giustizia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/giustizia/ Settimanale di informazione regionale Fri, 31 May 2024 08:23:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg giustizia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/giustizia/ 32 32 Giustizia Usa migliore? https://www.lavoce.it/giustizia-usa-miglire/ https://www.lavoce.it/giustizia-usa-miglire/#respond Fri, 24 May 2024 09:37:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76300

Tutto serve ad alimentare polemiche fra la maggioranza di governo e la opposizione; questa settimana è stato il caso di Chico Forti. Chi è costui? Un italiano, che è emigrato in America, vi ha fatto affari, poi è stato accusato di avere commesso un omicidio per motivi loschi (in pratica per coprire un delitto di truffa). Lui si è sempre protestato innocente ma è stato condannato all’ergastolo.

Adesso, dopo avere scontato 24 anni di carcere, ha ottenuto di poter scontare il resto della pena nel suo paese, come previsto da un trattato fra l’Italia e gli Usa; ferma restando la condanna decisa dal tribunale americano, potrà avere gli sconti per buona condotta previsti dalla legge italiana, anche se non sono previsti dalla legge americana. Per ottenere questo risultato, quell’uomo aveva bisogno che il governo italiano si attivasse in suo favore; e così è stato. Fin qui, tutto regolare, anche se succede di rado. Di strano c’è stato che quando l’ergastolano, sotto buona scorta, è sbarcato in Italia, ha trovato che a dargli il benvenuto c’era la presidente del Consiglio in persona, tutta contenta. Il perché di tanto onore non è stato spiegato. Da qui le critiche della opposizione e le repliche che però non hanno aiutato a capire meglio.

Questo episodio mi offre l’occasione per dare ai lettori qualche informazione sulle differenze fra la giustizia italiana e quella americana. Il signor Forti è stato condannato al carcere perpetuo (che laggiù non è un modo di dire) dal verdetto di una giuria formata da persone scelte a caso, le quali non hanno dovuto spendere una riga per spiegare perché, in un caso obiettivamente dubbio, avessero giudicato colpevole l’imputato; e il processo è finito lì.

In Italia, per la condanna in primo grado di Amanda Knox e del suo coimputato i giudici scrissero ben 425 pagine di motivazione; ogni frase di quel testo così imponente fu vivisezionata dai giudici di seconda istanza, che ne scrissero altrettante per giungere all’esito opposto; e poi vi furono ancora tre gradi di giudizio (cinque in tutto) fino alla assoluzione conclusiva. Vi chiedo: se vogliamo parlare di “garantismo”, vi sembra più garantista il sistema italiano o quello statunitense? Vi chiedo ancora: avete capito perché in Italia i processi durano tanto? Eppure molti in Italia pensano che la giustizia negli Usa funzioni meglio. Di certo è più sbrigativa.

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Tutto serve ad alimentare polemiche fra la maggioranza di governo e la opposizione; questa settimana è stato il caso di Chico Forti. Chi è costui? Un italiano, che è emigrato in America, vi ha fatto affari, poi è stato accusato di avere commesso un omicidio per motivi loschi (in pratica per coprire un delitto di truffa). Lui si è sempre protestato innocente ma è stato condannato all’ergastolo.

Adesso, dopo avere scontato 24 anni di carcere, ha ottenuto di poter scontare il resto della pena nel suo paese, come previsto da un trattato fra l’Italia e gli Usa; ferma restando la condanna decisa dal tribunale americano, potrà avere gli sconti per buona condotta previsti dalla legge italiana, anche se non sono previsti dalla legge americana. Per ottenere questo risultato, quell’uomo aveva bisogno che il governo italiano si attivasse in suo favore; e così è stato. Fin qui, tutto regolare, anche se succede di rado. Di strano c’è stato che quando l’ergastolano, sotto buona scorta, è sbarcato in Italia, ha trovato che a dargli il benvenuto c’era la presidente del Consiglio in persona, tutta contenta. Il perché di tanto onore non è stato spiegato. Da qui le critiche della opposizione e le repliche che però non hanno aiutato a capire meglio.

Questo episodio mi offre l’occasione per dare ai lettori qualche informazione sulle differenze fra la giustizia italiana e quella americana. Il signor Forti è stato condannato al carcere perpetuo (che laggiù non è un modo di dire) dal verdetto di una giuria formata da persone scelte a caso, le quali non hanno dovuto spendere una riga per spiegare perché, in un caso obiettivamente dubbio, avessero giudicato colpevole l’imputato; e il processo è finito lì.

In Italia, per la condanna in primo grado di Amanda Knox e del suo coimputato i giudici scrissero ben 425 pagine di motivazione; ogni frase di quel testo così imponente fu vivisezionata dai giudici di seconda istanza, che ne scrissero altrettante per giungere all’esito opposto; e poi vi furono ancora tre gradi di giudizio (cinque in tutto) fino alla assoluzione conclusiva. Vi chiedo: se vogliamo parlare di “garantismo”, vi sembra più garantista il sistema italiano o quello statunitense? Vi chiedo ancora: avete capito perché in Italia i processi durano tanto? Eppure molti in Italia pensano che la giustizia negli Usa funzioni meglio. Di certo è più sbrigativa.

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Giustizia: serve la riforma? https://www.lavoce.it/giustizia-serve-la-riforma/ https://www.lavoce.it/giustizia-serve-la-riforma/#respond Wed, 22 May 2024 21:21:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76275

Gli specialisti del Cise, Centro studi elettorali dell’università Luiss, in un’indagine in vista delle europee hanno individuato i temi-chiave per l’elettorato di ciascuna forza politica. Ebbene, l’unico tema che compare tra i primi cinque per tutti i principali partiti, con posizioni opposte (Fdi, Lega e Fi da una parte, Pd e M5S dall’altra) è quello dei poteri dei magistrati, da ridurre o da difendere.

Che l’atteggiamento nei confronti delle toghe – argomento di estrema delicatezza per gli equilibri democratici – sia il denominatore comune dei due “campi” contrapposti, la dice lunga sul tasso di ideologizzazione con cui bisogna fare i conti, quando invece la materia richiederebbe ponderazione e serenità di giudizio. Del resto non è una novità. Basti pensare che su argomenti del genere in passato furono addirittura indetti dei referendum.

È in questo contesto che il Governo si appresta a mettere in campo una legge che introduce la separazione delle carriere dei magistrati: giudici e pubblici ministeri su due percorsi paralleli, che quindi non si incontrano mai. Si tratta della terza riforma di natura istituzionale di cui l’Esecutivo si fa promotore, con un assortimento che corrisponde all’articolazione della maggioranza: dopo il premierato e l’autonomia differenziata, cari rispettivamente a FdI e Lega, ora è la volta di una storica proposta berlusconiana che Forza Italia rilancia con convinzione. Per una valutazione puntuale sarà bene attendere il testo ufficiale, quello che sarà effettivamente presentato in Parlamento. Ci sono aspetti la cui definizione tecnica e di dettaglio può risultare decisiva.

In termini più generali, depurata da intenti punitivi e da polemiche pre-elettorali, la questione sollevata da chi sostiene la separazione delle carriere è di grande rilevanza. La posta in gioco è l’effettiva “terzietà” del giudice, anche in rapporto alle modifiche che hanno investito negli anni il processo penale, orientate ad assicurare una sostanziale parità tra accusa e difesa. Ma per raggiungere questo obiettivo è proprio necessario modificare la Costituzione, che prevede un unico “ordine”, “autonomo e indipendente da ogni altro potere”?

La questione è stata motivo già in passato di interventi correttivi, fino alla riforma Cartabia del 2022, in base alla quale il passaggio dalla funzione requirente (pubblici ministeri) a quella giudicante (giudici) o viceversa, è possibile soltanto nei primi dieci anni di servizio e soltanto una volta nella carriera di un magistrato. I dati ancora provvisori dicono che nello stesso 2022 le richieste di passaggio da una funzione all’altra sono state appena una ventina su un organico di quasi 10 mila magistrati. Il fenomeno è così ridotto da far risultare sproporzionato il rimedio proposto con la separazione delle carriere.

E non mancano i pericoli. Dividere la magistratura in due corpi separati, infatti, può alimentare la tentazione di lasciar scivolare i pubblici ministeri nell’orbita del controllo governativo, ma espone anche al rischio – parzialmente contrapposto – che si possa creare un sottogruppo corporativo dei pm più potente e autoreferenziale, come ebbe a dire in un’intervista l’ex presidente della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli. Sarebbe un esito veramente paradossale per i sostenitori della separazione. Il criterio fondamentale, in ultima analisi, non può che essere quello di garantire l’autonomia e l’indipendenza nell’esercizio della giurisdizione.

Stefano De Martis
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Gli specialisti del Cise, Centro studi elettorali dell’università Luiss, in un’indagine in vista delle europee hanno individuato i temi-chiave per l’elettorato di ciascuna forza politica. Ebbene, l’unico tema che compare tra i primi cinque per tutti i principali partiti, con posizioni opposte (Fdi, Lega e Fi da una parte, Pd e M5S dall’altra) è quello dei poteri dei magistrati, da ridurre o da difendere.

Che l’atteggiamento nei confronti delle toghe – argomento di estrema delicatezza per gli equilibri democratici – sia il denominatore comune dei due “campi” contrapposti, la dice lunga sul tasso di ideologizzazione con cui bisogna fare i conti, quando invece la materia richiederebbe ponderazione e serenità di giudizio. Del resto non è una novità. Basti pensare che su argomenti del genere in passato furono addirittura indetti dei referendum.

È in questo contesto che il Governo si appresta a mettere in campo una legge che introduce la separazione delle carriere dei magistrati: giudici e pubblici ministeri su due percorsi paralleli, che quindi non si incontrano mai. Si tratta della terza riforma di natura istituzionale di cui l’Esecutivo si fa promotore, con un assortimento che corrisponde all’articolazione della maggioranza: dopo il premierato e l’autonomia differenziata, cari rispettivamente a FdI e Lega, ora è la volta di una storica proposta berlusconiana che Forza Italia rilancia con convinzione. Per una valutazione puntuale sarà bene attendere il testo ufficiale, quello che sarà effettivamente presentato in Parlamento. Ci sono aspetti la cui definizione tecnica e di dettaglio può risultare decisiva.

In termini più generali, depurata da intenti punitivi e da polemiche pre-elettorali, la questione sollevata da chi sostiene la separazione delle carriere è di grande rilevanza. La posta in gioco è l’effettiva “terzietà” del giudice, anche in rapporto alle modifiche che hanno investito negli anni il processo penale, orientate ad assicurare una sostanziale parità tra accusa e difesa. Ma per raggiungere questo obiettivo è proprio necessario modificare la Costituzione, che prevede un unico “ordine”, “autonomo e indipendente da ogni altro potere”?

La questione è stata motivo già in passato di interventi correttivi, fino alla riforma Cartabia del 2022, in base alla quale il passaggio dalla funzione requirente (pubblici ministeri) a quella giudicante (giudici) o viceversa, è possibile soltanto nei primi dieci anni di servizio e soltanto una volta nella carriera di un magistrato. I dati ancora provvisori dicono che nello stesso 2022 le richieste di passaggio da una funzione all’altra sono state appena una ventina su un organico di quasi 10 mila magistrati. Il fenomeno è così ridotto da far risultare sproporzionato il rimedio proposto con la separazione delle carriere.

E non mancano i pericoli. Dividere la magistratura in due corpi separati, infatti, può alimentare la tentazione di lasciar scivolare i pubblici ministeri nell’orbita del controllo governativo, ma espone anche al rischio – parzialmente contrapposto – che si possa creare un sottogruppo corporativo dei pm più potente e autoreferenziale, come ebbe a dire in un’intervista l’ex presidente della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli. Sarebbe un esito veramente paradossale per i sostenitori della separazione. Il criterio fondamentale, in ultima analisi, non può che essere quello di garantire l’autonomia e l’indipendenza nell’esercizio della giurisdizione.

Stefano De Martis
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Politici sotto indagine. Il giudizio prima della sentenza https://www.lavoce.it/politici-sotto-indagine-giudizio-prima-della-sentenza/ https://www.lavoce.it/politici-sotto-indagine-giudizio-prima-della-sentenza/#respond Wed, 15 May 2024 16:17:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76201

Ci risiamo con le indagini sui politici sospettati di corruzione. Adesso è sotto accusa il presidente della regione Liguria; e puntualmente tutti quelli della sua parte politica si sbracciano ad invocare il garantismo e la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (e magari oltre).

Sul concetto di garantismo e sulla presunzione di innocenza ci sarebbe molto da dire, ma non posso farlo qui. Mi limito a dire che la presunzione di innocenza vale essenzialmente ai fini penali, ma non vieta che i comportamenti di un uomo politico, se palesi e attinenti alla vita pubblica, siano valutati e giudicati sul piano politico, e che l’elettorato ne possa trarre le conclusioni dovute senza aspettare le sentenze dei giudici. Mi sembra esemplare la vicenda di François Fillon.

Il suo nome è poco conosciuto in Italia, ma era conosciutissimo e rispettato in Francia fino a qualche anno fa. Era l’esponente più autorevole della destra gaullista (noi diremmo un centro-destra liberale e moderato); era stato più volte ministro e anche primo ministro; in vista delle elezioni del 2017 era il candidato favorito per la nomina a Presidente della Repubblica; tutti i sondaggi lo davano vincente.

Quattro mesi prima delle elezioni, però, si scoprì che da anni sua moglie prendeva dallo Stato un lauto stipendio come assistente parlamentare del marito, ma in realtà non aveva mai svolto quel lavoro, neanche per un giorno. In Italia pochi ci avrebbero fatto caso, ma in Francia fu uno scandalo.

Nessuno disse che si doveva aspettare una sentenza della magistratura, tanto meno quella della Cassazione; nessuno parlò di giustizia a orologeria, benché fosse in corso la campagna elettorale. Il fatto c’era, e bastava. La maggioranza dei francesi non voleva un presidente che si approfittasse della sua posizione per fare avere alla moglie uno stipendio statale non guadagnato. Fillon non ritirò la sua candidatura, ma il suo nome crollò nei sondaggi; allo scrutinio risultò terzo, escluso dal ballottaggio dietro lo sconosciuto Macron e Marine Le Pen.

Dopo di allora, lui è scomparso dalla politica, e anche il suo partito è finito nella irrilevanza. Non voglio mitizzare la Francia e i francesi, ma mi pare che sentano molto più di noi il rispetto per le istituzioni e l’esigenza che chi le rappresenta sia moralmente inattaccabile.

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Ci risiamo con le indagini sui politici sospettati di corruzione. Adesso è sotto accusa il presidente della regione Liguria; e puntualmente tutti quelli della sua parte politica si sbracciano ad invocare il garantismo e la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (e magari oltre).

Sul concetto di garantismo e sulla presunzione di innocenza ci sarebbe molto da dire, ma non posso farlo qui. Mi limito a dire che la presunzione di innocenza vale essenzialmente ai fini penali, ma non vieta che i comportamenti di un uomo politico, se palesi e attinenti alla vita pubblica, siano valutati e giudicati sul piano politico, e che l’elettorato ne possa trarre le conclusioni dovute senza aspettare le sentenze dei giudici. Mi sembra esemplare la vicenda di François Fillon.

Il suo nome è poco conosciuto in Italia, ma era conosciutissimo e rispettato in Francia fino a qualche anno fa. Era l’esponente più autorevole della destra gaullista (noi diremmo un centro-destra liberale e moderato); era stato più volte ministro e anche primo ministro; in vista delle elezioni del 2017 era il candidato favorito per la nomina a Presidente della Repubblica; tutti i sondaggi lo davano vincente.

Quattro mesi prima delle elezioni, però, si scoprì che da anni sua moglie prendeva dallo Stato un lauto stipendio come assistente parlamentare del marito, ma in realtà non aveva mai svolto quel lavoro, neanche per un giorno. In Italia pochi ci avrebbero fatto caso, ma in Francia fu uno scandalo.

Nessuno disse che si doveva aspettare una sentenza della magistratura, tanto meno quella della Cassazione; nessuno parlò di giustizia a orologeria, benché fosse in corso la campagna elettorale. Il fatto c’era, e bastava. La maggioranza dei francesi non voleva un presidente che si approfittasse della sua posizione per fare avere alla moglie uno stipendio statale non guadagnato. Fillon non ritirò la sua candidatura, ma il suo nome crollò nei sondaggi; allo scrutinio risultò terzo, escluso dal ballottaggio dietro lo sconosciuto Macron e Marine Le Pen.

Dopo di allora, lui è scomparso dalla politica, e anche il suo partito è finito nella irrilevanza. Non voglio mitizzare la Francia e i francesi, ma mi pare che sentano molto più di noi il rispetto per le istituzioni e l’esigenza che chi le rappresenta sia moralmente inattaccabile.

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Dalla vendetta alla giustizia. E oltre https://www.lavoce.it/dalla-vendetta-alla-giustizia-e-oltre/ https://www.lavoce.it/dalla-vendetta-alla-giustizia-e-oltre/#respond Fri, 10 May 2024 08:10:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76087

A dispetto delle sue difficoltà di movimento, papa Francesco ha fatto una visita lampo a Venezia, dedicata principalmente al carcere femminile e ad un incontro con quelle detenute. La storia di quella visita, e il suo perché, meriterebbero un commento a parte; ma oggi voglio concentrare l’attenzione su un episodio marginale. Come d’uso in questi casi, una detenuta era stata scelta (ovviamente non dal Papa) per rivolgere all’ospite un saluto e un omaggio a nome di tutte; e il Papa aveva risposto con toni di incoraggiamento e di speranza. Tutto normale, da quando a Natale del 1958 Giovanni XXIII, a sorpresa, fece visita a un carcere, la prima volta per un Papa.

Ma qualche giornalista si è chiesto chi fosse quella donna, ha scoperto che sta scontando una condanna per omicidio volontario, e ha pensato bene di andare ad intervistare i parenti della vittima. Ha trovato un signore il quale ha detto che, con tutto il rispetto per il Papa, lui però non è disposto a perdonare quella detenuta, e che la giustizia non è stata abbastanza severa con lei.

Un classico: ormai non c’è cronaca del processo per un grave delitto che non sia accompagnata dall’intervista ai parenti della vittima e che non dia risonanza alla loro rituale indignazione perché avrebbero voluto pene più pesanti. I giornali in genere sposano questi atteggiamenti, e lasciano intendere al lettore che il compito dei giudici sarebbe quello di dare soddisfazione ai familiari del morto, i quali dunque hanno ragione di protestare se così non è stato. A volte viene il sospetto che qualche giudice si sia lasciato influenzare dal timore di questi commenti.

Invece si dovrebbe ricordare il vecchio detto che la civiltà umana è cominciata il giorno in cui si è stabilito che non spetta ai parenti del morto decidere la pena per l’uccisore; insomma, quando si è imparato a distinguere fra giustizia e vendetta. Nei nostri giorni, però, c’è anche chi va oltre tutto questo; parlo delle iniziative di “giustizia riparativa” (recepite da una legge voluta da Marta Cartabia quando era ministro della giustizia) che consistono nel promuovere l’incontro e la pacificazione, in privato, fra l’autore del reato e la sua vittima (o i parenti di questa), ferme restando le sanzioni legali. In concreto, questo percorso è possibile in casi molto rari, ma qualche volta il risultato si ottiene.

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A dispetto delle sue difficoltà di movimento, papa Francesco ha fatto una visita lampo a Venezia, dedicata principalmente al carcere femminile e ad un incontro con quelle detenute. La storia di quella visita, e il suo perché, meriterebbero un commento a parte; ma oggi voglio concentrare l’attenzione su un episodio marginale. Come d’uso in questi casi, una detenuta era stata scelta (ovviamente non dal Papa) per rivolgere all’ospite un saluto e un omaggio a nome di tutte; e il Papa aveva risposto con toni di incoraggiamento e di speranza. Tutto normale, da quando a Natale del 1958 Giovanni XXIII, a sorpresa, fece visita a un carcere, la prima volta per un Papa.

Ma qualche giornalista si è chiesto chi fosse quella donna, ha scoperto che sta scontando una condanna per omicidio volontario, e ha pensato bene di andare ad intervistare i parenti della vittima. Ha trovato un signore il quale ha detto che, con tutto il rispetto per il Papa, lui però non è disposto a perdonare quella detenuta, e che la giustizia non è stata abbastanza severa con lei.

Un classico: ormai non c’è cronaca del processo per un grave delitto che non sia accompagnata dall’intervista ai parenti della vittima e che non dia risonanza alla loro rituale indignazione perché avrebbero voluto pene più pesanti. I giornali in genere sposano questi atteggiamenti, e lasciano intendere al lettore che il compito dei giudici sarebbe quello di dare soddisfazione ai familiari del morto, i quali dunque hanno ragione di protestare se così non è stato. A volte viene il sospetto che qualche giudice si sia lasciato influenzare dal timore di questi commenti.

Invece si dovrebbe ricordare il vecchio detto che la civiltà umana è cominciata il giorno in cui si è stabilito che non spetta ai parenti del morto decidere la pena per l’uccisore; insomma, quando si è imparato a distinguere fra giustizia e vendetta. Nei nostri giorni, però, c’è anche chi va oltre tutto questo; parlo delle iniziative di “giustizia riparativa” (recepite da una legge voluta da Marta Cartabia quando era ministro della giustizia) che consistono nel promuovere l’incontro e la pacificazione, in privato, fra l’autore del reato e la sua vittima (o i parenti di questa), ferme restando le sanzioni legali. In concreto, questo percorso è possibile in casi molto rari, ma qualche volta il risultato si ottiene.

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Caso Regeni, la soluzione sia politica https://www.lavoce.it/caso-regeni-la-soluzione-sia-politica/ Thu, 21 Jul 2022 17:00:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=67754

I giornali italiani hanno dato nuovamente spazio al caso Regeni, criticando anche la giustizia italiana perché non ne viene a capo. Giulio Regeni, giovane studioso di livello postlaurea, è stato rapito, torturato e ucciso in Egitto fra il gennaio e il febbraio del 2016, in circostanze misteriose.

Le complesse indagini condotte dalla magistratura italiana fanno ritenere, con ragionevole certezza, che il delitto sia stato commesso da agenti della polizia politica egiziana, forse perché il giovane era in contatto con gruppi di opposizione. Presso il Tribunale di Roma è stato avviato un processo con imputati quattro agenti egiziani, i cui nomi sono stati indicati da un testimone. Ma il processo non può andare avanti perché dei quattro imputati si sanno solo i nomi (ammesso che siano i loro nomi veri), ma non gli indirizzi, quindi non vi è modo per convocarli alle udienze.

In questi giorni la Cassazione ha confermato che, in queste condizioni, il processo non si può fare. Questa decisione ha suscitato accese proteste contro la magistratura. Ma che possono fare i giudici?

Se c’è una regola procedurale riconosciuta e osservata in tutto il mondo è quella che non si può processare un imputato se non lo si è messo in grado di difendersi. Per molto meno, i francesi (non gli egiziani) hanno tratto il pretesto per dare asilo per decenni a Cesare Battisti e altri che, come lui, erano stati condannati in Italia a pene gravissime per delitti di sangue.

Il caso Regeni deve trovare il suo sbocco sul piano politico, non su quello giudiziario. È sotto gli occhi di tutti che il Governo egiziano protegge gli autori del crimine - non importa che siano quei quattro o altri - , e perciò indirettamente riconosce che essi agivano nell’ambito del loro ufficio. Quindi il Governo egiziano è responsabile, quanto meno moralmente, della morte di Giulio Regeni. Il Governo italiano dovrebbe contestarglielo, non come sospetto, ma come certezza acquisita; e dovrebbe chiederne ragione. Lo sbocco del caso Regeni dovrebbe essere questo, e non il processo a quattro fantasmi senza volto.

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I giornali italiani hanno dato nuovamente spazio al caso Regeni, criticando anche la giustizia italiana perché non ne viene a capo. Giulio Regeni, giovane studioso di livello postlaurea, è stato rapito, torturato e ucciso in Egitto fra il gennaio e il febbraio del 2016, in circostanze misteriose.

Le complesse indagini condotte dalla magistratura italiana fanno ritenere, con ragionevole certezza, che il delitto sia stato commesso da agenti della polizia politica egiziana, forse perché il giovane era in contatto con gruppi di opposizione. Presso il Tribunale di Roma è stato avviato un processo con imputati quattro agenti egiziani, i cui nomi sono stati indicati da un testimone. Ma il processo non può andare avanti perché dei quattro imputati si sanno solo i nomi (ammesso che siano i loro nomi veri), ma non gli indirizzi, quindi non vi è modo per convocarli alle udienze.

In questi giorni la Cassazione ha confermato che, in queste condizioni, il processo non si può fare. Questa decisione ha suscitato accese proteste contro la magistratura. Ma che possono fare i giudici?

Se c’è una regola procedurale riconosciuta e osservata in tutto il mondo è quella che non si può processare un imputato se non lo si è messo in grado di difendersi. Per molto meno, i francesi (non gli egiziani) hanno tratto il pretesto per dare asilo per decenni a Cesare Battisti e altri che, come lui, erano stati condannati in Italia a pene gravissime per delitti di sangue.

Il caso Regeni deve trovare il suo sbocco sul piano politico, non su quello giudiziario. È sotto gli occhi di tutti che il Governo egiziano protegge gli autori del crimine - non importa che siano quei quattro o altri - , e perciò indirettamente riconosce che essi agivano nell’ambito del loro ufficio. Quindi il Governo egiziano è responsabile, quanto meno moralmente, della morte di Giulio Regeni. Il Governo italiano dovrebbe contestarglielo, non come sospetto, ma come certezza acquisita; e dovrebbe chiederne ragione. Lo sbocco del caso Regeni dovrebbe essere questo, e non il processo a quattro fantasmi senza volto.

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In questo numero: la scuola si prepara per l’estate – matrimoni forzati – oratori https://www.lavoce.it/la-scuola-si-prepara-per-lestate-matrimoni-forzati-oratori/ Fri, 11 Jun 2021 14:51:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60968

Questa settimana su La Voce (Leggi tutto nell'edizione digitale)

l’editoriale

La scuola è anche questione di edilizia

di Alberto Campoleoni L’anno scolastico va verso la conclusione. Una conclusione “strana”, come è stato “strano” un po’ tutto questo anno scolastico, sballottato tra didattica a distanza e assenza vera e propria di didattica (già, perché non vanno dimenticate quelle situazioni più volte denunciate dove le infrastrutture inadeguate – reti internet, strumentazione tecnologica carente, difficoltà sociali e familiari – hanno impedito quasi del tutto l’esperienza scolastica). Un anno che si chiude però all’insegna della speranza di …

Focus

Brusca: è giusto scarcerarlo?

di Pier Giorgio Lignani Giovanni Brusca è stato scarcerato per fine pena, e non si placano le polemiche dei tanti che vorrebbero farlo stare in galera fino alla morte. La prima osservazione è che tutti parlano come se qualcuno si fosse svegliato una mattina e avesse deciso di scarcerare l’autore della strage di Capaci …

Burkina inerme di fronte al jihad

di Tonio Dell’Olio Il Papa l’ha richiamato all’Angelus domenicale, chiedendo una preghiera e la denuncia dell’indifferenza della comunità internazionale. Il Presidente del Burkina Faso, non riuscendo a garantire la difesa...

Nel giornale

Il banco di prova

Termina un anno scolastico molto particolare, di cui è ancora difficile valutare che trascichi avrà, tra nuove forme di apprendimento e problemi di apprendimento. Secondo la dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, Antonella Iunti, il 2020-21 è stato un duro “banco di prova”, di cui fare tesoro per la didattica futura. Intanto, al via le attività scolastiche estive: una scelta facoltativa, con punti dibattuti, ma che offre delle belle opportunità, come sottolineano esponenti del corpo docente. Senza dimenticare la fondamentale l’educazione alla vita sociale, per cui la Regione ha stanziato fondi importanti. Le proposte di Grest che arrivano  dalle nostre parrocchie

TURISMO

È confermato, in molti “amano il mare dell’Umbria”! Il settore turistico, duramente colpito, si prepara adesso a ripartire con slancio. Su cosa puntare? Lo abbiamo chiesto all’assessora regionale Paola Agabiti

CULTURA

Anche la musica elettronica esalta Dante nel suo centenario. Autore, un professore umbro... di violino

ECOLOGIA

Per la transizione ecologica, torna utile l’insegnamento di san Paolo. Il Messaggio della Cei per la prossima Giornata del creato

ISLAM E MATRIMONI FORZATI

Finalmente - dopo tragici fatti di cronaca - dal mondo islamico una parola chiara contro la pratica dei matrimoni foarzati. Ne abbiamo parlato con Maymouna Abdel Qader, figlia dello “storico” imam di Perugia. La voce giovane del dialogo e dell’apertura culturale  ]]>

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Per la transizione ecologica, torna utile l’insegnamento di san Paolo. Il Messaggio della Cei per la prossima Giornata del creato

ISLAM E MATRIMONI FORZATI

Finalmente - dopo tragici fatti di cronaca - dal mondo islamico una parola chiara contro la pratica dei matrimoni foarzati. Ne abbiamo parlato con Maymouna Abdel Qader, figlia dello “storico” imam di Perugia. La voce giovane del dialogo e dell’apertura culturale  ]]>
“Laudato si’” dà voce alle tragedie ignote https://www.lavoce.it/laudato-si-da-voce-alle-tragedie-ignote/ Thu, 21 May 2020 17:25:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57203 colline e sole, logo rubrica oltre i confini

Jorge Enrique Oramas, 70 anni, era un sociologo agricoltore che, in un angolo incantevole della Colombia, insegnava a coltivare la speranza. Custodiva i semi, ovvero il futuro della terra. Li preservava come si fa con un tesoro e con le cose che più contano, perché si trattava del grano e del mais tipici del Parco de Los Farallones nell’area di Cali. Poi li distribuiva ai contadini per dare vita nuova alla terra e ai suoi abitanti. Nei giorni scorsi lo hanno assassinato. Con ogni probabilità le ragioni e gli autori dell’omicidio vanno ricercati nelle attività minerarie illegali alle quali Oramas si opponeva da tempo perché depredavano la terra ed esercitavano violenza e prepotenza sui campesinos. Dall’altra parte del mondo, in Liberia, a Masakpa, nella contea di Grand Cape Mount al confine con Sierra Leone, una miniera di diamanti è crollata e circa 50 persone sono rimaste sepolte. Non affannatevi a cercare notizia della miniera di Masakpa e di Jorge Enrique Oramas su giornali, siti web e notiziari. Non le troverete. Nella Settimana della Laudato si’, costituiscono la prova di quanto sia attuale e drammatica la sfida lanciata da Papa Francesco, e che gli abitanti del pianeta non hanno ancora raccolto. Tonio Dell’Olio]]>
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Jorge Enrique Oramas, 70 anni, era un sociologo agricoltore che, in un angolo incantevole della Colombia, insegnava a coltivare la speranza. Custodiva i semi, ovvero il futuro della terra. Li preservava come si fa con un tesoro e con le cose che più contano, perché si trattava del grano e del mais tipici del Parco de Los Farallones nell’area di Cali. Poi li distribuiva ai contadini per dare vita nuova alla terra e ai suoi abitanti. Nei giorni scorsi lo hanno assassinato. Con ogni probabilità le ragioni e gli autori dell’omicidio vanno ricercati nelle attività minerarie illegali alle quali Oramas si opponeva da tempo perché depredavano la terra ed esercitavano violenza e prepotenza sui campesinos. Dall’altra parte del mondo, in Liberia, a Masakpa, nella contea di Grand Cape Mount al confine con Sierra Leone, una miniera di diamanti è crollata e circa 50 persone sono rimaste sepolte. Non affannatevi a cercare notizia della miniera di Masakpa e di Jorge Enrique Oramas su giornali, siti web e notiziari. Non le troverete. Nella Settimana della Laudato si’, costituiscono la prova di quanto sia attuale e drammatica la sfida lanciata da Papa Francesco, e che gli abitanti del pianeta non hanno ancora raccolto. Tonio Dell’Olio]]>
Processi lunghi, sì, ma per fare le cose per bene https://www.lavoce.it/processi-lunghi-bene/ Wed, 05 Feb 2020 16:08:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56217 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Molti discutono di processo penale e di giustizia, ma spesso danno l’impressione di non sapere bene di cosa parlino. Avendo un’esperienza fatta sul campo per più di 50 anni, cercherò di dare qualche informazione utile; qualcosa che gli addetti ai lavori sanno ma la gente comune no.

Dunque, il sistema giudiziario italiano (penale e civile) è il più garantista del mondo. Non sto dicendo che produca meno errori di altri, magari ne produce di più. Però tutto quello che era umanamente pensabile a tavolino per prevenire gli errori, e per rimediarli una volta fatti, è stato pensato e scritto nella Costituzione e nei Codici.

Come l’obbligo del giudice di mettere per iscritto tutti i perché della sua decisione, spiegandone e giustificandone ogni passaggio. Il che – oltre a occupare il magistrato per un sacco di tempo – lo costringe a rifletterea fondo su quello che decide. All’obbligo della motivazione scritta si riconnette il diritto della parte di riaprire la causa davanti a un giudice superiore – e poi ancora più su - per ridiscutere tutto da capo.

Questo tipo di garanzie negli Stati Uniti, per dire, non ci sono. Lì la giuria condanna o assolve senza “motivazione”; la sentenza di condanna è immediatamente esecutiva e non esiste, come da noi, l’appello inteso come nuovo giudizio. Si può ricorrere solo per sostenere che il processo non si è svolto a norma di legge; ma i giudici superiori non sono tenuti ad esaminare il caso - lo fanno con il contagocce - , e intanto il condannato sconta la pena, perché la presunzione d’innocenza vale solo nel primo grado.

Ecco un esempio delle opportunità che altrove non ci sono, e che la nostra legge fornisce ai difensori per combattere la loro battaglia. Ma ogni iniziativa difensiva comporta un dispendio di tempo, e quindi un allungamento del processo. Ed è giusto; ma allora non si deve dare ai giudici la colpa se il processo dura a lungo. Poi c’è il fenomeno dell’abuso del processo, quando il difensore solleva una questione non perché ci creda, ma perché serve a guadagnare tempo. Il vissuto quotidiano dei tribunali è anche questo.

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di Pier Giorgio Lignani

Molti discutono di processo penale e di giustizia, ma spesso danno l’impressione di non sapere bene di cosa parlino. Avendo un’esperienza fatta sul campo per più di 50 anni, cercherò di dare qualche informazione utile; qualcosa che gli addetti ai lavori sanno ma la gente comune no.

Dunque, il sistema giudiziario italiano (penale e civile) è il più garantista del mondo. Non sto dicendo che produca meno errori di altri, magari ne produce di più. Però tutto quello che era umanamente pensabile a tavolino per prevenire gli errori, e per rimediarli una volta fatti, è stato pensato e scritto nella Costituzione e nei Codici.

Come l’obbligo del giudice di mettere per iscritto tutti i perché della sua decisione, spiegandone e giustificandone ogni passaggio. Il che – oltre a occupare il magistrato per un sacco di tempo – lo costringe a rifletterea fondo su quello che decide. All’obbligo della motivazione scritta si riconnette il diritto della parte di riaprire la causa davanti a un giudice superiore – e poi ancora più su - per ridiscutere tutto da capo.

Questo tipo di garanzie negli Stati Uniti, per dire, non ci sono. Lì la giuria condanna o assolve senza “motivazione”; la sentenza di condanna è immediatamente esecutiva e non esiste, come da noi, l’appello inteso come nuovo giudizio. Si può ricorrere solo per sostenere che il processo non si è svolto a norma di legge; ma i giudici superiori non sono tenuti ad esaminare il caso - lo fanno con il contagocce - , e intanto il condannato sconta la pena, perché la presunzione d’innocenza vale solo nel primo grado.

Ecco un esempio delle opportunità che altrove non ci sono, e che la nostra legge fornisce ai difensori per combattere la loro battaglia. Ma ogni iniziativa difensiva comporta un dispendio di tempo, e quindi un allungamento del processo. Ed è giusto; ma allora non si deve dare ai giudici la colpa se il processo dura a lungo. Poi c’è il fenomeno dell’abuso del processo, quando il difensore solleva una questione non perché ci creda, ma perché serve a guadagnare tempo. Il vissuto quotidiano dei tribunali è anche questo.

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Giustizia e sanità, due mali cronici dell’Italia https://www.lavoce.it/giustizia-sanita-cronici/ Thu, 11 Jul 2019 11:56:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54845 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Fa un certo effetto, e scorrere un brivido lungo la schiena, leggere da una locandina che un centinaio di imputati in un processo per prostituzione e droga a Perugia siano stati assolti “dopo 20 anni”. Ti immedesimi, e il brivido si trasforma in tremore: perché puoi essere anche un delinquente matricolato, ma 20 anni per aspettare una sentenza nella vita di una qualunque persona sono tanti.

Troppi. Così viene istintivo chiedersi come mai tutto questo possa accadere, nel Paese che la giurisprudenza l’ha inventata. Creandone, forse, troppa e contraddittoria. Tanto che spesso una legge smentisce la precedente, la aggira, la supera, la contrasta; e tutto si avviluppa in un groviglio di carte e burocrazia, dilatando i tempi di una giustizia che, anche per questi motivi, risulta sempre meno credibile agli occhi del cittadino fiscalmente onesto.

Lo stesso ragionamento, da angolature diverse, si può azzardare per la sanità: le lunghissime liste d’attesa per un banale esame sembrano un problema irresolubile. Poi si scopre - lo ha evidenziato un’inchiesta di Milena Gabanelli - che i medici ospedalieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa, e che per superare questo divario è stata data loro la possibilità di svolgere dentro le mura dell’ospedale la professione privata.

Con il risultato che gli ambulatori, per diverse ore di diversi giorni a settimana, hanno meno medici impegnati a fare esami. Giustizia in crisi, sanità non ne parliamo: meglio evitare, se possibile, tribunali e ospedali.

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di Daris Giancarlini

Fa un certo effetto, e scorrere un brivido lungo la schiena, leggere da una locandina che un centinaio di imputati in un processo per prostituzione e droga a Perugia siano stati assolti “dopo 20 anni”. Ti immedesimi, e il brivido si trasforma in tremore: perché puoi essere anche un delinquente matricolato, ma 20 anni per aspettare una sentenza nella vita di una qualunque persona sono tanti.

Troppi. Così viene istintivo chiedersi come mai tutto questo possa accadere, nel Paese che la giurisprudenza l’ha inventata. Creandone, forse, troppa e contraddittoria. Tanto che spesso una legge smentisce la precedente, la aggira, la supera, la contrasta; e tutto si avviluppa in un groviglio di carte e burocrazia, dilatando i tempi di una giustizia che, anche per questi motivi, risulta sempre meno credibile agli occhi del cittadino fiscalmente onesto.

Lo stesso ragionamento, da angolature diverse, si può azzardare per la sanità: le lunghissime liste d’attesa per un banale esame sembrano un problema irresolubile. Poi si scopre - lo ha evidenziato un’inchiesta di Milena Gabanelli - che i medici ospedalieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa, e che per superare questo divario è stata data loro la possibilità di svolgere dentro le mura dell’ospedale la professione privata.

Con il risultato che gli ambulatori, per diverse ore di diversi giorni a settimana, hanno meno medici impegnati a fare esami. Giustizia in crisi, sanità non ne parliamo: meglio evitare, se possibile, tribunali e ospedali.

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I figli “sono di tutti”. Anche Giulio Regeni https://www.lavoce.it/figli-giulio-regeni/ Sat, 23 Feb 2019 08:00:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54075 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Cosa resta dell’umanità e della coesione sociale che caratterizzavano storicamente la nostra Italia, dove le nostre nonne e mamme ripetevano spesso che “i figli sono di tutti”? Me lo sono chiesto la sera di domenica 17 febbraio, mentre Fabio Fazio a Che tempo che fa intervistava i genitori di Giulio Regeni, torturato e assassinato in Egitto tre anni fa circa in circostanze ancora da chiarire.

Me lo sono chiesto quando a fine intervista Claudio Regeni, il padre del giovane, si è alzato in piedi e, guardando dritto la telecamera, si è rivolto al procuratore generale del Cairo. Per chiedere, come gli era stato promesso da quell’alto magistrato egiziano, verità e giustizia piena per il suo ragazzo.

Poi Claudio ha fatto - “da padre a padre” - un’altra, specifica richiesta: “Vorremmo avere indietro i vestiti di Giulio”. Tre anni, e non hanno ancora avuto indietro i vestiti del loro figlio: com’è possibile, se politici di partiti diversi, in questo frattempo, si sono affannati a ribadire che avrebbero fatto di tutto per andare fino in fondo a questa torbida vicenda?

Ragioni politiche ed economiche, probabilmente, lo impediscono: ma come fanno, questi esponenti del potere di ogni colore, a non sentire sulla propria pelle, essendo loro stessi genitori, la ferita bruciante di una vicenda che non riguarda ‘soltanto’ quel giovane ma tutti i nostri giovani e la loro possibilità di andare in giro per il mondo a costruirsi un futuro? Se non basta la politica, almeno subentri l’umanità. E il rispetto di chi è stato ‘condannato’ al dolore perpetuo, come Claudio e Paola Regeni.

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di Daris Giancarlini

Cosa resta dell’umanità e della coesione sociale che caratterizzavano storicamente la nostra Italia, dove le nostre nonne e mamme ripetevano spesso che “i figli sono di tutti”? Me lo sono chiesto la sera di domenica 17 febbraio, mentre Fabio Fazio a Che tempo che fa intervistava i genitori di Giulio Regeni, torturato e assassinato in Egitto tre anni fa circa in circostanze ancora da chiarire.

Me lo sono chiesto quando a fine intervista Claudio Regeni, il padre del giovane, si è alzato in piedi e, guardando dritto la telecamera, si è rivolto al procuratore generale del Cairo. Per chiedere, come gli era stato promesso da quell’alto magistrato egiziano, verità e giustizia piena per il suo ragazzo.

Poi Claudio ha fatto - “da padre a padre” - un’altra, specifica richiesta: “Vorremmo avere indietro i vestiti di Giulio”. Tre anni, e non hanno ancora avuto indietro i vestiti del loro figlio: com’è possibile, se politici di partiti diversi, in questo frattempo, si sono affannati a ribadire che avrebbero fatto di tutto per andare fino in fondo a questa torbida vicenda?

Ragioni politiche ed economiche, probabilmente, lo impediscono: ma come fanno, questi esponenti del potere di ogni colore, a non sentire sulla propria pelle, essendo loro stessi genitori, la ferita bruciante di una vicenda che non riguarda ‘soltanto’ quel giovane ma tutti i nostri giovani e la loro possibilità di andare in giro per il mondo a costruirsi un futuro? Se non basta la politica, almeno subentri l’umanità. E il rispetto di chi è stato ‘condannato’ al dolore perpetuo, come Claudio e Paola Regeni.

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Giustizia non è vendetta https://www.lavoce.it/giustizia-vendetta/ Sat, 09 Feb 2019 08:00:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53988 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

È successo poco più di un anno fa vicino a Verona. Due ragazzi minorenni, uno di 13, uno di 17 anni, per divertirsi decidono di fare un dispetto a un poveraccio, un immigrato senza casa e senza lavoro, che dorme dentro una vecchia macchina abbandonata. Danno fuoco ad alcuni pezzi di carta e li buttano dentro.

Ma le cose scappano loro di mano: la macchina si incendia, il disgraziato che sta dentro non riesce a scendere e fa una morte orribile. Segue il processo a carico dei due ragazzi. Ma uno dei due al momento del fatto aveva meno di 14 anni e quindi, secondo la legge, era “incapace di intendere e di volere” e non può essere processato. Per l’altro valgono le leggi speciali della giustizia minorile, le quali mettono al primo posto la rieducazione.

Veniamo così al fatto di questi giorni. Il giudice partendo dalla considerazione che non c’era stata volontà di uccidere ma solo una sbadata cattiveria - decide di sospendere il giudizio e di “mettere alla prova” per tre anni il ragazzo. Vivrà, come già ora sta facendo, in una comunità protetta, studierà e passerà il suo tempo libero dedicandosi a servizi sociali. Se alla fine meriterà un giudizio positivo, sarà libero. Una decisione umana ed equa, si direbbe.

Anche perché, una volta escluso che la morte fosse voluta, la pena per il minorenne sarebbe stata poco più che simbolica. Però si è levato contro il giudice un coro di critiche e di insulti guidato dai parenti della vittima. Qui bisognerebbe ricordare che, secondo un certo punto di vista, la civiltà è apparsa sulla faccia della Terra quando si è stabilito che non siano i parenti del morto a decidere la pena per l’uccisore, perché giustizia non vuol dire vendetta.

Pochi giorni fa, a Città di Castello abbiamo sentito una concittadina divenuta giudice penale a Milano raccontare le sue esperienze – fatte per volontariato – nel guidare la riconciliazione fra i colpevoli e le loro vittime. Una strada difficile, che solo pochi possono percorrere; ma a quelli che ci riescono, guarisce il dolore sofferto.

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di Pier Giorgio Lignani

È successo poco più di un anno fa vicino a Verona. Due ragazzi minorenni, uno di 13, uno di 17 anni, per divertirsi decidono di fare un dispetto a un poveraccio, un immigrato senza casa e senza lavoro, che dorme dentro una vecchia macchina abbandonata. Danno fuoco ad alcuni pezzi di carta e li buttano dentro.

Ma le cose scappano loro di mano: la macchina si incendia, il disgraziato che sta dentro non riesce a scendere e fa una morte orribile. Segue il processo a carico dei due ragazzi. Ma uno dei due al momento del fatto aveva meno di 14 anni e quindi, secondo la legge, era “incapace di intendere e di volere” e non può essere processato. Per l’altro valgono le leggi speciali della giustizia minorile, le quali mettono al primo posto la rieducazione.

Veniamo così al fatto di questi giorni. Il giudice partendo dalla considerazione che non c’era stata volontà di uccidere ma solo una sbadata cattiveria - decide di sospendere il giudizio e di “mettere alla prova” per tre anni il ragazzo. Vivrà, come già ora sta facendo, in una comunità protetta, studierà e passerà il suo tempo libero dedicandosi a servizi sociali. Se alla fine meriterà un giudizio positivo, sarà libero. Una decisione umana ed equa, si direbbe.

Anche perché, una volta escluso che la morte fosse voluta, la pena per il minorenne sarebbe stata poco più che simbolica. Però si è levato contro il giudice un coro di critiche e di insulti guidato dai parenti della vittima. Qui bisognerebbe ricordare che, secondo un certo punto di vista, la civiltà è apparsa sulla faccia della Terra quando si è stabilito che non siano i parenti del morto a decidere la pena per l’uccisore, perché giustizia non vuol dire vendetta.

Pochi giorni fa, a Città di Castello abbiamo sentito una concittadina divenuta giudice penale a Milano raccontare le sue esperienze – fatte per volontariato – nel guidare la riconciliazione fra i colpevoli e le loro vittime. Una strada difficile, che solo pochi possono percorrere; ma a quelli che ci riescono, guarisce il dolore sofferto.

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Microcriminalità che spaventa https://www.lavoce.it/microcriminalita-che-spaventa/ Mon, 23 Jul 2018 08:13:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52447 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Fra le tante questioni spinose che deve affrontare il Governo c’è il diffuso senso di insicurezza della popolazione, preoccupata per la criminalità. In particolare, l’allarme è per la cosiddetta microcriminalità, ossia per quei delitti che sono relativamente meno gravi e non fanno notizia sui giornali, ma nondimeno procurano a chi li subisce danni materiali, dispiaceri, amarezza e paura.

Qualcuno dice che questi stati d’animo non sono giustificati, perché statisticamente i reati sono in diminuzione costante: insomma, non c’è da preoccuparsi. Secondo me, ha ragione invece chi si preoccupa. Le statistiche sulla diminuzione dei reati hanno un valore relativo, perché le cifre su cui si basano sono quelle delle “denunce” formalmente presentate alle forze dell’ordine. Ma nessuno calcola i reati che non vengono denunciati. È esperienza comune che chi ha subìto certi tipi di furto ne fa denuncia formale solo se gli serve per chiedere un duplicato dei documenti o un indennizzo all’assicurazione; in caso contrario, evita di perderci tempo, specialmente se – come accade quasi sempre – lui stesso non saprebbe dare alcuna indicazione utile per rintracciare il colpevole.

L’insicurezza della gente, poi, più che dal numero dei reati è turbata dalla constatazione che, pur se formalmente denunciati, quasi tutti restano impuniti per sempre. E qui le statistiche sono impressionanti.

Per i reati cosiddetti predatori, ossia furto, rapina ed estorsione, complessivamente considerati, il numero delle sentenze di condanna rappresenta all’incirca il 2 per cento delle denunce presentate. Come dire che nel 98 per cento dei casi alla denuncia non fa seguito alcuna condanna: non perché la denuncia sia infondata, ma perché il colpevole è rimasto sconosciuto o perché il processo è rimasto bloccato da qualche intoppo formale e alla fine è caduto in prescrizione.

Quand’anche una sentenza di condanna ci sia, non è detto che il colpevole vada realmente in galera, anzi sicuramente - per almeno il 90% delle condanne - non ci va, perché ottiene la sospensione condizionale o l’applicazione di una “pena alternativa” che di fatto è solo simbolica. Altro che certezza della pena! Qui siamo alla certezza dell’impunità.

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di Pier Giorgio Lignani

Fra le tante questioni spinose che deve affrontare il Governo c’è il diffuso senso di insicurezza della popolazione, preoccupata per la criminalità. In particolare, l’allarme è per la cosiddetta microcriminalità, ossia per quei delitti che sono relativamente meno gravi e non fanno notizia sui giornali, ma nondimeno procurano a chi li subisce danni materiali, dispiaceri, amarezza e paura.

Qualcuno dice che questi stati d’animo non sono giustificati, perché statisticamente i reati sono in diminuzione costante: insomma, non c’è da preoccuparsi. Secondo me, ha ragione invece chi si preoccupa. Le statistiche sulla diminuzione dei reati hanno un valore relativo, perché le cifre su cui si basano sono quelle delle “denunce” formalmente presentate alle forze dell’ordine. Ma nessuno calcola i reati che non vengono denunciati. È esperienza comune che chi ha subìto certi tipi di furto ne fa denuncia formale solo se gli serve per chiedere un duplicato dei documenti o un indennizzo all’assicurazione; in caso contrario, evita di perderci tempo, specialmente se – come accade quasi sempre – lui stesso non saprebbe dare alcuna indicazione utile per rintracciare il colpevole.

L’insicurezza della gente, poi, più che dal numero dei reati è turbata dalla constatazione che, pur se formalmente denunciati, quasi tutti restano impuniti per sempre. E qui le statistiche sono impressionanti.

Per i reati cosiddetti predatori, ossia furto, rapina ed estorsione, complessivamente considerati, il numero delle sentenze di condanna rappresenta all’incirca il 2 per cento delle denunce presentate. Come dire che nel 98 per cento dei casi alla denuncia non fa seguito alcuna condanna: non perché la denuncia sia infondata, ma perché il colpevole è rimasto sconosciuto o perché il processo è rimasto bloccato da qualche intoppo formale e alla fine è caduto in prescrizione.

Quand’anche una sentenza di condanna ci sia, non è detto che il colpevole vada realmente in galera, anzi sicuramente - per almeno il 90% delle condanne - non ci va, perché ottiene la sospensione condizionale o l’applicazione di una “pena alternativa” che di fatto è solo simbolica. Altro che certezza della pena! Qui siamo alla certezza dell’impunità.

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La giustizia e le accuse https://www.lavoce.it/la-giustizia-le-accuse/ Thu, 03 May 2018 08:00:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51799 di Paolo Giulietti

Ha fatto molto rumore sui media di tutto il mondo il rinvio a giudizio del card. George Pell, con l’accusa di aver abusato sessualmente di minori. Si tratta, infatti, dell’ecclesiastico più alto in grado finito dinanzi a un tribunale per motivi del genere, ma anche di un uomo di spicco nella Curia di Roma, stretto collaboratore di Papa Francesco nella riforma della gestione economica del Vaticano. Gli episodi sarebbero avvenuti a Ballarat, sua città natale, circa quarant’anni fa, quando era un giovane prete, e a Melbourne, verso la fine degli anni Novanta, dove era vescovo. Per questo il procedimento potrebbe anche essere sdoppiato, con un processo per ciascuno dei periodi interessati. Non si sa molto di più sulle accuse giudicate attendibili dal giudice di Melbourne Belinda Wallington, ma ci sarebbero sia azioni commesse in prima persona che “coperture” di sacerdoti colpevoli a loro volta di abusi. Il Card. Pell si è professato fermamente innocente: non potrà comunque lasciare il paese, né avere contatti con i suoi accusatori; dovrà inoltre dare preavviso alla polizia dei suoi spostamenti. La Santa Sede, per bocca di Greg Burke, direttore della Sala stampa vaticana, “ha preso atto della decisione emanata dall’autorità giudiziaria in Australia”, ricordando che l’anno scorso il Santo Padre aveva concesso al Cardinale un periodo di congedo per potersi difendere dalle accuse e che “tale disposizione rimane tuttora valida”. Ora la giustizia farà il suo corso, probabilmente in tempi abbastanza brevi. Va però notato che non ha suscitato commenti la notizia che il medesimo giudice ha respinto alcune delle accuse formulate durante l’udienza preliminare tenutasi circa un mese fa. Le ha cioè ritenute non attendibili, non sostenibili dinanzi a una giuria. Non è una novità, ma se ne parla poco: un numero rilevante di accuse di pedofilia o di abuso si rivela, dopo attenti accertamenti, infondato. Questo vale non solo per gli ecclesiastici, ma anche in altri ambiti della vita sociale, per esempio nelle cause di separazione o di divorzio, soprattutto per ciò che attiene a contrasti sulla custodia dei figli. Scrive il criminologo Luca Steffenoni nel saggio Presunto colpevole che “in Italia l’86% delle separazioni coniugali finisce con una denuncia penale per qualche delitto, e la tipologia più frequente è quella degli abusi sessuali”. Ma il 96% delle denunce, poi, si dimostrano false. Anche in diversi casi relativi a ecclesiastici le accuse si sono poi rivelate tali. Di tutto ciò, però, quasi nessuno scrive. Soprattutto nessuno dice cosa accade a chi accusa falsamente, facendo in modo che si istruiscano sui media pubblici processi che spesso formulano verdetti di condanna smentiti dalle aule dei tribunali. Probabilmente nulla. Il che è oggettivamente un’ingiustizia.

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Cosa dice la sentenza del processo di Palermo https://www.lavoce.it/cosa-dice-la-sentenza-del-processo-palermo/ Sat, 28 Apr 2018 14:18:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51776

Nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, non prevista dal Codice penale come reato. L’articolo 338, invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni contro un’autorità politica Ma sarà vero che la sentenza di Palermo certifica che lo Stato italiano si è compromesso in una trattativa con la mafia? E che quella sentenza riscrive una pagina importante della storia d’Italia? Per rispondere, bisognerebbe avere letto la sentenzaper intero; ma al momento questo non è possibile perché le motivazioni saranno pubblicate non prima di qualche mese, e sarà una lettura difficile perché verosimilmente saranno centinaia di pagine. Qualche cosa però si può dire subito, partendo da una considerazione elementare ma trascurata dai commentatori giornalistici. E cioè che la sentenza di un giudice non può dire nulla di più rispetto a quello che è l’oggetto del giudizio. Certo, materialmente è possibile che un giudice si allarghi a esporre nella sentenza anche le sue valutazioni personali sull’universo mondo. Ma quando lo fa, tutto quello che dice in più non ha valore giuridico – come si dice con linguaggio tecnico, non ha efficacia di giudicato – e chiunque può liberamente dissentire o semplicemente non tenerne conto. In un processo penale, l’oggetto del giudizio, quello che segna i limiti oltre i quali il giudice non si deve pronunciare, è definito dall’atto di accusa. E l’atto di accusa è definito a sua volta da una serie di elementi oggettivi: prima di tutto le persone degli accusati, poi i fatti specificamente addebitati, infine l’articolo del codice penale che si ritiene trasgredito. Di questo si discute nel processo e di questo deve parlare la sentenza. Ora, nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, o almeno non ne parlava formalmente, perché quel tipo di trattativa – ci sia stata o meno – non è prevista dal Codice penale come reato. Il Codice penale, precisamente l’articolo 338, quello invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni rivolte contro un’autorità politica per forzarla a prendere determinate decisioni. Chi fa queste minacce va in galera, questo dice il Codice. Che l’autorità politica minacciata si pieghi o no, non aggiunge e non toglie nulla alla gravità del reato commesso dal minacciante, e non comporta una responsabilità penale degli uomini politici interessati. Ricordiamoci il caso Moro. Quella volta il Governo decise di rifiutare qualunque concessione, ma ancora se ne discute, e nessuno pensò di accusare come complice dei brigatisti chi allora sosteneva che si dovesse invece accettare la trattativa. Infatti, nel processo di Palermo nessun uomo politico era accusato di avere aderito alla supposta trattativa (l’ex ministro Mancino era imputato di altro ed è stato assolto). Erano accusati alcuni esponenti mafiosi, per avere scatenato, all’incirca fra il 1990 e il 1994, una serie di uccisioni e di attentati, con lo scopo di indurre il Governo a mitigare la legislazione antimafia e a concedere ai mafiosi detenuti sconti di pena e attenuazioni del regime carcerario. Tanto bastava per applicare l’art. 338 del Codice penale, e poiché i fatti essenziali sono certi (e da molto tempo) la sentenza di condanna non è stata una sorpresa. Ma che c’entra lo Stato? C’entra (solo) perché fra gli imputati vi erano anche alcuni ufficiali dei carabinieri, che avrebbero fatto da portavoce dei capi mafiosi presso il livello politico. L’accusa sottintende che quegli ufficiali abbiano agito intenzionalmente nell’interesse della mafia e contro l’interesse dello Stato; loro si sono sempre difesi dicendo che hanno fatto semplicemente il loro dovere di ufficio nel riferire al Governo i messaggi che pervenivano dal mondo della mafia. La sentenza di Palermo ha accolto la tesi dell’accusa; questo punto è discutibile e probabilmente se ne discuterà nei gradi successivi del giudizio. C’è da aggiungere che fra i “portavoce” della mafia, secondo l’accusa e secondo la sentenza, vi era anche l’ex senatore Dell’Utri; ma questi è già condannato, con sentenza definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, ossia per essere stato, in altri contesti, un fiancheggiatore della mafia. Niente di veramente nuovo, dunque. Questa è, in sintesi, l’essenza del processo di Palermo. Tutto il di più che viene detto è esagerazione giornalistica e speculazione politica. Fra parentesi, dal 1990 in poi la legislazione antimafia è stata sempre aggravata, mai attenuata.  ]]>

Nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, non prevista dal Codice penale come reato. L’articolo 338, invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni contro un’autorità politica Ma sarà vero che la sentenza di Palermo certifica che lo Stato italiano si è compromesso in una trattativa con la mafia? E che quella sentenza riscrive una pagina importante della storia d’Italia? Per rispondere, bisognerebbe avere letto la sentenzaper intero; ma al momento questo non è possibile perché le motivazioni saranno pubblicate non prima di qualche mese, e sarà una lettura difficile perché verosimilmente saranno centinaia di pagine. Qualche cosa però si può dire subito, partendo da una considerazione elementare ma trascurata dai commentatori giornalistici. E cioè che la sentenza di un giudice non può dire nulla di più rispetto a quello che è l’oggetto del giudizio. Certo, materialmente è possibile che un giudice si allarghi a esporre nella sentenza anche le sue valutazioni personali sull’universo mondo. Ma quando lo fa, tutto quello che dice in più non ha valore giuridico – come si dice con linguaggio tecnico, non ha efficacia di giudicato – e chiunque può liberamente dissentire o semplicemente non tenerne conto. In un processo penale, l’oggetto del giudizio, quello che segna i limiti oltre i quali il giudice non si deve pronunciare, è definito dall’atto di accusa. E l’atto di accusa è definito a sua volta da una serie di elementi oggettivi: prima di tutto le persone degli accusati, poi i fatti specificamente addebitati, infine l’articolo del codice penale che si ritiene trasgredito. Di questo si discute nel processo e di questo deve parlare la sentenza. Ora, nel processo di Palermo l’atto di accusa non parlava di una “trattativa”, o almeno non ne parlava formalmente, perché quel tipo di trattativa – ci sia stata o meno – non è prevista dal Codice penale come reato. Il Codice penale, precisamente l’articolo 338, quello invocato a Palermo dall’accusa, contempla come reato le minacce e le intimidazioni rivolte contro un’autorità politica per forzarla a prendere determinate decisioni. Chi fa queste minacce va in galera, questo dice il Codice. Che l’autorità politica minacciata si pieghi o no, non aggiunge e non toglie nulla alla gravità del reato commesso dal minacciante, e non comporta una responsabilità penale degli uomini politici interessati. Ricordiamoci il caso Moro. Quella volta il Governo decise di rifiutare qualunque concessione, ma ancora se ne discute, e nessuno pensò di accusare come complice dei brigatisti chi allora sosteneva che si dovesse invece accettare la trattativa. Infatti, nel processo di Palermo nessun uomo politico era accusato di avere aderito alla supposta trattativa (l’ex ministro Mancino era imputato di altro ed è stato assolto). Erano accusati alcuni esponenti mafiosi, per avere scatenato, all’incirca fra il 1990 e il 1994, una serie di uccisioni e di attentati, con lo scopo di indurre il Governo a mitigare la legislazione antimafia e a concedere ai mafiosi detenuti sconti di pena e attenuazioni del regime carcerario. Tanto bastava per applicare l’art. 338 del Codice penale, e poiché i fatti essenziali sono certi (e da molto tempo) la sentenza di condanna non è stata una sorpresa. Ma che c’entra lo Stato? C’entra (solo) perché fra gli imputati vi erano anche alcuni ufficiali dei carabinieri, che avrebbero fatto da portavoce dei capi mafiosi presso il livello politico. L’accusa sottintende che quegli ufficiali abbiano agito intenzionalmente nell’interesse della mafia e contro l’interesse dello Stato; loro si sono sempre difesi dicendo che hanno fatto semplicemente il loro dovere di ufficio nel riferire al Governo i messaggi che pervenivano dal mondo della mafia. La sentenza di Palermo ha accolto la tesi dell’accusa; questo punto è discutibile e probabilmente se ne discuterà nei gradi successivi del giudizio. C’è da aggiungere che fra i “portavoce” della mafia, secondo l’accusa e secondo la sentenza, vi era anche l’ex senatore Dell’Utri; ma questi è già condannato, con sentenza definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, ossia per essere stato, in altri contesti, un fiancheggiatore della mafia. Niente di veramente nuovo, dunque. Questa è, in sintesi, l’essenza del processo di Palermo. Tutto il di più che viene detto è esagerazione giornalistica e speculazione politica. Fra parentesi, dal 1990 in poi la legislazione antimafia è stata sempre aggravata, mai attenuata.  ]]>
È giusto aiutare un suicida? https://www.lavoce.it/giusto-aiutare-un-suicida/ Tue, 17 Apr 2018 08:00:53 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51649 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Lunedì scorso, a Napoli, una ragazza si è uccisa buttandosi dal tetto dell’Università. I suoi familiari erano venuti lì credendo di assistere alla sua laurea, e lei non aveva il coraggio di rivelare che li aveva ingannati, aveva smesso da anni di dare esami. L’episodio offre spunti per varie riflessioni; qui ne voglio cogliere uno in particolare. Supponiamo che la ragazza avesse detto a qualcuno: “Voglio buttarmi giù per morire, mi dai una spinta?” e quello, premuroso, avesse eseguito. Come lo giudicheremmo? Diremmo che è un benefattore, un eroe civile? O diremmo invece che avrebbe dovuto prendere la ragazza per mano, riportarla indietro, dirle che anche senza laurea tutti le avrebbero voluto bene lo stesso? Molti chiedono che dal Codice penale si cancelli il reato di “aiuto al suicidio”. C’è stato il caso estremo di un personaggio dello spettacolo ridotto da un incidente in condizioni miserevoli; lo sventurato ha chiesto di morire, e un amico lo ha aiutato. Da qui un processo penale per “aiuto al suicidio”. I giudici hanno deferito il caso alla Corte costituzionale, chiedendole di cancellare quell’articolo del Codice penale, in nome della presunta superiorità del diritto di ciascuno di porre fine alla propria esistenza. Il Governo, come la legge gli consente, ha deciso di prendere la parola davanti alla Corte costituzionale per difendere la legittimità di quell’articolo di codice che altri vorrebbero cancellare. Da qui polemiche e proteste contro il Governo. Chi la pensa così, però, dà per scontato che chiunque prende la decisione di uccidersi sia perfettamente lucido, equilibrato, padrone di se stesso. Ma questo può essere vero, se lo è, in una ristretta minoranza di casi. Perlopiù, invece, la scelta del suicidio è frutto di uno stato d’animo di sconforto, di dolore, di depressione, che può anche sembrare grave ma quasi mai è irreversibile. Come nel caso della ragazza di Napoli, che, se qualcuno glielo avesse detto nel modo giusto, avrebbe ben capito che per i suoi cari era mille volte meglio scoprire che non si sarebbe mai laureata, piuttosto che vederla morta.  ]]>
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di Pier Giorgio Lignani Lunedì scorso, a Napoli, una ragazza si è uccisa buttandosi dal tetto dell’Università. I suoi familiari erano venuti lì credendo di assistere alla sua laurea, e lei non aveva il coraggio di rivelare che li aveva ingannati, aveva smesso da anni di dare esami. L’episodio offre spunti per varie riflessioni; qui ne voglio cogliere uno in particolare. Supponiamo che la ragazza avesse detto a qualcuno: “Voglio buttarmi giù per morire, mi dai una spinta?” e quello, premuroso, avesse eseguito. Come lo giudicheremmo? Diremmo che è un benefattore, un eroe civile? O diremmo invece che avrebbe dovuto prendere la ragazza per mano, riportarla indietro, dirle che anche senza laurea tutti le avrebbero voluto bene lo stesso? Molti chiedono che dal Codice penale si cancelli il reato di “aiuto al suicidio”. C’è stato il caso estremo di un personaggio dello spettacolo ridotto da un incidente in condizioni miserevoli; lo sventurato ha chiesto di morire, e un amico lo ha aiutato. Da qui un processo penale per “aiuto al suicidio”. I giudici hanno deferito il caso alla Corte costituzionale, chiedendole di cancellare quell’articolo del Codice penale, in nome della presunta superiorità del diritto di ciascuno di porre fine alla propria esistenza. Il Governo, come la legge gli consente, ha deciso di prendere la parola davanti alla Corte costituzionale per difendere la legittimità di quell’articolo di codice che altri vorrebbero cancellare. Da qui polemiche e proteste contro il Governo. Chi la pensa così, però, dà per scontato che chiunque prende la decisione di uccidersi sia perfettamente lucido, equilibrato, padrone di se stesso. Ma questo può essere vero, se lo è, in una ristretta minoranza di casi. Perlopiù, invece, la scelta del suicidio è frutto di uno stato d’animo di sconforto, di dolore, di depressione, che può anche sembrare grave ma quasi mai è irreversibile. Come nel caso della ragazza di Napoli, che, se qualcuno glielo avesse detto nel modo giusto, avrebbe ben capito che per i suoi cari era mille volte meglio scoprire che non si sarebbe mai laureata, piuttosto che vederla morta.  ]]>
Manca il personale ma la Giustizia è sana https://www.lavoce.it/manca-il-personale-ma-la-giustizia-e-sana/ Wed, 01 Feb 2017 15:40:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=48425 In Umbria, nonostante problemi dovuti principalmente alla mancanza di magistrati e soprattutto di personale amministrativo, il “sistema giustizia è sostanzialmente sano”. Lo ha sottolineato sabato scorso, nella solenne cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’appello di Perugia Mario Vinctribunale-procura-perugia-cmykenzo D’Aprile, concludendo la sua relazione, con tanti dati e numeri, sulla situazione degli uffici giudiziario della nostra regione.

“Emergono criticità di vario genere, alcune più gravi e altre meno – ha detto – ma sono tutte sotto controllo. La carenza del personale amministrativo è fortemente condizionante e richiede urgenti rimedi. Gli uffici – ha proseguito – sono quotidianamente impegnati in sforzi che spesso sono veramente al limite delle loro possibilità”.

Con la riforma delle Circoscrizioni giudiziarie del 2013, in Umbria sono rimasti in funzione solo tre tribunali: a Perugia, Spoleto e Terni, e questo ha comportato problemi di riorganizzazione, con l’accorpamento di uffici e trasferimento di personale, che hanno richiesto tempo per essere risolti. Anche perché, su un organico già insufficiente di 124 magistrati, quelli in servizio nel novembre scorso erano solo 119. “Attualmente – ha osservato D’Aprile – la situazione è leggermente peggiorata per trasferimenti e pensionamenti”. È previsto l’arrivo di altri magistrati nel distretto giudiziario dell’Umbria; e il presidente della corte d’Appello si è augurato che questo avvenga il prima possibile.

Ancora più critica la situazione del personale amministrativo, per il quale i vuoti nell’organico sono addirittura aumentati rispetto all’anno precedente. Manca quasi un quarto del personale previsto, con un record del tribunale di Perugia dove la percentuale di “scopertura” è del 33 per cento. Con prospettive ancora più negative per il futuro: “Ulteriori criticità sono alle porte – ha detto – poiché non vi saranno assunzioni nell’immediato, mentre i pensionamenti sono ricorrenti in tutti gli uffici per l’elevata età media dei dipendenti”.

“I nostri uffici comunque – ha proseguito – continuano a funzionare, ritengo, in maniera soddisfacente” grazie alla “abnegazione e competenza” di magistrati, cancellieri e assistenti giudiziari che “quotidianamente e silenziosamente portano avanti il loro impegno sacrificando esigenze personali e della famiglia”. Ciò, nonostante “i segnali a volte non certo incoraggianti della amministrazione centrale” e, per il personale amministrativo, nonostante i “non sempre adeguati riconoscimenti economici”.

Ci sono poi anche problemi logistici, in particolare a Perugia, dove gli uffici giudiziari sono distribuiti in ben 5 diverse sedi, con locali non sempre adeguati per la fruibilità e la sicurezza. Con costi più alti, disservizi e disagi per personale e utenti, che devono spostarsi tra uffici distanti tra loro. Il presidente ha auspicato che per il progetto di riunirli in una “cittadella giudiziaria” da realizzare nell’ex carcere di Perugia, vuoto da una ventina di anni, si giunga a “qualche risultato in tempi relativamente brevi”.

Dunque, tanti problemi da risolvere, ma nel complesso in Umbria i tempi della giustizia, sia nel civile che nel penale, sono nella media italiana. Con situazioni diverse per quanto riguarda gli arretrati (migliaia di procedimenti) nei vari uffici di Perugia, Terni e Spoleto; ma, con i provvedimenti organizzativi adottati, il presidente della corte d’Appello ritiene che nel prossimo futuro si possa arrivare a una drastica riduzione dei fascicoli arretrati, fino alla completa eliminazione.

 

 

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C’è ancora tanto da fare per migliorare la giustizia https://www.lavoce.it/ce-ancora-tanto-da-fare-per-migliorare-la-giustizia/ Mon, 23 Jan 2017 15:07:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=48303 I problemi della giustizia in Umbria sono gli stessi del sistema giudiziario italiano, aggravati però da una significativa carenza di personale amministrativo (con scopertura dal 20 al 35% su un organico comunque insufficiente) e di magistrati, e dal fatto di doversi occupare – per la legge Pinto

tribunale-giustizia-cmyk

sull’equa riparazione – delle migliaia di procedimenti che, per competenza territoriale, sono arrivati dal Lazio.

Ne abbiamo parlato con un magistrato “di lungo corso”, Wladimiro De Nunzio, il cui ultimo prestigioso incarico è stato quello di presidente della corte d’Appello di Perugia, ricoperto dal 2010 al 2015. Una carriera in magistratura che lo ha visto impegnato con vari ruoli e in diverse sedi, con esperienze anche a livello internazionale. Cominciata nel 1969 da pretore a Rovereto, tra le montagne del Trentino, e proseguita a Perugia come sostituto procuratore (dal 1977) e poi come giudice. Prima di diventare presidente della corte d’Appello è stato però anche magistrato in Cassazione con vari incarichi, compreso quello di sostituto procuratore generale. È stato inoltre membro del Consiglio superiore della magistratura e segretario dell’Associazione nazionale magistrati. Lo incontriamo nello studio della sua abitazione perugina tra scaffali pieni di libri, fascicoli e cartelline.

Parla con passione di “indipendenza e imparzialità della magistratura” e di “divisione e equilibrio dei poteri alla base della democrazia”. Princìpi sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana, “stella polare” per i giudici chiamati comunque a decidere anche in presenza di “vuoti normativi e lacune talvolta volute dal legislatore”. La società però – spiega – “non può vivere senza una tutela normativa” e la “supplenza” richiesta in tanti casi a chi giudica “è un rischio”. Non solo carenze legislative, ma anche tempi di decisione troppo lunghi.

 

L’organizzazione del sistema giustizia, con “riti” e procedure ipergarantiste, “non è più compatibile con la velocità della nostra vita quotidiana”. Di questo – secondo De Nunzio – “c’è consapevolezza” anche nella classe politica, che però interviene con singoli provvedimenti, più o meno efficaci, ma senza una visione complessiva dei problemi. Come nel caso della carenza del personale amministrativo, cancellieri in primo luogo, che rallenta o addirittura blocca la definizione dei processi penali e civili. In Italia mancano 9.000 assistenti giudiziari. Ebbene – spiega il magistrato – è stato bandito un concorso nazionale per soli 800 posti. “Siamo intervenuti, anch’io nel mio ruolo di presidente della corte d’Appello di Perugia, con protocolli e intese per ottenere personale di altri enti pubblici”. Nel luglio scorso, ad esempio, ne è stato firmato uno con la Regione. Si tratta però – continua – di “piccoli sostegni, con personale non preparato e non sempre adeguato per i compiti che dovrebbe svolgere”.

Negli uffici giudiziari umbri ci sono “vuoti” anche negli organici dei magistrati, comunque non adeguati all’attuale domanda di giustizia, tanto che in alcuni recenti casi è stato difficile formare, dopo il trasferimento di magistrati, Collegi giudicanti per processi importanti, come quello a Perugia con 58 imputati accusati di fare parte di un ramo della ’ndrangheta calabrese operante in Umbria. Su questo fronte però – secondo De Nunzio – la situazione sta migliorando, con concorsi annuali che stanno reclutando “giovani preparati, ben formati e molto motivati”. Giovani magistrati che hanno familiarità con internet, e in grado quindi di adeguarsi alle esigenze di un “processo telematico” che stenta a decollare; e che comunque – sempre per De Nunzio – non sarà in grado, da solo, di ridurre i tempi della giustizia.

Il carico dei processi per equa riparazione

A proposito di tempi della giustizia, la legge Pinto prevede che i processi devono essere definiti entro 6 anni: 3 per la sentenza di primo grado, altri due per quella d’appello e un altro anno per la definitiva in Cassazione. È una legge che prevede e disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l’irragionevole durata di un processo. Perugia aveva la competenza territoriale per tutti i procedimenti del Lazio. Nel 2012 – ricorda De Nunzio – erano 17.000. Un lavoro immenso per cancellieri e magistrati, già in difficoltà per smaltire il lavoro ordinario. Con però un primo segnale positivo: alla corte d’Appello di Perugia sono arrivati 8 “giudici ausiliari” (non magistrati, ma esperti di Diritto) che si occupano soprattutto dei procedimenti sull’equa riparazione, restituendo in parte i “magistrati togati” al loro lavoro ordinario. Il che ha comportato la riduzione della pendenza a circa 7.000 ricorsi. Il numero di procedimenti arretrati anche in Umbria – ha detto De Nunzio – negli ultimi anni è in graduale e costante diminuzione. Continuano però a essere uno dei problemi più grandi e non ancora risolti del sistema giudiziario. L’obiettivo per una giustizia efficiente dovrebbe essere quello di azzerare questi arretrati, nel penale e nel civile, adeguando allo scopo gli organici. “Con la legge Pinto – osserva – lo Stato sborsa ogni anno milioni di euro per risarcire chi ha subìto danni per processi troppo lunghi. Ma perché non investire invece questi soldi per una giustizia più veloce ed efficiente, rispondendo così alle legittime attese dei cittadini?”.

Processi più rapidi o prescrizione

Processi più rapidi senza dovere ricorrere a “riti abbreviati, con sconti di pena inaccettabili per la credibilità della giustizia italiana”, e per bloccare chi con la prescrizione e altri strumenti permessi dal nostro sistema giudiziario “sfrutta questa lentezza” per rimandare ed evitare pene e sanzioni. “Abbiamo – sottolinea l’ex magistrato – un sistema estremo di garanzie formali”. Con la prescrizione, ci sono processi “morti” in partenza, vanificando anni di lavoro di magistrati, poliziotti, carabinieri. Per i reati economici “abbiamo un sistema normativo talmente complesso, con regole che cambiano continuamente”, con il risultato che le condanne sono pochissime. Per questo tipo di reati, secondo dati riferiti da giornalisti del Corriere della Sera, in Germania ci sono 7.000 persone in carcere, mentre in Italia sono appena 200. Tuttavia – osserva De Nunzio – a livello internazionale la giustizia italiana “è invidiata per il sistema di garanzie”, per “l’alta produttività dei magistrati” e per gli strumenti di lotta a criminalità organizzata e mafia. Con una sottolineatura finale: ci sono problemi, ma tutti insieme possiamo risolverli. Intanto, gli arretrati negli ultimi anni stanno diminuendo; e poi la speranza sono quei giovani magistrati che stanno portando aria nuova nelle aule di giustizia.

Nuova “geografia giudiziaria” e “cittadella della giustizia”

Con la legge che negli anni scorsi ha ristrutturato la “geografia giudiziaria” italiana, in Umbria sono stati accorpati e soppressi uffici giudiziari sparsi sul territorio anche in centri minori. Un provvedimento – spiega De Nunzio – basato sul principio che con la concentrazione si ottiene una maggiore efficienza. Con qualche disagio per cittadini che devono affrontare distanze maggiori per le loro pratiche. E anche con tanti problemi iniziali nella riorganizzazione di uffici e personale. Problemi – secondo De Nunzio – che potranno essere definitivamente superati soltanto quando gli uffici potranno contare su un numero adeguato di magistrati e di personale amministrativo. Preoccupa invece De Nunzio la nuova proposta di ridisegnare i Distretti giudiziari. Provvedimento che potrebbe cancellare la corte d’Appello di Perugia, invece di allargare le sue competenze anche a territori di Lazio. “Siamo ancora – osserva – in una fase di assestamento della nuova geografia giudiziaria dell’Umbria, e rischiamo così di creare altra confusione”. Non si dice invece contrario al progetto della “cittadella giudiziaria” da realizzare nell’ex carcere di Perugia, ormai chiuso da una ventina di anni, ma senza abbandonare lo storico palazzo di giustizia di piazza Matteotti che – afferma – come palazzo dei Priori “è uno dei simboli della città”. La dispersione degli uffici giudiziari di Perugia, la inadeguatezza di alcune sedi e anche delle aule di udienza del tribunale sono problemi da risolvere. Evitando però – conclude – di impoverire ulteriormente il centro storico della città, privandolo degli studi legali e di persone e attività collegate all’amministrazione della giustizia.

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La giustizia arranca dietro il crimine https://www.lavoce.it/la-giustizia-arranca-dietro-il-crimine/ Fri, 05 Feb 2016 09:56:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45327 L'inaugurazione dell'Anno giudiziario a Perugia
L’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Perugia

Come sta la giustizia in Umbria? Non proprio bene, ma è un malessere che dura da anni e che sta diventando una malattia cronica. C’è un aumento della criminalità organizzata, così come cresce la domanda di giustizia dei cittadini nelle cause civili. Però mancano cancellieri e personale amministrativo, per cui i processi vanno a rilento. C’è poi una legislazione che aiuta chi ha interesse ad allungare i tempi delle sentenze, facendo così scattare la prescrizione. Lo ha denunciato, senza giri di parole, il sostituto procuratore generale Giancarlo Costagliola sabato scorso a Perugia in occasione della solenne cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, parlando dello “scandalo di una giustizia penale che finisce col garantire l’impunità di chi si può permettere costosi collegi di difesa”. Con “un numero spropositato di sanzioni penali (sembra che siano oltre 40 mila) capaci di generare ogni anno – ha spiegato – un numero di procedimenti penali che il nostro sistema giudiziario non può definire in tempi accettabili”. Ad ascoltarlo c’erano parlamentari, sindaci, la Presidente della Regione e tutte le massime autorità civili e militari. “Il diffondersi della corruzione e della delinquenza organizzata – ha detto – insieme al discredito della politica trovano fondamento nella crisi della giustizia penale, favorita e alimentata dal regime della prescrizione”, che “secondo l’opinione comune di giudici e giuristi è la vera zavorra del nostro sistema penale”. Uno strumento “che invoglia tutti gli utenti, in particolar modo gli imputati colpevoli, a tentare di far trascorrere il tempo necessario”: cosicché in un solo anno sono stati cancellati in Italia 160 mila processi, vanificando il faticoso lavoro delle forze di polizia, dei magistrati e del personale degli uffici giudiziari. “Assistiamo passivi e rassegnati – ha aggiunto Costagliola – a un incredibile spreco di risorse materiali e umane che genera la frustrazione delle vittime e della magistratura giudicante”. Parole che vengono ripetute da anni nelle aule di giustizia di tutta Italia in occasione di queste solenni cerimonie, ma che di fatto sono rimaste inascoltate.

 

Alla crisi della giustizia in Umbria contribuisce in modo rilevante la carenza del personale amministrativo, come ricordato dal presidente reggente della corte d’Appello Giancarlo Massei. A Perugia mancano il 36% degli operatori, e la situazione non è migliore negli uffici giudiziari di Spoleto e Terni, tanto che in Umbria – ha ricordato il sostituto procuratore Mario Formisano dell’Associazione nazionale magistrati – lo scoperto dell’organico del personale amministrativo “oltrepassa il 40%. Diviene molto arduo in queste condizioni – ha detto – assicurare un servizio rapido e efficiente” con dipendenti la cui età media per il blocco del turn-over supera i 50 anni e che sono “esausti” per il troppo lavoro. Così saltano udienze, si riducono gli orari di servizio delle Cancellerie, con gli avvocati costretti ad attese di ore, e anche i processi vanno a rilento. Nel tribunale penale di Perugia, per una sentenza nel 65 per cento dei procedimenti si deve aspettare più di due anni, mentre nella sezione civile per definire un procedimento ordinario ci vogliono mediamente 4 anni. La giustizia è sempre più lenta, quando invece ci sarebbe bisogno della certezza della pena in tempi brevi per contrastare una criminalità organizzata che diventa ogni giorno più pericolosa. Aumentano i fatti di sangue dei quali si deve occupare la Corte d’assise. Un “aumento allarmante” per il presidente Massei, che è anche il “segno molto triste” del fatto che “qualcosa e in peggio nel giro di pochi anni è cambiato nella nostra regione”. Dalla relazione del sostituto procuratore generale Giancarlo Costagliola emerge “l’esistenza di insediamenti di gruppi criminali di stampo mafioso e di gruppi criminali extracomunitari” che in certe situazioni collaborano tra loro avvalendosi di gruppi criminali locali, anche questi in crescita. Manca il lavoro, e sono sempre di più le persone residenti in Umbria che si mettono a disposizione di queste organizzazioni criminali e fanno affari con la droga, con il favoreggiamento dell’immigrazone clandestina e la tratta di essere umani legata allo sfruttamento della prostituzione. Ci sono poi gli affari delle mafie che vengono a riciclare in Umbria i soldi “sporchi” dei loro traffici, inquinando la nostra economia. In particolare la relazione del sostituto procuratore generale riferisce della presenza nella nostra regione di “soggetti collegati a cosche della ’ndrangheta” che hanno scelto di vivere in Umbria “per allontanarsi dalle faide attive in Calabria o per riciclare capitali illeciti”. Un’infiltrazione che era cominciata con la ricostruzione dopo il terremoto del 1997. Soldi, tanti soldi pubblici per appalti e cantieri, che facevano gola anche alla ’ndrangheta. Ma questo è un altro capitolo che, forse, non è stato ancora scritto per intero sulla storia di quel terremoto che aveva sbriciolato gli affreschi della basilica di San Francesco ad Assisi e il “Torrino” simbolo di Foligno.

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COP21. La posta in gioco? L’unica casa comune. Protagonista: l’intera famiglia umana https://www.lavoce.it/cop21-la-posta-in-gioco-lunica-casa-comune-protagonista-lintera-famiglia-umana/ Thu, 17 Dec 2015 17:07:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=44781

Nella serata di sabato 12 dicembre a Parigi è stato approvato il testo di un accordo “storico”, come lo hanno definito in molti, per limitare il cambiamento climatico. Un risultato per nulla scontato sino alle ultime ore della Conferenza delle Parti in cui da 21 anni, sotto l’egida delle Nazioni Unite, a fronte dei richiami sempre più pressanti degli scienziati, si sta cercando di giungere a un patto globale per limitare la febbre del Pianeta. L’accordo di Parigi stabilisce l’obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali, con l'impegno a portare avanti sforzi per limitare l'aumento di temperatura a 1.5 °C, raccomandazione corale degli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Ciò potrà essere conseguito attraverso un drastico taglio delle emissioni di gas serra (tra cui la CO2 ma anche il black carbon, lo smog e gli inquinanti a vita breve) che sarà monitorato con un meccanismo di controllo quinquennale. L’accordo stabilisce anche lo stanziamento di un fondo di 100 miliardi l’anno per decarbonizzare l’economia e attivare meccanismi internazionali per l’adattamento e lo sviluppo sostenibile nei paesi più vulnerabili e più poveri. Si tratta certamente del primo passo di un cammino lungo e per nulla semplice: tuttavia l’accordo di Parigi assume una portata storica nella lotta al cambiamento climatico, emblema della crisi ambientale globale e locale, in quanto è ad oggi l’unico testo “universale” sul clima, approvato da 195 Paesi, che, pur partendo da posizioni differenti in termini di impronta ecologica e responsabilità storiche sull’effetto serra, e pur subendo diverse conseguenze dal cambiamento climatico, hanno deciso di siglare una patto comune per cambiare rotta rispetto a quella che guida l’attuale modello di sviluppo, a ragione definita “suicidio” da Papa Francesco. La pressione esercitata dall’opinione pubblica e dai leader religiosi ha giocato un ruolo importante nelle conquiste dell’accordo di Parigi, in cui si menziona il concetto di giustizia climatica e si dà un segnale forte verso l’affrancamento dalle fonti fossili mediante e nuovi e più equi modelli di sviluppo. L’accordo di Parigi per la prima volta sancisce inequivocabilmente il legame tra cambiamento climatico, conseguenza di uso indiscriminato di risorse, e povertà, correlandone così anche la soluzione, che passa attraverso il riconoscimento della causa primaria della attuale crisi ambientale e umana: l’inequità planetaria1. Ovviamente c’è ancora molto da fare, e l’accordo di Parigi è sotto alcuni aspetti debole e incompleto: sancisce che i Paesi debbano periodicamente fare il punto circa l’implementazione degli impegni ma il primo “Global Stocktake” è fissato per il lontano 2023; in merito al “fondo verde” che i Paesi ricchi dovranno mettere a disposizione di quelli in via di sviluppo, non ci sono indicazioni attuative nè procedure operative; non ci sono sanzioni economiche per i Paesi che non dovessero rispettare gli impegni presi. A tal riguardo, un ruolo fondamentale sarà però svolto dalla società civile, dalle associazioni e ONG che da anni si impegnano contro la crisi ambientale, dai cittadini. Sarà compito della “cittadinanza ecologica”2 mettere i Governi di fronte agli impegni sottoscritti a Parigi di fronte al mondo e chiederne conto: qualunque politica non potrebbe reggere la spinta travolgente di una consapevolezza ecologica sempre più diffusa, soprattutto tra le giovani generazioni. Si fa riferimento ai diritti umani solo nelle premesse, così come non compare il concetto di clima come “bene comune”, benchè nel preambolo siano stati mantenuti i riferimenti al diritto alla salute, alle comunità locali, ai migranti, ai bambini, alle donne, al diritto allo sviluppo e all’equità intergenerazionale. Non vi sono espliciti riferimenti alle responsabilità storiche e al debito ecologico che i Paesi artefici in maggiore misura della crisi climatica dovrebbero pagare alle nazioni meno responsabili. Per quanto riguarda le attività di cooperazione per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’accordo di Parigi punta sui meccanismi di trasferimento tecnologico e di capacity building (processo di sviluppo sostenibile dall’interno che può essere potenziato o accelerato da apporti esterni in grado di favorire il rafforzamento delle potenzialità attraverso l’utilizzo di capacità già esistenti). E’ stato esplicitato l’obiettivo ambizioso di raggiungere la “neutralità” delle emissioni, ovvero emissioni di gas effetto serra nette pari a zero, nella seconda metà del secolo. L’accordo di Parigi è una “legge quadro” di portata storica per ambizione, obiettivi, coralità: ora ciascuno (governi, istituzioni, ma anche associazioni e cittadini) è chiamato a scriverne i “decreti attuativi”.]]>

Nella serata di sabato 12 dicembre a Parigi è stato approvato il testo di un accordo “storico”, come lo hanno definito in molti, per limitare il cambiamento climatico. Un risultato per nulla scontato sino alle ultime ore della Conferenza delle Parti in cui da 21 anni, sotto l’egida delle Nazioni Unite, a fronte dei richiami sempre più pressanti degli scienziati, si sta cercando di giungere a un patto globale per limitare la febbre del Pianeta. L’accordo di Parigi stabilisce l’obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali, con l'impegno a portare avanti sforzi per limitare l'aumento di temperatura a 1.5 °C, raccomandazione corale degli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Ciò potrà essere conseguito attraverso un drastico taglio delle emissioni di gas serra (tra cui la CO2 ma anche il black carbon, lo smog e gli inquinanti a vita breve) che sarà monitorato con un meccanismo di controllo quinquennale. L’accordo stabilisce anche lo stanziamento di un fondo di 100 miliardi l’anno per decarbonizzare l’economia e attivare meccanismi internazionali per l’adattamento e lo sviluppo sostenibile nei paesi più vulnerabili e più poveri. Si tratta certamente del primo passo di un cammino lungo e per nulla semplice: tuttavia l’accordo di Parigi assume una portata storica nella lotta al cambiamento climatico, emblema della crisi ambientale globale e locale, in quanto è ad oggi l’unico testo “universale” sul clima, approvato da 195 Paesi, che, pur partendo da posizioni differenti in termini di impronta ecologica e responsabilità storiche sull’effetto serra, e pur subendo diverse conseguenze dal cambiamento climatico, hanno deciso di siglare una patto comune per cambiare rotta rispetto a quella che guida l’attuale modello di sviluppo, a ragione definita “suicidio” da Papa Francesco. La pressione esercitata dall’opinione pubblica e dai leader religiosi ha giocato un ruolo importante nelle conquiste dell’accordo di Parigi, in cui si menziona il concetto di giustizia climatica e si dà un segnale forte verso l’affrancamento dalle fonti fossili mediante e nuovi e più equi modelli di sviluppo. L’accordo di Parigi per la prima volta sancisce inequivocabilmente il legame tra cambiamento climatico, conseguenza di uso indiscriminato di risorse, e povertà, correlandone così anche la soluzione, che passa attraverso il riconoscimento della causa primaria della attuale crisi ambientale e umana: l’inequità planetaria1. Ovviamente c’è ancora molto da fare, e l’accordo di Parigi è sotto alcuni aspetti debole e incompleto: sancisce che i Paesi debbano periodicamente fare il punto circa l’implementazione degli impegni ma il primo “Global Stocktake” è fissato per il lontano 2023; in merito al “fondo verde” che i Paesi ricchi dovranno mettere a disposizione di quelli in via di sviluppo, non ci sono indicazioni attuative nè procedure operative; non ci sono sanzioni economiche per i Paesi che non dovessero rispettare gli impegni presi. A tal riguardo, un ruolo fondamentale sarà però svolto dalla società civile, dalle associazioni e ONG che da anni si impegnano contro la crisi ambientale, dai cittadini. Sarà compito della “cittadinanza ecologica”2 mettere i Governi di fronte agli impegni sottoscritti a Parigi di fronte al mondo e chiederne conto: qualunque politica non potrebbe reggere la spinta travolgente di una consapevolezza ecologica sempre più diffusa, soprattutto tra le giovani generazioni. Si fa riferimento ai diritti umani solo nelle premesse, così come non compare il concetto di clima come “bene comune”, benchè nel preambolo siano stati mantenuti i riferimenti al diritto alla salute, alle comunità locali, ai migranti, ai bambini, alle donne, al diritto allo sviluppo e all’equità intergenerazionale. Non vi sono espliciti riferimenti alle responsabilità storiche e al debito ecologico che i Paesi artefici in maggiore misura della crisi climatica dovrebbero pagare alle nazioni meno responsabili. Per quanto riguarda le attività di cooperazione per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’accordo di Parigi punta sui meccanismi di trasferimento tecnologico e di capacity building (processo di sviluppo sostenibile dall’interno che può essere potenziato o accelerato da apporti esterni in grado di favorire il rafforzamento delle potenzialità attraverso l’utilizzo di capacità già esistenti). E’ stato esplicitato l’obiettivo ambizioso di raggiungere la “neutralità” delle emissioni, ovvero emissioni di gas effetto serra nette pari a zero, nella seconda metà del secolo. L’accordo di Parigi è una “legge quadro” di portata storica per ambizione, obiettivi, coralità: ora ciascuno (governi, istituzioni, ma anche associazioni e cittadini) è chiamato a scriverne i “decreti attuativi”.]]>
Guardando il Nord con occhi del Sud https://www.lavoce.it/guardando-il-nord-con-occhi-del-sud/ Thu, 01 Oct 2015 11:34:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43606 Papa Francesco visita la sede dell’Onu
Papa Francesco visita la sede dell’Onu

C’è una immagine che può essere usata per raccontare il viaggio di Papa Francesco a Cuba e negli Stati Uniti: il riferimento che fa tra la bottega di quartiere, i piccoli negozi, e i centri commerciali, i supermercati.

La società oggi è sempre più simile a questi grandi complessi dove si trova di tutto ma dove si è perso il contatto personale, la fiducia, la conoscenza, la vicinanza.

La piccola bottega rappresentava una sorta di oasi di fiducia, perché c’era un rapporto che era basato sull’amicizia. Oggi il mondo è un grande supermercato dove si compera tutto e dove anche la cultura ha acquisito una dinamica concorrenziale: “Non si vende più a credito e non ci si può fidare degli altri”.

La cultura attuale sembra “stimolare le persone a entrare nella dinamica di non legarsi a niente e a nessuno. Non dare la fiducia e non fidarsi”.

Le parole del Papa contenute nei suoi 24 discorsi vanno proprio nella direzione opposta e chiamano alla responsabilità personale, al dialogo.

Così a Cuba non solo si sofferma sul bloqueo, cioè sull’embargo che da oltre 50 anni colpisce l’isola, ma chiede un cambiamento di attenzione per costruire insieme – anche cubani dell’isola e coloro che risiedono fuori – un processo di riconciliazione nazionale. È il Papa che sottolinea che il cambiamento è possibile perché lo sguardo misericordioso di Cristo anticipa le nostre necessità, ci invita a superare i nostri pregiudizi, le nostre resistenze al cambiamento. I concittadini non sono quelli di cui si approfitta, si usa e si abusa. E la grandezza di un popolo, di una nazione, di una persona “si basa sempre su come serve la fragilità dei suoi fratelli”, perché “chi non vive per servire, non serve per vivere”.

Quando arriva negli Stati Uniti non cambia la linea dei suoi interventi, e in primo piano mette sempre la persona, la famiglia. Ai vescovi riuniti a Philadelphia per l’incontro mondiale dice che non è sua intenzione tracciare un programma, delineare una strategia, giudicare o impartire lezioni. Ma poi precisa: ci sono alcune questioni che non è lecito mettere a tacere, come la vicenda pedofilia, su cui torna nell’ultimo giorno della sua visita quando incontra cinque persone – tre donne e due uomini – vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti.

E parlando sempre ai vescovi dice: mi vergogno profondamente. I crimini commessi e i peccati degli abusi sessuali contro i minori da parte di sacerdoti non possono essere mantenuti in segreto per lungo tempo. E promette che tutti i responsabili renderanno conto del loro crimine. Da queste persone, aggiunge a braccio, “ho ascoltato un lamento profondo; ho pregato con loro manifestando la partecipazione alla loro sofferenza”.

Francesco è il primo Papa che parla al Congresso americano, per di più il primo latinoamericano. Il suo è un discorso che guarda al Nord America con gli occhi del Sud del Continente, per chiedere giustizia, solidarietà con le persone povere, rispetto dei diritti e delle libertà che hanno fatto grande l’America. Un discorso nel quale mette in risalto quattro figure di americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.

Per dire tutta la sua preoccupazione per la “inquietante odierna situazione sociale e politica del mondo”, sempre più un luogo “di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione”. Per questo “dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali”.

Così alle Nazioni Unite torna sul tema dei suoi predecessori: la pace e il dialogo. Certo laddove l’aggressore compie azioni conto la popolazione inerme occorre trovate risposte in grado di fermare l’operazione. Quella pace che la mattina dell’11 settembre 2001 un gruppo di terroristi ha cercato di mettere in soffitta con l’attacco alle Torri gemelle: andrà poi a Ground Zero per una preghiera ecumenica per le oltre duemilacinquecento vittime.

Ma è anche occasione per guardare all’immigrazione, che sarà anche il tema dell’Assemblea del palazzo di vetro. Francesco ripete che i muri non servono, non aiutano a capire le situazioni diverse. Muri e filo spinato che non riusciranno mai a fermare l’ondata di uomini e donna che si riversano nei Paesi del Vecchio Continente. Prima di lasciare Philadelphia, la messa con le famiglie e un Papa che chiede di creare una società che sia a favore della famiglia, la difenda e crei delle leggi che assicurino le condizioni minime per formarsi e svilupparsi.

Vale la pena di lottare per la famiglia, dice Francesco, e la società cresce buona, forte e solida se cresce sulla bontà e sull’amore della famiglia, che è una fabbrica di speranza, di vita, di risurrezione. E poi, se non ci fosse la famiglia, non ci sarebbe nemmeno la Chiesa. Parola di Papa Francesco.

 

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