupazionale in condizioni di svantaggio (professioni non qualificate, lavori più precari, sovraistruiti per il 34,4%), ai lavoratori immigrati è infatti ascrivibile il 9% del Pil nazionale, pari ad un valore aggiunto di 139 miliardi di euro annui, secondo i dati della Fondazione Leone Moressa raccolti da Idos.

Inoltre, anche nel 2018 il saldo nazionale tra entrate e uscite complessive è risultato positivo per lo Stato italiano di 200.000 euro nell’ipotesi minima, considerando quanto gli immigrati assicurano all’erario in pagamento di tasse, contributi previdenziali, pratiche di rilascio e rinnovo dei permessi.

Ma qual è il numero esatto degli stranieri nel nostro territorio?

Il dato fornito dal Dossier per il 2018 su base Eurostat e Istat è di 5.255.503, pari all’8,7% della popolazione totale residente in Italia. L’Italia non è il primo Paese per numero di residenti stranieri ma il terzo, dopo la Germania (9,7 milioni) e il Regno Unito (6,3 milioni). Allo stesso modo, anche l’Umbria non è la prima regione per presenze straniere, ma è la quinta dopo Emilia Romagna, Lombardia, Lazio e Toscana.

I residenti stranieri in Umbria sono 97.541, in calo continuo dal 2014, quando erano 99.922. Dei 97.541 stranieri residenti in Umbria, 61.308 sono originari di Paesi dell’Europa, 34.643 sono cittadini Ue. Da dove provengono nello specifico? Il primo Paese è la Romania (26.509), seguono Albania (13.093), Marocco (9.590) e Ucraina (4.980).

Numeri in calo. Quanto c'entrano i Decreti sicurezza?

Il lieve calo dei residenti stranieri non è dovuto solo, come si potrebbe pensare, ad un calo degli arrivi, ma più che altro al processo di stabilizzazione dei nuovi cittadini, molti dei quali dopo anni in Italia, acquisiscono la cittadinanza. A questo proposito però entrano in gioco i due Decreti sicurezza emanati quest’anno dal precedente Governo Lega-5Stelle che hanno colpito sia gli immigrati già presenti che quellidiretti in Italia.

Sono cambiate infatti le norme che regolamentavano la concessione di permessi e cittadinanza e, se è vero che sono calati gli arrivi quest’anno (da 119.310 casi nel 2017 a 23.370 nel 2018, fino ad arrivare a 7.710 nei primi mesi del 2019), è anche vero che il calo era già iniziato già nel 2017 prima dei Decreti sicurezza, a seguito degli accordi con la Libia. Inoltre questo crollo degli arrivi via mare è stato spesso pagato in termini di vite umane.

Meno sbarchi corrispondono a meno morti, come dice la propaganda?

Non proprio. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni cui il Dossier fa riferimento riporta che nel 2017 i morti erano 2.800, mentre nel 2018 sono scesi a 1.314. Ma se nel 2017 ne moriva 1 ogni 50 in rapporto a quanti partivano, nel 2018 il tasso è salito a 1 morto ogni 35 di quelli che hanno tentato la traversata.

“I miliziani libici con cui abbiamo fatto l’accordo e a cui mandiamo le navi che respingiamo sono gli stessi che torturano le persone nei centri di detenzione. I governanti di ieri e di oggi lo sanno e questa è una violazione di tutte le norme umanitarie”. Ha detto commentando i dati Giuseppe Casucci, del Dipartimento nazionale politiche migratorie Uil.

Cosa succede nei singoli Comuni dopo i Decreti sicurezza

“Ma soprattutto il Decreto sicurezza ha colpito chi già era in Italia e ha prodotto l’impossibilità per questa gente di avere un conto corrente, di poter accedere ai servizi pubblici, di poter partecipare a corsi di formazione e in poche parole di integrarsi. Per non parlare della domanda di cittadinanza, con termini di attesa passati da 2 anni a 4”.

“Cosa accade dopo i Decreti Salvini e perché come Anci abbiamo puntato molto sul sistema degli Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati)? Perchè il sistema Sprar era governato dalle città e non subìto”. Ad affermarlo è Silvio Ranieri , di Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) Umbria.

In Umbria sono 14 i Comuni che hanno uno Sprar. “Lo Sprar non affrontava solo il problema di dove collocare gli immigrati, ma anche di come collocarli e integrarli”. Ora invece, dopo il Decreto sicurezza, gli Sprar sono riservati solo ai minori non accompagnati. “Ancora non si vedono gli effetti, ma l’anno prossimo, alla scadenza di tutti i progetti Sprar come erano una volta, ci ritroveremo molte persone in giro per le città”.

Leggi anche: "Quando quelli che emigrano per cercare possibilità di lavoro siamo noi - I dati degli italiani e degli umbri all'estero".

Valentina Russo

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Dossier statistico immigrazione 2019. Presentati i dati dell’Umbria https://www.lavoce.it/dossier-immigrazione-2019-umbria/ Thu, 24 Oct 2019 16:05:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55600 dossier

Anche quest’anno il Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato con il Centro Studi e Rivista Confronti, offre al pubblico un’edizione aggiornata del Dossier, la 29esima, cofinanziata dall’Otto per mille della Chiesa Valdese - Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, alla cui realizzazione hanno contribuito decine di studiosi ed esperti in materia. L’apporto differenziato di questa pluralità di contributi intende fare del Dossier non solo un sussidio conoscitivo puntualmente aggiornato con i dati più recenti sui diversi aspetti in cui l’immigrazione si articola, ma anche uno strumento che aiuti la riflessione e l’approfondimento su un fenomeno di cruciale importanza per l’Italia e per l’intero contesto globale. Riportiamo di seguito alcuni dati nazionali e regionali presentati. Tutti i dati e i commenti degli esperti saranno disponibili sul numero 39 de La Voce.  
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dossier

Anche quest’anno il Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato con il Centro Studi e Rivista Confronti, offre al pubblico un’edizione aggiornata del Dossier, la 29esima, cofinanziata dall’Otto per mille della Chiesa Valdese - Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, alla cui realizzazione hanno contribuito decine di studiosi ed esperti in materia. L’apporto differenziato di questa pluralità di contributi intende fare del Dossier non solo un sussidio conoscitivo puntualmente aggiornato con i dati più recenti sui diversi aspetti in cui l’immigrazione si articola, ma anche uno strumento che aiuti la riflessione e l’approfondimento su un fenomeno di cruciale importanza per l’Italia e per l’intero contesto globale. Riportiamo di seguito alcuni dati nazionali e regionali presentati. Tutti i dati e i commenti degli esperti saranno disponibili sul numero 39 de La Voce.  
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L’Angelo della buona educazione https://www.lavoce.it/angelo-buona-educazione/ Fri, 20 Sep 2019 11:07:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=55270 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Lo hanno chiamato eroe (“Si logora ogni parola, di più non puoi farle dire”, si legge nel libro di Qohelet ...). E se Angel fosse invece, e semplicemente, un ragazzo ‘ben educato’, nel senso letterale di essere stato cresciuto con sani princìpi?

Questo giovane di 20 anni si è lanciato dal tetto di un furgone per salvare un bambino che stava precipitando da un balcone del palazzo adiacente al distributore di benzina e autolavaggio dove Angel, argentino di nascita, da 12 anni in Italia, lavora di giorno.

Di sera studia Informatica a Lodi, il Comune dove risiede. Nel volo compiuto per salvare il piccolo (che sta bene), anche Angel si è ferito. “Ho sempre cercato - ha dichiarato il padre di Angel - di inculcargli valori cattolici.

Siamo molto credenti. In Argentina mio figlio è andato a scuola dalle suore. Non ha mai dimenticato l’insegnamento con alla base l’aiuto al prossimo”. Eroismo del gesto a parte, quello che colpisce e dà sollievo allo spirito è pensare che, in un’epoca in cui tutto sembra uguale a tutto e molti pilastri del vivere civile vengono scalzati da un nulla indistinto e senza speranza, educare bene un figlio possa ancora come ritenevano i nostri genitori - portare dei frutti. Per la persona stessa, e per chi ne incrocia la strada.

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lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Lo hanno chiamato eroe (“Si logora ogni parola, di più non puoi farle dire”, si legge nel libro di Qohelet ...). E se Angel fosse invece, e semplicemente, un ragazzo ‘ben educato’, nel senso letterale di essere stato cresciuto con sani princìpi?

Questo giovane di 20 anni si è lanciato dal tetto di un furgone per salvare un bambino che stava precipitando da un balcone del palazzo adiacente al distributore di benzina e autolavaggio dove Angel, argentino di nascita, da 12 anni in Italia, lavora di giorno.

Di sera studia Informatica a Lodi, il Comune dove risiede. Nel volo compiuto per salvare il piccolo (che sta bene), anche Angel si è ferito. “Ho sempre cercato - ha dichiarato il padre di Angel - di inculcargli valori cattolici.

Siamo molto credenti. In Argentina mio figlio è andato a scuola dalle suore. Non ha mai dimenticato l’insegnamento con alla base l’aiuto al prossimo”. Eroismo del gesto a parte, quello che colpisce e dà sollievo allo spirito è pensare che, in un’epoca in cui tutto sembra uguale a tutto e molti pilastri del vivere civile vengono scalzati da un nulla indistinto e senza speranza, educare bene un figlio possa ancora come ritenevano i nostri genitori - portare dei frutti. Per la persona stessa, e per chi ne incrocia la strada.

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