Giovanni Battista Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/giovanni-battista/ Settimanale di informazione regionale Fri, 01 Dec 2023 18:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Giovanni Battista Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/giovanni-battista/ 32 32 Maria e Elisabetta https://www.lavoce.it/maria-elisabetta/ Fri, 21 Dec 2018 08:02:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53681 logo reubrica commento al Vangelo

“Una donna che partorirà” è l’immagine con cui si apre la Liturgia della parola di questa quarta ed ultima domenica di Avvento.

Prima lettura

“E tu, Betlemme di Efrata” acclama il profeta Michea, che con “Efrata” vuol significare l’aggettivo ‘feconda’ in relazione alla città che vedrà nascere il Messia.

E il testo prosegue proponendo proprio l’immagine della donna che partorisce, e in seguito al parto avviene che “il resto dei fratelli ritornerà”. Michea esercita la sua attività intorno agli anni della sconfitta di Samaria (721) e alla relativa deportazione degli israeliti nei territori assiri, e alterna profezie di sventura ad annunci di rinascita.

La pagina di questa domenica coincide con la visione futura di Betlemme, la città che darà i natali al discendente di David, a colui che “sarà grande fino agli estremi confini della terra”e che ristabilirà l’armonia tra i popoli in quanto “egli stesso sarà la pace”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla prima Lettura si riferisce alla situazione degli esuli del regno del Nord e invoca il “Pastore d’Israele” perché si erga con potenza, visiti la sua “vigna” e la faccia “rivivere”.

È interessante notare come nell’intero salmo (noi ascoltiamo solo una parte) più volte è espresso alla prima persona plurale “fa’ che ritorniamo!”. Il popolo ha maturato la consapevolezza di essere stato allontanato dalla terra perché è stato il primo lui ad allontanarsi dal Signore. C’è quindi da fare il ritorno al Signore e poi il ritorno in patria. Perciò promette al Signore: “da te mai più ci allontaneremo facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Michea 5,1-4a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 79

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli ebrei 10,5-10

VANGELO Dal Vangelo di Luca 1,39-45

Seconda lettura

Nel brano della Lettera agli Ebrei ritroviamo l’immagine del bambino che deve essere partorito nel punto in cui leggiamo: “un corpo mi hai preparato”.

In soli 5 versetti l’autore più volte menziona le ritualità principali dell’Antico testamento, cioè il ‘sacrificio’, ovvero l’immolazione degli animali, e l’‘offerta’, ossia il dono del pane o della farina. Ma egli si rifà a queste tradizioni per dichiararle abolite grazie all’“offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”.

Vangelo

Nel Vangelo contempliamo il bell’incontro tra due donne incinte. La pagina si apre con Maria in cammino verso una “città di Giuda”. La tradizione, già a partire dai primi secoli del Cristianesimo, ha identificato la località, mèta del pellegrinaggio di Maria, con Ain Karim a circa 7 chilometri ad ovest di Gerusalemme.

Maria vi si reca di “fretta”. Potremmo pensare che vada per aiutare la parente negli ultimi mesi di gravidanza (e certamente l’avrà fatto!), ma il testo ci informa che Maria ritorna a Nazareth prima che Elisabetta abbia partorito (Lc 1,56). Possiamo dunque pensare che Maria abbia percorso circa 150 km non solo per aiutare Elisabetta ma soprattutto per condividere con lei la gioia della straordinaria esperienza che stavano vivendo nel loro spirito e nella loro carne.

Questo trova conferma nel contenuto della conversazione delle due donne, che va in crescendo: dal riconoscimento dell’intervento del Signore nella loro vita e nella storia del loro popolo, all’esplosione di benedizione e di lode a Lui. Delle due la prima a parlare è Maria che “salutò Elisabetta”.

Questo saluto provoca due effetti nella persona di Elisabetta: il sussulto del bambino che porta in grembo e il dono dello Spirito santo che riempie il suo cuore. Si realizza dunque la profezia che aveva ricevuto Zaccaria dall’arcangelo Gabriele che di Giovanni aveva detto: “egli sarà pieno di Spirito santo fin dal grembo di sua madre”.

A questo punto escono dalle labbra di Elisabetta parole di lode a Maria, parole che esplodono dal cuore perché vengono pronunciate a “gran voce”. È la prima lode, dopo quella dell’arcangelo Gabriele, rivolta a Maria. L’acclamazione di Elisabetta ricorda la benedizione che Ozia rivolse a Giuditta dopo aver riportato la vittoria su Oloferne: “Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra” (Gdt 13,18).

È “benedetta” Maria ed è “benedetto” il Signore che Lei porta in grembo. E lo Spirito Santo che ormai ha preso possesso del cuore di Elisabetta fa sì che lei si rivolga a Maria chiamandola “la madre del mio Signore”. Stupefatta dell’arrivo di Maria, testimonia subito ciò che è avvenuto in lei: “appena il tuo saluto è giunto a me, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. Poi la conclusione con una lode che Elisabetta rivolge a Maria “Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

Questo rivolgersi a Maria in terza persona anziché con il ‘tu’ è stato interpretato come una lode riferita a Maria, ma anche a chiunque ‘ascolta’ la Parola del Signore. “I Padri della Chiesa a volte hanno detto che Maria avrebbe concepito mediante l’orecchio, cioè: mediante il suo ascolto. Attraverso la sua obbedienza, la Parola è entrata in lei e in lei è divenuta feconda” (Benedetto XVI, 47).

Prepariamoci allora ad accogliere con trepidazione e nella certezza che ci colmerà di gioia, l’ineffabile mistero della Parola fatta Carne che Maria partorirà!

Giuseppina Bruscolotti

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“Una donna che partorirà” è l’immagine con cui si apre la Liturgia della parola di questa quarta ed ultima domenica di Avvento.

Prima lettura

“E tu, Betlemme di Efrata” acclama il profeta Michea, che con “Efrata” vuol significare l’aggettivo ‘feconda’ in relazione alla città che vedrà nascere il Messia.

E il testo prosegue proponendo proprio l’immagine della donna che partorisce, e in seguito al parto avviene che “il resto dei fratelli ritornerà”. Michea esercita la sua attività intorno agli anni della sconfitta di Samaria (721) e alla relativa deportazione degli israeliti nei territori assiri, e alterna profezie di sventura ad annunci di rinascita.

La pagina di questa domenica coincide con la visione futura di Betlemme, la città che darà i natali al discendente di David, a colui che “sarà grande fino agli estremi confini della terra”e che ristabilirà l’armonia tra i popoli in quanto “egli stesso sarà la pace”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla prima Lettura si riferisce alla situazione degli esuli del regno del Nord e invoca il “Pastore d’Israele” perché si erga con potenza, visiti la sua “vigna” e la faccia “rivivere”.

È interessante notare come nell’intero salmo (noi ascoltiamo solo una parte) più volte è espresso alla prima persona plurale “fa’ che ritorniamo!”. Il popolo ha maturato la consapevolezza di essere stato allontanato dalla terra perché è stato il primo lui ad allontanarsi dal Signore. C’è quindi da fare il ritorno al Signore e poi il ritorno in patria. Perciò promette al Signore: “da te mai più ci allontaneremo facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Michea 5,1-4a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 79

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli ebrei 10,5-10

VANGELO Dal Vangelo di Luca 1,39-45

Seconda lettura

Nel brano della Lettera agli Ebrei ritroviamo l’immagine del bambino che deve essere partorito nel punto in cui leggiamo: “un corpo mi hai preparato”.

In soli 5 versetti l’autore più volte menziona le ritualità principali dell’Antico testamento, cioè il ‘sacrificio’, ovvero l’immolazione degli animali, e l’‘offerta’, ossia il dono del pane o della farina. Ma egli si rifà a queste tradizioni per dichiararle abolite grazie all’“offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”.

Vangelo

Nel Vangelo contempliamo il bell’incontro tra due donne incinte. La pagina si apre con Maria in cammino verso una “città di Giuda”. La tradizione, già a partire dai primi secoli del Cristianesimo, ha identificato la località, mèta del pellegrinaggio di Maria, con Ain Karim a circa 7 chilometri ad ovest di Gerusalemme.

Maria vi si reca di “fretta”. Potremmo pensare che vada per aiutare la parente negli ultimi mesi di gravidanza (e certamente l’avrà fatto!), ma il testo ci informa che Maria ritorna a Nazareth prima che Elisabetta abbia partorito (Lc 1,56). Possiamo dunque pensare che Maria abbia percorso circa 150 km non solo per aiutare Elisabetta ma soprattutto per condividere con lei la gioia della straordinaria esperienza che stavano vivendo nel loro spirito e nella loro carne.

Questo trova conferma nel contenuto della conversazione delle due donne, che va in crescendo: dal riconoscimento dell’intervento del Signore nella loro vita e nella storia del loro popolo, all’esplosione di benedizione e di lode a Lui. Delle due la prima a parlare è Maria che “salutò Elisabetta”.

Questo saluto provoca due effetti nella persona di Elisabetta: il sussulto del bambino che porta in grembo e il dono dello Spirito santo che riempie il suo cuore. Si realizza dunque la profezia che aveva ricevuto Zaccaria dall’arcangelo Gabriele che di Giovanni aveva detto: “egli sarà pieno di Spirito santo fin dal grembo di sua madre”.

A questo punto escono dalle labbra di Elisabetta parole di lode a Maria, parole che esplodono dal cuore perché vengono pronunciate a “gran voce”. È la prima lode, dopo quella dell’arcangelo Gabriele, rivolta a Maria. L’acclamazione di Elisabetta ricorda la benedizione che Ozia rivolse a Giuditta dopo aver riportato la vittoria su Oloferne: “Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra” (Gdt 13,18).

È “benedetta” Maria ed è “benedetto” il Signore che Lei porta in grembo. E lo Spirito Santo che ormai ha preso possesso del cuore di Elisabetta fa sì che lei si rivolga a Maria chiamandola “la madre del mio Signore”. Stupefatta dell’arrivo di Maria, testimonia subito ciò che è avvenuto in lei: “appena il tuo saluto è giunto a me, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. Poi la conclusione con una lode che Elisabetta rivolge a Maria “Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

Questo rivolgersi a Maria in terza persona anziché con il ‘tu’ è stato interpretato come una lode riferita a Maria, ma anche a chiunque ‘ascolta’ la Parola del Signore. “I Padri della Chiesa a volte hanno detto che Maria avrebbe concepito mediante l’orecchio, cioè: mediante il suo ascolto. Attraverso la sua obbedienza, la Parola è entrata in lei e in lei è divenuta feconda” (Benedetto XVI, 47).

Prepariamoci allora ad accogliere con trepidazione e nella certezza che ci colmerà di gioia, l’ineffabile mistero della Parola fatta Carne che Maria partorirà!

Giuseppina Bruscolotti

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Italia: novello Battista cercasi https://www.lavoce.it/italia-novello-battista-cercasi/ Fri, 05 Dec 2014 11:29:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29291 Alza un sasso a caso, e troverai un verme. Fa’ un’indagine a caso, e troverai un corrotto. E un corruttore, naturalmente. Poche settimane fa, un’indagine su alcuni pediatri di Livorno ha fatto scoprire che erano corrotti dai produttori di latte artificiale per neonati, perché convincessero madri ansiose a comprare il loro prodotto anche se non ne avevano bisogno. Il latte artificiale è un provvidenziale surrogato, quando quello materno manca; ma il latte materno, se non manca, è sempre meglio e non costa nulla. Il fatto è stato scoperto a Livorno, ma nessuno può credere che le stesse cose non succedano anche altrove; o che succedano solo per il latte in polvere e non anche per cento altri prodotti dell’industria farmaceutica. Passiamo ora da Livorno a Roma. Il 2 dicembre a Roma sono state arrestate 37 persone in una sola botta: è stato scoperta un’associazione a delinquere che corrompeva sistematicamente politici e funzionari del Comune per far avere appalti e finanziamenti agli “amici degli amici”. A Milano, per i grandi lavori dell’Expo si è già arrivati alle prime condanne (patteggiate) a carico di personaggi i cui precedenti in materia risalgono ad almeno venti anni fa; e questo è solo un filone di inchiesta. Poi c’è Venezia con quella colossale opera pubblica che si chiama Mose, sulla quale mangia illecitamente mezza città, anche qui da venti o trenta anni. Dal grande al piccolo, poche settimane fa ho raccontato un episodio delle innumerevoli truffe ai danni dello Stato per i contributi all’agricoltura. Non parliamo del mondo del calcio. Che voglio dire? Che la corruzione e il malaffare sono penetrati nella società italiana fino al midollo. È un problema culturale, prima che legale; dove per “cultura” non si intende quella che si studia a scuola ma il modo di pensare che circola spontaneamente nella società. È questo che sta distruggendo l’Italia, molto più della crisi economica, anzi è una delle cause della crisi economica. Ci vorrebbe un nuovo Giovanni Battista che gridasse: “Convertitevi, o morirete schiacciati dai vostri peccati!”. Un buon pensiero per l’Avvento.

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“Ecco il Mio messaggero!” https://www.lavoce.it/ecco-il-mio-messaggero/ Mon, 01 Dec 2014 15:02:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29236 La figura di Giovanni il Battista che ci viene proposta nella seconda domenica di Avvento è splendida. Di solito viene presentata in modi diversi, ad esempio come un predicatore escatologico, come l’ultimo e più grande dei profeti, come il mentore di Gesù, e via dicendo. Ciascuno di questi appellativi ritrae un aspetto del suo ministero in relazione all’imminente venuta di Gesù e all’inizio della predicazione del Regno.

Oggi, nella prospettiva di una lettura del Vangelo che tenga presente la famiglia, ci lasceremo guidare da una suggestione diversa e presenteremo il Battista come figura del coniuge, ritratto sicuramente poco convenzionale, ma non per questo meno eloquente. Abituati come siamo, nella cultura individualistica di oggi, a pensare ciascuno per sé, a volte si presenta il rischio di vivere la famiglia e il sacramento del matrimonio come una somma di individualità. A volte capita pure che, in una prospettiva cristiana, ciascuno dei due sposi concepisca il proprio itinerario a prescindere dagli altri membri della famiglia, e non è raro che la dimensione interiore del proprio vivere – per non parlare di tante altre cose – sia rivendicata come l’unico vero spazio di intimità nel quale ciascuno va da sé e pensa per sé.

Veniamo ora al Vangelo: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero”. Chi è questo Giovanni Battista della nostra vita? Chi mai dobbiamo aspettarci da parte di Dio per preparare la sua strada? Il Battista non è un estraneo che compare improvvisamente, ma proprio il compagno del nostro viaggio. Sì, proprio lui, il coniuge. Ed è chiamato, nel progetto di Dio, a essere il messaggero che il Signore ci pone di fronte. Alla luce di questa idea, la spiritualità coniugale deve essere rivisitata. Non è possibile accontentarsi di due individualismi convergenti, non serve a nulla una generica composizione, ma va cercata una spiritualità che veda l’altro come il messaggero di Dio inviato per noi. Tante volte l’altro viene percepito come un ostacolo o un peso. Tanto ci fa presumere il nostro orgoglio, ma nella visione di Dio quella persona è significativa per scuotere le nostre mediocrità, o magari per contenere il nostro narcisismo.

Colui che abita con noi la nostra vita non può essere manipolato o asservito, ma diventa concretamente la “voce che grida nel deserto”, cioè un richiamo, in quella solitudine egoistica nella quale tentiamo continuamente di arroccarci. Sta lì di fronte, irriducibilmente; ci costringe a venire fuori, a decentrare la nostra vita, letteralmente a “perderci”, a ripensare le dinamiche del vivere e del volere. La persona che Dio ci pone a fianco e i figli che dona sono quella presenza profetica costante che suggerisce di “raddrizzare le vie”, vale a dire riconfigurare continuamente il nostro percorso fuori dall’egoismo.

Tali persone non sono ostacoli o freni, ma segnali stradali che Dio dissemina sulla nostra strada per indicarci la rotta del Cielo. Ebbene, questa seconda domenica di Avvento nella quale si rinnova l’invito all’attesa, il Signore ci propone di ripensare la famiglia come il terreno fecondo nel quale, attraverso i vari “Giovanni Battista” della nostra esistenza – marito, moglie e figli – siamo sollecitati a uscire fuori dall’individualismo compulsivo, siamo costretti ad assumere la presenza dell’altro come richiamo costante, siamo continuamente orientati a riscoprire la logica esistenziale della relazione. Ciascuno di noi è la “voce” che Dio ha messo nella vita dell’altro. Ciascuno di noi deve ascoltare l’altro come voce concreta e utile per spianare la via per la venuta del Signore.

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Il testo completo dell’Esame finale https://www.lavoce.it/il-testo-completo-dellesame-finale/ Wed, 06 Aug 2014 20:20:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=27432 “Il sermone della montagna” pala d’altare, opera di Ib Rasmussen
“Il sermone della montagna” pala d’altare, opera di Ib Rasmussen

Da questo mercoledì Papa Francesco ha ripreso le catechesi generali in aula Paolo VI. “Nelle precedenti catechesi – ha detto, riallacciandosi all’udienza del 25 giugno – abbiamo visto come la Chiesa costituisce un popolo, un popolo preparato con pazienza e amore da Dio, e al quale siamo tutti chiamati ad appartenere. Oggi vorrei mettere in evidenza la novità che caratterizza questo popolo: si tratta davvero di un nuovo popolo, che si fonda sulla nuova alleanza, stabilita dal Signore Gesù con il dono della sua vita. Questa novità non nega il cammino precedente né si contrappone a esso, ma anzi lo porta avanti, lo porta a compimento”.

“C’è una figura molto significativa – ha proseguito -, che fa da cerniera tra l’Antico e il Nuovo Testamento: quella di Giovanni Battista. Per i Vangeli sinottici [Matteo, Marco, Luca] egli è il precursore… Per il Vangelo di Giovanni è il ‘testimone’, in quanto ci fa riconoscere in Gesù colui che viene dall’alto, per perdonare i nostri peccati e per fare del suo popolo la sua Sposa, primizia dell’umanità nuova… Con la sua testimonianza, Giovanni ci indica Gesù, ci invita a seguirlo, e ci dice senza mezzi termini che questo richiede umiltà, pentimento e conversione”.

“Come Mosè – ha spiegato poi Bergoglio – aveva stipulato l’alleanza con Dio in forza della Legge ricevuta sul Sinai, così Gesù, da una collina in riva al lago di Galilea, consegna ai suoi discepoli e alla folla un insegnamento nuovo che comincia con le Beatitudini. Mosè dà la Legge sul Sinai e Gesù, il nuovo Mosè, dà la Legge su quel monte, sulla riva del lago di Galilea. Le Beatitudini sono la strada che Dio indica come risposta al desiderio di felicità insito nell’uomo, e perfezionano i comandamenti dell’Antica Alleanza”.

Nel testo delle Beatitudini (Mt 5,3-11) “c’è tutta la novità portata da Cristo. In effetti, le Beatitudini sono il ritratto di Gesù, la sua forma di vita; e sono la via della vera felicità, che anche noi possiamo percorrere con la grazia che Gesù ci dona.

Oltre alla nuova Legge, Gesù ci consegna anche il ‘protocollo’ sul quale saremo giudicati. Alla fine del mondo noi saremo giudicati. E quali saranno le domande che ci faranno là? Quali saranno queste domande? Qual è il protocollo sul quale il Giudice ci giudicherà? È quello che troviamo nel 25° capitolo del Vangelo di Matteo”.

O meglio, ha soggiunto, “oggi il compito è leggere il quinto capitolo del Vangelo di Matteo, dove ci sono le Beatitudini; e leggere il 25°, dove c’è il protocollo, le domande che ci faranno nel Giorno del giudizio. Non avremo titoli, crediti o privilegi da accampare. Il Signore ci riconoscerà se a nostra volta Lo avremo riconosciuto nel povero, nell’affamato, in chi è indigente ed emarginato, in chi è sofferente e solo… È questo uno dei criteri fondamentali di verifica della nostra vita cristiana, sul quale Gesù ci invita a misurarci ogni giorno. Leggo le Beatitudini e penso come deve essere al mia vita cristiana, e poi faccio l’esame di coscienza con questo capito 25 di Matteo. Ogni giorno: ho fatto questo, ho fatto questo, ho fatto questo… Ci farà bene! Sono cose semplici ma concrete”.

“Cari amici – ha concluso -, la nuova Alleanza consiste proprio in questo: nel riconoscersi, in Cristo, avvolti dalla misericordia e dalla compassione di Dio. È questo che riempie il nostro cuore di gioia, ed è questo che fa della nostra vita una testimonianza bella e credibile dell’amore di Dio per tutti i fratelli che incontriamo ogni giorno. Ricordatevi i compiti! Capitolo quinto di Matteo e capitolo 25 di Matteo!”.

Le beatitudini

“Noi – ha detto Papa Francesco – siamo abituati a imparare i dieci Comandamenti. Certo, tutti voi li sapete, li avete imparati nella catechesi, ma non siamo abituati a ripetere le Beatitudini. Proviamo invece a ricordarle e a imprimerle nel nostro cuore. Facciamo una cosa: io le dirò una dopo l’altra, e voi farete la ripetizione”. Ha quindi scandito verso per verso il testo di Matteo 5, 3-10, e poi: “Vi aiuto!” e ha ripetuto due volte: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia… Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”.

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Il Regno dei cieli è già qui https://www.lavoce.it/commento-al-vangelo-5/ Thu, 23 Jan 2014 15:44:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=21634 “Il Regno dei cieli è qui”. La più grande rivoluzione della storia dell’umanità inizia con questa breve frase. In queste poche parole è condensato l’amore di Dio per tutti gli uomini di ogni epoca. Il regno di Dio non è semplicemente vicino, non sta arrivando, non è soltanto a portata di mano: è qui! È il luogo dentro il quale siamo immersi.

Il brano del Vangelo che andiamo a leggere questa domenica segna il passaggio di testimone tra l’attività di Giovanni Battista (di cui abbiamo parlato domenica scorsa) e quella di Gesù Cristo. Il cammino di Gesù per le strade della Galilea inizia con questa affermazione: “Il Regno dei cieli è qui”, e ancora: “Convertitevi”. Che significato hanno queste affermazioni? “Convertitevi” non è tanto un’affermazione di carattere morale, o almeno non in via principale. È una richiesta di attenzione che Gesù pone agli uomini, pone a noi, a me, a te. Convertiti, cioè volgi il tuo sguardo verso di me. Stai guardando nella direzione sbagliata, stai dando attenzione a cose secondarie, stai ritenendo importanti per te, per la tua famiglia, cose che non lo sono o lo sono molto poco. “Convertiti”, una sola parola ma densa di significato: stai guardando un orizzonte che non ti aiuterà a trovare la felicità. Punta il tuo sguardo, la tua attenzione, i tuoi desideri, verso di Me, verso il suono della mia parola, verso la luce della mia persona; cambia direzione al tuo cuore, guarda il cammino che io ti indico. Che cosa ci indica Gesù? Ci indica che il suo regno è qui. Ora. In questo momento della nostra vita, in cui i conti non tornano. In cui i prepotenti e gli arroganti vincono e governano.

In questo momento di dolore, in questo momento in cui ci sembra di essere perduti. In questo momento il Regno dei cieli è qui. Nelle domeniche che seguiranno leggeremo altri brani del Vangelo in cui Gesù spiegherà in modo sempre più pieno cosa sia il regno di Dio, ma già ora ci anticipa dei “pezzi di significato”. Dire che il regno di Dio è qui significa dire che Dio, proprio ora, sta regnando sulla terra. Se è iniziato il regno del Padre, il regno di Colui che è fedele, allora possiamo dire che ha avuto inizio il regno della promessa. Quello del Padre è il regno che racchiude tutti i desideri dell’uomo, la sua libertà, la sua felicità, la sua immortalità, la sua salvezza.

È il regno delle promesse che Dio ha riservato all’intera umanità e a ognuno di noi personalmente. Tramite Gesù Cristo questo Regno è iniziato ormai circa 2.000 anni fa. È iniziato con parole semplici ma profondamente rivoluzionarie. Come la parola “seguitemi” che viene rivolta ai primi apostoli: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni. Seguimi, vieni dietro di me. Entra nel regno del Padre, che già ti avvolge; scegli di appartenere a quel Regno, dove le promesse che tuo Padre ti ha fatto, fin da quando ti ha pensato, si compiono. Gesù è il primo ad andare a pesca di uomini. Ci “pesca” con la sua voce che mira dritto al nostro cuore; ci pesca dall’abisso dove ci siamo perduti, dove non entra più luce, né per noi né per le nostre famiglie. Spetta a noi lasciarci pescare. Rispondere a quella voce con la stessa prontezza degli apostoli.

Ma noi quali aspettative coltiviamo nelle nostre famiglie? Da chi ci aspettiamo che venga la salvezza? Come facciamo a riconoscere la voce che salva in mezzo alle tante voci che ci bombardano ogni giorno? È un discorso che meriterebbe spazio e magari anche un luogo di confronto. Qualcosa possiamo dirla però. La voce di Gesù punta al cuore. È così anche per le molte altre voci che chiassose ci arrivano ogni giorno? C’è una vera via di uscita, immediata, dalla palude in cui la nostra società si è inabissata, come molti vorrebbero farci credere? Oppure quella voce che ci chiede di iniziare un cammino per costruire il Regno è l’unica veramente credibile? Fidiamoci del Dio fedele e facciamo iniziare il regno qui, ora, perché “il popolo che sedeva nelle tenebre vide una grande luce”.

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Giornata del migrante. Le parole e i gesti di Papa Francesco https://www.lavoce.it/giornata-del-migrante-le-parole-e-i-gesti-di-papa-francesco/ Thu, 23 Jan 2014 15:34:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=21700 Fedeli accolgono Papa Francesco in visita alla basilica del Sacro Cuore in via Marsala
Fedeli accolgono Papa Francesco in visita alla basilica del Sacro Cuore in via Marsala

Non perdere la speranza in un mondo migliore: “Voi siete vicini al cuore della Chiesa, perché la Chiesa è un popolo in cammino verso il regno di Dio”. Domenica 19 è la Giornata mondiale del migrante e rifugiato, e Papa Francesco augura a queste persone di poter custodire “i valori delle vostre culture di origine”. Nello stesso tempo chiede a quanti lavorano con i migranti di “accoglierli e accompagnarli nei loro momenti difficili, per difenderli da quelli che il beato Scalabrini definiva ‘i mercanti di carne umana’ che vogliono schiavizzare i migranti”. Le sofferenze di una vita “tante volte senza lavoro, senza documenti”.

Parole alle quali Francesco unisce il gesto di un incontro, andando, nel pomeriggio, alla basilica del Sacro Cuore in via Marsala, due passi dalla stazione Termini di Roma. Visita una parrocchia che è una realtà di periferia esistenziale, dove trovano aiuto dalla comunità salesiana circa 400 tra migranti, rifugiati e persone senza fissa dimora. Il Papa incontra una ottantina di rifugiati e altrettante persone senza casa, li invita ad avere coraggio e ricorda loro che la notte è più buia proprio quando si avvicina l’aurora, e la luce è il Signore che ci viene incontro e ci dà speranza.

Luce e salvezza per ogni uomo è l’Agnello di Dio, ricordavano le letture della seconda Domenica del tempo ordinario. Un agnello “senza difetto, maschio, nato nell’anno”, si legge nell’Esodo, che viene sacrificato e il cui sangue, posto sugli stipiti delle porte, salverà dalla morte. Prefigurazione simbolica del Messia, dunque. Nel Vangelo di Giovanni è Giovanni Battista a dare questa definizione di Gesù; lo vede avanzare tra la folla e “ispirato dall’alto – afferma il Papa all’Angelus -, riconosce il lui l’Inviato di Dio, per questo lo indica con queste parole: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato dal mondo”.

Se nella tradizione ebraica l’agnello è memoria della liberazione dalla schiavitù fisica del faraone, nel cristianesimo diventa liberazione dalla schiavitù del peccato: “Non c’è altro modo di vincere il male e il peccato se non con l’amore che spinge al dono della propria vita per gli altri”.

È la missione di Gesù, ricorda il Papa, caricarsi delle nostre sofferenze fino a morire sulla croce: è il “vero agnello pasquale, che si immerge nel fiume del nostro peccato, per purificarci”. “L’agnello – sottolinea ancora il Papa – non è un dominatore, ma è docile; non è aggressivo, ma pacifico; non mostra gli artigli o i denti di fronte a qualsiasi attacco, ma sopporta ed è remissivo”. In questa docilità, umiltà c’è l’immagine di Gesù. Cosa significa oggi essere discepoli di Gesù? “Significa mettere al posto della malizia l’innocenza, al posto della forza l’amore, al posto della superbia l’umiltà, al posto del prestigio il servizio”.

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Faccia a faccia con il Battista https://www.lavoce.it/commento-al-vangelo-4/ https://www.lavoce.it/commento-al-vangelo-4/#comments Thu, 16 Jan 2014 14:54:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=21504 Mentre leggiamo il brano del Vangelo di Giovanni, per qualche istante sembra di essere di fronte a un doppione del brano della domenica precedente. A una lettura più attenta però si colgono differenze importanti che arricchiscono l’episodio del battesimo di Gesù (di domenica scorsa) e ci svelano qualche tratto in più della sua figura, e anche di quella del Battista. Vorremmo proporre un modo di leggere e meditare insieme le Scritture. Un metodo che può essere utilizzato da soli e in famiglia, con grande semplicità, dedicando qualche minuto al Signore della nostra vita e alla sua Parola. Ci fermiamo allora a immaginare questo brano del Vangelo, cerchiamo di diventare spettatori della scena descritta, ci avviciniamo silenziosamente ai personaggi che vengono coinvolti.

Ci accostiamo a Giovanni Battista, una figura che spesso rimane distante perché ci viene raccontata come incredibilmente austera, dura in molte espressioni, ascetica e apparentemente lontana. In questo brano abbiamo di fronte una figura immersa nella sua memoria, che ripensa all’incontro con Gesù: “Io non lo conoscevo” ricorda Giovanni; è come se venisse condensato in poche parole il lungo cammino di ricerca da lui compiuto. Egli ha desiderato sopra ogni cosa di incontrare quel Messia, quel Salvatore di cui parlano le Scritture e che il popolo di Israele attendeva. Nessuno però dei sapienti di Israele lo ha riconosciuto, soltanto Giovanni Battista si è lasciato illuminare dalla luce della Parola. Egli diviene testimone perché prima è stato capace di desiderare e di attendere, facendo uscire dalla propria vita tutto ciò che non appartenesse a quel desiderio o che lo distraesse da quell’attesa, un’attesa fondamentale perché ha permesso al desiderio di maturare, di purificarsi e divenire fecondo. Forse possiamo vedere il Battista sotto una luce diversa.

Non è quell’asceta in senso classico di cui ci hanno parlato, l’uomo distante, l’uomo del deserto e delle privazioni di cui non sempre riusciamo a capire il significato. È, in modo molto più vero e più incredibilmente semplice, l’uomo dai forti desideri, che per realizzarli gioca tutta la vita, incurante dei giudizi degli altri. Ha desiderato il Salvatore promesso da Dio e il suo desiderio viene esaudito. Ora che nella nostra mente immaginiamo Giovanni, lo vediamo ripensare al giorno in cui non solo ha incontrato Gesù, ma lo ha battezzato. Vediamo scendere delle lacrime dai suoi occhi; nel suo volto, impolverato dalla lunga ricerca, emergono due solchi che vanno a sfociare in un largo sorriso, è la gioia di un uomo che ha scommesso su Dio e ha vinto: la promessa è stata mantenuta, il Messia è arrivato. Il compito del Battista non è finito. Gli rimane di distogliere l’attenzione da se stesso e farla convergere verso Gesù, del quale però vuole indicare alcuni tratti per aiutarci a comprenderne il messaggio: è l’agnello di Dio; toglie i peccati del mondo; è ricolmo dello Spirito santo.

È un prezioso insegnamento per la nostra famiglia, questo Vangelo. Ci ricorda che i desideri sono il motore della vita, sia di noi genitori che dei nostri figli. Ma i desideri vanno fatti crescere, vanno affinati, chiariti, tramite la capacità di attendere, perché i desideri che vengono da Dio liberano, gli altri no. Anche la famiglia è una scommessa che può essere vinta, se fa spazio a Gesù. Il quale ci ha liberato dal peccato, dalle nostre intemperanza quotidiane, dai nostri errori; si mette in fila con noi e ci dona lo Spirito santo. Davanti al Battista c’è una lunga fila di israeliti a farsi battezzare e, buon ultimo a chiudere la fila, Gesù, accanto a noi nelle lunghe file della vita. La fila del lavoro, la fila della sofferenza, la fila dei nostri sogni e delle nostre delusioni: a ogni fila Gesù è lì, immerso nella nostra stessa acqua.

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Borgo Sant’Antonio ora è davvero bello https://www.lavoce.it/borgo-santantonio-ora-e-davvero-bello/ Thu, 16 Jan 2014 14:30:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=21575 Corso Bersaglieri a Perugia
Corso Bersaglieri a Perugia

Il 17 gennaio, Borgo Sant’Antonio viene riconosciuto tra i “Borghi più belli d’Italia”. A proclamarlo, in una cerimonia ufficiale, sarà il presidente del Club, Fiorello Primi, nell’ambito delle tradizionali celebrazioni della festa di sant’Antonio abate. Questo riconoscimento è stato ottenuto grazie all’impegno dei residenti di corso Bersaglieri e porta Pesa (circa 40 famiglie) che, dal 2010, hanno deciso di costituire l’associazione “Rivivi il Borgo” per restituire vivibilità al loro quartiere che ad oggi conta circa 300 iscritti.

“Tutte le iniziative da noi organizzate, – spiega il portavoce Nicola Tassini – sono autofinanziate. L’unico contributo su cui possiamo contare è quello del Comune di Perugia in quanto ‘Rivivi il Borgo’ rientra nel Coordinamento delle associazioni del centro storico, noto anche con il nome ‘Luci della città vecchia’”.

Tuttavia, sottolinea Tassini, anche se non a livello economico, l’associazione può contare sul supporto delle istituzioni e della Curia, con le quali si è instaurato un rapporto di dialogo e di reciproca stima che ha consentito di recuperare un’identità e restituire alla città e ai cittadini alcuni spazi pubblici chiusi da anni. Tra questi l’oratorio della Confraternita di Sant’Antonio Abate, riaperto dopo quarant’anni di chiusura, e dell’oratorio di San Giovanni Battista, oggi sede degli scout Umbria.

Le problematiche che riguardano l’intera città di Perugia, soprattutto spaccio e microcriminalità – dice ancora Tassini – sono discusse e condivise con le varie associazioni cittadine: “Abbiamo capito che l’unico modo per migliorare la situazione è collaborare tra di noi per promuovere piccole ma efficaci attività che, unite a quelle di altri gruppi, possono far tornare Perugia tra le città più vivibili d’Italia”.

Gli eventi organizzati puntano al raggiungimento di risultati concreti. Borgo Sant’Antonio ne è l’esempio, con iniziative come la “Via dei presepi” allestita nel periodo natalizio in locali messi a disposizione gratuitamente dai residenti, e le statuine offerte dalla vice presidente dell’associazione, Marisa Rosi, che hanno attirato numerosi visitatori. Oppure la ristrutturazione di botteghe, fondi e della fonte collocata a ridosso di porta Sant’Antonio.

Così anche la festa di sant’Antonio (16 e 17 gennaio) è vista dagli abitanti come un punto di partenza e non come d’arrivo. “La tradizione va conservata e promossa” perché, sostiene il portavoce, “può essere uno strumento per ricreare un tessuto sociale e relazionale che ormai manca da tempo”.

La festa di sant’Antonio

VENERDÌ 17 GENNAIO, nella festa del Borgo, c’è un ricco programma di eventi nella chiesa di Sant’Antonio e dintorni.

Ore 11 messa mattutina. Segue svelatura della copia della “Madonna d’Alba” di Raffaello

Ore 15 messa pomeridiana – al termine, benedizione degli animali e dei loro accompagnatori

Ore 16 ufficializzazione dell’ingresso di Borgo Sant’Antonio nel club “I Borghi piùbelli d’Italia”

Ore 17 concerto del coro del Cai (m° Paolo Ciacci); il ricavato delle offerte andrà agli Amici del Malawi

Ore 18 Palio del Borgo

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Vittorio Sgarbi scopre un tesoro a Boschetto https://www.lavoce.it/vittorio-sgarbi-scopre-un-tesoro-a-boschetto/ Thu, 10 Oct 2013 11:50:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=19991 sgarbi-StatuaHa lasciato il segno la visita a Gualdo Tadino del critico d’arte Vittorio Sgarbi in occasione del Palio di San Michele Arcangelo. E specialmente in due frazioni gualdesi, visitate entrambe nella tarda serata (per non dire nottata) di sabato scorso, 28 settembre. In primo luogo a Boschetto, dove Sgarbi ha scoperto che quella che si credeva una statua di san Giovanni Battista è in realtà un Cristo benedicente nel 1548 da Nerone da San Sepolcro, allievo di Michelangelo. Il noto critico ha raccomandato al parroco don Francesco Pascolini, all’assessore alla Cultura Simona Vitali e alla direttrice del Polo museale, Catia Monacelli, di restaurare la preziosa statua: tornerà egli stesso ad inaugurarla l’anno prossimo, in occasione dei Giochi de le Porte, probabilmente nell’ambito di una mostra su Nerone da San Sepolcro, autore di cui Sgarbi stesso possiede molti pezzi. Oltre a ciò, ha raccomandato la direttrice del Museo di esporre la statua presso il Museo della Rocca Flea, sistemazione sicuramente più sicura ed evidente per un capolavoro del genere. La seconda frazione gualdese, in cui Sgarbi è piombato nel cuore della notte, è stata San Pellegrino, dove si trovano alcuni preziosi cicli di affreschi, di scuola marchigiana e di Matteo da Gualdo, databili fra la metà del XIV e la fine del XV secolo. “Era passata la mezzanotte quando è arrivato a visitare le nostre due chiese” ci racconta il parroco don Luigi Merli. “È rimasto davvero ammirato dalla bellezza di alcuni affreschi, specialmente quelli di Matteo da Gualdo, di cui è un grande estimatore. Ci ha fatto i complimenti per come sono tenute le chiese, in particolare la più piccola, nella quale si è soffermato a lungo a contemplare le opere d’arte.” Poi, sempre nel cuore della notte, ha accettato la generosa ospitalità dei sampellegrinesi, bevendo un tè alle 2 e facendo un’allegra spaghettata alle 4 del mattino. Due episodi che hanno definitivamente convinto i gualdesi dell’opportunità di un rilancio in chiave turistica della città.

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Le parole giuste per pregare https://www.lavoce.it/metti-vangelo-10/ Thu, 25 Jul 2013 13:36:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=18319 Il Vangelo secondo Luca dedica ben undici capitoli alla salita di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme (9,51-19,27): la liturgia ne fa la lettura quasi continua in queste domeniche d’estate. Durante questa “lunga marcia” Gesù prepara i discepoli – e oggi anche noi – alla futura missione di testimoni. In questo quadro di formazione permanente si inserisce l’insegnamento sulla preghiera. Anche oggi l’introduzione al brano evangelico è tutt’altro che superflua. Gesù sta pregando. Da altri brani sappiamo che solitamente la sua preghiera era molto prolungata. Questo dovette impressionare i discepoli, che chiesero di imparare anche loro. Aggiungono che anche Giovanni Battista aveva istituito una scuola di preghiera per i suoi discepoli.

Questo lascia trasparire la difficoltà che tutti avevano a farlo. Il problema non era la mancanza di formule: i discepoli, come ogni altro ebreo osservante, avevano a disposizione l’intero Salterio, composto di 150 Salmi, tutte le bellissime preghiere sinagogali e altro ancora. Al Maestro chiedevano di imparare un modo semplice ed efficace di relazionarsi con Dio. Avvertiamo anche noi oggi che utilizzare formule di preghiera è relativamente semplice; le difficoltà nascono quando vediamo le nostre domande restare senza risposta, nel non sapere come parlare con un Dio invisibile e spesso ignoto.

La risposta di Gesù fu il Padre nostro. Colpisce la diversità del Pater, come lo conosciamo da sempre, con questo che ascoltiamo oggi. La forma adottata dalla Chiesa Cattolica fin dagli antichi tempi, e che abbiamo imparato da bambini, è quella tramandata dal Vangelo secondo Matteo. Come si vede, le due formule differiscono nei particolari, ma sono uguali nella sostanza. La forma tramandata da Luca è più breve ed essenziale. Gli studiosi si domandano quale abbia insegnato Gesù. I pareri sono discordi; qui non abbiamo spazio per elencarli. Alcuni pensano che Gesù non abbia insegnato una formula precisa, ma piuttosto gli elementi essenziali che devono comporre ogni preghiera.

Anzitutto l’invocazione: Padre. L’uomo non può nemmeno provare a immaginare Dio, che è al di fuori della sua portata; ma deve pur cercare un’attitudine di fronte a Lui. Nel prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma che “Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Che cosa ci ha rivelato Gesù? Che Dio è il Padre. Noi siamo i figli. Negli ultimi versetti del Vangelo di oggi, questa rivelazione è resa plasticamente: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono!”. Come tutti sappiamo, il Pater è diviso in due parti.

Nella prima chiediamo che tutti al mondo lo riconosciamo come l’Unico, da cui tutti dipendiamo e che a tutti dona esistenza, energia e vita. Nel linguaggio biblico Egli è il Nome. Chiediamo anche che si realizzi il Suo piano nella storia e che nessuno vi metta ostacoli. Nella seconda parte chiediamo di avere quotidianamente il cibo che ci alimenta: non solo quello che riempie lo stomaco, ma anche quello nutre il cuore, la mente, la vita. Poi chiediamo di essere perdonati, perché anche noi perdoniamo ai nostri simili. Sapere di essere perdonati e perdonare a nostra volta è la garanzia di un vivere sereno e pacificato. In ultimo chiediamo che non ci lasci soli, in balia della prova.

Sono prove non solo le istigazioni al peccato, ma anche le difficoltà, le contraddizioni e tutte quelle circostanze che chiamiamo “croci”. Dopo la preghiera del Pater, Luca riporta una breve parabola, sulla certezza che “a chi bussa sarà aperto”, prima o poi. La narrazione è immaginaria, ma del tutto verosimile. C’è un tale a cui arriva un ospite improvviso durante la notte. Il tale non sa come fargli accoglienza, perché la dispensa momentaneamente è vuota. Senza farsi scrupoli, va casa di un amico, lo chiama da fuori e gli chiede tre pani. Giustamente scocciato a causa dell’ora importuna, gli risponde che è impossibile, perché a quell’ora tutti dormono: sveglierebbe moglie e figli. Ma l’amico insiste e alla fine, per levarselo dai piedi, si alza e lo accontenta. Per renderci conto del realismo della scena, non dobbiamo immaginare qualcosa di simile ai nostri appartamenti.

Le case della gente comune erano formate da un’unica stanza, in genere a pianterreno, che di giorno serviva per mangiare e di notte per dormire, su stuoie distese a terra. Per arrivare alla madia del pane e poi alla porta d’ingresso, l’amico ha dovuto scavalcare diverse persone, fare rumore e sentire mugugni e proteste. Ma l’invadenza dell’amico l’ha avuta vinta. Sembra incredibile, ma Dio si aspetta di essere scocciato.

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Lode a Dio che ci “visita”! https://www.lavoce.it/metti-vangelo-3/ Thu, 06 Jun 2013 12:53:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=17126 In questa domenica la liturgia riprende la lettura continua del Vangelo secondo Luca, che oggi narra il noto episodio della risurrezione del figlio della vedova di Naim, letto in parallelo alla risurrezione del figlio della vedova di Sarepta. La chiave per comprendere correttamente questo episodio evangelico si trova verso la fine, nel momento in cui la folla interviene coralmente a glorificare Dio che ha visitato il suo popolo, perché ha fatto sorgere un grande profeta in mezzo a loro.

L’interesse dell’evangelista, in questo racconto, sta nell’esaltare la vicinanza soccorritrice di Dio e della sua grazia nell’azione di Gesù, che ha compassione della sventura della povera madre vedova, ora anche senza figlio e quindi senza sostegno alcuno; al cui dolore prende ampia parte anche la popolazione cittadina. Nell’esperienza biblica ha un grande rilievo la teologia della “visita”. Quando si legge che Dio ha visitato il suo popolo, si deve intendere che Dio si è preso cura di lui, che se ne preoccupa, che interviene in suo soccorso. Quelli tra noi che al mattino pregano con la preghiera delle lodi ricordano il cantico di Zaccaria, il Benedictus, dove, insieme al padre di Giovanni Battista, benediciamo Dio “che ha visitato e redento il suo popolo”.

La Bibbia esprime quest’opera di Dio anche con altre espressioni: avere compassione, consolare, e molte altre. Oggi l’evangelista racconta che la gente, vedendo un ragazzo morto ritornare in vita e riconsegnato a sua madre, riconobbe la visita di Dio, che si era fatto vicino mandando un grande profeta tra il popolo. L’uomo può in qualche modo somigliare a Dio quando visita il fratello o la sorella che sono nel bisogno. Nel Vangelo secondo Matteo, al cap. 25, Gesù dice una parabola sul giudizio che Dio farà alla fine della storia: saremo tutti giudicati in base ad un codice che ha come criterio di base: la visita. “Ero malato, carcerato… e mi avete visitato”. Ossia, saremo chiamati a rispondere alla domanda: vi siete presi cura dei vostri fratelli, delle vostre sorelle… in difficoltà?

Si diceva all’inizio che l’episodio della vedova di Naim e quello della vedova di Sarepta sono presentate in parallelo. Conviene ricordare l’antefatto. Il profeta Elia incontra questa giovane vedova alla porta di una città fenicia, mentre raccoglie legna; prima le chiede acqua da bere e subito dopo anche un pezzo di pane. Lei risponde che, a causa della siccità in corso, non ha nulla in casa, se non l’ultima manciata di farina nella giara e l’ultimo scolo di olio nell’orcio; avrebbe cotto una schiacciata per sé e per suo figlio e poi avrebbero atteso la morte per fame. Elia le disse di fare come le aveva chiesto, perché farina e olio non sarebbero diminuiti, fino a che il Signore non avesse mandato la pioggia. La vedova si fidò di quella parola e ne constatò l’affidabilità: incredibilmente, farina e olio non finivano mai.

Accadde in seguito quello che si narra nella prima lettura. La donna si sentì tradita. Se ne lamentò con il profeta; ma Dio la visitò e lei riebbe suo figlio vivo. L’evangelista Luca narra l’episodio della vedova di Naim con espressioni che richiamano da vicino il fatto di Elia. Nelle due narrazioni vediamo una vedova in lacrime per la perdita dell’unico figlio; in ambedue c’è un profeta in cammino che giunge presso la porta di una città; c’è un gesto con cui si richiama in vita un figlio morto. Tuttavia si sottolinea che Gesù è superiore a Elia, che pure era considerato da tutti il più grande dei profeti: per Gesù è sufficiente toccare la bara e ordinare al ragazzo di alzarsi; mentre Elia deve supplicare il Signore e prostrarsi ripetutamente. A Naim, oltre ai discepoli di Gesù, è presente una grande folla, che coralmente benedice Dio e ne riconosce la benevolenza, perché è finalmente comparso il profeta grande che era stato promesso anticamente da Mosè (Dt 18,15).

La seconda lettura è tratta dalla lettera di Paolo ai neo-cristiani della Galazia (Turchia nord-occidentale), scritta nel contesto della polemica tra alcuni che si erano convertiti dal giudaismo e altri che venivano da ambienti pagani. Gli ex giudei cercavano di screditare Paolo, che si opponeva alle loro posizioni dottrinali, sostenendo che non era un vero apostolo perché non aveva conosciuto Gesù durante la vita terrena.

Paolo si difende dall’accusa scrivendo di non avere appreso la verità su Gesù da uomini, ma direttamente, per rivelazione, dal Risorto. Colpisce un’espressone: “Ma quando Dio… si compiacque di rivelare in me suo Figlio…” (Gal 1,16). Notare: non “a me”, come si trova in vecchie, imprecise traduzioni, ma “in me”. Paolo intende dire che la conoscenza di Gesù Cristo non gli venne da una “informazione”, ma fu un avvenimento, accaduto nell’esperienza intima di un incontro. Ogni fede autentica e adulta in Gesù Cristo ha sempre inizio da un incontro.

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Oggi la Parola si è compiuta https://www.lavoce.it/oggi-la-parola-si-e-compiuta/ Fri, 25 Jan 2013 09:00:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=14768 La lettura evangelica di questa domenica si apre con il prologo del Vangelo secondo Luca, che sarà “luce a nostri passi” lungo tutto questo anno liturgico. Abbiamo avuto occasione di ascoltarne i primi capitoli durante il tempo d’Avvento e di Natale. Da oggi ne ascolteremo la lettura quasi continua. Vale la pena spendere qualche riga a commento di quei primi quattro versetti, dai quali abbiamo informazioni preziosissime. Lo scrittore si presenta in prima persona con la dedica ad un amico illustre di nome Teofilo. Probabilmente non sapremo mai se si tratta di una persona realmente esistita o di uno pseudonimo.

Teofilo è un nome di origine greca che significa “amico di Dio” o “amato da Dio”. Pertanto il dedicatario potrebbe essere ogni lettore, che sa di essere amato da Dio, e dunque anche ognuno di noi. Luca non fece parte del gruppo dei discepoli che seguirono Gesù durante la vita terrena, ma lo conobbe dopo la Risurrezione, ascoltando la predicazione dei “testimoni oculari”. Veniva dal paganesimo; era persona di alta cultura; accompagnerà, in alcuni viaggi, san Paolo, che lo chiama “il caro medico” (Col 4,14); una leggenda racconta che era pittore. Era formato nell’arte della narrazione storica, di cui dà prova già nel prologo, parlando del metodo usato per la sua composizione letteraria: “fare ricerche accurate… comporre un resoconto ordinato”, allo scopo di fornire al lettore una solida base circa gli “insegnamenti ricevuti”. Fonti della narrazione sono “coloro che furono testimoni oculari fin da principio”. Dunque, sul piano storico, ci possiamo fidare di Luca almeno quanto ci fidiamo di altri storici dell’antichità classica.

La liturgia di oggi salta a piè pari i primi tre capitoli del Vangelo di Luca, che abbiamo ascoltato nelle scorse settimane e salta anche l’inizio del quarto capitolo, che ascolteremo all’inizio della Quaresima. Comincia presentando l’inizio della predicazione di Gesù nella sua regione, la Galilea. Lo fa sottolineandone alcuni dettagli, che si riveleranno cruciali. Gesù torna a Nazareth: era vissuto per qualche tempo con i discepoli di Giovanni Battista nei pressi del fiume Giordano; lì aveva ricevuto il battesimo; poi aveva fatto esperienza di una lunga lotta con il Maligno nel deserto. La nuova fase della sua vita ha inizio con la preghiera sinagogale in giorno di sabato.

Luca racconta che entrò nella sinagoga, di sabato, “come era solito fare”. Era dunque un buon giudeo osservante. Nei riti del sabato era consuetudine che, dopo le orazioni previste e la lettura di un brano della Torah, qualcuno si presentasse a leggere e commentare brevemente un testo da un libro profetico. In quell’occasione si presentò Gesù, che ritualmente si alzò, autorevolmente aprì il rotolo del libro di Isaia al capitolo 61 e ne lesse alcuni versetti. Il profeta scriveva di avere ricevuto l’unzione della Spirito, che lo mandava ad annunciare una lieta novella ai poveri; la libertà ai prigionieri e agli oppressi; un tempo di benevolenza per tutti da parte del Signore. (Ascoltate come poi rallenta il ritmo narrativo). Dopodiché richiuse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette.

La gente che era in sinagoga aveva certamente ascoltato altre volte le parole di questa profezia, sempre sospirandone il compimento. Questa volta però dovette accorgersi che qualcosa di serio stavano cambiando; tant’è che gli occhi di tutti presero a fissarlo. Il commento di Gesù fu breve: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Bastava. I tempi erano maturi: la Parola trasmessa nello scritto dell’antico profeta si era fatta carne in quel loro paesano. Sapremo poi che la gente reagì in modo contraddittorio: in un primo momento si entusiasmarono, poi si scandalizzarono. Come era possibile che il figlio del carpentiere del villaggio, senza studi accademici, potesse parlare con tanta autorevolezza? C’era sotto qualcosa di non chiaro.

Di tutta questa ricchezza, la liturgia oggi sottolinea un aspetto: il compimento della Parola. Gesù è il compimento di quanto era stato scritto nell’Antico Testamento. La prima lettura racconta una “liturgia della Parola” celebrata a Gerusalemme, città non ancora del tutto ricostruita dopo il ritorno dall’esilio. Il sacerdote Esdra era il presidente del rito e proclamava la Parola da un podio. L’assemblea ascoltava in silenzio “dallo spuntare della luce fino a mezzo giorno”. La Torah era proclamata in lingua ebraica, che gran parte della gente aveva dimenticato durante i lunghi anni d’esilio. Per questo i leviti, sparsi in mezzo al popolo, la traducevano oralmente, e la commentavano in lingua aramaica, diventata ormai la lingua popolare. Il popolo piangeva di commozione; si dovette raccomandare loro di non far lutto, perché quello era un giorno di festa; ma piuttosto di andare a casa e mangiare carne e bere vino dolce e farne partecipi quelli che non ne avevano.

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Frutti concreti di conversione https://www.lavoce.it/frutti-concreti-di-conversione/ Thu, 13 Dec 2012 13:40:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=14245 La scorsa domenica abbiamo incontrato Giovanni Battista, che predicava la conversione, percorrendo da cima a fondo la vallata del fiume Giordano. Oggi lo incontriamo di nuovo mentre personalizza le condizioni della conversione; poi, su richiesta, parlerà di se stesso, chiarendo a tutti di non essere il Messia. L’evangelista Luca introduce il racconto presentando le folle che chiedono quali cose debbano fare in vista della conversione, che il predicatore aveva richiesto con parole di fuoco (Lc 3,8).

Le risposte, molto concrete, fanno riferimento alle cose essenziali del vivere: cibo e vestito. Ai semplici popolani, che erano probabilmente anche buoni giudei, dice di essere attenti al loro prossimo, cedendo una tunica a chi ne era sprovvisto, se qualcuno ne avesse avute due, e lo stesso con il mangiare. Anche gli esattori delle tasse per conto dei Romani furono colpiti dal richiamo alla conversione. Anche loro erano giudei; ma erano considerati impuri e peccatori, soprattutto perché collaboravano con l’invasore; quindi esclusi da parte della gente per bene. Giovanni disse loro che la conversione cominciava da una cosa molto semplice e intuitiva: non esigere dalla gente nulla più di quanto era stabilito. Ascoltarono la predicazione anche dei soldati, che facevano parte di quell’esercito mercenario a servizio del tetrarca Erode Antipa, costituito da gente raccogliticcia e in gran parte probabilmente pagana.

Anche loro chiedevano che cosa fare. Molto semplice, diceva Giovanni, non fate violenza ad alcuno, non commettete soprusi e contentatevi dei vostri stipendi. Come si vede, a nessuno chiedeva di cambiare stato sociale e nemmeno di compiere particolari pratiche religiose; l’esattore rimaneva esattore, il soldato rimaneva soldato, ma nella giustizia e nella condivisione. Erano esortazioni valide non solo per il popolo dell’Alleanza, ma anche per chi non vi apparteneva. E sono valide anche per noi di oggi: la nostra conversione non può essere fatta di belle parole, di riunioni o di osservanze religiose, spesso in contraddizione con la vita di tutti i giorni. L’attenzione all’altro e la condivisione dei beni sono le condizioni imprescindibili per la conversione.

Nella seconda parte della lettura evangelica (Lc 3,15-17), Luca presenta la massa degli ascoltatori come un “popolo in attesa”. In attesa di chi? Di che cosa? Il momento storico era particolarmente pesante: le antiche libertà erano scomparse, le condizioni economiche erano disastrose; solo un inviato da Dio poteva risollevarne le sorti. Si domandavano pertanto se questo predicatore irruento fosse colui che Dio aveva promesso. Era lui l’Atteso dai Padri fin dall’antichità? Giovanni chiarisce una volta per tutte di non essere lui il Messia; è solo il “precursore”, ossia colui che “corre avanti” ad annunciarne la prossima comparsa.

Il suo battesimo era solo una preparazione a quello decisivo, che amministrerà il Messia. Il quale è presentato nelle vesti di un contadino che compie le ultime operazioni prima di immagazzinare il grano. Si trebbiava nel modo che consentiva la tecnologia di allora: quando nelle ore pomeridiane soffiava la brezza da ponente, si sollevava il mietuto con una larga pala di legno, in modo che il buon grano ricadeva giù, e la paglia era portata via dal vento; poi si raccoglieva e si bruciava. Il grano da immagazzinare simboleggia i frutti della conversione; la paglia, che il vento porta via, raffigura i riti, vuoti di contenuto, che non servono a nulla e che il tempo distruggerà.

La liturgia di questa terza domenica di Avvento si era aperta con un invito improvviso a gioire. La tradizione latina la chiama Dominica Gaudete. “Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto rallegratevi: il Signore è vicino”. Sono parole che san Paolo scrive nella lettera ai cristiani della città greca di Filippi e che noi abbiamo ascoltato per esteso nella seconda lettura. La lettera fu scritta dalla prigione, dove l’apostolo era stato rinchiuso a causa della predicazione. Da lì dentro esorta ripetutamente alla gioia. Esortazione giustificata dalla vicinanza del Signore Gesù. Su questa certezza si radica l’annuncio cristiano: Dio non è una realtà lontana, come spesso si immagina; ma in Gesù Cristo si è fatto misteriosamente vicino alla vita, alle preoccupazioni, ai problemi, alle gioie di ognuno, pur rimanendo l’Onnipotente, Creatore di tutte le cose “visibili e invisibili”.

L’esortazione di Paolo continua e si approfondisce: “Non angustiatevi per nulla…”. Spesso ci logoriamo la vita caricandoci dei fardelli del domani, su cui non abbiamo alcun potere. C’è anche una parola di Gesù in proposito: “Non vi affannate per il domani; il domani avrà già i suoi affanni. A ogni giorno è sufficiente il suo malanno” (Mt 6,34). Paolo dà poi la chiave per vivere nella tranquillità e nella pace: “In ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti”.

 

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Quaranta giorni di lotta https://www.lavoce.it/quaranta-giorni-di-lotta/ Thu, 23 Feb 2012 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=880 Alcuni di noi mercoledì scorso hanno partecipato al rito delle Ceneri. Mentre il presbitero celebrante ce le imponeva sul capo, abbiamo sentito che diceva: “Convertiti e credi al Vangelo”. Le stesse parole ritroviamo nella lettura evangelica di oggi, che si divide nettamente in due parti: il tempo delle tentazioni di Gesù nel deserto (Mc 1,12-13) e l’annuncio del regno di Dio, che ormai si è fatto vicino (1,14-15): è necessario pertanto cambiare vita per potervi entrare. Con questa proclamazione la liturgia inaugura la Quaresima, tempo di prova e di conversione. Ogni cosa di valore deve essere sottoposta a “collaudo”. Nessuno può sapere se la propria fede è autentica fin quando qualche avvenimento non la mette alla prova. Se ne incarica il tempo di Quaresima. L’esortazione – che ci è stata fatta – a convertirci significa affrontare con coraggio, nel concreto quotidiano, la lotta contro lo spirito del male, che si annida nelle pieghe della nostra anima e delle culture dominanti: relativismo, consumismo, corruzione… Nel Vangelo di Marco, il racconto delle tentazioni di Gesù è brevissimo, una riga e mezza, ma assai ricco di risonanze bibliche. Si dice anzitutto che “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto”.

È lo stesso Spirito di Dio che era disceso su di lui nel battesimo, dichiarandolo Figlio prediletto, unto come Messia (1,10). Il deserto è inteso sia come luogo geografico, sia come ambiente simbolico. Era considerato luogo di lotta e anche abitazione di Satana. Lo Spirito di Dio guida Gesù là, dove egli ingaggerà una lotta mortale con Satana, dalla quale uscirà vittorioso. Egli ricapitola in sé la storia di tutti i giusti dell’antichità, che lottando hanno superato la prova. La precisazione che tale lotta durerà di quaranta giorni ricorda i quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto, e simboleggia ogni altro periodo di prova e persecuzione.

Ma la lotta di Gesù continuerà lungo tutta la sua vita pubblica: la richiesta di miracoli (8,11), l’interpretazione della Legge (10,2), le insidie dei politici, il proposito satanico di distoglierlo dalla sofferenza (8,32)… diventeranno per lui trappole, in cui però non cadrà. Gesù scelse di non essere diverso da ciascuno di noi. La predicazione cristiana più tardi dirà che “noi abbiamo un sommo sacerdote in grado di prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). Marco aggiunge che “stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (1,13). Secondo le antiche tradizioni teologiche, questa convivenza era la condizione dell’Eden: Adamo, prima del peccato, era signore di tutti gli animali, i quali lo rispettavano e lo temevano, ma dopo il peccato, gli animali feroci lo assalivano, perché non portava più l’immagine di Dio.

Gesù è il Nuovo Adamo, che ha vinto il peccato e inaugura un nuovo Eden. L’approvvigionamento da parte degli angeli allude alla sua divinità: colui che è servito dagli angeli è superiore a loro: Egli il è Figlio dell’uomo e Figlio di Dio (Eb 1-2). La seconda parte della lettura evangelica si apre con la notizia della comparsa di Gesù in Galilea dopo l’arresto di Giovanni Battista, presso il quale era andato per il battesimo nel Giordano. La notizia dell’arresto adombra in realtà l’esecuzione capitale di colui che era stato il precursore del Messia. Ora, dopo l’investitura nel battesimo da parte del Padre e la lotta vittoriosa nel deserto con l’Avversario, Gesù viene ad annunciare anzitutto la gioiosa notizia della vicinanza del regno di Dio, nel quale ora è urgente entrare, cambiando mentalità, costumi, atteggiamenti. La prima lettura riporta la conclusione del racconto del Diluvio, metafora di come l’uomo sia capace di auto-distruggersi, sommerso dalla propria violenza (Gn 6,5).

Torna ripetutamente una parola che è il filo conduttore dell’intera vicenda biblica: Alleanza. Dio sceglie di allearsi gratuitamente con l’uomo. La Scrittura mostra un Dio rammaricato per avere lasciato l’uomo in balia della propria violenza, e giura che per l’avvenire non ci saranno più sciagure simili, perché “il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla sua adolescenza” (Gn 8,21); l’avvicendarsi dei giorni, dei cicli stagionali, della semina e delle messi accompagneranno perennemente la sua storia sulla terra. Quella con Noè e i suoi figli fu la prima. Più tardi ci sarà l’Alleanza con Abramo, poi con Mosè, poi con la famiglia di Davide e finalmente con tutta l’umanità attraverso Gesù Cristo. Dio non è in competizione con l’uomo o geloso della sua libertà, come il Satana aveva suggerito fin da principio (Gn 3,5). Dio è nostro alleato, e ci propone di cercare insieme le vie di una vera libertà e della pienezza.

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Gesù è presente: incontriamolo https://www.lavoce.it/gesu-e-presente-incontriamolo-3/ Thu, 26 Jan 2012 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=809 Si è svolto giovedì 19 gennaio, a Spagliagrano, il ritiro spirituale mensile con la partecipazione numerosa del clero della diocesi. La meditazione di cui riportiamo una breve sintesi è stata svolta da mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, invitato da mons. Giovanni Marra, amministratore apostolico della diocesi. “Il contesto del ritiro mensile conferisce alla mia proposta di riflessione – ha detto mons. Crociata – il tono prevalente di una meditazione. Il clima di meditazione mi permette di porre l’accento su un aspetto che, comunque, ha un rilievo oggettivo anche quando parliamo della educazione cristiana in termini di pedagogia religiosa. Per questo motivo, mi viene spontaneo prendere spunto dal brano del Vangelo di Giovanni (1,35-42) che è stato proclamato domenica scorsa. Il ruolo decisivo che vi svolge Giovanni Battista, in rapporto ai suoi discepoli, consente di prenderlo a modello di educatore. Egli si presenta come colui che sta portando a compimento la missione di preparare la strada al messia che viene. La lunga attesa si consuma nell’atto del riconoscimento di Gesù, nell’indicazione di lui ai suoi discepoli e nel conseguente invito a seguirlo. L’educazione è l’accompagnamento verso il riconoscimento e l’incontro con una presenza. Nell’orizzonte cristiano ciò significa essere consapevoli che Gesù è già presente, ma non è visto, non viene ancora identificato né riconosciuto. All’educazione questo aspetto della pagina evangelica ha molto da dire, perché fa capire che educare non è aggiungere, sovrapporre, inserire dentro, costringere, o altro di simile”. “Da parte dell’educatore – ha proseguito – si richiede innanzitutto la convinzione che ciò che deve essere portato a maturità è già presente nell’educando, non si deve inventare. Per incontrare Cristo, per riconoscerlo presente nella propria vita, c’è bisogno di qualcuno che già lo abbia incontrato, lo conosca, lo frequenti. C’è bisogno di un testimone. L’educatore è innanzitutto un testimone. Non a caso è questo il titolo che il Vangelo di Giovanni soprattutto conferisce al Battista. Non solo il prologo, ma anche il seguito qualifica tutta la sua missione come ‘testimonianza’ (1,19). Noi preti siamo i primi educatori. Lo siamo per il ministero che abbiamo ricevuto, e lo siamo per la responsabilità che portiamo dentro le nostre comunità, noi saremo veri educatori se vivremo sempre più come se tutta l’efficacia della nostra azione dovesse dipendere dalla coerenza della nostra vita. La meta del cammino cristiano e il nostro servizio educativo è dunque l’incontro personale con Gesù e la comunione con lui. Questa è la meta della iniziazione cristiana che introduce al mistero nell’ambiente vitale della comunità per condurre a una fede adulta”. Mons. Crociata ha esortato a respingere l’illusione che ci sia una formula, una ricetta, che abbia potere risolutivo. “Dobbiamo metterci in testa – ha detto – che i problemi sono complessi e i tempi lunghi. Bisogna armarsi di pazienza e di coraggio, ma anche di passione e di speranza, cose che non possono semplicemente scaturire da ciò che osserviamo attorno a noi, ma dalla visione che la fede ci ispira e dalla forza che essa ci dona nella grazia dello Spirito santo per guardare e agire”. A partire da qui, nascono, secondo mons. Crociata, alcune esigenze come la necessità di capire le condizioni in cui si svolge la vita delle nuove generazioni per avviare un’efficace opera educativa, e la capacità di elaborare una proposta di fede adeguata alle fasce di età degli educandi.

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Gesù ti dice: “Vieni e vedi” https://www.lavoce.it/gesu-ti-dice-vieni-e-vedi/ Mon, 16 Jan 2012 08:50:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=456 Il Vangelo di questa seconda domenica del tempo ordinario presenta il terzo di una catena di quadri; essi compongono una settimana, conosciuta ordinariamente come la “settimana inaugurale” della vita pubblica di Gesù. Ogni quadro è legato al successivo per mezzo di una parola-gancio: “l’indomani”. (Verificare direttamente sui testi in Gv 1,19-2,11). A somiglianza del libro della Genesi, che comincia: “In principio Dio creò…” (Gen 1,1), il Vangelo secondo Giovanni scrive: “In principio era la Parola” (Gv 1,1). Con quelle parole la Genesi dava inizio alla prima, simbolica settimana della creazione; Giovanni evangelista alla prima settimana della nuova creazione.

Il primo quadro (1,19-28) presenta Giovanni Battista che testimonia solennemente dinanzi alle autorità religiose, ufficialmente inviate dal Tempio, di non essere il Messia, ma solo una voce mandata a prepararne la venuta. Il battesimo che egli amministra è solo un segno di quello che amministrerà Colui che verrà. Nel secondo quadro, introdotto da “L’indomani” (1,29-34) Giovanni Battista domina ancora la scena, ma già compare di passaggio Gesù, che egli indica alle folle come “l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo”. Egli è il Messia che battezzerà in Spirito santo.

Del terzo quadro (1,35-42), che è la lettura liturgica di oggi, parleremo fra poco. Nel quarto quadro (1,43-51), introdotto ancora dall’espressione “l’indomani”, Giovanni Battista è ormai scomparso; Gesù, unico protagonista, coopta altri due discepoli, Filippo di Betsaida e il suo amico Natanaele di Cana. L’ultimo quadro è introdotto dalle parole: “Tre giorni dopo”. L’episodio delle nozze di Cana. Siamo al settimo giorno: Gesù opera il suo primo miracolo, sollecitato da sua madre. L’evangelista dice che questo fu il primo “segno”, con cui Gesù mostrò la sua gloria al primo gruppetto di discepoli.

Torniamo alla lettura evangelica di oggi. Due discepoli di Giovanni Battista, uno dei quali si chiama Andrea, si staccano dal loro maestro per mettersi al seguito del Maestro, incuriositi dalle parole udite: “Quello che vedete passare là, è l’Agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo”. Quelle parole dovettero evocare in loro la figura del Servo del Signore di cui aveva parlato il profeta Isaia, quando scrisse: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).

Allora gli si misero alle calcagna, silenziosi, forse un po’ vergognosi. Finalmente vedevano Colui, che molti aspettavano, di cui si parlava nelle riunioni in sinagoga, ma che nessuno sapeva quando sarebbe arrivato. Cercavano di saperne di più. Venne loro in aiuto lui stesso, che si fermò, si voltò e chiese: “Che cercate?”. Non trovarono le parole giuste per rispondere direttamente e balbettarono: “Maestro, dove abiti?”. Neanche Lui ripose direttamente, dando l’indirizzo di casa, ma disse significativamente: “Venite e vedrete”. Andarono con lui, videro, e rimasero tutta la giornata. L’evangelista precisa che era verso le quattro del pomeriggio.

Questo breve resoconto contiene gli elementi essenziali di come si diventa discepoli di Gesù, ossia cristiani; allora come oggi. All’inizio c’è uno che annuncia: “Passa il Signore”. Tra gli ascoltatori alcuni rimangono incuriositi e si mettono in cerca della verità. Poi interviene lui: “Che cosa volete?”. Lì per lì nemmeno sai bene che cosa vuoi e domandi a tua volta: “Dove abiti?”. Lui non ti fa discorsi sofisticati per invogliarti a seguirlo, ma ti dice semplicemente: “Vieni e vedi”. Se hai la pazienza e l’umiltà di andare a vedere, ti accadrà che resterai con lui tutto il giorno. Da lì comincerà a prendere senso la tua vita e non riuscirai più a dimenticare quell’incontro; ti ricorderai anche dei minimi dettagli. “Era verso le quattro del pomeriggio”. E non potrai fare a meno di raccontarlo.

Fu ciò che accadde ad Andrea, uno dei due, che erano andati a vedere. Incontrò suo fratello Simone e senza altri preamboli gli disse: “Abbiamo trovato il Messia”. E lo condusse da Gesù, che lo fissò, pronunciò il suo vecchio nome e patronimico, Simone di Giovanni, e glielo cambiò: “D’ora in poi ti chiameranno Roccia”. Erano i primi tre cristiani. Tre fa un gruppo. Era nata la Chiesa: Gesù era il capo e Roccia il suo vicario. La prima lettura, dall’Antico Testamento, presenta un’altra chiamata, quella del ragazzo Samuele. Di lui è scritto che si sentì chiamare direttamente da Dio, ma che lì per lì non capì di che cosa si trattava, finché il vecchio prete del santuario, Eli, non lo aiutò a capire che si trattava proprio della voce di Dio. Gesù chiamerà al suo seguito uomini adulti; più tardi ci saranno anche donne. Ma la storia di Samuele mostra che Dio chiama anche ragazzi.

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Il Mistero si è reso visibile https://www.lavoce.it/il-mistero-si-e-reso-visibile/ Tue, 03 Jan 2012 08:03:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=396 La parola che ricorre in tutto il tempo di Avvento è: aspettate, vigilate, il Signore verrà. I verbi tutti al futuro. Perfino il giorno della vigilia, Isaia scrutava ancora il lontano orizzonte e diceva di sé: “Non mi concederò riposo finché non sorga, come aurora la sua giustizia….” (Is 62,1). Ancora al futuro. L’attesa. All’inizio dell’Avvento – ricordiamo – in preda all’angoscia, aveva gridato: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi…” (63,19). Dio si nascondeva, apparentemente ignaro dei mali che affliggevano il suo popolo.

Nella liturgia della domenica successiva, la seconda d’Avvento, ancora Isaia esortava gli esuli di Babilonia a preparare la via, lungo la quale tutti avrebbero visto la sua gloria (40,3). Gli faceva eco Giovanni Battista: “Raddrizzate i suoi sentieri” (Mc 1,3), perché su di essi arriverà colui che aspettate. E nella terza domenica insisteva: coraggio! “Dio farà germogliare la giustizia dalla terra” (61,11). E Giovanni il Battista parlava di Uno che verrà.
Dopo tante promesse, finalmente questa notte ci è dato assistere alla loro realizzazione: il profeta scoppia di gioia, annunciando che “un bimbo è nato per noi” (Is 9,6). Un neonato straordinario, un vero miracolo di Dio; lo chiameranno “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (9,7), destinato a regnare come Davide. E nella messa del giorno, alla prima lettura, è ancora Isaia a cantare lo stupore per la notizia inaspettata: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace” (52,7).

Per noi occidentali moderni, prosaici, disabituati alla poesia, ci appare quasi incomprensibile che qualcuno si commuova a contemplare i piedi di un antico portaordini, appiedato, che arranca su per i monti. Per quel poeta che era Isaia, non sono i piedi ad essere belli, ma la gioia per la lieta notizia, che su quei piedi correva. (Non trovate che il profeta/poeta abbia anticipato di due millenni e mezzo il cameraman che, prima di inquadrare il paesaggio, inquadra i piedi del messaggero, poi lentamente allarga sulla sua persona e finalmente sui monti?). L’annuncio fu diretto, per primi, ai giudei esuli in Babilonia, sterminata pianura.

L’accenno ai monti dovette richiamare loro la Giudea montagnosa, “i monti che cingono Gerusalemme” (Sl 125,2). A noi richiama i monti attorno a Betlemme, e un messaggero celeste che i pittori hanno rappresentato con le ali. La lieta notizia, questa volta, non è per qualcosa che avverrà, ma per qualcosa di già avvenuto: non gli dèi di Babilonia, ma Dio regna. Non è Cesare Augusto il vero re, ma quel bimbo sconosciuto ai grandi dell’impero. Alla voce del portatore della lieta notizia si aggiungono le voci delle sentinelle che vegliano sulle mura, anzi sulle rovine di Gerusalemme; poi alla voce si aggiunge il “vedere”.

Le sentinelle vedono “con gli occhi” il ritorno del Signore in Gerusalemme. Poi le rovine stesse di Gerusalemme entrano nel coro e prorompono in canti di gioia. Prima è solo una voce solista, poi vi si aggiunge il coro delle sentinelle, ora è un’intera città, ancora in rovina, che giubila, perché Dio si è fatto presente visibilmente, liberando il suo popolo. Il tempo del suo nascondimento è passato. Dopo qualche secolo, alla voce del messaggero celeste che annuncia la nascita del Salvatore si unirà quella di un coro sterminato, che dava gloria a Dio e augurava pace agli uomini (Lc 2,13). Questa notte Dio si è reso concretamente visibile, come allora, quando tornò a Gerusalemme, insieme a tutto il suo popolo (Is 52,8).

“Quando apparvero la tenerezza di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia…” (Tt 3,4-5). Con queste parole, Paolo – nella seconda lettura della messa dell’aurora – ricorda al suo discepolo Tito il cuore dell’annuncio cristiano: Dio si è rivelato come tenerezza. Che cosa c’è di più tenero di un neonato? Il mistero, rimasto velato per secoli e millenni, questa notte è diventato visibile “con gli occhi”.

Le antiche Scritture ne avevano già parlato, ma nessuno lo aveva ancora visto. Ora, per primi, lo vedono alcuni pecorai, lo riconoscono, e quando tornano lo dicono a tutti. Fra qualche settimana, nella liturgia, udremo il vecchio Simeone esclamare: “Ora, Signore, lasciami pure morire in pace, perché i miei occhi hanno visto il Salvatore”. I biografi di san Francesco narrano che a Greccio organizzò un presepio vivente, perché desiderava “vedere con gli occhi del corpo” il mistero di Dio divenuto bambino in fasce, bisognoso di tutto.

Alcuni decenni più tardi, Giovanni, figlio di Zebedeo di Betsaida, fratello di Giacomo, ed evangelista, ormai vecchio, ricco di esperienza e di riflessione, raccoglierà tutto in una sintesi ineguagliata, annunciando che “la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda fra di noi” (Gv 1,18).

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Dio? Lo si si trova nel deserto https://www.lavoce.it/dio-lo-si-si-trova-nel-deserto/ Thu, 29 Dec 2011 07:39:35 +0000 https://www.lavoce.it/?p=183 Le tre letture liturgiche di questa seconda domenica di Avvento marcano tre momenti fondamentali della storia del salvezza. Isaia, nella prima lettura, profetizza la venuta gloriosa di Dio in mezzo ad un popolo senza speranza (Is 40,1-11). Nella proclamazione del vangelo, appare la figura di Giovanni il Battista, nel quale si compie la profezia di Isaia (Mc 1,1-3). Nella seconda lettura san Pietro discorre sui tempi e i significati della venuta del Signore (1 Pt 3,8-14).
L’ambiente in cui tutto questo avviene è il deserto. Nelle narrazioni bibliche il deserto è molto più che un luogo geografico; è la cifra che allude alla solitudine dell’uomo, alla sua impotenza dinanzi alla vastità, alla necessità che Qualcuno lo soccorra, altrimenti ne è risucchiato e distrutto. Alcuni nostri contemporanei, credenti e non, tentano l’esperienza del deserto, forse in cerca di qualcosa che li ponga davanti a se stessi, riveli loro l’origine del tutto, i destini, Dio. Nell’Antico Testamento il deserto evoca il male, la paura, il luogo dove la vita è impossibile; ma è anche il luogo ideale del primo incontro con Dio, della sua rivelazione, il tempo del fidanzamento (Gr 2,2), la nostalgia.

È il luogo della lunga marcia del popolo liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Lì sperimentò fame, sete, malattia, ma anche la vicinanza di Colui che li sfamò, li dissetò, li guarì. Nel Nuovo Testamento è il luogo dell’incontro con Dio attraverso la prova e la purificazione: Gesù vi si ritira per pregare, per essere tentato, per moltiplicare il pane. Giovanni Battista lo percorre, annunciando la prossima apparizione del Messia. Il deserto è anche lo sfondo della liturgia di oggi: la predicazione di Isaia e di Giovanni Battista. La figura del profeta Isaia attraversa interamente il tempo d’Avvento.

Domenica scorsa lo abbiamo ascoltato in quel brano di poesia assoluta, che intrecciava invocazioni, lamenti, rimproveri a Dio. Oggi lo ascolteremo nell’apertura della seconda parte del suo libro, tradizionalmente detto “libro della consolazione”. v “Consolate, consolate il mio popolo… e gridatele che la sua tribolazione è compiuta”. Di che tribolazione sta parlando? Quando il profeta dà inizio a questa predicazione, è trascorso oltre mezzo secolo da che Gerusalemme è stata distrutta dalle truppe babilonesi e gran parte della popolazione deportata. Nei giorni tristi dell’esilio, il pensiero dominante del popolo era che gli dèi di Babilonia fossero più potenti del Dio di Israele; infatti lo hanno vinto. Pertanto non c’è speranza di tornare in patria.

Il popolo è ormai un lucignolo fumigante (Is 42,3) che aspetta solo di spegnersi del tutto. A questo punto di massimo scoraggiamento, giunge inaspettato un grido: “La sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dal Signore il doppio per tutti i suoi peccati” (40,2). La liberazione è divenuta possibile. Ma è necessaria la collaborazione del popolo: “Nel deserto preparate la via al Signore”. Fra Gerusalemme e Babilonia c’è il deserto arabo-siriano; terreno fortemente accidentato, allora assolutamente senza strade. Lì bisognava preparare la via.

Ma questo era solo il simbolo di ciò che realmente il profeta chiedeva: cioè la decisione di uscire, credendo che Dio ora lo rendeva possibile, perché Egli è Colui che fa passare per dove non ci sono strade. Lì avrebbero incontrato la sua Gloria, che si sarebbe manifestata a tutti. Questa è una certezza assoluta, “perché la bocca del Signore ha parlato” (40,5). Il profeta insiste ancora: la notizia sia annunciata a Gerusalemme, con voce potente, da “un alto monte” (40,9); “Ecco il vostro Dio!” – e lo indica, mentre si avvicina, come un potente che porta con sé in premio la libertà. Ma ha anche la dolcezza del pastore che fa pascolare il gregge, che “porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (40,11).

“Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (Mc 1,1). L’espressione è ben più ricca di quanto appare a prima vista; non intende, cioè, dire: qui incomincia il libro. Sarebbe fin troppo ovvio. Forse la possiamo parafrasare così: ecco come inizia l’annuncio della buona novella: “Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”. Questo è il cuore dell’annuncio cristiano, oggi come al tempo di Marco.

Il tutto si apre storicamente con la comparsa di Giovanni il battezzatore, figlio di Zaccaria, nel deserto, che ne annuncia prossima la venuta. Si compiono così le profezie di Isaia (40,3) e di Malachia, che aveva lasciato scritta una parola consegnatagli da Dio: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio Messaggero: egli preparerà la tua via” (Mal 3,23). Giovanni è descritto come un antico profeta, nell’abbigliamento e nella dieta. Vive percorrendo la valle inferiore del Giordano, dove tanta gente lo raggiunge, per entrare in un cammino di conversione, attraverso il battesimo. Egli intanto annuncia che sta per arrivare Uno più forte di lui, che battezzerà in Spirito santo (Mc 1,8).

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Dio? Lo si si trova nel deserto https://www.lavoce.it/dio-lo-si-si-trova-nel-deserto-2/ Thu, 01 Dec 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9818 Le tre letture liturgiche di questa seconda domenica di Avvento marcano tre momenti fondamentali della storia del salvezza. Isaia, nella prima lettura, profetizza la venuta gloriosa di Dio in mezzo ad un popolo senza speranza (Is 40,1-11). Nella proclamazione del vangelo, appare la figura di Giovanni il Battista, nel quale si compie la profezia di Isaia (Mc 1,1-3). Nella seconda lettura san Pietro discorre sui tempi e i significati della venuta del Signore (1 Pt 3,8-14). L’ambiente in cui tutto questo avviene è il deserto.

Nelle narrazioni bibliche il deserto è molto più che un luogo geografico; è la cifra che allude alla solitudine dell’uomo, alla sua impotenza dinanzi alla vastità, alla necessità che Qualcuno lo soccorra, altrimenti ne è risucchiato e distrutto. Alcuni nostri contemporanei, credenti e non, tentano l’esperienza del deserto, forse in cerca di qualcosa che li ponga davanti a se stessi, riveli loro l’origine del tutto, i destini, Dio. Nell’Antico Testamento il deserto evoca il male, la paura, il luogo dove la vita è impossibile; ma è anche il luogo ideale del primo incontro con Dio, della sua rivelazione, il tempo del fidanzamento (Gr 2,2), la nostalgia.

È il luogo della lunga marcia del popolo liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Lì sperimentò fame, sete, malattia, ma anche la vicinanza di Colui che li sfamò, li dissetò, li guarì. Nel Nuovo Testamento è il luogo dell’incontro con Dio attraverso la prova e la purificazione: Gesù vi si ritira per pregare, per essere tentato, per moltiplicare il pane. Giovanni Battista lo percorre, annunciando la prossima apparizione del Messia. Il deserto è anche lo sfondo della liturgia di oggi: la predicazione di Isaia e di Giovanni Battista.La figura del profeta Isaia attraversa interamente il tempo d’Avvento. Domenica scorsa lo abbiamo ascoltato in quel brano di poesia assoluta, che intrecciava invocazioni, lamenti, rimproveri a Dio. Oggi lo ascolteremo nell’apertura della seconda parte del suo libro, tradizionalmente detto “libro della consolazione”. “Consolate, consolate il mio popolo… e gridatele che la sua tribolazione è compiuta”.

Di che tribolazione sta parlando? Quando il profeta dà inizio a questa predicazione, è trascorso oltre mezzo secolo da che Gerusalemme è stata distrutta dalle truppe babilonesi e gran parte della popolazione deportata. Nei giorni tristi dell’esilio, il pensiero dominante del popolo era che gli dèi di Babilonia fossero più potenti del Dio di Israele; infatti lo hanno vinto. Pertanto non c’è speranza di tornare in patria. Il popolo è ormai un lucignolo fumigante (Is 42,3) che aspetta solo di spegnersi del tutto. A questo punto di massimo scoraggiamento, giunge inaspettato un grido: “La sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dal Signore il doppio per tutti i suoi peccati” (40,2).

La liberazione è divenuta possibile. Ma è necessaria la collaborazione del popolo: “Nel deserto preparate la via al Signore”. Fra Gerusalemme e Babilonia c’è il deserto arabo-siriano; terreno fortemente accidentato, allora assolutamente senza strade. Lì bisognava preparare la via. Ma questo era solo il simbolo di ciò che realmente il profeta chiedeva: cioè la decisione di uscire, credendo che Dio ora lo rendeva possibile, perché Egli è Colui che fa passare per dove non ci sono strade. Lì avrebbero incontrato la sua Gloria, che si sarebbe manifestata a tutti. Questa è una certezza assoluta, “perché la bocca del Signore ha parlato” (40,5).

Il profeta insiste ancora: la notizia sia annunciata a Gerusalemme, con voce potente, da “un alto monte” (40,9); “Ecco il vostro Dio!” – e lo indica, mentre si avvicina, come un potente che porta con sé in premio la libertà. Ma ha anche la dolcezza del pastore che fa pascolare il gregge, che “porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (40,11). “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (Mc 1,1). L’espressione è ben più ricca di quanto appare a prima vista; non intende, cioè, dire: qui incomincia il libro. Sarebbe fin troppo ovvio. Forse la possiamo parafrasare così: ecco come inizia l’annuncio della buona novella: “Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”. Questo è il cuore dell’annuncio cristiano, oggi come al tempo di Marco.

Il tutto si apre storicamente con la comparsa di Giovanni il battezzatore, figlio di Zaccaria, nel deserto, che ne annuncia prossima la venuta. Si compiono così le profezie di Isaia (40,3) e di Malachia, che aveva lasciato scritta una parola consegnatagli da Dio: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio Messaggero: egli preparerà la tua via” (Mal 3,23). Giovanni è descritto come un antico profeta, nell’abbigliamento e nella dieta. Vive percorrendo la valle inferiore del Giordano, dove tanta gente lo raggiunge, per entrare in un cammino di conversione, attraverso il battesimo. Egli intanto annuncia che sta per arrivare Uno più forte di lui, che battezzerà in Spirito santo (Mc 1,8).

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Sentinelle per i nostri fratelli https://www.lavoce.it/sentinelle-per-i-nostri-fratelli/ Thu, 11 Aug 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9586 La liturgia di questa domenica si apre con un termine insolito nel contesto liturgico: “sentinella”. È come uno squillo di tromba che mette in moto la nostra curiosità. La sentinella e il profeta. A prima vista sembrano due grandezze distanti. Eppure Dio dice al profeta Ezechiele: “Ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele” (Ez 33,1). A somiglianza della sentinella il profeta ha il compito di avvertire. Chi? Il malvagio, che è sovrastato da un pericolo mortale, a causa della sua malvagità. Di fronte alla prima lettura, come del resto accade ogni domenica, c’è la lettura evangelica, compimento della profezia di Ezechiele.

Vengono in mente le parole di sant’Agostino: “Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e l’Antico Testamento si manifesta pienamente nel Nuovo”. Abbiamo ascoltato le parole di Gesù: “Se tuo fratello commette una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo” (Mt 18,15). Il fratello di cui si parla è evidentemente un membro della comunità cristiana, verso cui ognuno di noi ha lo stesso obbligo che ebbe il profeta Ezechiele. L’insegnamento di Gesù è rivolto a una comunità di fratelli. Se pensiamo di poterlo estendere all’intera società civile, esso appare del tutto impraticabile. Immaginate quale sarebbe la reazione di un signore che incontrate per strada, noto evasore fiscale, se lo ammonite di fare il suo dovere di cittadino? Nel migliore dei casi vi direbbe: “Lei come si permette? Io ho la mia coscienza. Lei pensi alla sua”, e simili.

La nostra è una società profondamente individualista, dove ognuno si regola secondo i propri punti di vista, in modo integralmente autoreferenziale, senza accettare lezioni morali da nessuno. Vedi anche le frequenti esternazioni di alcuni nostri politici. Un tempo la comunità cristiana coincideva in qualche modo con quella civile, con tutti i limiti e le contraddizioni che sappiamo. Allora era concepibile che uno si occupasse della salvezza dell’altro. Quei tempi non esistono più. La realtà storica della comunità cristiana però rimane intatta; da lì potrebbe avere inizio una nuova forma di civiltà, in cui l’altro non è più un estraneo, ma un fratello di cui ti devi prendere pensiero.

Ognuno di noi è chiamato a custodire suo fratello. Solo così si capisce l’insegnamento di Gesù, che non si pone su un piano moralistico, ma esistenziale: se tuo fratello è evidentemente in errore, rischia la sua vita e tu non puoi ignorarlo, perché essa ti è data in custodia. Purtroppo la mentalità individualista del mondo ha contagiato dall’interno anche la comunità cristiana. Si tratta di fare un salto di qualità: passare da una concezione individualistica della vita a una visione comunitaria. Ricordiamo la Parola della Genesi: “Dov’è Abele tuo fratello? – Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9) Quella risposta tentava di coprire un assassinio.

C’è un’altra domanda che ci sonnecchia dentro: chi mi autorizza a giudicare mio fratello? Ricordo anche quell’altra parola di Gesù: “Perché cerchi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, tu che hai una trave nel tuo” (Mt 7,3). E anche: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). La lettura di Ezechiele suggerisce la direzione della risposta: “Se senti una parola della mia bocca, avvertili da parte mia” (33,7). Non ci paia strana la possibilità di udire una Parola del Signore. Dio parla in molti modi. Se ascoltiamo la nostra coscienza, possiamo udirla. Essa ci chiede di domandarci anzitutto se ciò che vorremmo dire al fratello viene da Dio o dalle nostre insofferenze verso di lui. Lo facciamo per aiutare lui/lei, o per innalzare noi stessi ai suoi occhi? Se siamo sinceri con noi stessi, Dio lo farà capire. Conviene riflettere anche sulle altre parole che Dio dice al profeta “Se io dico al malvagio: ‘Malvagio, tu morirai’, e tu non parli, perché il malvagio desista dalla sua condotta, il malvagio morirà per la sua iniquità, ma della sua morte domanderò conto a te” (Ez 33,1).

Non ci possiamo sottrarre al confronto con questa Parola severa. Essa ci riguarda, perché Dio, come si è detto, ci ha fatto custodi della vita del fratello. Tuttavia per dichiarare al fratello il suo errore, è necessario molto amore per lui, molta umiltà e anche la consapevolezza che si può diventare oggetto di antipatia e talvolta di odio da parte sua. Quando ci mettono dinanzi il nostro errore, non tendiamo certo a gratificare chi lo fa. Per questo, in genere, ce ne asteniamo. Per paura. Così la paura continua a essere la protagonista delle nostre opache relazioni interpersonali. Giovanni Battista, che abbiamo ripetutamente incontrato nelle liturgie domenicali, non ebbe paura di dichiarare la verità neanche di fronte al suo re, che pure rispettava. La verità gli fu più cara della propria vita.

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