Gesù Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/gesu/ Settimanale di informazione regionale Thu, 07 Dec 2023 09:51:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Gesù Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/gesu/ 32 32 Perenne bellezza del presepio https://www.lavoce.it/perenne-bellezza-del-presepio/ https://www.lavoce.it/perenne-bellezza-del-presepio/#respond Wed, 06 Dec 2023 15:07:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=74211 presepe con san Giuseppe, Maria, Gesù Bambino, il bue,l'asinello e due Re Magi

di Giovanni M. Capetta

In Avvento ha un significato unico e profondo e dà forma tangibile alla nostra attesa del Natale la preparazione del presepio. Una tradizione che proprio quest’anno festeggia un anniversario importante: sono infatti trascorsi esattamente 800 anni da quel Natale del 1223 in cui Francesco d’Assisi, reduce dalla Terra Santa, vide nelle grotte del paesino laziale di Greccio una somiglianza con Betlemme e manifestò il geniale desiderio di rievocare tangibilmente in quel luogo la nascita di Gesù.

Naturalmente i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’avvenimento. Tuttavia la sua rappresentazione nel presepe aiuta a immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce.

In molti borghi e presso non poche parrocchie si usa ancora organizzare presepi viventi secondo l’intuizione francescana e così “vedere con gli occhi del corpo i disagi” (questa l’espressione dell’Assisiate) in cui si è trovato Gesù appena nato; ma è con lo stesso spirito che milioni di famiglie nel mondo in questi giorni preparano il loro presepe, che inevitabilmente sarà diverso da ogni altro presepe, eppure rievoca lo stesso evento di salvezza di un Dio che si fa uomo in un bambino avvolto in fasce, in una mangiatoia.

Già a Betlemme, la “casa del pane”, scorgiamo la volontà di Dio che il Figlio si doni a noi con il suo corpo: quanta profondità di mistero! Eppure la rappresentazione plastica del presepio si affianca a questa verità teologica attraverso la bellezza e lo stupore, vie privilegiate per i cuori e le menti più semplici. In ogni casa in cui ci siano dei figli ancora piccoli, o degli adulti che si ricordino di essere stati bambini, tutti sanno dov’è riposto l’occorrente per l’allestimento messo via con cura un anno prima.

Possono essere antichi e monumentali, dal grande valore artistico o moderni e simbolici… Si differenziano i materiali, gli sfondi, le scenografie, i modi di riprodurre il cielo stellato; le statuine mutano di foggia a seconda delle città e delle nazioni, sono tante o poche, rappresentano la sacra famiglia, gli angeli, i pastori, ma anche tanti uomini e donne intenti nelle più diverse attività quotidiane… Attraverso il presepe, di generazione in generazione si trasmette la genuinità della fede in quell’evento di salvezza sempre nuova: Gesù viene nelle nostre case, così come noi andiamo da lui, immedesimandoci chi in uno, chi in un altro dei tanti personaggi che nella nostra rappresentazione si avvicinano a quel bambino appena nato.

Tutte le case in cui un presepe, con le sue piccole luci, attrae l’attenzione di chi entra, divengono davvero chiese domestiche ed è bello fermarsi per almeno qualche secondo di contemplazione. Quel manufatto è il frutto della collaborazione di tutti e anche chi dispone una pecorella in ultima fila dà un contributo che ha il suo valore. Il presepio ci comunica la verità di un Dio che nel nascondimento, senza clamore, continua a tessere i fili della storia e infonde fiducia anche nell’uomo più scoraggiato.

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presepe con san Giuseppe, Maria, Gesù Bambino, il bue,l'asinello e due Re Magi

di Giovanni M. Capetta

In Avvento ha un significato unico e profondo e dà forma tangibile alla nostra attesa del Natale la preparazione del presepio. Una tradizione che proprio quest’anno festeggia un anniversario importante: sono infatti trascorsi esattamente 800 anni da quel Natale del 1223 in cui Francesco d’Assisi, reduce dalla Terra Santa, vide nelle grotte del paesino laziale di Greccio una somiglianza con Betlemme e manifestò il geniale desiderio di rievocare tangibilmente in quel luogo la nascita di Gesù.

Naturalmente i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’avvenimento. Tuttavia la sua rappresentazione nel presepe aiuta a immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce.

In molti borghi e presso non poche parrocchie si usa ancora organizzare presepi viventi secondo l’intuizione francescana e così “vedere con gli occhi del corpo i disagi” (questa l’espressione dell’Assisiate) in cui si è trovato Gesù appena nato; ma è con lo stesso spirito che milioni di famiglie nel mondo in questi giorni preparano il loro presepe, che inevitabilmente sarà diverso da ogni altro presepe, eppure rievoca lo stesso evento di salvezza di un Dio che si fa uomo in un bambino avvolto in fasce, in una mangiatoia.

Già a Betlemme, la “casa del pane”, scorgiamo la volontà di Dio che il Figlio si doni a noi con il suo corpo: quanta profondità di mistero! Eppure la rappresentazione plastica del presepio si affianca a questa verità teologica attraverso la bellezza e lo stupore, vie privilegiate per i cuori e le menti più semplici. In ogni casa in cui ci siano dei figli ancora piccoli, o degli adulti che si ricordino di essere stati bambini, tutti sanno dov’è riposto l’occorrente per l’allestimento messo via con cura un anno prima.

Possono essere antichi e monumentali, dal grande valore artistico o moderni e simbolici… Si differenziano i materiali, gli sfondi, le scenografie, i modi di riprodurre il cielo stellato; le statuine mutano di foggia a seconda delle città e delle nazioni, sono tante o poche, rappresentano la sacra famiglia, gli angeli, i pastori, ma anche tanti uomini e donne intenti nelle più diverse attività quotidiane… Attraverso il presepe, di generazione in generazione si trasmette la genuinità della fede in quell’evento di salvezza sempre nuova: Gesù viene nelle nostre case, così come noi andiamo da lui, immedesimandoci chi in uno, chi in un altro dei tanti personaggi che nella nostra rappresentazione si avvicinano a quel bambino appena nato.

Tutte le case in cui un presepe, con le sue piccole luci, attrae l’attenzione di chi entra, divengono davvero chiese domestiche ed è bello fermarsi per almeno qualche secondo di contemplazione. Quel manufatto è il frutto della collaborazione di tutti e anche chi dispone una pecorella in ultima fila dà un contributo che ha il suo valore. Il presepio ci comunica la verità di un Dio che nel nascondimento, senza clamore, continua a tessere i fili della storia e infonde fiducia anche nell’uomo più scoraggiato.

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Maria Maddalena, l’apostola degli apostoli https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/ https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/#respond Fri, 01 Dec 2023 18:50:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57088

Maria Maddalena, personaggio del Vangelo che la tradizione ha spesso confuso. Simbolo collettivo del ruolo da protagonista della donna nel cristianesimo a prima creatura che Gesù appena risorto ha voluto incontrare è stata Maria di Magdala, a cui ha affidato il compito del “primissimo annuncio” cioè di rendere edotti dell’Evento gli altri discepoli. Tale “annuncio” - ha ricordato Papa Francesco - si colloca “tra la gioia della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro vuoto”. Se si rimane fissi a guardare il sepolcro, senza capire la Parola di resurrezione, prevale l’opzione finale “per il dio denaro”. Il riferimento è ai sommi sacerdoti che pagarono le guardie perché testimoniassero il falso e dicessero: Gesù non è risorto, i suoi discepoli hanno trafugato il corpo per farlo credere risuscitato. Maria di Magdala, fedele seguace di Gesù, fu la prima a “predicare l’Annuncio” del Figlio di Dio crocifisso e risorto. Per questo Papa Francesco (con decreto 3 giugno 2016 della Congregazione per il culto divino) ha reso più solenne la  memoria di questa donna elevandola allo stesso grado delle feste che celebrano gli apostoli. Tale istituzione non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe nella mentalità delle “quote rosa”. Il significato è ben altro: non a caso Tommaso d’Aquino la definì “apostola degli apostoli”. Nel Prefazio è ora scritto de apostolorum apostola. Lei, la prima “mandata da” (questo significa “apo-stolo”): mandata dal Risorto a “istruire” gli Undici.

La Maddalena

Nei Vangeli si legge che Maria era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade. Sotto lo stesso nome di Maria Maddalena, forse per la necessità di armonizzare racconti simili, sono state unificate donne diverse: la Maddalena, liberata dai sette demoni, interpretati come segno di vita dissoluta (Mc 16,9; Lc 8,2); l’anonima prostituta che bagna di lacrime i piedi di Gesù cospargendoli di profumo (Lc 7,36-50); Maria di Betania, descritta come colei che unge i piedi del Nazareno con costosa essenza di nardo asciugandoli con i suoi capelli (Gv 12,1-8); l’anonima donna che, nella casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Gesù “un profumo molto prezioso”. Un lungo processo di alterazione e di ridimensionamento ci consegna una figura di peccatrice e di pentita, nella quale si fondono bellezza sensuale e mortificazione del corpo. Necessita rimuovere tabù, equivoci e manipolazioni, ribadendo con coraggio i ruoli avuti dalle donne fin dalle origini nel cuore del cristianesimo. Il “caso Maria Maddalena” va quindi inserito nella più ampia analisi della presenza delle donne nella Storia in vista di una ricostruzione di modelli relazionali più consoni a una Chiesa inclusiva, che sia in accordo con la dottrina egualitaria che Gesù ha messo in atto nei confronti delle donne.

La Chiesa è femminile

Per questo occorrerebbe ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo il principio di corresponsabilità battesimale e apostolica. Mettere al centro il messaggio evangelico e l’affermazione di un discepolato di eguali. Ciò, per Bergoglio, è invitare la Chiesa a parlare su se stessa; il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine Maria quella che aiuta la Chiesa a crescere! La Madonna è più importante degli apostoli! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Idee che ha ribadito giovedì 30 novembre incontrando i membri della Commissione teologica internazionale: “La Chiesa è donna. E se noi non sappiamo capire cos’è una donna, cos’è la teologia di una donna, mai capiremo cos’è la Chiesa. Uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è ‘maschilizzare’ la Chiesa”. In conclusione, “l’Annuncio delegato da Gesù risorto alla Maddalena” investe la stessa identità del cristianesimo, perché pone domande cruciali sul ruolo delle donne nella Chiesa, sul monopolio maschile del patrimonio teologico-dottrinale e sugli apparati istituzionali che hanno contribuito storicamente all’emarginazione femminile. Pier Luigi Galassi]]>

Maria Maddalena, personaggio del Vangelo che la tradizione ha spesso confuso. Simbolo collettivo del ruolo da protagonista della donna nel cristianesimo a prima creatura che Gesù appena risorto ha voluto incontrare è stata Maria di Magdala, a cui ha affidato il compito del “primissimo annuncio” cioè di rendere edotti dell’Evento gli altri discepoli. Tale “annuncio” - ha ricordato Papa Francesco - si colloca “tra la gioia della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro vuoto”. Se si rimane fissi a guardare il sepolcro, senza capire la Parola di resurrezione, prevale l’opzione finale “per il dio denaro”. Il riferimento è ai sommi sacerdoti che pagarono le guardie perché testimoniassero il falso e dicessero: Gesù non è risorto, i suoi discepoli hanno trafugato il corpo per farlo credere risuscitato. Maria di Magdala, fedele seguace di Gesù, fu la prima a “predicare l’Annuncio” del Figlio di Dio crocifisso e risorto. Per questo Papa Francesco (con decreto 3 giugno 2016 della Congregazione per il culto divino) ha reso più solenne la  memoria di questa donna elevandola allo stesso grado delle feste che celebrano gli apostoli. Tale istituzione non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe nella mentalità delle “quote rosa”. Il significato è ben altro: non a caso Tommaso d’Aquino la definì “apostola degli apostoli”. Nel Prefazio è ora scritto de apostolorum apostola. Lei, la prima “mandata da” (questo significa “apo-stolo”): mandata dal Risorto a “istruire” gli Undici.

La Maddalena

Nei Vangeli si legge che Maria era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade. Sotto lo stesso nome di Maria Maddalena, forse per la necessità di armonizzare racconti simili, sono state unificate donne diverse: la Maddalena, liberata dai sette demoni, interpretati come segno di vita dissoluta (Mc 16,9; Lc 8,2); l’anonima prostituta che bagna di lacrime i piedi di Gesù cospargendoli di profumo (Lc 7,36-50); Maria di Betania, descritta come colei che unge i piedi del Nazareno con costosa essenza di nardo asciugandoli con i suoi capelli (Gv 12,1-8); l’anonima donna che, nella casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Gesù “un profumo molto prezioso”. Un lungo processo di alterazione e di ridimensionamento ci consegna una figura di peccatrice e di pentita, nella quale si fondono bellezza sensuale e mortificazione del corpo. Necessita rimuovere tabù, equivoci e manipolazioni, ribadendo con coraggio i ruoli avuti dalle donne fin dalle origini nel cuore del cristianesimo. Il “caso Maria Maddalena” va quindi inserito nella più ampia analisi della presenza delle donne nella Storia in vista di una ricostruzione di modelli relazionali più consoni a una Chiesa inclusiva, che sia in accordo con la dottrina egualitaria che Gesù ha messo in atto nei confronti delle donne.

La Chiesa è femminile

Per questo occorrerebbe ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo il principio di corresponsabilità battesimale e apostolica. Mettere al centro il messaggio evangelico e l’affermazione di un discepolato di eguali. Ciò, per Bergoglio, è invitare la Chiesa a parlare su se stessa; il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine Maria quella che aiuta la Chiesa a crescere! La Madonna è più importante degli apostoli! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Idee che ha ribadito giovedì 30 novembre incontrando i membri della Commissione teologica internazionale: “La Chiesa è donna. E se noi non sappiamo capire cos’è una donna, cos’è la teologia di una donna, mai capiremo cos’è la Chiesa. Uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è ‘maschilizzare’ la Chiesa”. In conclusione, “l’Annuncio delegato da Gesù risorto alla Maddalena” investe la stessa identità del cristianesimo, perché pone domande cruciali sul ruolo delle donne nella Chiesa, sul monopolio maschile del patrimonio teologico-dottrinale e sugli apparati istituzionali che hanno contribuito storicamente all’emarginazione femminile. Pier Luigi Galassi]]>
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“Signore, fino a quando?” https://www.lavoce.it/signore-fino-a-quando/ Wed, 14 Dec 2022 17:12:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=69600

di Giovanni Capetta

Quando siamo nella prova, spesso ci mancano le parole. Per un lutto, una grave malattia fisica o psicologica. Anche la famiglia, per la sofferenza di un suo componente, si può trovare in balìa del silenzio, del dubbio, della tentazione di non fidarsi che il Signore sia presente anche lì. I versi del Salmo 80 sembrano scritti proprio per circostanze come queste. Israele è allo sbando e chiede a Dio di salvarlo ancora una volta: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (v. 4). E subito dopo, con quello che sarà un ritornello: “O Dio, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (v. 4; vedi vv. 8 e 20). Per tutto il componimento c’è un doppio movimento convergente: quello chiesto al Signore, di ritornare, e quello che è necessario facciano gli esseri umani, di tornare a Lui.

È la dinamica della conversione di ogni credente. Da un lato c’è il lamento per essere stati abbandonati, la paura dell’ira e del castigo, da cui non siamo esenti neppure noi cristiani: “Fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?… Ci fai bere lacrime in abbondanza” (vv. 5-6). Dall’altra affiora l’onesta consapevolezza che il male che proviamo non è voluto da Dio e che, anzi, molta parte della nostra desolazione è dovuta all’esserci allontanati dalla strada che Lui ha indicato.

Se riusciremo a vedere nuovamente lo splendore del suo vero volto di misericordia, potremo ritrovare il sentiero. Il Salmo, con un’immagine evocativa per il popolo ebraico, narra di una vigna che Dio aveva coltivato con ogni cura e reso rigogliosa: “Hai sradicato una vite dall’Egitto… Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra” (vv. 9-10), ora è invece distrutta: “Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna” (vv. 13-14). È ancora una volta l’ammissione non solo di una colpa, ma della propria sconfinata fragilità: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna!” (v. 15).

Prima di concludere, ecco reiterato il movimento convergente di chi di nuovo spera nel Signore: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome” (v. 19). Pare a questo punto di sentire l’obiezione angosciata di una madre che assiste un figlio gravemente malato, o le vittime di un conflitto o di una calamità naturale. C’è un male innocente, che non è causato dal nostro peccato; ed è di fronte a questo che, ancora più forte l’uomo grida a Dio: “Fino a quando?”. Un’attesa diversa, questa per noi, fondata saldamente sulle parole di Gesù: un giorno ritornerà, dando senso definitivamente a tutta l’ingiusta sofferenza dell’umanità.

Anche se non sappiamo il giorno e l’ora, ci fidiamo della sua promessa. Il tempo di Avvento che stiamo celebrando – e in cui liturgicamente questo Salmo è molto presente – ci prepara a questo ritorno di Gesù, in una dimensione che va oltre la pur legittima memoria del Natale, la sua prima venuta nella carne e nella storia a Betlemme. Non c’è modo più fecondo di vivere il presente, anche nelle sue più dolorose contraddizioni, se non con l’animo trepidante di chi ha invitato a casa l’Ospite più caro. Facciamoci trovare pronti: il Signore viene.

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di Giovanni Capetta

Quando siamo nella prova, spesso ci mancano le parole. Per un lutto, una grave malattia fisica o psicologica. Anche la famiglia, per la sofferenza di un suo componente, si può trovare in balìa del silenzio, del dubbio, della tentazione di non fidarsi che il Signore sia presente anche lì. I versi del Salmo 80 sembrano scritti proprio per circostanze come queste. Israele è allo sbando e chiede a Dio di salvarlo ancora una volta: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (v. 4). E subito dopo, con quello che sarà un ritornello: “O Dio, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (v. 4; vedi vv. 8 e 20). Per tutto il componimento c’è un doppio movimento convergente: quello chiesto al Signore, di ritornare, e quello che è necessario facciano gli esseri umani, di tornare a Lui.

È la dinamica della conversione di ogni credente. Da un lato c’è il lamento per essere stati abbandonati, la paura dell’ira e del castigo, da cui non siamo esenti neppure noi cristiani: “Fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?… Ci fai bere lacrime in abbondanza” (vv. 5-6). Dall’altra affiora l’onesta consapevolezza che il male che proviamo non è voluto da Dio e che, anzi, molta parte della nostra desolazione è dovuta all’esserci allontanati dalla strada che Lui ha indicato.

Se riusciremo a vedere nuovamente lo splendore del suo vero volto di misericordia, potremo ritrovare il sentiero. Il Salmo, con un’immagine evocativa per il popolo ebraico, narra di una vigna che Dio aveva coltivato con ogni cura e reso rigogliosa: “Hai sradicato una vite dall’Egitto… Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra” (vv. 9-10), ora è invece distrutta: “Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna” (vv. 13-14). È ancora una volta l’ammissione non solo di una colpa, ma della propria sconfinata fragilità: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna!” (v. 15).

Prima di concludere, ecco reiterato il movimento convergente di chi di nuovo spera nel Signore: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome” (v. 19). Pare a questo punto di sentire l’obiezione angosciata di una madre che assiste un figlio gravemente malato, o le vittime di un conflitto o di una calamità naturale. C’è un male innocente, che non è causato dal nostro peccato; ed è di fronte a questo che, ancora più forte l’uomo grida a Dio: “Fino a quando?”. Un’attesa diversa, questa per noi, fondata saldamente sulle parole di Gesù: un giorno ritornerà, dando senso definitivamente a tutta l’ingiusta sofferenza dell’umanità.

Anche se non sappiamo il giorno e l’ora, ci fidiamo della sua promessa. Il tempo di Avvento che stiamo celebrando – e in cui liturgicamente questo Salmo è molto presente – ci prepara a questo ritorno di Gesù, in una dimensione che va oltre la pur legittima memoria del Natale, la sua prima venuta nella carne e nella storia a Betlemme. Non c’è modo più fecondo di vivere il presente, anche nelle sue più dolorose contraddizioni, se non con l’animo trepidante di chi ha invitato a casa l’Ospite più caro. Facciamoci trovare pronti: il Signore viene.

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Maria e Elisabetta https://www.lavoce.it/maria-elisabetta/ Fri, 21 Dec 2018 08:02:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53681 logo reubrica commento al Vangelo

“Una donna che partorirà” è l’immagine con cui si apre la Liturgia della parola di questa quarta ed ultima domenica di Avvento.

Prima lettura

“E tu, Betlemme di Efrata” acclama il profeta Michea, che con “Efrata” vuol significare l’aggettivo ‘feconda’ in relazione alla città che vedrà nascere il Messia.

E il testo prosegue proponendo proprio l’immagine della donna che partorisce, e in seguito al parto avviene che “il resto dei fratelli ritornerà”. Michea esercita la sua attività intorno agli anni della sconfitta di Samaria (721) e alla relativa deportazione degli israeliti nei territori assiri, e alterna profezie di sventura ad annunci di rinascita.

La pagina di questa domenica coincide con la visione futura di Betlemme, la città che darà i natali al discendente di David, a colui che “sarà grande fino agli estremi confini della terra”e che ristabilirà l’armonia tra i popoli in quanto “egli stesso sarà la pace”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla prima Lettura si riferisce alla situazione degli esuli del regno del Nord e invoca il “Pastore d’Israele” perché si erga con potenza, visiti la sua “vigna” e la faccia “rivivere”.

È interessante notare come nell’intero salmo (noi ascoltiamo solo una parte) più volte è espresso alla prima persona plurale “fa’ che ritorniamo!”. Il popolo ha maturato la consapevolezza di essere stato allontanato dalla terra perché è stato il primo lui ad allontanarsi dal Signore. C’è quindi da fare il ritorno al Signore e poi il ritorno in patria. Perciò promette al Signore: “da te mai più ci allontaneremo facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Michea 5,1-4a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 79

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli ebrei 10,5-10

VANGELO Dal Vangelo di Luca 1,39-45

Seconda lettura

Nel brano della Lettera agli Ebrei ritroviamo l’immagine del bambino che deve essere partorito nel punto in cui leggiamo: “un corpo mi hai preparato”.

In soli 5 versetti l’autore più volte menziona le ritualità principali dell’Antico testamento, cioè il ‘sacrificio’, ovvero l’immolazione degli animali, e l’‘offerta’, ossia il dono del pane o della farina. Ma egli si rifà a queste tradizioni per dichiararle abolite grazie all’“offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”.

Vangelo

Nel Vangelo contempliamo il bell’incontro tra due donne incinte. La pagina si apre con Maria in cammino verso una “città di Giuda”. La tradizione, già a partire dai primi secoli del Cristianesimo, ha identificato la località, mèta del pellegrinaggio di Maria, con Ain Karim a circa 7 chilometri ad ovest di Gerusalemme.

Maria vi si reca di “fretta”. Potremmo pensare che vada per aiutare la parente negli ultimi mesi di gravidanza (e certamente l’avrà fatto!), ma il testo ci informa che Maria ritorna a Nazareth prima che Elisabetta abbia partorito (Lc 1,56). Possiamo dunque pensare che Maria abbia percorso circa 150 km non solo per aiutare Elisabetta ma soprattutto per condividere con lei la gioia della straordinaria esperienza che stavano vivendo nel loro spirito e nella loro carne.

Questo trova conferma nel contenuto della conversazione delle due donne, che va in crescendo: dal riconoscimento dell’intervento del Signore nella loro vita e nella storia del loro popolo, all’esplosione di benedizione e di lode a Lui. Delle due la prima a parlare è Maria che “salutò Elisabetta”.

Questo saluto provoca due effetti nella persona di Elisabetta: il sussulto del bambino che porta in grembo e il dono dello Spirito santo che riempie il suo cuore. Si realizza dunque la profezia che aveva ricevuto Zaccaria dall’arcangelo Gabriele che di Giovanni aveva detto: “egli sarà pieno di Spirito santo fin dal grembo di sua madre”.

A questo punto escono dalle labbra di Elisabetta parole di lode a Maria, parole che esplodono dal cuore perché vengono pronunciate a “gran voce”. È la prima lode, dopo quella dell’arcangelo Gabriele, rivolta a Maria. L’acclamazione di Elisabetta ricorda la benedizione che Ozia rivolse a Giuditta dopo aver riportato la vittoria su Oloferne: “Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra” (Gdt 13,18).

È “benedetta” Maria ed è “benedetto” il Signore che Lei porta in grembo. E lo Spirito Santo che ormai ha preso possesso del cuore di Elisabetta fa sì che lei si rivolga a Maria chiamandola “la madre del mio Signore”. Stupefatta dell’arrivo di Maria, testimonia subito ciò che è avvenuto in lei: “appena il tuo saluto è giunto a me, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. Poi la conclusione con una lode che Elisabetta rivolge a Maria “Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

Questo rivolgersi a Maria in terza persona anziché con il ‘tu’ è stato interpretato come una lode riferita a Maria, ma anche a chiunque ‘ascolta’ la Parola del Signore. “I Padri della Chiesa a volte hanno detto che Maria avrebbe concepito mediante l’orecchio, cioè: mediante il suo ascolto. Attraverso la sua obbedienza, la Parola è entrata in lei e in lei è divenuta feconda” (Benedetto XVI, 47).

Prepariamoci allora ad accogliere con trepidazione e nella certezza che ci colmerà di gioia, l’ineffabile mistero della Parola fatta Carne che Maria partorirà!

Giuseppina Bruscolotti

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“Una donna che partorirà” è l’immagine con cui si apre la Liturgia della parola di questa quarta ed ultima domenica di Avvento.

Prima lettura

“E tu, Betlemme di Efrata” acclama il profeta Michea, che con “Efrata” vuol significare l’aggettivo ‘feconda’ in relazione alla città che vedrà nascere il Messia.

E il testo prosegue proponendo proprio l’immagine della donna che partorisce, e in seguito al parto avviene che “il resto dei fratelli ritornerà”. Michea esercita la sua attività intorno agli anni della sconfitta di Samaria (721) e alla relativa deportazione degli israeliti nei territori assiri, e alterna profezie di sventura ad annunci di rinascita.

La pagina di questa domenica coincide con la visione futura di Betlemme, la città che darà i natali al discendente di David, a colui che “sarà grande fino agli estremi confini della terra”e che ristabilirà l’armonia tra i popoli in quanto “egli stesso sarà la pace”.

Salmo

Anche il Salmo con cui rispondiamo alla prima Lettura si riferisce alla situazione degli esuli del regno del Nord e invoca il “Pastore d’Israele” perché si erga con potenza, visiti la sua “vigna” e la faccia “rivivere”.

È interessante notare come nell’intero salmo (noi ascoltiamo solo una parte) più volte è espresso alla prima persona plurale “fa’ che ritorniamo!”. Il popolo ha maturato la consapevolezza di essere stato allontanato dalla terra perché è stato il primo lui ad allontanarsi dal Signore. C’è quindi da fare il ritorno al Signore e poi il ritorno in patria. Perciò promette al Signore: “da te mai più ci allontaneremo facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Michea 5,1-4a

SALMO RESPONSORIALE Salmo 79

SECONDA LETTURA Dalla Lettera agli ebrei 10,5-10

VANGELO Dal Vangelo di Luca 1,39-45

Seconda lettura

Nel brano della Lettera agli Ebrei ritroviamo l’immagine del bambino che deve essere partorito nel punto in cui leggiamo: “un corpo mi hai preparato”.

In soli 5 versetti l’autore più volte menziona le ritualità principali dell’Antico testamento, cioè il ‘sacrificio’, ovvero l’immolazione degli animali, e l’‘offerta’, ossia il dono del pane o della farina. Ma egli si rifà a queste tradizioni per dichiararle abolite grazie all’“offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”.

Vangelo

Nel Vangelo contempliamo il bell’incontro tra due donne incinte. La pagina si apre con Maria in cammino verso una “città di Giuda”. La tradizione, già a partire dai primi secoli del Cristianesimo, ha identificato la località, mèta del pellegrinaggio di Maria, con Ain Karim a circa 7 chilometri ad ovest di Gerusalemme.

Maria vi si reca di “fretta”. Potremmo pensare che vada per aiutare la parente negli ultimi mesi di gravidanza (e certamente l’avrà fatto!), ma il testo ci informa che Maria ritorna a Nazareth prima che Elisabetta abbia partorito (Lc 1,56). Possiamo dunque pensare che Maria abbia percorso circa 150 km non solo per aiutare Elisabetta ma soprattutto per condividere con lei la gioia della straordinaria esperienza che stavano vivendo nel loro spirito e nella loro carne.

Questo trova conferma nel contenuto della conversazione delle due donne, che va in crescendo: dal riconoscimento dell’intervento del Signore nella loro vita e nella storia del loro popolo, all’esplosione di benedizione e di lode a Lui. Delle due la prima a parlare è Maria che “salutò Elisabetta”.

Questo saluto provoca due effetti nella persona di Elisabetta: il sussulto del bambino che porta in grembo e il dono dello Spirito santo che riempie il suo cuore. Si realizza dunque la profezia che aveva ricevuto Zaccaria dall’arcangelo Gabriele che di Giovanni aveva detto: “egli sarà pieno di Spirito santo fin dal grembo di sua madre”.

A questo punto escono dalle labbra di Elisabetta parole di lode a Maria, parole che esplodono dal cuore perché vengono pronunciate a “gran voce”. È la prima lode, dopo quella dell’arcangelo Gabriele, rivolta a Maria. L’acclamazione di Elisabetta ricorda la benedizione che Ozia rivolse a Giuditta dopo aver riportato la vittoria su Oloferne: “Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra” (Gdt 13,18).

È “benedetta” Maria ed è “benedetto” il Signore che Lei porta in grembo. E lo Spirito Santo che ormai ha preso possesso del cuore di Elisabetta fa sì che lei si rivolga a Maria chiamandola “la madre del mio Signore”. Stupefatta dell’arrivo di Maria, testimonia subito ciò che è avvenuto in lei: “appena il tuo saluto è giunto a me, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. Poi la conclusione con una lode che Elisabetta rivolge a Maria “Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

Questo rivolgersi a Maria in terza persona anziché con il ‘tu’ è stato interpretato come una lode riferita a Maria, ma anche a chiunque ‘ascolta’ la Parola del Signore. “I Padri della Chiesa a volte hanno detto che Maria avrebbe concepito mediante l’orecchio, cioè: mediante il suo ascolto. Attraverso la sua obbedienza, la Parola è entrata in lei e in lei è divenuta feconda” (Benedetto XVI, 47).

Prepariamoci allora ad accogliere con trepidazione e nella certezza che ci colmerà di gioia, l’ineffabile mistero della Parola fatta Carne che Maria partorirà!

Giuseppina Bruscolotti

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Il Corpo di Cristo https://www.lavoce.it/il-corpo-di-cristo/ Mon, 09 Apr 2018 08:00:44 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51604 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci Dal gran bailamme della mia disordinatissima scrivania emerge sempre un libro, Le ragioni della speranza (Paoline), il commento ai Vangeli domenicali in uso da parte del Gibbo, il piccolo gruppo che ogni sabato pomeriggio a Gubbio tiene insieme a me un’abborracciata ma efficace lectio divina a Santa Maria de’ Servi. Un testo filologicamente puntuale e al tempo stesso vibrante di poesia: c’è anche lo zampino della coautrice, la prof. Marina Marcolini, ma il libro ha il timbro tipico di Ermes Ronchi, il padre Servita che l’anno scorso, al vertice della Settimana liturgica nazionale di Gubbio, ci ha lasciati entusiasti e come storditi con la qualità straordinaria della sua relazione. Un libro che consiglio a tutti. Ma stavolta… sentite: è una parte del suo commento alla Passione secondo Marco. “Cristo è in agonia fino alla fine del tempo. Cristo è bombardato in Siria. Cristo viene ucciso in Nigeria. Cristo è straziato dalle bombe a Baghdad. Cristo naufraga al largo di Lampedusa. Cristo viene respinto con i rom ai margini delle nostre città”. Bello! Ma… di che si tratta? Di figure retoriche di parola? Di figure retoriche di pensiero? Pie immagini pensate in vista di una degna partecipazione alla Pasqua? No. Si tratta di ben altro. Si tratta di acquisizioni reali nuove, che germogliano nel grembo della Chiesa impegnata nell’incessante scavo dentro la propria anima, alla ricerca di un’identità che è sempre “già e non ancora”: un plafond di verità acquisito che incessantemente chiede di essere superato. In questa incessante ricerca della propria identità, la Chiesa, soprattutto con l’enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943), a partire dal concetto evangelico di regno di Dio aveva disegnato la propria identità come “Corpo misterioso di Cristo”. Ma il Concilio ha identificato il regno di Dio con il mondo, e la Chiesa come lo strumento principe al servizio di questa identificazione: questo vuol dire che, grazie alla Chiesa, il Corpo misterioso di Cristo è il mondo: ogni volta che qualche presenza umana viene straziata e distrutta, è il Corpo di Cristo che viene lacerato e annientato. Parlando dell’Incarnazione, la Redemptor hominis di Giovanni Paolo II ci ha insegnato che “con questo atto redentivo la storia dell’uomo ha raggiunto nel disegno di Dio il suo vertice. Dio, entrato nella storia dell’umanità (e come uomo), è divenuto suo ‘soggetto’; uno dei miliardi di soggetti e, in pari tempo, l’Unico!”. No, non sono figure retoriche, sono racconti di fatti reali. Reali di una realtà che non è quella materiale delle città che si sbriciolano sotto le bombe, o dei barconi che diventano bare. Reali di una realtà che è al tempo stesso più misteriosa e più molto più vera. Ma a un passo di distanza c’è la Pasqua. In quella luce abbagliante, il mio cordialissimo augurio ai miei 17 lettori!]]>
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di Angelo M. Fanucci Dal gran bailamme della mia disordinatissima scrivania emerge sempre un libro, Le ragioni della speranza (Paoline), il commento ai Vangeli domenicali in uso da parte del Gibbo, il piccolo gruppo che ogni sabato pomeriggio a Gubbio tiene insieme a me un’abborracciata ma efficace lectio divina a Santa Maria de’ Servi. Un testo filologicamente puntuale e al tempo stesso vibrante di poesia: c’è anche lo zampino della coautrice, la prof. Marina Marcolini, ma il libro ha il timbro tipico di Ermes Ronchi, il padre Servita che l’anno scorso, al vertice della Settimana liturgica nazionale di Gubbio, ci ha lasciati entusiasti e come storditi con la qualità straordinaria della sua relazione. Un libro che consiglio a tutti. Ma stavolta… sentite: è una parte del suo commento alla Passione secondo Marco. “Cristo è in agonia fino alla fine del tempo. Cristo è bombardato in Siria. Cristo viene ucciso in Nigeria. Cristo è straziato dalle bombe a Baghdad. Cristo naufraga al largo di Lampedusa. Cristo viene respinto con i rom ai margini delle nostre città”. Bello! Ma… di che si tratta? Di figure retoriche di parola? Di figure retoriche di pensiero? Pie immagini pensate in vista di una degna partecipazione alla Pasqua? No. Si tratta di ben altro. Si tratta di acquisizioni reali nuove, che germogliano nel grembo della Chiesa impegnata nell’incessante scavo dentro la propria anima, alla ricerca di un’identità che è sempre “già e non ancora”: un plafond di verità acquisito che incessantemente chiede di essere superato. In questa incessante ricerca della propria identità, la Chiesa, soprattutto con l’enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943), a partire dal concetto evangelico di regno di Dio aveva disegnato la propria identità come “Corpo misterioso di Cristo”. Ma il Concilio ha identificato il regno di Dio con il mondo, e la Chiesa come lo strumento principe al servizio di questa identificazione: questo vuol dire che, grazie alla Chiesa, il Corpo misterioso di Cristo è il mondo: ogni volta che qualche presenza umana viene straziata e distrutta, è il Corpo di Cristo che viene lacerato e annientato. Parlando dell’Incarnazione, la Redemptor hominis di Giovanni Paolo II ci ha insegnato che “con questo atto redentivo la storia dell’uomo ha raggiunto nel disegno di Dio il suo vertice. Dio, entrato nella storia dell’umanità (e come uomo), è divenuto suo ‘soggetto’; uno dei miliardi di soggetti e, in pari tempo, l’Unico!”. No, non sono figure retoriche, sono racconti di fatti reali. Reali di una realtà che non è quella materiale delle città che si sbriciolano sotto le bombe, o dei barconi che diventano bare. Reali di una realtà che è al tempo stesso più misteriosa e più molto più vera. Ma a un passo di distanza c’è la Pasqua. In quella luce abbagliante, il mio cordialissimo augurio ai miei 17 lettori!]]>
Triduo pasquale. Il Venerdì santo https://www.lavoce.it/triduo-pasquale-venerdi-santo/ Fri, 30 Mar 2018 12:53:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51572

VIA CRUCIS CON IL PAPA. I testi sono scritti da giovani
Una Via crucis commentata dai giovani, quella del 30 marzo al Colosseo con Papa Francesco. Le meditazioni sulle 14 stazioni sono infatti state preparate da autori di un’età compresa tra i 16 e i 27 anni, in gran parte provenienti dal liceo “Albertelli” di Roma; e quasi tutte ragazze. Accanto a questa novità, c’è quella di affidare le riflessioni non a una sola persona ma a un gruppo. A coordinare il lavoro è stato il prof. Andrea Monda, docente di Religione, giornalista e scrittore. “Ho chiesto loro - ha detto - di essere quello che sono, di non pensare di dover scrivere testi teologici, di non lasciarsi condizionare dal fatto che sarebbero stati letti in mondovisione, davanti al Papa”. Scegliamo a titolo di campione alcune delle riflessioni che sarà possibile seguire in mondovisione venerdì sera. “Oggi - ha scritto Valerio De Felice per la prima stazione (Gesù di fronte a Pilato) - inorridiamo di fronte a una tale ingiustizia, e vorremmo prenderne distanza. Ma, così facendo, dimentichiamo tutte le volte in cui noi per primi abbiamo scelto di salvare Barabba anziché te. Quando il nostro orecchio è stato sordo alla chiamata del Bene, quando abbiamo preferito non vedere l’ingiustizia davanti a noi. In quella piazza gremita, sarebbe stato sufficiente che un solo cuore dubitasse, che una sola voce si alzasse contro le mille voci del Male...”. Per la VI stazione (la “Veronica”), la parola a Cecilia Nardini:“Ti vedo, Gesù, misero, quasi irriconoscibile, trattato come l’ultimo degli uomini. Cammini a stento verso la tua morte con il volto sanguinante e sfigurato, anche se come sempre mite e umile, rivolto verso l’alto. Una donna si fa spazio tra la folla per scorgere da vicino quel tuo volto che, forse, tante volte aveva parlato alla sua anima e che lei aveva amato. Lo vede sofferente e lo vuole aiutare. Non la fanno passare, sono tanti, troppi, e armati. Ma a lei tutto questo non importa, è determinata a raggiungerti e riesce per un attimo a toccarti, accarezzarti con il suo velo. La sua è la forza della tenerezza”. “Tu - scrive Greta Sandri per la IX stazione (Gesù inchiodato alla croce) - non ti sei fermato neanche di fronte alla morte; hai creduto profondamente nella tua missione, e ti sei fidato di tuo Padre. Oggi, nel mondo di internet, siamo così condizionati da tutto ciò che circola in Rete che a volte dubito anche delle mie parole. Ma le tue parole sono diverse, sono forti nella tua debolezza. Tu ci hai perdonato, non hai portato rancore, hai insegnato a porgere l’altra guancia e sei andato oltre, fino al sacrificio totale della tua persona. Mi guardo intorno e vedo occhi fissi sullo schermo del telefono, impegnati sui social network a inchiodare ogni errore degli altri senza possibilità di perdono...”. E quando il Cristo viene deposto nel sepolcro (XIV stazione), Marta Croppo commenta: “Dove te ne sei andato, Gesù? Dove sei sceso, se non nel profondo? Dove, se non nel luogo ancora inviolato, nella cella più angusta? Nei nostri stessi lacci sei preso, nella nostra stessa tristezza sei imprigionato: come noi, hai camminato sulla terra, e ora al di sotto della terra, come noi, ti fai spazio. Vorrei correre lontano, ma dentro di me tu sei. Non devo uscire a cercarti, perché alla mia porta tu bussi”.
Per gli orari delle celebrazioni del Venerdì santo e della Pasqua vai sull'edizione digitale de La Voce.
Il Venerdì santo è il giorno della Colletta a favore della Terra Santa
Ogni anno la Chiesa, nell’imminenza della Pasqua, invita tutti i fedeli a sostenere le necessità dei Luoghi santi: si tratta della Colletta per la Terra Santa. È una delle raccolte obbligatorie (insieme all’Obolo di san Pietro il 29 giugno e alla Giornata missionaria mondiale), e si svolge il Venerdì santo in favore dei cristiani che vivono e operano dove visse Gesù. Anche quest’anno la Fondazione Terra Santa, attraverso le Edizioni Terra Santa, offre un sussidio per la Colletta, contenente una parte informativa e uno schema di Via crucis per la celebrazione comunitaria. “Negli ultimi anni – si legge in una nota della Fondazione – circa quattro quinti delle Collette ricevute dai Francescani sono state destinate a opere pastorali e sociali, e un quinto ai santuari. La Custodia riceve il 65 per cento delle offerte, mentre il restante 35 per cento è destinato ad altre istituzioni che operano in Terra Santa. Per vo- lontà della Santa Sede, invece, le attività del Patriarcato latino sono sostenute dai Cavalieri del Santo Sepolcro e da altre istituzioni”. Le meditazioni contenute nel sussidio sono di padre Tarcisio Colombotti, precedute dagli interventi di Papa Francesco, dell’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, e del custode di Terra Santa, padre Francesco Patton. “È a beneficio - scrive padre Patton - di questa piccola comunità cristiana, che ha bisogno di sostegno e di incoraggiamento spirituale ma anche di aiuto economico e materiale, che va il dono di condivisione che i cristiani di tutto il mondo sono chiamati a fare ogni Venerdì Santo. Senza la vicinanza, l’aiuto e il sostegno materiale dei cristiani di tutto il mondo, come sarebbe possibile per noi continuare a custodire i luoghi della nostra Redenzione, che sono meta di milioni di pellegrini provenienti da ogni Paese per rinnovare la loro fede qui dove tutto è iniziato? Come sarebbe possibile aiutare le parrocchie locali più povere nel portare avanti le loro attività pastorali e caritative? Come potremmo tenere aperte e sostenere quelle palestre di educazione alla pace e alla convivenza che sono le scuole di Terra Santa? Come potremmo – chiede ancora il custode – prenderci cura dei migranti cattolici che giungono anche qui in cerca di lavoro e chiedono di essere accolti e integrati nelle nostre parrocchie? Come potremmo alleviare le sofferenze dei rifugiati causate dalle continue guerre che hanno afflitto in questi anni molti dei Paesi in cui ci troviamo a svolgere la nostra missione?”.]]>

VIA CRUCIS CON IL PAPA. I testi sono scritti da giovani
Una Via crucis commentata dai giovani, quella del 30 marzo al Colosseo con Papa Francesco. Le meditazioni sulle 14 stazioni sono infatti state preparate da autori di un’età compresa tra i 16 e i 27 anni, in gran parte provenienti dal liceo “Albertelli” di Roma; e quasi tutte ragazze. Accanto a questa novità, c’è quella di affidare le riflessioni non a una sola persona ma a un gruppo. A coordinare il lavoro è stato il prof. Andrea Monda, docente di Religione, giornalista e scrittore. “Ho chiesto loro - ha detto - di essere quello che sono, di non pensare di dover scrivere testi teologici, di non lasciarsi condizionare dal fatto che sarebbero stati letti in mondovisione, davanti al Papa”. Scegliamo a titolo di campione alcune delle riflessioni che sarà possibile seguire in mondovisione venerdì sera. “Oggi - ha scritto Valerio De Felice per la prima stazione (Gesù di fronte a Pilato) - inorridiamo di fronte a una tale ingiustizia, e vorremmo prenderne distanza. Ma, così facendo, dimentichiamo tutte le volte in cui noi per primi abbiamo scelto di salvare Barabba anziché te. Quando il nostro orecchio è stato sordo alla chiamata del Bene, quando abbiamo preferito non vedere l’ingiustizia davanti a noi. In quella piazza gremita, sarebbe stato sufficiente che un solo cuore dubitasse, che una sola voce si alzasse contro le mille voci del Male...”. Per la VI stazione (la “Veronica”), la parola a Cecilia Nardini:“Ti vedo, Gesù, misero, quasi irriconoscibile, trattato come l’ultimo degli uomini. Cammini a stento verso la tua morte con il volto sanguinante e sfigurato, anche se come sempre mite e umile, rivolto verso l’alto. Una donna si fa spazio tra la folla per scorgere da vicino quel tuo volto che, forse, tante volte aveva parlato alla sua anima e che lei aveva amato. Lo vede sofferente e lo vuole aiutare. Non la fanno passare, sono tanti, troppi, e armati. Ma a lei tutto questo non importa, è determinata a raggiungerti e riesce per un attimo a toccarti, accarezzarti con il suo velo. La sua è la forza della tenerezza”. “Tu - scrive Greta Sandri per la IX stazione (Gesù inchiodato alla croce) - non ti sei fermato neanche di fronte alla morte; hai creduto profondamente nella tua missione, e ti sei fidato di tuo Padre. Oggi, nel mondo di internet, siamo così condizionati da tutto ciò che circola in Rete che a volte dubito anche delle mie parole. Ma le tue parole sono diverse, sono forti nella tua debolezza. Tu ci hai perdonato, non hai portato rancore, hai insegnato a porgere l’altra guancia e sei andato oltre, fino al sacrificio totale della tua persona. Mi guardo intorno e vedo occhi fissi sullo schermo del telefono, impegnati sui social network a inchiodare ogni errore degli altri senza possibilità di perdono...”. E quando il Cristo viene deposto nel sepolcro (XIV stazione), Marta Croppo commenta: “Dove te ne sei andato, Gesù? Dove sei sceso, se non nel profondo? Dove, se non nel luogo ancora inviolato, nella cella più angusta? Nei nostri stessi lacci sei preso, nella nostra stessa tristezza sei imprigionato: come noi, hai camminato sulla terra, e ora al di sotto della terra, come noi, ti fai spazio. Vorrei correre lontano, ma dentro di me tu sei. Non devo uscire a cercarti, perché alla mia porta tu bussi”.
Per gli orari delle celebrazioni del Venerdì santo e della Pasqua vai sull'edizione digitale de La Voce.
Il Venerdì santo è il giorno della Colletta a favore della Terra Santa
Ogni anno la Chiesa, nell’imminenza della Pasqua, invita tutti i fedeli a sostenere le necessità dei Luoghi santi: si tratta della Colletta per la Terra Santa. È una delle raccolte obbligatorie (insieme all’Obolo di san Pietro il 29 giugno e alla Giornata missionaria mondiale), e si svolge il Venerdì santo in favore dei cristiani che vivono e operano dove visse Gesù. Anche quest’anno la Fondazione Terra Santa, attraverso le Edizioni Terra Santa, offre un sussidio per la Colletta, contenente una parte informativa e uno schema di Via crucis per la celebrazione comunitaria. “Negli ultimi anni – si legge in una nota della Fondazione – circa quattro quinti delle Collette ricevute dai Francescani sono state destinate a opere pastorali e sociali, e un quinto ai santuari. La Custodia riceve il 65 per cento delle offerte, mentre il restante 35 per cento è destinato ad altre istituzioni che operano in Terra Santa. Per vo- lontà della Santa Sede, invece, le attività del Patriarcato latino sono sostenute dai Cavalieri del Santo Sepolcro e da altre istituzioni”. Le meditazioni contenute nel sussidio sono di padre Tarcisio Colombotti, precedute dagli interventi di Papa Francesco, dell’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, e del custode di Terra Santa, padre Francesco Patton. “È a beneficio - scrive padre Patton - di questa piccola comunità cristiana, che ha bisogno di sostegno e di incoraggiamento spirituale ma anche di aiuto economico e materiale, che va il dono di condivisione che i cristiani di tutto il mondo sono chiamati a fare ogni Venerdì Santo. Senza la vicinanza, l’aiuto e il sostegno materiale dei cristiani di tutto il mondo, come sarebbe possibile per noi continuare a custodire i luoghi della nostra Redenzione, che sono meta di milioni di pellegrini provenienti da ogni Paese per rinnovare la loro fede qui dove tutto è iniziato? Come sarebbe possibile aiutare le parrocchie locali più povere nel portare avanti le loro attività pastorali e caritative? Come potremmo tenere aperte e sostenere quelle palestre di educazione alla pace e alla convivenza che sono le scuole di Terra Santa? Come potremmo – chiede ancora il custode – prenderci cura dei migranti cattolici che giungono anche qui in cerca di lavoro e chiedono di essere accolti e integrati nelle nostre parrocchie? Come potremmo alleviare le sofferenze dei rifugiati causate dalle continue guerre che hanno afflitto in questi anni molti dei Paesi in cui ci troviamo a svolgere la nostra missione?”.]]>
Il gesto di Arnaud, la forza della Pasqua https://www.lavoce.it/gesto-arnaud-la-forza-della-pasqua/ Wed, 28 Mar 2018 14:28:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51534 di Paolo Giulietti

“Non bisognava che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria?”. Le parole con cui il Risorto introduce la sua “catechesi biblica itinerante” ai due discepoli che stanno tornando delusi al loro villaggio di Emmaus (Lc 24, 23-35) condensano il significato delle celebrazioni pasquali. La liturgia e la pietà popolare manifestano, in modo pressoché complementare, come la tragica fine di Gesù sulla croce, abbandonato da tutti – sembrerebbe persino da Dio! – e lo splendore della sua vita nuova di Risorto siano le inseparabili facce di una medesima medaglia. È proprio il Crocifisso a rifulgere di gloria, mentre sul suo corpo glorioso continuano ad essere visibili le ferite della crocifissione.

Nessun dolorismo, dunque, nei riti del venerdì santo, poiché la croce del Signore è anche la sua gloria, il momento in cui la libera decisione di donare se stesso non viene travolta né dall’odio dei nemici né dalla viltà degli amici. Le icone del primo millennio e quelle della tradizione orientale fanno danzare il Cristo sulla croce, sulle parole del salmo 22, che nella seconda parte diviene, da invocazione di un uomo sofferente, cantico di lode per la salvezza ottenuta.

Nessun trionfalismo, inoltre, nei segni e nelle parole della grande veglia pasquale e della domenica di risurrezione, perché non si dimentica che a prezzo di sangue Dio ha riscattato i suoi figli e che la sua vittoria non si tinge del rosso della vendetta, ma del bianco della misericor- dia, disponibile con abbondanza per tutti, anche per quelli che lo hanno trafitto, perché davvero tutti ne hanno bisogno.

Il binomio sofferenza-gloria pare essere, ai nostri giorni, poco apprezzato: a ben vedere, la ricerca del risultato senza fatica o la mancanza di prospettive dinanzi al limite sono la cifra che accomuna diversi fenomeni della società contemporanea, rendendola, tra l’altro, estremamente fragile. Basti pensare all’inconsistenza di tanti legami affettivi o all’emergenza educativa.

È andata diversamente, qualche giorno fa, in Francia: il tenente colonnello Arnaude Beltrame si è offerto volontariamente al posto di un ostaggio nel supermercato di Trèbes, perdendo poi la vita per le mani del terrorista dell’Isis che aveva persuaso ad accettare lo scambio. Arnaude era un cristiano convinto; convertito a 33 anni, aveva ricevuto prima comunione e cresima dopo due anni di catecumenato. Si era fidanzato con Marielle sei anni dopo; l’aveva sposata civilmente dopo aver celebrato la promessa di matrimonio nell’abbazia di Timadeuc, in attesa di celebrare le nozze in chiesa (sarebbe accaduto il prossimo 9 giugno). Di lui ha detto un amico prete, padre Jean Baptiste Golfier, canonico regolare nell’abbazia di Lagrasse: “Mi sembra che solamente la sua fede può spiegare la follia di questo sacrificio che oggi suscita l’ammirazione di tutti. Sapeva, come ci ha detto Gesù, che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Sapeva che, se la sua vita apparteneva a Marielle, apparteneva anche a Dio, alla Francia, ai suoi fratelli in pericolo di morte. Credo che solo una fede cristiana animata dalla carità poteva chiedergli questo sacrificio”. Nessun fanatico desiderio di morte, nessun gesto di spavalderia. Ancora una volta croce e gloria. La forza della Pasqua.

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Soprattutto per loro! https://www.lavoce.it/soprattutto-per-loro/ Sat, 23 Dec 2017 12:46:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50955 logo abat jour, rubrica settimanale

di don Angelo Fanucci

Ho ricordato come Massimo Cacciari (l’“ateo che prega”) abbia riservato un sonoro e liscio busso a noi cristianucci che accettiamo anche il più insensato tentativo di emarginare la festa del Natale di Cristo, riducendo a ben povera cosa l’evento che “ha spaccato in due la Storia”. Perché l’evento del Natale ha veramente spaccato la Storia in due.

Nella mia ultima, fioca abatjour, ho fatto cenno a un mio contributo, in un gruppo di studio universitario, sul tema “La disabilità e i Classici”.

La cultura classica tratta i disabili come si trattano gli escrementi. Sono inevitabili, come gli escrementi, ma devono scomparire al più presto possibile, come gli escrementi.

Platone li evita. La sua Repubblica ideale prevede solo uomini perfetti da ogni punto di vista. Aristotele auspica che i governi saggi obblighino i genitori di bambini invalidi a eliminarli quanto prima. Altrettanto auspica Cicerone a Roma.

Una prima eccezione va fatta per i ciechi, che si immaginano dotati della possibilità di vedere il futuro, dato che la visione del presente è loro negata. Forse. Seconda a ultima eccezione: di questi “infelici” occorrerà conservarne qualcuno, che potrebbe tornare utile in caso di qualche disgrazia pubblica, un terremoto, una guerra persa. Allora lo si potrebbe offrire in sacrificio, gettandolo sul rogo, dopo averlo percosso ben benino per sei volte nei genitali.

All’alba del 1500 venne recuperato il De architectura dell’architetto e scrittore romano Vitruvio, attivo nella seconda metà del I secolo a.C., il più famoso teorico dell’architettura. Leonardo da Vinci, che non conosceva bene il latino, se lo fece tradurre e chiosare da Giorgio Martini, il padre di quel Francesco al quale, insieme con il Laurana, si deve il Palazzo ducale di Urbino, Al termine della consultazione protrattasi per anni, Leonardo disegnò l’“Uomo di Vitruvio”, il più famoso dei tanti suoi disegni: rappresentazione unica, innovativa, ricca di significato. Un corpo umano perfetto e perfettamente proporzionato, all’interno delle due figure geometriche che esprimono la perfezione del Tutto, perché rappresentano la creazione intera: il quadrato la Terra, il cerchio l’universo. L’uomo entra in contatto con la Terra e con l’universo, in sintonia perfetta, in un gioco di rimandi proporzionali che dà il senso e la misura della sua grandezza. E quelli che di questa “misura di grandezza” non ne possiedono nemmeno uno scampolo!

Quanta sofferenza ha causato loro questo capolavoro!

Ma è imminente l’arrivo di Colui che, soprattutto sui temi della sofferenza e dell’emarginazione, spaccherà la Storia in due. E insegnerà che il grado di civiltà di un popolo si valuta da come tratta i soggetti deboli. Vieni, Signore Gesù. Vieni soprattutto per loro!

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di don Angelo Fanucci

Ho ricordato come Massimo Cacciari (l’“ateo che prega”) abbia riservato un sonoro e liscio busso a noi cristianucci che accettiamo anche il più insensato tentativo di emarginare la festa del Natale di Cristo, riducendo a ben povera cosa l’evento che “ha spaccato in due la Storia”. Perché l’evento del Natale ha veramente spaccato la Storia in due.

Nella mia ultima, fioca abatjour, ho fatto cenno a un mio contributo, in un gruppo di studio universitario, sul tema “La disabilità e i Classici”.

La cultura classica tratta i disabili come si trattano gli escrementi. Sono inevitabili, come gli escrementi, ma devono scomparire al più presto possibile, come gli escrementi.

Platone li evita. La sua Repubblica ideale prevede solo uomini perfetti da ogni punto di vista. Aristotele auspica che i governi saggi obblighino i genitori di bambini invalidi a eliminarli quanto prima. Altrettanto auspica Cicerone a Roma.

Una prima eccezione va fatta per i ciechi, che si immaginano dotati della possibilità di vedere il futuro, dato che la visione del presente è loro negata. Forse. Seconda a ultima eccezione: di questi “infelici” occorrerà conservarne qualcuno, che potrebbe tornare utile in caso di qualche disgrazia pubblica, un terremoto, una guerra persa. Allora lo si potrebbe offrire in sacrificio, gettandolo sul rogo, dopo averlo percosso ben benino per sei volte nei genitali.

All’alba del 1500 venne recuperato il De architectura dell’architetto e scrittore romano Vitruvio, attivo nella seconda metà del I secolo a.C., il più famoso teorico dell’architettura. Leonardo da Vinci, che non conosceva bene il latino, se lo fece tradurre e chiosare da Giorgio Martini, il padre di quel Francesco al quale, insieme con il Laurana, si deve il Palazzo ducale di Urbino, Al termine della consultazione protrattasi per anni, Leonardo disegnò l’“Uomo di Vitruvio”, il più famoso dei tanti suoi disegni: rappresentazione unica, innovativa, ricca di significato. Un corpo umano perfetto e perfettamente proporzionato, all’interno delle due figure geometriche che esprimono la perfezione del Tutto, perché rappresentano la creazione intera: il quadrato la Terra, il cerchio l’universo. L’uomo entra in contatto con la Terra e con l’universo, in sintonia perfetta, in un gioco di rimandi proporzionali che dà il senso e la misura della sua grandezza. E quelli che di questa “misura di grandezza” non ne possiedono nemmeno uno scampolo!

Quanta sofferenza ha causato loro questo capolavoro!

Ma è imminente l’arrivo di Colui che, soprattutto sui temi della sofferenza e dell’emarginazione, spaccherà la Storia in due. E insegnerà che il grado di civiltà di un popolo si valuta da come tratta i soggetti deboli. Vieni, Signore Gesù. Vieni soprattutto per loro!

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Chi vorrebbe nascere in questo mondo? Dio! https://www.lavoce.it/vorrebbe-nascere-mondo-dio/ Thu, 21 Dec 2017 08:00:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50872 di Simona Segoloni Ruta

Non nascono più bambini quando non si spera più, oppure quando ci si accontenta di qualche benessere accaparrato che si sceglie di non mettere a repentaglio. In Italia, per esempio, non nascono figli perché non si è investito più sui piccoli (basti vedere – ma solo come esempi minimali di un problema sociale enorme – che l’ultima legge realmente a sostegno della conciliazione lavoro/famiglia è quella sugli asili nido del 1971, come anche che il servizio scolastico non è andato in nessun modo crescendo né in quantità né in qualità) e questo probabilmente perché nel periodo del boom economico si è pensato di essere arrivati. “Fermiamoci qui”, potrebbe essere il motto che soggiace alle scelte poco lungimiranti del nostro Paese.

D’altra parte, chi potrebbe sperare qualcosa per il futuro, se si guarda a ciò che accade intorno a noi? Povertà e fame minacciano gran parte dell’umanità. L’avvelenamento e la depauperazione delle risorse si traduce in una vera e propria devastazione. Ingiustizie disumane e violenza dilagano incendiando mille guerre più o meno riconosciute. I terroristi minacciano la vita quotidiana, mentre il Capo di governo della nazione più progredita della Terra compie atti unilaterali non richiesti, che hanno come unico risultato altra violenza e ingiustizie.

Dato tutto questo, perché far nascere qualcuno? E chi, potendo scegliere, nascerebbe in un mondo così? La risposta dei cristiani è sconcertante quanto semplice: Dio vuole nascere in un mondo così. L’amore che lo muove è un’inesauribile fonte di vita, che rinnova continuamente tutto, che si insinua in ogni angolo della coscienza e muove gli uomini e le donne di oggi a fare il bene. In mezzo al travaglio del mondo, Dio nasce, bambino, speranzoso di un futuro di pace e di giustizia, pronto a condividere la fatica e la crudezza della lotta che la pace e la giustizia chiedono. E così in questo bambino, come in ogni bambino, contempliamo il mondo che ricomincia, che riceve una nuova opportunità.

Ogni essere umano che nasce modifica tutto ciò che c’era. Il mondo non è più lo stesso: luoghi, persone, relazioni, situazioni. Con Cristo tale novità sconvolgente è portata all’ennesima potenza: in lui il mondo intero si ridefinisce, contemplandosi rinato per il dono del Padre. Non siamo condannati a ripetere gli orrori dei nostri padri, non siamo dentro un circolo vizioso di morte, perché ci è stato dato un Figlio in cui la storia ricomincia, si rinnova. Questa è la speranza del Natale, che ci ringiovanisce e ci fa ricominciare. Non è solo un altro Natale, è la nascita da cui tutto ricomincia, in cui tutto si rinnova a partire da me e dal bene che posso fare intorno a me.

Dio nasce ed entra nella storia. Vive una storia che crea conseguenze, determina eventi, scatena reazioni. Dentro questa catena di eventi e conseguenze, anche le nostre storie, rinnovate e ricomincianti, portano conseguenze ed eventi: un fiume di vita in cui il mondo ha l’opportunità di ricominciare, di abbandonare il male e volgersi al bene. E così non possiamo cedere allo scoraggiamento, perché legati ad una vicenda di amore e di vita che si rinnova, per primi noi, che abbiamo udito la notizia della nascita di Cristo. Chi ci incontra dovrebbe riconoscere lo stesso coraggio di Dio, che si è fatto bambino ed è nato in mezzo a noi, lo stesso coraggio di abitare la storia perché questa ricominci la sua corsa verso la vita.

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Un amore concreto https://www.lavoce.it/un-amore-concreto/ Sun, 29 Oct 2017 08:00:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50358 domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>
domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>
Le parole di papa Francesco per il Giubileo della vita consacrata https://www.lavoce.it/profeti-solidali-e-speranzosi/ Fri, 05 Feb 2016 10:29:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=45330 vita-consacrata2015_CMYK.jpgDa “religioso” anche lui (ossia appartenente alla Compagnia di Gesù, i gesuiti), Papa Francesco ha parlato dal cuore ai religiosi e religiosi venuti a Roma per il Giubileo della vita consacrata, il 1° febbraio in aula Paolo VI. Tant’è che non ha letto il discorso che aveva preparato ma ha parlato interamente a braccio.
Era anche la conclusione dell’Anno dedicato alla vita consacrata, la quale – ha detto Bergoglio – ha “tre pilastri. Il primo è la profezia, l’altro è la prossimità, e il terzo è la speranza”. Ha però cominciato dalla più ‘classica’ virtù dei monaci: l’obbedienza.
“La perfetta obbedienza è quella del Figlio di Dio, che si è annientato, si è fatto uomo per obbedienza, fino alla morte di croce. Ci sono tra voi uomini e donne che vivono un’obbedienza forte” e dicono: “Secondo le regole devo fare questo, questo e questo. E se non vedo chiaro qualcosa, parlo con il superiore, con la superiora, e, dopo il dialogo, obbedisco”. Questa – ha commentato il Papa – “è la profezia, contro il seme dell’anarchia, che semina il diavolo. ‘Tu che fai?’ – ‘Io faccio quello che mi piace’. L’anarchia della volontà è figlia del demonio, non è figlia di Dio!”. E a proposito di profezia, essa consiste nel “dire alla gente che c’è una strada di felicità, di grandezza, una strada che ti riempie di gioia, che è proprio la strada di Gesù. È la strada di essere vicino a Gesù. È un dono, è un carisma, la profezia, e lo si deve chiedere allo Spirito santo: che io sappia dire quella parola, in quel momento giusto; che io faccia quella cosa in quel momento giusto; che la mia vita, tutta, sia una profezia… Poi l’altra parola è la prossimità. Uomini e donne consacrate non per allontanarmi dalla gente e avere tutte le comodità, no! Per avvicinarmi e capire la vita dei cristiani e dei non cristiani, le sofferenze, i problemi, le tante cose che si capiscono soltanto se un uomo e una donna consacrati diventano prossimo. ‘Ma, Padre, io sono una suora di clausura, cosa devo fare?’. Pensate a santa Teresa del Bambin Gesù, patrona delle missioni, che con il suo cuore ardente era prossima, e le lettere che riceveva dai missionari la facevano più prossima alla gente”.
La scelta della vita consacrata – ha aggiunto – non è uno status di vita che mi fa guardare gli altri così [con distacco]. La vita consacrata mi deve portare alla vicinanza con la gente: vicinanza fisica, spirituale, conoscere la gente”. Il Papa è quindi tornato su un tema che gli è particolarmente caro, quando parla dello stile di vita quotidiana del cristiano, religioso o laico che sia: “Sentite bene: non le chiacchiere, il terrorismo delle chiacchiere! Perché chi chiacchiera è un ‘terrorista’ dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo, contro quello, e poi se ne va tranquillo. Distrugge! Chi fa questo, distrugge. Questa, l’apostolo Santiago [ossia Giacomo, vedi Gc 3,5-10] diceva che era la virtù forse più difficile, la virtù umana e spirituale più difficile da avere: quella di dominare la lingua”. Infine, la speranza, la virtù che guarda con fiducia al futuro.
E qui Francesco si è confidato con l’uditorio: “Vi confesso che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: ‘Quanti seminaristi avete?’ – ‘Quattro, cinque…’. Quando voi, nelle vostre comunità religiose, maschili o femminili, avete un novizio, una novizia, due, e la comunità invecchia, invecchia…. a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: ‘Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?’. Alcune congregazioni fanno l’esperimento della ‘inseminazione artificiale’. Accolgono: ‘Ma sì, vieni, vieni, vieni…’. E poi i problemi che [nascono] lì dentro… No, si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione, e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci”. Con il consueto realismo, ha aggiunto: “Perché c’è un pericolo… questo è brutto, ma devo dirlo: quando una congregazione religiosa vede che non ha figli e nipoti e incomincia a essere sempre più piccola, si attacca ai soldi. E voi sapete che i soldi sono lo sterco del diavolo… E così non c’è speranza! La speranza è solo nel Signore!”.
Per concludere con un grande abbraccio fraterno: “Vi ringrazio tanto per quello che fate”, voi “consacrati, ognuno con il suo carisma!”.

 

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Cose che nota soltanto Gesù https://www.lavoce.it/cose-che-nota-soltanto-gesu/ Tue, 03 Nov 2015 17:51:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=44170 MESSALE metti piccola in commento al vangelo“Non ci rendiamo conto di quanto siamo presuntuosi e di quanto l’orgoglio spirituale ci conduca sottilmente a voler costruire da noi stessi la santità”. Queste parole provengono da un preziosissimo libro suggeritoci circa un anno fa da don Mauro Salciarini, nostro ex parroco e ora direttore spirituale del Seminario regionale umbro. Il libro è La via dell’imperfezione di André Daigneault, editrice Effatà. In questa XXXII domenica del tempo ordinario le letture sono orientate, come sempre, a farci entrare di più nella logica di Dio. Nella prima lettura ascolteremo l’episodio in cui il profeta Elia viene inviato da una vedova in un periodo di siccità e quindi di scarsità di cibo. Il Signore dice ad Elia: “Àlzati, va’ a Sarepta di Sidone; ecco, io là ho dato ordine a una vedova di sostenerti”. Non credo siamo i soli a stupirci che in un momento di carestia la persona incaricata di dare sostentamento all’uomo di Dio sia una vedova, ovvero la persona meno in grado di poterlo fare. Sarebbe stato più comprensibile vederci presentare un uomo ricco, straniero o ebreo, ma una vedova era la persona meno importante, la più povera che si potesse immaginare all’epoca. E infatti non aveva più cibo nemmeno per sé e per suo figlio. Poi sappiamo cosa è successo, “l’olio nell’orcio e la farina nella giara non sono finiti”. Per di più il racconto prosegue dicendo che il figlio della vedova si ammala, muore e il profeta intercede ottenendo la sua risurrezione. Questo è ciò che Dio fa quando trova persone che si fidano e aspettano solo da Lui ogni bene. È la “fede-nonostante” di cui parlavamo due domeniche fa. Nel Vangelo, Gesù ci mette nuovamente in guardia: stavolta i due pericoli sono la vanità e l’ipocrisia. In entrambi i casi la pratica religiosa è ostentata, resa evidente; nel primo atteggiamento questo porta ad avere onore, dunque a soddisfare il desiderio di ingrandire se stessi, e porta a guardare gli altri dall’alto in basso. In questa posizione Dio diventa quasi un intralcio, a meno che non sia un motivo di vanto. Nel secondo, ostentare la devozione è finalizzato a nascondere un comportamento inaccettabile; nella fattispecie si tratta di compiere ingiustizie e soprusi nei confronti dei deboli e dei bisognosi. È ovvio, d’altronde, se guardiamo gli altri dall’alto in basso, che le loro istanze e i bisogni che hanno saranno meno importanti dei nostri, dunque è logico che non venga dato loro aiuto.

Nella lingua della Bibbia la parola “peccato” è correlata etimologicamente con il “bersaglio mancato”: l’uomo che pecca è chi non ha centrato l’obiettivo. I due atteggiamenti descritti da Gesù, e attribuiti agli scribi, sono due esempi concreti di questo: se si mira all’io e al suo bisogno di essere consolidato, il bersaglio è completamente mancato. Si punta all’esteriorità e a come si appare, il resto è una semplice (ma drammatica) conseguenza. Poi Gesù si mette nuovamente a sedere e a guardare. Ecco nuovamente Gesù che, appena finito di insegnare, continua a sedere accanto a noi. Stavolta sembra davvero attratto da ciò che sta osservando, come uno che sta apprendendo qualcosa di nuovo. Si manifesta così l’atteggiamento di Dio, teneramente abbassato verso di noi; e ciò che attira la sua attenzione è una vedova. Nonostante la distanza di tempo che separa la vedova di Zarepta da questa, la condizione vedovile non è affatto cambiata. Le vedove non vedevano riconosciuti i loro diritti, nemmeno quello di mantenere la propria casa, salvo nel caso in cui avessero pagato profumatamente coloro che avrebbero dovuto tutelarle. Addirittura si arrivava a casi di vero e proprio parassitismo di scribi ed esperti della legge che sfruttavano l’ospitalità di queste povere donne. La scena si svolge accanto a cassette a forma di imbuto chiamate “trombe” dentro le quali il pio israelita deponeva la sua offerta in denaro. Certamente l’importo della donazione veniva reso noto, forse addirittura ad alta voce. Ecco come i ricchi facoltosi dissetavano la loro brama di vanagloria. Ma così “ricevevano già la loro ricompensa”. Poi eccola lì, la vedova che sembra osservata da Gesù con tenerezza tutta particolare. Egli è compiaciuto per aver trovato un’anima così. Da come ne parla, ha scrutato nel suo cuore e ha trovato quella povertà cui Dio non resiste (“Dio resiste ai superbi…”). Facciamo caso al fatto che qui Gesù non opera nessun prodigio: non ce n’è bisogno! Questa donna ha già Dio con sé, altrimenti non avrebbe donato tutto quanto aveva per vivere. Se lo ha fatto, è perché confida nel suo Signore, lo ama già “con tutto il suo cuore, con tutta la mente e con tutte le forze”. Bello anche vedere che il Signore ha colto l’occasione di questo fatto – di cui non si è accorto nessun altro – per fare lui stesso una riflessione da condividere con i discepoli. Gesù è sempre pronto a imparare da ciò che gli accade. Questo è il vero Maestro, colui che non smette mai di apprendere e di stupirsi! Siamo di nuovo davanti a un Dio che si china verso di noi, scende da noi, e noi non dobbiamo far altro che fargli posto, annullandoci e aprendoci con fiducia.

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Un bello slancio… interrotto https://www.lavoce.it/un-bello-slancio-interrotto/ Wed, 07 Oct 2015 16:07:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43688 MESSALE metti piccola in commento al vangeloChe regalo, il “tempo ordinario”! Questa settimana ci arriva una Parola diretta, attuale, capace di orientare la nostra vita con irresistibile chiarezza. Ciò che subito ci colpisce leggendo insieme il brano sono proprio i primi versetti, in cui Gesù viene presentato mentre si mette in cammino per la strada. Già le prime parole bastano a conquistarci: Dio che cammina per strada incontro alla gente, visibile, avvicinabile da tutti, che ha tempo per ascoltare chiunque e si accorge di ogni persona, anche quelle che tendono a nascondersi da lui. Non occorrono presentazioni o referenze, non numeri di telefono da contattare per fissare un appuntamento: egli è proprio lì, alla portata. Ci sembra già che con questo suo atteggiamento il Signore ci abbia voluto dare una chiara indicazione, soprattutto a noi che ci professiamo cristiani, a noi sposi, ai sacerdoti, ai vescovi e alla Chiesa tutta: se vogliamo seguire Gesù, non possiamo non uscire per strada. Il Papa ci ha più volte richiamato su questo. Noi genitori dovremmo pensare a come educhiamo i nostri figli e allo stile di vita delle nostre famiglie sempre più con “la tele accesa e la porta chiusa” come dice Lorenzo (Jovanotti) nella canzone Safari. Quali esperienze viviamo e verso quali passi incoraggiamo i nostri figli? Come aiutare noi e loro a concepire sempre di più la vita come un dono? A lasciarsi “scomodare” per andare incontro alle persone, con un atteggiamento improntato al dono di sé? Il secondo spunto che la lettura di questo Vangelo ci suggerisce nasce dall’osservare questo “tale” che corre incontro a Cristo. È bella questa corsa, piena di entusiasmo, di speranze e carica di desideri. Già, i desideri… come diceva il card. Martini, “il nostro cuore è una fornace di desideri” e sono essi il “motore della nostra esistenza”. Chissà questo tale di cui non si conosce il nome (al contrario di altri personaggi di cui il nome è ben noto) da quali desideri era spinto? Egli arriva da Gesù pieno di entusiasmo, sicuro di sé e della sua buona prassi, tanto da affrettarsi a rispondere che tutti i comandamenti “li aveva osservati fin dalla giovinezza”. Non sapeva che Gesù è colpito da quello slancio, ma non dalla ‘buona prassi’ morale.

A Gesù non interessa che sia ‘in regola’ ma che sia lì per Lui. Come diceva don Tonino Bello, Dio non ci ama perché siamo buoni, ma siamo buoni perché Dio ci ama. Dio ci ama gratuitamente, non siamo noi a meritarlo! Allora, usando il linguaggio di quel tale, “cosa dobbiamo fare”? Tutto ciò che resta da “fare” a noi è rispondere a questo abbraccio; non è forse quello che sperimentiamo con i nostri figli? Quando mai per correggerli gli diciamo che non gli vogliamo bene? Il nostro amore non verrebbe meno anche se fossero i più cattivi del mondo. È proprio questo amore gratuito che giorno dopo giorno li fa crescere nella stima di sé e nella capacità di accettare i propri limiti e difetti. Ma allora perché questo giovane – che poi scopriamo essere ricco – rinuncia? Sembra quasi che il Signore fallisca nel progetto che aveva con questa persona, l’onnipotenza di Dio si arresta di fronte alla nostra libertà. La ricchezza – ed è il terzo spunto di riflessione – è il pericolo di fronte al quale Gesù ci mette così tanto in guardia. Ci viene da pensare che in fin dei conti questo pericolo non lo corriamo perché non riteniamo di essere gente ricca. Tuttavia a una più attenta riflessione ci rendiamo conto di quante ricchezze possediamo. “Ricchezza” è un termine che indica qualsiasi cosa si frapponga tra noi e Dio, perché ci condiziona e ci trattiene in posizione difensiva, ci fa chiudere in noi stessi, limitando lo slancio che inizialmente avevamo. Quante abitudini che non siamo disposti a modificare, attaccamenti a comodità, mezzi tecnologici, cibi e bevande, intrattenimenti, che non ci permettono di seguire Gesù lungo la strada. Quanto spazio diamo, per esempio, alla preghiera insieme in famiglia? Quante volte al mese una parte di stipendio viene tolta da ciò che ci piace per essere condivisa con chi ne ha più bisogno? Quante volte mettiamo a disposizione il nostro tempo per amore? Eppure è l’amore, chiesto incessantemente nella preghiera e vissuto in famiglia e in tutte le nostre relazioni, che porta a crescere insieme e permette di far conoscere a tutti chi è Dio. Caro Gesù, non lasciare che ce ne andiamo via tristi per aver rifiutato un tuo invito: vinci le nostre resistenze e donaci di poter naufragare nel tuo abbraccio, disposti a lasciare le cose per avere in dono Te.

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Gesù, il Messia capovolto https://www.lavoce.it/gesu-il-messia-capovolto/ Tue, 15 Sep 2015 13:05:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43241 Nel Vangelo di questa domenica Marco prosegue nel rimarcare l’incolmabile distanza tra Gesù e i suoi. Il Maestro è ormai diretto decisamente verso Gerusalemme e per la seconda volta annuncia la sua passione, ma i discepoli “non comprendono” e non osano domandare spiegazioni.

Il malinteso non potrebbe essere più irriducibile: Gesù parla di servizio, i discepoli sognano il successo; Gesù parla di una strana “classifica” in cui i primi sono gli ultimi e viceversa, mentre i discepoli si sbracciano per conquistare il podio del vincitore; Gesù parla di croce, i suoi vogliono solo trionfi e applausi, scettri e corone.

Se l’evangelista non si fa scrupolo di riportare una disputa tanto sconfortante e francamente “indecente” per quelli che saranno i capi della futura Chiesa di Cristo, è perché il focolaio di infezione dovuto ai batteri dell’ambizione non è stato ancora cauterizzato dal fuoco della Pentecoste. In effetti, il virus dell’arrivismo fa ancora oggi strage anche dentro la Chiesa a ogni livello, e la “sindrome da primato” scatena protagonismi e competizioni, ingenera risse e contese, produce divisioni e conflitti.

Ma il Maestro non ha paura di portare la questione allo scoperto: chi è dunque il più grande? Gesù annuncia ai discepoli il suo destino rivolgendo loro l’invito a percorrere il suo stesso cammino, quello di farsi servo e accogliere i piccoli; il servizio gratuito e per tutti come programma di vita. Qui Gesù, maestro di vita, con estrema pazienza non giudica, non accusa, non rimprovera i discepoli, ma comunica la nuova legge, consegna la sua scala di valori.

La legge nuova è quella liberante dell’amore, che soppianta la legge mortale dell’egoismo. E per farsi capire, Gesù compie un gesto decisamente destabilizzante: prende un bambino, lo mette al centro e poi lo abbraccia, come a dire: “Attenzione! Voi discepoli siete abbagliati, cercate di sgomitare per salire sempre più in alto. Ma la gerarchia nel Regno dei cieli è una scala rovesciata: colui che è veramente grande è piccolo, e viceversa; e chi è veramente primo è l’ultimo, e viceversa”.

Il bambino infatti, secondo la mentalità del tempo, era il simbolo dell’uomo non ancora realizzato, l’ultimo di tutti. Diventa perciò l’immagine del discepolo perché è la copia conforme dell’originale, il Maestro, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò e umiliò se stesso” (Fil 2,6-8), letteralmente potremmo tradurre: “oscurò e azzerò se stesso”.

Ancora una volta Gesù si presenta come il Messia “capovolto”, l’inviato di quel Dio che ribalta classifiche. Come canta Maria, il Signore onnipotente “ha rovesciato i potenti dai loro troni, e ha innalzato gli umili” (Lc 1,52). Noi ci preoccupiamo di salire in alto per stare al di sopra degli altri, ma se Dio è sceso sulla terra e si è fatto piccolo come un bambino, risulta patetica e ridicola la nostra pretesa di innalzarci.

Del resto, il vero posto d’onore è quello più vicino a Gesù per poter essere da lui abbracciati, come quel bambino accolto con tenerezza dal Maestro. E quando abbiamo “guadagnato” quel posto nel suo cuore, cosa ci importa di titoli, poltrone e precedenze secondo gli effimeri criteri mondani? Il discepolo è grande non se occupa un posto in prima fila, se viaggia su una grossa auto blu o nera, ma se nella sua vita sa accogliere chi è senza importanza agli occhi del mondo.

Il discepolo è rispettabile se dimostra rispetto e onore verso quelli che non ne ottengono dai figli di questo mondo. Non dobbiamo inoltre pensare che l’ambizione riguardi sempre e solo gli altri: anche questo è un modo per “chiamarsi fuori” dalla mischia e per posizionarsi, anche solo di qualche centimetro, al di sopra degli altri. Tutti infatti siamo portati a mettere al centro della nostra vita non il più piccolo, ma il più grande, che poi è infallibilmente quasi sempre il nostro piccolo-grande “io”!

Un vero capovolgimento ci è richiesto, che serve certo a rovesciarci, ma per rimetterci in posizione eretta. “L’umiltà è quella virtù che, quando si ha, si crede di non averla” ammetteva con impietosa lucidità un nostro scrittore, Mario Soldati. Riconoscere onestamente e senza ombra di ipocrisia il proprio orgoglio è il primo segno che ci stiamo avvicinando alla vera umiltà, non certo quando ci siamo sottilmente illusi di esserci già arrivati.

Nelle relazioni tra sposi, in famiglia tra genitori e figli, nelle comunità religiose e nelle parrocchie, nei rapporti tra gruppi, associazioni e movimenti accettiamo l’insegnamento di Gesù e rinunciamo al desiderio sfrenato di essere al centro del mondo. È al prezzo di questa rinuncia che ci è dato di conformare la nostra vita a quella di Gesù, colui che ha scelto di fare strada a tutti, a cominciare dagli ultimi, senza farsi strada.

 

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Il prezzo per seguire Gesù https://www.lavoce.it/il-prezzo-per-seguire-gesu/ Wed, 09 Sep 2015 10:20:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43094 Il Vangelo di questa domenica ci fa superare il rischio dell’“assuefazione” all’immagine del Crocifisso: per poter arrivare a una professione di fede sincera e convinta in Cristo come unico Signore e Salvatore, dobbiamo prima passare per lo scandalo della croce, al quale non dovremmo assolutamente mai abituarci.

Il Vangelo riporta come il primo a scandalizzarsi della croce fu lo stesso Simon Pietro, il primo dei Dodici: quel giorno a Cesarea di Filippo, illuminato dall’Alto, aveva appena riconosciuto e proclamato Gesù come Messia: “Tu sei il Cristo”. Ma Gesù, che conosce bene il cuore dell’uomo, sa anche bene che la gente ha altre aspettative, che vuole cioè un Messia rivoluzionario, che rimetta in piedi il regno terreno di Davide! Per questo, chiede di non diffondere la notizia sulla sua vera identità.

Nello stesso tempo, al gruppetto dei seguaci cerca di far capire apertamente il cammino e la fine che lo aspettano: sofferenza, rifiuto, croce. Ma anche i Dodici, Pietro compreso, non erano pronti all’impatto. La risposta di Pietro – “Tu sei il Cristo, cioè il Messia” – alla domanda del Maestro: “Ma voi chi dite che io sia?”, era teologicamente corretta, e come tale era stata approvata e solennemente ratificata da Gesù stesso. Purtroppo, quella risposta in bocca a Pietro partiva da una premessa ambigua.

Il ragionamento di Pietro era più o meno questo: “Il Messia è un vincitore. Gesù è il Messia. Dunque non può morire in croce, non può per nessuna ragione venire sconfitto dai suoi avversari”. Invece Gesù si presenta come un Messia totalmente diverso rispetto alle attese correnti di cui Pietro si era fatto portavoce. Gesù è il Messia proprio perché non è come un re di questo mondo; non è venuto in mezzo a noi come un sovrano assetato di potere, smanioso di troni e di allori, accanitamente bramoso solo di essere servito e riverito.

Anzi, si è spogliato della sua gloria e ha assunto la condizione di servo, il “povero servo del Signore” che vuole fermamente ed esclusivamente servire e dare la vita per salvare i fratelli, in totale obbedienza alla volontà del Padre. La vita di Gesù è stato un continuo “sì” a Dio e un “no” al Tentatore. Egli visse nell’obbedienza e preferì il ragionamento di Dio al ragionamento degli uomini.

Gesù di Nazareth è venuto per evangelizzare i poveri, e per questo si è fatto lui stesso povero. La sua missione però non consiste nel trasferire il potere dai ricchi ai poveri, o dai romani a un salvatore nazionale. L’idea di questo Messia assolutamente inedito è inaccettabile per l’immaginario collettivo: nemmeno Pietro riesce ad accettarla. E non sarà facile metabolizzarla nemmeno per i primi cristiani: la croce suscitava orrore per i pagani – che la consideravano la giusta pena per gli schiavi ribelli – e provocava scandalo per gli ebrei, che ritenevano maledetto chi ci andava a finire.

Ma neanche noi possiamo dare per pacifica e del tutto scontata la scelta della croce per Cristo e per i cristiani. Proviamo allora a confrontare la nostra vita di singoli e di famiglie, di consacrati e di comunità parrocchiali con le tre richieste che Gesù presenta a chi vuole essere suo autentico discepolo. Si tratta di richieste che ci interpellano con forza se vogliamo essere suoi seguaci.

Primo, “rinneghi se stesso”. Il verbo greco usato dall’evangelista Marco significa negare con forza, rigettare decisamente, rifiutare ogni interessato coinvolgimento personale. Perciò si può tradurre quel “rinneghi se stesso” con “smetta di pensare solo a se stesso”, o “non metta al centro se stesso”, esca dal suo egoismo-egocentrismo!

Secondo, “prenda la sua croce”. Non si tratta di cercare la sofferenza e la morte, bensì la fedeltà – una fedeltà radicale – e la solidarietà – una solidarietà a tutta prova, anche al prezzo più alto, quello della vita. Gesù infatti non ha ricercato la croce “per la croce”, ma ha vissuto tutta la sua vita facendosi carico dell’umanità più povera e sofferente. Ha trasformato la violenza ingiustamente inflittagli in amore incondizionatamente offerto, un amore che si dona e che perdona “a fondo perduto”.

La terza richiesta riguardante il discepolo è “mi segua”. Alla lettera il detto di Gesù si traduce così: “Se qualcuno vuole seguire, dietro di me”, espressione severa, che praticamente ripete due volte la stessa idea (seguire dice già andare dietro!). L’evangelista rimarca il fatto che la sequela del discepolo è un effettivo camminare vicino e dietro a Gesù, ricalcando fedelmente le sue orme. Davanti e a fianco al discepolo non c’è dunque una nuda croce, una generica richiesta della sofferenza, quanto piuttosto una persona: il Crocifisso. Non è tanto la croce che rende il Crocifisso degno di essere seguito, ma è piuttosto il Crocifisso che rende la croce degna di essere abbracciata.

 

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Il vero pane che Gesù dà https://www.lavoce.it/il-vero-pane-che-gesu-da/ Tue, 28 Jul 2015 12:18:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=40830 La folla attraversa il lago in direzione di Cafàrnao, alla ricerca di Gesù. Il tema della ricerca è costante nei Vangeli: si tratta spesso di una ricerca iniziale, inconsapevole, non riflessa, che scaturisce da esigenze primarie e immediate, come il bisogno di pane.

Anche noi spesso cerchiamo Gesù per il miracolo, per sentirci appagati, per vedere colmate le nostre povertà. Gesù non respinge questa esigenza elementare; ma è altro il dono che egli vuole portarci. Come spesso anche noi, la folla non ha ancora compreso che il miracolo non è un prodigio che mira a sorprendere, un modo per risolvere a buon mercato i problemi quotidiani, una soddisfazione materiale o un atto di potenza; il miracolo è segno, indica al di là di sé una verità più profonda, ed è quella che bisogna cercare.

La folla non ha visto il segno, si è fermata al pane: da qui parte Gesù per la grande catechesi eucaristica, per rivelare quale sia il pane vero che dà la vita. Non è “vedere” il segno a generare la fede, piuttosto è credere nella parola di Gesù che consente di “vedere” nel modo giusto il segno e di accoglierlo nel suo significato più vero e fecondo per la nostra vita.

Quanto accade nel racconto di Giovanni è peraltro ciò che si ripete in ogni celebrazione eucaristica, nella quale siamo invitati ad alimentare la nostra fede personale e la nostra vita comunitaria all’ unica mensa della Parola e del Corpo di Cristo, secondo la suggestiva espressione del Vaticano II (cfr. DV 21).

“Il pane della vita sono io”, afferma con decisione Gesù; “chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”. Andare a Gesù, entrare in comunione con lui attraverso l’ unica opera che Dio ci chiede di compiere: la fede, significa per noi assumere la sua logica, o meglio lasciarci introdurre in quel movimento di consegna che Gesù vive: donato dal Padre al fine di essere dono per il mondo.

La vita che, facendosi pane, Gesù ci comunica è la vita eterna. Una vita che dura, una vita che rimane, perché condivide la qualità stessa della vita di Dio. È il suo modo di essere, tutto attraversato e contrassegnato dalla logica del dono di sé: il dono della vita che il Padre fa al Figlio, che il Figlio accoglie e non disperde per donarla a sua volta agli uomini.

Il “fate questo in memoria di me” che ripetiamo in ogni eucaristia assume in tal modo il suo spessore più vero. Ci nutriamo di questo pane di vita, che è Gesù, per divenire sua memoria vivente e operante. Per saziarci di questo pane non dobbiamo fare molte opere o impegnare sforzi eccessivi: una sola è l’opera da compiere: credere in lui, Gesù, l’Inviato del Padre; come uno solo è il comandamento nuovo da vivere, l’amore.

La prospettiva di Giovanni è unitaria e unificante: c’è un solo pane di vita che ci sazia, il Signore Gesù; per entrare in comunione con lui è necessaria una sola opera, credere in lui, consentendo così alla vita che ci comunica di portare il suo unico frutto in noi, che è l’amore. In tal modo il dono che riceviamo non perisce, trattenendolo per noi stessi, ma rimane, come dono condiviso nella carità.

Lasciamo ora che Gesù parli a noi oggi. Il Signore ci pone innanzitutto la stessa domanda che pose alla folla: perché mi cercate? Tante volte ci rivolgiamo a lui con la lista dei nostri bisogni materiali: che ci preservi dalle malattie e dalla morte il più a lungo possibile; che faccia trovare un posto di lavoro a quel figlio o a quel nipote; che ci risolva i problemi di relazione con i capi o i colleghi in ufficio… Gesù invece si accredita come l’unico capace di saziare quella fame di felicità piena e duratura che ci portiamo dentro, come un marchio di fabbrica, e che viene dallo stesso Dio che ci ha creato.

Per questo l’uomo è sempre affamato e assetato di Infinito. Se noi ci illudiamo che la fame e la sete di felicità ci si plachi dentro sfamandoci di cose e di beni, se ci inventiamo un Cristo con la bacchetta magica per realizzare i nostri sogni, se lo riduciamo a un “tappabuchi” per i nostri cento bisogni, se lo scambiamo per un distributore automatico di grazie per noi e di disgrazie per i nostri nemici… allora Gesù non può darci l’unica “manna” che ci fa approdare alla vera terra promessa del più profondo desiderio umano, il pane della sua Parola e del suo Corpo.

Gesù non può essere il nostro pane fino a quando noi cerchiamo altri “pani”. Gesù non ci inganna, ma a una condizione: che noi non ci inganniamo su di lui. Gesù non può essere il Signore della nostra vita, finché il nostro Dio è il nostro “ io ”.

 

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Un solo pane basta per mille https://www.lavoce.it/un-solo-pane-basta-per-mille/ Tue, 21 Jul 2015 14:19:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=39734 In questa domenica la liturgia lascia il Vangelo di Marco e, dalla 17a alla 21a domenica dell’anno B, ci fa meditare sul capitolo 6 di Giovanni. Il miracolo della moltiplicazione dei pani – che viene presentato oggi – è il più importante dei tantissimi operati da Gesù: lo dimostra il fatto che viene riportato da tutti e quattro gli evangelisti, e Marco e Matteo lo raccontano addirittura due volte.

La ragione di questa importanza è chiara leggendo la conclusione del racconto di Giovanni: “Allora la gente, visto il segno che Gesù aveva appena compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!”. Il miracolo, ci dice l’evangelista è quindi “il segno” che dobbiamo leggere simbolicamente per non cadere nell’equivoco, cosa non infrequente nel Vangelo di Giovanni.

È opportuno tenere presente che l’Evangelista non usa mai il termine “miracolo” per riferirsi ai fatti prodigiosi, ma sempre la parola “segno”. Per aprirci a quanto Gesù vuole rivelarci oggi, dobbiamo entrare nel contesto del segno. Una moltitudine di persone è attratta da lui, perché si prende cura dei malati e li guarisce; ma non è solo un guaritore, un taumaturgo: egli è e resta un Maestro.

Per questo va sul monte, non per ricevere la parola di Dio come Mosè, ma per donarla: per questo si pone a sedere, non tanto perché sia stanco, ma perché questo è l’atteggiamento del maestro quando insegna. Anche la notazione “era vicina la Pasqua” non vuole solo dirci che è primavera. Questa indicazione ci riporta alla grande storia dell’Esodo e ai tanti segni che Dio aveva operato con Mosè per la liberazione degli ebrei e durante il loro cammino verso la Terra promessa. Ma il riferimento alla Pasqua ci spinge anche in avanti e anticipa simbolicamente il dono che Gesù farà del suo corpo nell’Ultima Cena.

Il secondo quadro nel racconto dei pani riguarda la discussione tra Gesù e i discepoli. La gente ha fame? Bisogna comprare il pane. Filippo fa un rapido calcolo: organizzando una colletta, col ricavato si potrebbe distribuire solo un pezzetto di pane per ciascuno degli oltre 5.000 presenti. I discepoli ragionano in termini di mercato, ma Gesù propone un’altra strada: alla logica del comprare sostituisce quella del dare.

Quei pochi panini e quei due pesciolini sono niente per tanta gente, secondo Andrea, ma secondo Gesù sono tanto per tutti, e ce ne sarà d’avanzo. Ecco il “segno”: se 5 sono i pani e 5.000 le persone, un solo pane basterà per mille; il tutto di uno sarà il molto dei tantissimi. Gesù poi compie quei gesti eucaristici che anticipano la sua Cena: prese i pani, rese grazie al Padre (letteralmente, fece eucaristia), li distribuì ai commensali.

Sono i verbi della Cena che danno al pane di Gesù il suo significato più profondo e più vero. Il pane è Gesù stesso; facendo la comunione con lui, riceviamo la sua vita in noi e diventiamo con lui figli del Padre e fratelli tra di noi. Il dono, che Gesù offre colma al di là di ogni misura. Le dodici ceste piene di resti non è un dato marginale, non indica solo la sovrabbondanza del cibo offerto da Gesù.

Il numero 12 ci dice: la comunità cristiana sa che il Pane di vita è custodito dalla Chiesa, il nuovo Israele, fondato sulle dodici colonne degli apostoli. Il segno dei pani ci fa da specchio per la nostra vita di singoli e di famiglie, di educatori e di comunità e ci pone più di una domanda, a cominciare da quella centrale: abbiamo capito il “fatto dei pani”? Partecipare all’eucaristia è rientrare nella logica di Gesù, che non è una logica di proprietà (ognuno per sé) o di quantità (ci vogliono troppi soldi) o di efficienza. Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere, a diventare sacramenti di comunione.

“Al mondo, il cristiano non fornisce pane, fornisce lievito” (Miguel de Unamuno). La logica di Gesù è la logica della gratuità, della condivisione totale: è la logica dell’amore. Per quanto poveri, tutti siamo abbastanza ricchi per avere almeno qualcosa da dare. Cosa possiamo fare? I lamenti sterili e i proclami retorici non risolvono.

Guardiamo bene nel nostro zainetto, abbiamo certamente qualche ora di tempo da donare, qualche talento da offrire, qualche competenza da mettere a disposizione. Chi di noi non ha i suoi “cinque pani e due pesci”? Se siamo disposti a metterli nelle mani del Signore, basteranno e avanzeranno perché nel nostro angolo di mondo ci sia un po’ più di fraternità, di pace, di giustizia, di gioia.

 

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Un raro ritratto di Gesù https://www.lavoce.it/un-raro-ritratto-di-gesu/ Tue, 14 Jul 2015 10:14:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=38761 Il testo del Vangelo che ascolteremo in questa 16a domenica del tempo ordinario è breve: cinque versetti. A prima vista, queste poche linee sembrano solo una breve introduzione al miracolo della moltiplicazione dei pani nel deserto. Se però la liturgia di questa domenica ha separato dal resto e sottolineato questi cinque versetti, vuol dire che racchiudono qualcosa di molto importante, che forse non si noterebbe “di sfuggita” .

Infatti questo brano rivela alcune caratteristiche di Gesù che hanno sempre colpito e continuano a farlo: la sua preoccupazione per la salute e la formazione dei discepoli, la sua umanità accogliente verso la gente povera di Galilea, la sua tenerezza verso le persone.

Se la Chiesa, per mezzo della liturgia, ci invita a riflettere su questi aspetti dell’attività di Gesù, lo fa per spingere ognuno di noi a prolungare e a fare nostro questo stesso atteggiamento del Maestro nel rapporto che abbiamo con lui e con gli altri. Quindi, oltre a fornirci un ritratto di Gesù formatore dei discepoli, il brano evangelico di Marco indica che annunciare la sua Buona Novella non è solo una questione di dottrina ma soprattutto di accoglienza, di bontà, di tenerezza, di disponibilità, di rivelazione dell’amore di Dio nella realtà “incarnata” di chi ci sta intorno.

“Seguire” era il termine che faceva parte del sistema educativo dell’epoca. Era usato per indicare il rapporto tra il discepolo e il maestro. Il rapporto maestro-discepolo è diverso dal rapporto professore-alunno. Gli alunni assistono alle lezioni del professore su una determinata materia. I discepoli “seguono” il maestro, vivono con lui. Ed è proprio durante questa “convivenza” con Gesù che i discepoli ricevono la loro formazione.

Gesù, il Maestro, è l’asse, il centro e il modello della formazione. Nei suoi atteggiamenti, è prova vivente del Regno, incarna l’amore di Dio, lo rivela. Molti piccoli gesti rispecchiano questa testimonianza di vita con cui Gesù indicava la sua presenza nella vita dei discepoli, preparandoli alla vita e alla missione.

Era il suo modo di dare una forma umana all’esperienza che lui stesso aveva avuto con il Padre. Per questo Gesù chiama i discepoli in disparte; in questo tempo, il Signore concede ciò che ha veramente promesso, ciò che è più necessario: concede se stesso. E trasmette il segreto del Regno e della vita: la Terra promessa non è un luogo geografico ma “un tempo con il Signore” per dare respiro alla pace, per dare ali al cuore, per essere riempiti della Sua presenza, per innamorarsi di nuovo.

Questo portava i discepoli ad avere altri occhi, nuovi atteggiamenti. Faceva nascere in loro una nuova consapevolezza nei riguardi della missione e di se stessi. Faceva sì che mettessero i loro piedi accanto a quelli degli esclusi. Sentiamoci tutti interpellati sulla qualità della nostra sequela di Gesù anche sapendo rimanere “in disparte con lui” come figli, come genitori, come educatori, nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità cristiane perché possiamo crescere in disponibilità, apertura e dialogo come discepoli autentici.

“Sbarcando, vide molta folla ed ebbe compassione di loro”. Gesù ha sempre compassione della gente e la “serve” in molti modi: scaccia gli spiriti immondi, cura i malati e coloro che sono maltrattati, purifica coloro che sono esclusi a causa di impurità, accoglie gli emarginati e fraternizza con loro.

Annuncia, chiama e convoca. Attrae, consola e aiuta. È una passione che si rivela: passione per il Padre e per la gente povera e abbandonata della sua terra. Lì dove trova gente che lo ascolta, parla e trasmette la Buona Novella. In qualsiasi luogo. Preso in un dilemma, fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla, e partito con un programma importante, Gesù ora è pronto a cambiarlo. Partiti per restare soli e riposare, i discepoli imparano a essere a disposizione dell’Uomo, sempre. A non appartenere a se stessi, ma al dolore e all’ansia di luce della terra.

La prima cosa che i discepoli imparano da Gesù è quella di commuoversi semplicemente, divinamente. Il tesoro che essi porteranno con sé dalla riva del lago è il ricordo dello sguardo di Gesù che si commuove. Ancora oggi è questo il tesoro che tutti noi siamo chiamati a salvare: il miracolo della compassione, perché nessuno si senta solo e abbandonato ma, anche per il nostro impegno, sia accolto e custodito dal Signore come pupilla dei suoi occhi.

 

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Il card. Antonelli pubblica un libro per rendere più visibile l’Invisibile https://www.lavoce.it/il-card-antonelli-pubblica-un-libro-per-rendere-piu-visibile-linvisibile/ Thu, 09 Jul 2015 09:01:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=38049 Il cardinale Ennio Antonelli
Il cardinale Ennio Antonelli

“Evangelizzare è più che istruire; è vivere una storia di relazioni con Dio e con gli uomini, una storia di azioni e parole, di gioie e sofferenze”. Parola del card. Ennio Antonelli , di cui è appena uscito il libro Visibilità dell’Invisibile. Dio con noi nella storia (ed. Ares). Lo abbiamo intervistato.

Tra Dio e l’uomo – come emerge dal libro – c’è un’infinita differenza. Allora come possono incontrarsi?

“L’infinita differenza non esclude la somiglianza. Le creature, specialmente l’uomo e il suo linguaggio, possono veicolare un riflesso di Dio, anche se debole e imperfetto.

Noi comunichiamo reciprocamente i nostri mondi interiori attraverso segni sensibili in un processo di auto-testimonianza, interpretazione e fiduciosa adesione.

Anche Dio si esprime mediante una storia di eventi e parole, complementari tra loro, che ha al centro Gesù di Nazareth, uomo concreto, ma straordinario, incomparabile.

Nella sua personalità singolarissima si compongono armoniosamente qualità antinomiche, che di solito non si trovano insieme in una sola persona. La singolarità paradossale di quest’uomo lascia trasparire la presenza e l’amore di Dio”.

Quali paradossi della figura di Gesù considera più significativi per costruire un nuovo umanesimo?

“Gesù vive, muore e risorge per una sola causa: la causa del regno di Dio, che è anche la causa dell’Uomo e della sua salvezza integrale. Cristo è santo, perfettamente unito al Padre nella preghiera e nell’obbedienza alla Sua volontà; nello stesso tempo è amico dei peccatori, pieno di misericordia verso di loro, fino a prendere su di sé il peso tremendo di tutti i peccati.

È libero e distaccato nei confronti delle realtà terrene e, nello stesso tempo, è impegnato a purificarle e valorizzarle, specie il matrimonio e la famiglia, il lavoro e l’economia.

Lotta contro la sofferenza e, nello stesso tempo, l’assume in prima persona, per renderla preziosa. Parla e agisce con autorità assoluta e, nello stesso tempo, si pone a servizio con totale dedizione.

Muore sulla croce come abbandonato da Dio e rifiutato dagli uomini, ma risorge il terzo giorno come Signore e Salvatore, che apre a tutti un futuro pieno di speranza nella storia e nell’eternità”.

Da Piero della Francesca a Raffaello a Caravaggio, da Van Gogh a Cézanne: qual è il messaggio delle immagini scelte a corredo dell’opera?

“Con una varietà di linguaggi si espone la stessa visione teologica. Nel corso della trattazione, segnalo a più riprese la complementarietà – per l’esperienza religiosa – dei due linguaggi fondamentali, quello simbolico e quello concettuale.

Il primo, intuitivo e affettivo, prevale nella preghiera e nella testimonianza, come del resto nelle relazioni interpersonali, nella poesia e nell’arte. Il secondo, preciso e riflesso, prevale nella teologia scientifica, come del resto nel sapere critico in genere”.

 

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Il Sacro conteso. Il Papa, Medjugorje e i media https://www.lavoce.it/il-sacro-conteso/ https://www.lavoce.it/il-sacro-conteso/#comments Thu, 11 Jun 2015 08:37:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=35361 Fedeli a Medjugorje
Fedeli a Medjugorje

Sono bastate poche parole di Papa Francesco, dette in due circostanze: sull’aereo di ritorno da Sarajevo, e nell’omelia della messa nella cappella di Santa Marta in Vaticano il 9 scorso, per suscitare interesse e vivaci discussioni.

Il Papa ha detto che sulle apparizioni di Medjugorje ci sarà una presa di posizione da parte della Santa Sede, sulla base dei risultati raggiunti dalla Commissione apposita presieduta dal card. Ruini.

E durante la messa ha precisato che la Madonna non è una… postina: “Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna manderà alle 4 del pomeriggio? Questa non è identità cristiana. L’ultima Parola di Dio si chiama Gesù, e niente di più”.

I media si sono subito scatenati, esasperando queste poche espressioni del Papa e arrivando diritti alla conclusione per cui – secondo loro – la storia di Medjugorje sarebbe tutto un bluff.

Al momento sembra di poter dire che l’intenzione di Papa Francesco fosse quella di ri-centrare la fede nel Cristo Signore, unico Mediatore tra Dio e gli uomini, colui che con la morte e risurrezione ha portato la salvezza a tutto il mondo. La stessa sua madre Maria ha tratto grazia e santità e ha avuto i privilegi della concezione immacolata e dell’assunzione al cielo per i “previsti” meriti del suo Figlio.

Queste precisazioni valgono nei confronti di coloro che – sia pure inconsapevolmente – possono essere eccessivamente trascinati dall’entusiasmo e dall’affetto verso la Madre di Dio e Madre della Chiesa, appagandosi e fermandosi a un culto mariano personale e popolare; mentre Maria deve condurre sempre a Gesù e ci invita come fece a Cana di Galilea: “Fate tutto ciò che vi dirà”.

Se in tempi prossimi, come previsto, vi sarà una dichiarazione più ampia e diffusa su Medjugorje, non potrà che essere improntata al riconoscimento di quanto di bene si è realizzato e si realizza nell’esperienza spirituale dei pellegrini sinceri, che cercano la conversione e il rafforzamento della fede attraverso il conforto di apparizioni che stimolano il sentimento interiore e rafforzano il senso della presenza del Divino. Di questi pellegrini sinceri ne conosciamo tutti alcuni, che hanno avuto esperienze spirituali autentiche e profonde.

Per quanto riguarda le apparizioni (e non ci sarebbe neppure bisogno che lo dicesse il Papa), non sarebbe plausibile una loro “programmazione predefinita”, quasi che la Madonna fosse a continua disposizione come un’impiegata delle Poste, come direbbe ironicamente Papa Bergoglio.

Eppure, tutto questo è avvenuto anche dalle nostre parti qualche tempo fa, quando fu annunciato un rosario con la presenza di una veggente che avrebbe avuto un’apparizione. Sembra di poter dire, a questo punto, che la confidenza con il Sacro, quando è esorbitante, lo distrugge e lo rende perfino ridicolo, gettando il disprezzo su ciò che vi è di più prezioso per i credenti.

Se poi le apparizioni siano autentiche, di origine soprannaturale e non solamente psicologica o mentale, lo dovranno stabilire gli autentici Pastori della Chiesa, illuminati dallo Spirito santo: i Vescovi e il Papa. E comunque saranno sempre da considerare rivelazioni “di carattere privato”, cioè che non devono obbligatoriamente essere credute da tutta la Chiesa, essendo chiusa l’èra della Rivelazione con la testimonianza dell’ultimo apostolo, Giovanni.

 

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