eucaristia / eucarestia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/eucaristia/ Settimanale di informazione regionale Wed, 04 Aug 2021 14:01:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg eucaristia / eucarestia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/eucaristia/ 32 32 Ostia d’amor scesa dal cielo https://www.lavoce.it/ostia-damor-scesa-dal-cielo/ Wed, 04 Aug 2021 13:32:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61607

Siamo ormai immersi nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Questa domenica è la tappa centrale delle cinque domeniche dedicate al “poliedro” del mistero eucaristico. Le sue tante facce hanno bisogno di essere ricondotte all’unità. Ci aiutano in queste domeniche anche le “profezie eucaristiche” dell’Antico Testamento, ma soprattutto la lettura attenta di questo lungo capitolo, che nel suo percorso ha dei punti di svolta sottolineati dall’avverbio “allora” (Gv 6,5.11.14.30.34.41.52). Non sono solo un punto di svolta, ma anche una chiave di volta, su cui si regge il passaggio successivo, collegato con il precedente.

"Io sono il pane della vita"

Infatti il Vangelo di domenica scorsa si concludeva così: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà più sete, mai!” (Gv 6,35). Questa netta affermazione non lascia spazio a interpretazioni e provoca il mormorio dei giudei: “Allora si misero a mormorare contro di lui” (v. 41). Così inizia il brano evangelico di questa domenica, che richiama da vicino la mormorazione degli israeliti in Esodo 16,2 contro Mosè ed Aronne; ed è ben più di un “parlottare” contrariato, è una vera e propria ribellione a Dio.

Gesù è visto solo come figlio di Giuseppe

Gesù non è più il profeta da innalzare come re sul trono di Israele (Gv 6,14-15) a motivo della moltiplicazione del pane, ma sembra essere diventato un bestemmiatore. “Come può costui affermare di essere il pane vivo disceso dal cielo?”  affermano i giudei (v. 41). L’incredulità, ancora una volta, nasconde la realtà profonda del segno: gli avversari vedono in Gesù solo il figlio di Giuseppe e i legami terreni dei parenti (v. 42). Anche Luca racconta lo scandalo di un Dio che realizza le promesse in un figlio del falegname. Gesù nella sinagoga di Nazaret rischia la vita nel proclamare l’avvento del Regno (Lc 4,18-21).

Le affermazioni sempre più "scandalose" di Gesù

Il Vangelo prosegue con incedere progressivo verso affermazioni sempre più “scandalose”: “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41), ossia la vera manna che il Padre continua a donare; “io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti” (v. 48-49). E qui Gesù indica di andare oltre l’esempio che i giudei continuano a portare; chiede di andare oltre i ristretti orizzonti dei riferimenti che garantivano le nostre certezze. Infine, “io sono il pane vivo disceso dal cielo” (v. 51), ciò che il Padre dona non è un elemento della natura, ma la rivelazione di Dio stesso (“Io Sono”).

Lo scandalo dell'Incarnazione

Ultimo passaggio, lo scandalo dell’Incarnazione, che raggiunge l’apice: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Accanto a questo procedere dall’alto verso il basso, Gesù indica una meta alta verso la quale tendere: la vita eterna. La fede in Lui è garanzia di risurrezione nell’ultimo giorno (v. 44). La fede in Lui è garanzia di vita eterna (v. 47.51). Ma il pane di cui parla Gesù non è solo un viatico per il regno dei cieli: è la forza per costruire il Regno ora, adombrato in quelle opere di giustizia che provengono dalla fede, perché a nessuno manchi il pane quotidiano

Il pane che dà forza

Ma il pane di cui parla Gesù è anche il “pane dei forti” che dà forza, infatti nella prima lettura è profetizzata quell’eucarestia che risolleva i perduti e i disperati. L’angelo porta il pane di vita a Elia: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” (1Re 19,7). Elia, rinfrancato nel corpo e nello spirito, “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (v. 8). La vicenda di Elia è anche un insegnamento spirituale, il pellegrinaggio verso la “santa montagna” è un ritorno alle radici della fede, dell’alleanza con Dio. Elia era nello sconforto perché la sua missione era fallita; vuole lasciarsi morire (v. 4) perché la sua vita è un fallimento. Ma Dio stesso interviene nella figura dell’angelo, lo nutre con il pane disceso dal cielo, per ricondurlo alle sorgenti dell’amore, nell’intimità di quel Dio che è Padre per sempre.

L'Ostia divina

Sembrano appropriate le parole di un canto eucaristico, molto popolare nelle nostre comunità. Con uno sguardo di contemplazione si canta all’Ostia divina che è “ostia d’amor”, dicendo: “Tu degli angeli il sospiro, tu dell’uomo sei l’onor, tu dei forti la dolcezza, tu dei deboli il vigor, tu salute dei viventi, tu speranza di chi muor”.

Gesù è sempre lì, al crocicchio della strada

Ogni nostra crisi, ogni nostra caduta ha già una strada tracciata da ripercorrere, per superare il passaggio a vuoto che stiamo vivendo. Ritornare a quell’incontro con Lui che ci ha cambiato la vita. Vale per ogni vocazione: ritornare alle radici ci farà scoprire che Dio, con noi, non si era sbagliato... Noi ci siamo distratti un po’, ma Lui è sempre lì al crocicchio della strada, e attende e sorregge il nostro passo.

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Siamo ormai immersi nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Questa domenica è la tappa centrale delle cinque domeniche dedicate al “poliedro” del mistero eucaristico. Le sue tante facce hanno bisogno di essere ricondotte all’unità. Ci aiutano in queste domeniche anche le “profezie eucaristiche” dell’Antico Testamento, ma soprattutto la lettura attenta di questo lungo capitolo, che nel suo percorso ha dei punti di svolta sottolineati dall’avverbio “allora” (Gv 6,5.11.14.30.34.41.52). Non sono solo un punto di svolta, ma anche una chiave di volta, su cui si regge il passaggio successivo, collegato con il precedente.

"Io sono il pane della vita"

Infatti il Vangelo di domenica scorsa si concludeva così: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà più sete, mai!” (Gv 6,35). Questa netta affermazione non lascia spazio a interpretazioni e provoca il mormorio dei giudei: “Allora si misero a mormorare contro di lui” (v. 41). Così inizia il brano evangelico di questa domenica, che richiama da vicino la mormorazione degli israeliti in Esodo 16,2 contro Mosè ed Aronne; ed è ben più di un “parlottare” contrariato, è una vera e propria ribellione a Dio.

Gesù è visto solo come figlio di Giuseppe

Gesù non è più il profeta da innalzare come re sul trono di Israele (Gv 6,14-15) a motivo della moltiplicazione del pane, ma sembra essere diventato un bestemmiatore. “Come può costui affermare di essere il pane vivo disceso dal cielo?”  affermano i giudei (v. 41). L’incredulità, ancora una volta, nasconde la realtà profonda del segno: gli avversari vedono in Gesù solo il figlio di Giuseppe e i legami terreni dei parenti (v. 42). Anche Luca racconta lo scandalo di un Dio che realizza le promesse in un figlio del falegname. Gesù nella sinagoga di Nazaret rischia la vita nel proclamare l’avvento del Regno (Lc 4,18-21).

Le affermazioni sempre più "scandalose" di Gesù

Il Vangelo prosegue con incedere progressivo verso affermazioni sempre più “scandalose”: “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41), ossia la vera manna che il Padre continua a donare; “io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti” (v. 48-49). E qui Gesù indica di andare oltre l’esempio che i giudei continuano a portare; chiede di andare oltre i ristretti orizzonti dei riferimenti che garantivano le nostre certezze. Infine, “io sono il pane vivo disceso dal cielo” (v. 51), ciò che il Padre dona non è un elemento della natura, ma la rivelazione di Dio stesso (“Io Sono”).

Lo scandalo dell'Incarnazione

Ultimo passaggio, lo scandalo dell’Incarnazione, che raggiunge l’apice: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Accanto a questo procedere dall’alto verso il basso, Gesù indica una meta alta verso la quale tendere: la vita eterna. La fede in Lui è garanzia di risurrezione nell’ultimo giorno (v. 44). La fede in Lui è garanzia di vita eterna (v. 47.51). Ma il pane di cui parla Gesù non è solo un viatico per il regno dei cieli: è la forza per costruire il Regno ora, adombrato in quelle opere di giustizia che provengono dalla fede, perché a nessuno manchi il pane quotidiano

Il pane che dà forza

Ma il pane di cui parla Gesù è anche il “pane dei forti” che dà forza, infatti nella prima lettura è profetizzata quell’eucarestia che risolleva i perduti e i disperati. L’angelo porta il pane di vita a Elia: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” (1Re 19,7). Elia, rinfrancato nel corpo e nello spirito, “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (v. 8). La vicenda di Elia è anche un insegnamento spirituale, il pellegrinaggio verso la “santa montagna” è un ritorno alle radici della fede, dell’alleanza con Dio. Elia era nello sconforto perché la sua missione era fallita; vuole lasciarsi morire (v. 4) perché la sua vita è un fallimento. Ma Dio stesso interviene nella figura dell’angelo, lo nutre con il pane disceso dal cielo, per ricondurlo alle sorgenti dell’amore, nell’intimità di quel Dio che è Padre per sempre.

L'Ostia divina

Sembrano appropriate le parole di un canto eucaristico, molto popolare nelle nostre comunità. Con uno sguardo di contemplazione si canta all’Ostia divina che è “ostia d’amor”, dicendo: “Tu degli angeli il sospiro, tu dell’uomo sei l’onor, tu dei forti la dolcezza, tu dei deboli il vigor, tu salute dei viventi, tu speranza di chi muor”.

Gesù è sempre lì, al crocicchio della strada

Ogni nostra crisi, ogni nostra caduta ha già una strada tracciata da ripercorrere, per superare il passaggio a vuoto che stiamo vivendo. Ritornare a quell’incontro con Lui che ci ha cambiato la vita. Vale per ogni vocazione: ritornare alle radici ci farà scoprire che Dio, con noi, non si era sbagliato... Noi ci siamo distratti un po’, ma Lui è sempre lì al crocicchio della strada, e attende e sorregge il nostro passo.

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Si fa presto a dire “pane”. Il discorso di Gesù sul “pane dal cielo” https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/ https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/#comments Sat, 31 Jul 2021 10:06:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61591

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>
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Il Risorto mantiene le promesse https://www.lavoce.it/il-risorto-mantiene-le-promesse/ Fri, 29 May 2020 17:47:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57245 logo rubrica domande sulla liturgia

Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
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Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
Dal 18 maggio messe con il popolo. Le regole nel protocollo Cei – Governo firmato oggi https://www.lavoce.it/dal-18-maggio-messe-con-il-popolo-le-regole-nel-protocollo-cei-governo-firmato-oggi/ Thu, 07 May 2020 11:10:37 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57052

È stato firmato questa mattina, a Palazzo Chigi, il Protocollo che permetterà la ripresa delle celebrazioni con il popolo. Ne dà notizia l’Ufficio comunicazioni sociali della Cei. Il testo giunge a conclusione di un percorso che ha visto la collaborazione tra la Conferenza episcopale italiana, il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Interno – nello specifico delle articolazioni, il Prefetto del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, Michele di Bari, e il Capo di Gabinetto, Alessandro Goracci – e il Comitato Tecnico-Scientifico. Nel rispetto della normativa sanitaria disposta per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, il Protocollo (scarica qui il pdf) indica alcune misure da ottemperare con cura, concernenti l’accesso ai luoghi di culto in occasione di celebrazioni liturgiche; l’igienizzazione dei luoghi e degli oggetti; le attenzioni da osservare nelle celebrazioni liturgiche e nei sacramenti; la comunicazione da predisporre per i fedeli, nonché alcuni suggerimenti generali. Nel predisporre il testo, precisa la nota, “si è puntato a tenere unite le esigenze di tutela della salute pubblica con indicazioni accessibili e fruibili da ogni comunità ecclesiale”. Il Protocollo – firmato dal presidente della Cei, card. Gualtiero Bassetti, dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese – entrerà in vigore da lunedì 18 maggio. “Il Protocollo è frutto di una profonda collaborazione e sinergia fra il Governo, il Comitato Tecnico-Scientifico e la Cei, dove ciascuno ha fatto la sua parte con responsabilità”, ha evidenziato il card. Bassetti, ribadendo l’impegno della Chiesa a contribuire al superamento della crisi in atto. “Le misure di sicurezza previste nel testo – ha sottolineato il presidente Conte – esprimono i contenuti e le modalità più idonee per assicurare che la ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo avvenga nella maniera più sicura. Ringrazio la Cei per il sostegno morale e materiale che sta dando all’intera collettività nazionale in questo momento difficile per il Paese”. “Fin dall’inizio abbiamo lavorato per giungere a questo Protocollo – ha concluso il ministro Lamorgese -: il lavoro fatto insieme ha dato un ottimo risultato. Analogo impegno abbiamo assunto anche con le altre Confessioni religiose”. https://www.youtube.com/watch?v=GIkxBN3645s&feature=youtu.be

Le disposizioni contenute nel Protocollo

Il testo del Protocollo, con le disposizioni che entrano in vigore da lunedì 18 maggio «Per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo, il presente Protocollo ha per oggetto le necessarie misure di sicurezza, cui ottemperare con cura, nel rispetto della normativa sanitaria e delle misure di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2.

1. ACCESSO AI LUOGHI DI CULTO IN OCCASIONE DI CELEBRAZIONI LITURGICHE

1.1. L'accesso individuale ai luoghi di culto si deve svolgere in modo da evitare ogni assembramento sia nell'edificio sia nei luoghi annessi, come per esempio le sacrestie e il sagrato. 1.2. Nel rispetto della normativa sul distanziamento tra le persone, il legale rappresentante dell'ente individua la capienza massima dell'edificio di culto, tenendo conto della distanza minima di sicurezza, che deve essere pari ad almeno un metro laterale e frontale. 1.3. L'accesso alla chiesa, in questa fase di transizione, resta contingentato e regolato da volontari e/o collaboratori che - indossando adeguati dispositivi di protezione individuale, guanti monouso e un evidente segno di riconoscimento - favoriscono l'accesso e l'uscita e vigilano sul numero massimo di presenze consentite. Laddove la partecipazione attesa dei fedeli superi significativamente il numero massimo di presenze consentite, si consideri l'ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche. 1.4. Per favorire un accesso ordinato, durante il quale andrà rispettata la distanza di sicurezza pari almeno 1,5 metro, si utilizzino, ove presenti, più ingressi, eventualmente distinguendo quelli riservati all'entrata da quelli riservati all'uscita. Durante l'entrata e l'uscita dei fedeli le porte rimangano aperte per favorire un flusso più sicuro ed evitare che porte e maniglie siano toccate. 1.5. Coloro che accedono ai luoghi di culto per le celebrazioni liturgiche sono tenuti a indossare mascherine. 1.6. Venga ricordato ai fedeli che non è consentito accedere al luogo della celebrazione in caso di sintomi influenzali/respiratori o in presenza di temperatura corporea pari o superiore ai 37,5° C. 1.7. Venga altresì ricordato ai fedeli che non è consentito l'accesso al luogo della celebrazione a coloro che sono stati in contatto con persone positive a SARS-CoV-2 nei giorni precedenti. 1.8. Si favorisca, per quanto possibile, l'accesso delle persone diversamente abili, prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente. 1.9. Agli ingressi dei luoghi di culto siano resi disponibili liquidi igienizzanti.

2. iGIENIZZAZIONE DEI LUOGHI E DEGLI OGGETTI

2.1. I luoghi di culto, ivi comprese le sagrestie, siano igienizzati regolarmente al termine di ogni celebrazione, mediante pulizia delle superfici con idonei detergenti ad azione antisettica. Si abbia, inoltre, cura di favorire il ricambio dell'aria. 2.2. Al termine di ogni celebrazione, i vasi sacri, le ampolline e altri oggetti utilizzati, così come gli stessi microfoni, vengano accuratamente disinfettati. 2.3. Si continui a mantenere vuote le acquasantiere della chiesa.

3. ATTENZIONI DA OSSERVARE NELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE

3.1. Per favorire il rispetto delle norme di distanziamento è necessario ridurre al minimo la presenza di concelebranti e ministri, che sono comunque tenuti al rispetto della distanza prevista anche in presbiterio. 3.2. Può essere prevista la presenza di un organista, ma in questa fase si ometta il coro. 3.3. Tra i riti preparatori alla Comunione si continui a omettere lo scambio del segno della pace. 3.4. La distribuzione della Comunione avvenga dopo che il celebrante e l'eventuale ministro straordinario avranno curato l'igiene delle loro mani e indossato guanti monouso; gli stessi - indossando la mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un'adeguata distanza di sicurezza - abbiano cura di offrire l'ostia senza venire a contatto con le mani dei fedeli. 3.5.1 fedeli assicurino il rispetto della distanza sanitaria. 3.6. Per ragioni igienico-sanitarie, non è opportuno che nei luoghi destinati ai fedeli siano presenti sussidi per i canti o di altro tipo. 3.7. Le eventuali offerte non siano raccolte durante la celebrazione, ma attraverso appositi contenitori, che possono essere collocati agli ingressi o in altro luogo ritenuto idoneo. 3.8. Il richiamo al pieno rispetto delle disposizioni sopraindicate, relative al distanziamento e all'uso di idonei dispositivi di protezione personale si applica anche nelle celebrazioni diverse da quella eucaristica o inserite in essa: Battesimo, Matrimonio, Unzione degli infermi ed Esequie. 3.9. Il sacramento della Penitenza sia amministrato in luoghi ampi e areati, che consentano a loro volta il pieno rispetto delle misure di distanziamento e la riservatezza richiesta dal sacramento stesso. Sacerdote e fedeli indossino sempre la mascherina. Nelle unzioni previste nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo e dell'Unzione degli infermi, il ministro indossi, oltre alla mascherina, guanti monouso. 3.10. La celebrazione del sacramento della Confermazione è rinviata.

4. ADEGUATA COMUNICAZIONE

4.1. Sarà cura di ogni Ordinario rendere noto i contenuti del presente Protocollo attraverso le modalità che assicurino la migliore diffusione. 4.2. All'ingresso di ogni chiesa sarà affisso un manifesto con le indicazioni essenziali, tra le quali non dovranno mancare:
- il numero massimo di partecipanti consentito in relazione alla capienza delì'edificio; - il divieto di ingresso per chi presenta sintomi influenzali/respiratori, temperatura corporea uguale o superiore ai 37,5° C o è stato in contatto con persone positive a SARS- CoV-2 nei giorni precedenti; - l'obbligo di rispettare sempre nell'accedere alla chiesa il mantenimento della distanza di sicurezza, l'osservanza di regole di igiene delle mani, l'uso di idonei dispositivi di protezione personale, a partire da una mascherina che copra naso e bocca.

5. ALTRI SUGGERIMENTI

5.1. Ove il luogo di culto non è idoneo al rispetto delle indicazioni del presente Protocollo, l'Ordinario del luogo può valutare la possibilità di celebrazioni all'aperto, assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria. 5.2. Si ricorda la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute. 5.3. Si favoriscano le trasmissioni delle celebrazioni in modalità streaming per la fruizione di chi non può partecipare alla celebrazione eucaristica.]]>

È stato firmato questa mattina, a Palazzo Chigi, il Protocollo che permetterà la ripresa delle celebrazioni con il popolo. Ne dà notizia l’Ufficio comunicazioni sociali della Cei. Il testo giunge a conclusione di un percorso che ha visto la collaborazione tra la Conferenza episcopale italiana, il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Interno – nello specifico delle articolazioni, il Prefetto del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, Michele di Bari, e il Capo di Gabinetto, Alessandro Goracci – e il Comitato Tecnico-Scientifico. Nel rispetto della normativa sanitaria disposta per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, il Protocollo (scarica qui il pdf) indica alcune misure da ottemperare con cura, concernenti l’accesso ai luoghi di culto in occasione di celebrazioni liturgiche; l’igienizzazione dei luoghi e degli oggetti; le attenzioni da osservare nelle celebrazioni liturgiche e nei sacramenti; la comunicazione da predisporre per i fedeli, nonché alcuni suggerimenti generali. Nel predisporre il testo, precisa la nota, “si è puntato a tenere unite le esigenze di tutela della salute pubblica con indicazioni accessibili e fruibili da ogni comunità ecclesiale”. Il Protocollo – firmato dal presidente della Cei, card. Gualtiero Bassetti, dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese – entrerà in vigore da lunedì 18 maggio. “Il Protocollo è frutto di una profonda collaborazione e sinergia fra il Governo, il Comitato Tecnico-Scientifico e la Cei, dove ciascuno ha fatto la sua parte con responsabilità”, ha evidenziato il card. Bassetti, ribadendo l’impegno della Chiesa a contribuire al superamento della crisi in atto. “Le misure di sicurezza previste nel testo – ha sottolineato il presidente Conte – esprimono i contenuti e le modalità più idonee per assicurare che la ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo avvenga nella maniera più sicura. Ringrazio la Cei per il sostegno morale e materiale che sta dando all’intera collettività nazionale in questo momento difficile per il Paese”. “Fin dall’inizio abbiamo lavorato per giungere a questo Protocollo – ha concluso il ministro Lamorgese -: il lavoro fatto insieme ha dato un ottimo risultato. Analogo impegno abbiamo assunto anche con le altre Confessioni religiose”. https://www.youtube.com/watch?v=GIkxBN3645s&feature=youtu.be

Le disposizioni contenute nel Protocollo

Il testo del Protocollo, con le disposizioni che entrano in vigore da lunedì 18 maggio «Per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo, il presente Protocollo ha per oggetto le necessarie misure di sicurezza, cui ottemperare con cura, nel rispetto della normativa sanitaria e delle misure di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2.

1. ACCESSO AI LUOGHI DI CULTO IN OCCASIONE DI CELEBRAZIONI LITURGICHE

1.1. L'accesso individuale ai luoghi di culto si deve svolgere in modo da evitare ogni assembramento sia nell'edificio sia nei luoghi annessi, come per esempio le sacrestie e il sagrato. 1.2. Nel rispetto della normativa sul distanziamento tra le persone, il legale rappresentante dell'ente individua la capienza massima dell'edificio di culto, tenendo conto della distanza minima di sicurezza, che deve essere pari ad almeno un metro laterale e frontale. 1.3. L'accesso alla chiesa, in questa fase di transizione, resta contingentato e regolato da volontari e/o collaboratori che - indossando adeguati dispositivi di protezione individuale, guanti monouso e un evidente segno di riconoscimento - favoriscono l'accesso e l'uscita e vigilano sul numero massimo di presenze consentite. Laddove la partecipazione attesa dei fedeli superi significativamente il numero massimo di presenze consentite, si consideri l'ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche. 1.4. Per favorire un accesso ordinato, durante il quale andrà rispettata la distanza di sicurezza pari almeno 1,5 metro, si utilizzino, ove presenti, più ingressi, eventualmente distinguendo quelli riservati all'entrata da quelli riservati all'uscita. Durante l'entrata e l'uscita dei fedeli le porte rimangano aperte per favorire un flusso più sicuro ed evitare che porte e maniglie siano toccate. 1.5. Coloro che accedono ai luoghi di culto per le celebrazioni liturgiche sono tenuti a indossare mascherine. 1.6. Venga ricordato ai fedeli che non è consentito accedere al luogo della celebrazione in caso di sintomi influenzali/respiratori o in presenza di temperatura corporea pari o superiore ai 37,5° C. 1.7. Venga altresì ricordato ai fedeli che non è consentito l'accesso al luogo della celebrazione a coloro che sono stati in contatto con persone positive a SARS-CoV-2 nei giorni precedenti. 1.8. Si favorisca, per quanto possibile, l'accesso delle persone diversamente abili, prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente. 1.9. Agli ingressi dei luoghi di culto siano resi disponibili liquidi igienizzanti.

2. iGIENIZZAZIONE DEI LUOGHI E DEGLI OGGETTI

2.1. I luoghi di culto, ivi comprese le sagrestie, siano igienizzati regolarmente al termine di ogni celebrazione, mediante pulizia delle superfici con idonei detergenti ad azione antisettica. Si abbia, inoltre, cura di favorire il ricambio dell'aria. 2.2. Al termine di ogni celebrazione, i vasi sacri, le ampolline e altri oggetti utilizzati, così come gli stessi microfoni, vengano accuratamente disinfettati. 2.3. Si continui a mantenere vuote le acquasantiere della chiesa.

3. ATTENZIONI DA OSSERVARE NELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE

3.1. Per favorire il rispetto delle norme di distanziamento è necessario ridurre al minimo la presenza di concelebranti e ministri, che sono comunque tenuti al rispetto della distanza prevista anche in presbiterio. 3.2. Può essere prevista la presenza di un organista, ma in questa fase si ometta il coro. 3.3. Tra i riti preparatori alla Comunione si continui a omettere lo scambio del segno della pace. 3.4. La distribuzione della Comunione avvenga dopo che il celebrante e l'eventuale ministro straordinario avranno curato l'igiene delle loro mani e indossato guanti monouso; gli stessi - indossando la mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un'adeguata distanza di sicurezza - abbiano cura di offrire l'ostia senza venire a contatto con le mani dei fedeli. 3.5.1 fedeli assicurino il rispetto della distanza sanitaria. 3.6. Per ragioni igienico-sanitarie, non è opportuno che nei luoghi destinati ai fedeli siano presenti sussidi per i canti o di altro tipo. 3.7. Le eventuali offerte non siano raccolte durante la celebrazione, ma attraverso appositi contenitori, che possono essere collocati agli ingressi o in altro luogo ritenuto idoneo. 3.8. Il richiamo al pieno rispetto delle disposizioni sopraindicate, relative al distanziamento e all'uso di idonei dispositivi di protezione personale si applica anche nelle celebrazioni diverse da quella eucaristica o inserite in essa: Battesimo, Matrimonio, Unzione degli infermi ed Esequie. 3.9. Il sacramento della Penitenza sia amministrato in luoghi ampi e areati, che consentano a loro volta il pieno rispetto delle misure di distanziamento e la riservatezza richiesta dal sacramento stesso. Sacerdote e fedeli indossino sempre la mascherina. Nelle unzioni previste nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo e dell'Unzione degli infermi, il ministro indossi, oltre alla mascherina, guanti monouso. 3.10. La celebrazione del sacramento della Confermazione è rinviata.

4. ADEGUATA COMUNICAZIONE

4.1. Sarà cura di ogni Ordinario rendere noto i contenuti del presente Protocollo attraverso le modalità che assicurino la migliore diffusione. 4.2. All'ingresso di ogni chiesa sarà affisso un manifesto con le indicazioni essenziali, tra le quali non dovranno mancare:
- il numero massimo di partecipanti consentito in relazione alla capienza delì'edificio; - il divieto di ingresso per chi presenta sintomi influenzali/respiratori, temperatura corporea uguale o superiore ai 37,5° C o è stato in contatto con persone positive a SARS- CoV-2 nei giorni precedenti; - l'obbligo di rispettare sempre nell'accedere alla chiesa il mantenimento della distanza di sicurezza, l'osservanza di regole di igiene delle mani, l'uso di idonei dispositivi di protezione personale, a partire da una mascherina che copra naso e bocca.

5. ALTRI SUGGERIMENTI

5.1. Ove il luogo di culto non è idoneo al rispetto delle indicazioni del presente Protocollo, l'Ordinario del luogo può valutare la possibilità di celebrazioni all'aperto, assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria. 5.2. Si ricorda la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute. 5.3. Si favoriscano le trasmissioni delle celebrazioni in modalità streaming per la fruizione di chi non può partecipare alla celebrazione eucaristica.]]>
Bassetti: è tempo di riprendere le celebrazioni. https://www.lavoce.it/bassetti-e-tempo-di-riprendere-le-celebrazioni/ Thu, 23 Apr 2020 19:22:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56980

“Ma ora, lo dico in coscienza a tutte le istituzioni, è arrivato il tempo di riprendere la celebrazione dell’Eucarestia domenicale e dei funerali in chiesa, oltre ai battesimi e a tutti gli altri sacramenti”. Lo scrive il Cardinale Gualtiero Bassetti nella “Lettera settimanale” che invia ai fedeli della sua diocesi di Perugia - Città della Pieve da quando è iniziato il “lockdown” a causa del Coronavirus. In questa ultima Lettera (qui il testo integrale), inviata oggi pomeriggio con la Newsletter “Nuntium Perusinum”, il Cardinale si rivolge alle Istituzioni affinché possa riprendere la vita della comunità ecclesiale, “naturalmente seguendo quelle misure necessarie a garantire la sicurezza in presenza di più persone nei luoghi pubblici”. Con queste parole il Card. Bassetti, si rivolge sì alle istituzioni civili ma il lungo e meditato messaggio è rivolto in particolare a coloro che in questo periodo sono stati coinvolti nel dibattito suscitato da fedeli, parroci e anche vescovi che hanno espresso critiche anche accese alla scelta fatta dalla Conferenza episcopale italiana di “chiudere le Chiese”.

Messe in streaming e dimensione sacerdotale del Battesimo

Nel testo Bassetti descrive una Chiesa che saprebbe dire “come si affronta una situazione di persecuzione” ma è rimasta “disorientata” da un evento mai vissuto prima. Così “generosità e inventiva” hanno moltiplicato le messe in streaming ma - sottolinea Bassetti toccando un punto caldo del dibattito sulle messe che non si è ancora chiuso, “guardare la Messa non è celebrarla”. “Cose che - sottolinea - chiamano in causa, se non del tutto almeno in parte, la responsabilità dei laici e la fede nella dimensione sacerdotale propria del Battesimo”. Il Cardinale offre dunque una riflessione sul momento presente della Chiesa che si è trovata nel deserto “esattamente come è accaduto al popolo di Israele”. “La Chiesa condivide con l’intera umanità questa improvvisa condizione di deserto globalizzato. Come riuscire a viverla? Questo è il punto su cui può venirci in aiuto la parola di Dio: che cosa ci può dire la Scrittura in relazione al deserto? E al deserto dei nostri giorni?”.

Domande tra Dio e l’uomo

E nel deserto di oggi riecheggia l’antica domanda del credente: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?». “Questa - sottolinea Bassetti - non è la domanda di un ateo, ma il dubbio di un credente che non ha ancora pienamente compreso che il Dio di Israele è un Dio liberatore. E tuttavia la domanda rimane, con tutta la sua forza provocatoria e scandalosa”. Il Cardinale Bassetti parla, dunque ai credenti, alla “comunità cristiana” alla quale chiede un “supplemento di umanità” che “non sempre noi cristiani riusciamo ad avere”. La domanda che dovrebbe porsi il credente, avverte Bassetti rieggendo il brano della Genesi in cui Dio cerca l’uomo, è “quella sulla nostra identità. Chi siamo noi?”. Il rischio, avverte Bassetti, è che ci costruiamo i nostro “vitello d’oro”, “Un dio-idolo a nostro uso e consumo, che risponda alle nostre esigenze. Ebbene, quel dio non esiste, ce lo siamo appunto creati. E lo accusiamo poi di aver mandato la pandemia”.

La salvezza viene dalla scienza?

La riflessione che il Cardinale chiede ai suoi fedeli non è fine a se stessa ma pone la grande questione della capacità di annuncio evengelico nel mondo in cui viviamo. “Se non ci poniamo correttamente la questione della ‘identità’ di Dio, rischiamo seriamente - avverte Bassetti - che, una volta usciti da questa pandemia, il mondo occidentale rimanga ancor più convinto che la vera salvezza viene solo dalla scienza e che la religione può tutt’al più avere un ruolo subalterno, magari consolatorio, ai margini della razionalità”. Una questione che il Cardinale pone nella sua dimensione ecumenica quando sottolinea che “Per le Chiese cristiane è l’ora di puntare sulla maturità della fede”.

La crisi rivela chi siamo

Quella che oggi stiamo vivendo, scrive Bassetti, è certamente un’ora di crisi ed è anche anche un’ora “apocalittica”, ma “nel senso biblico del termine: non cioè ‘distruzione’, ma ‘rivelazione’. In quest’ora della storia, il Signore ci rivela per quel che veramente siamo, per quello in cui realmente crediamo”. L’augurio del Cardinale è che da questa crisi “nasca quella compassione universale radicata nella Misericordia di Dio che ci renda più umani, nella convinzione che l’ultima parola della vita non è né la sofferenza, né il dolore, né la morte, ma l’amore, la bontà e la Resurrezione”.]]>

“Ma ora, lo dico in coscienza a tutte le istituzioni, è arrivato il tempo di riprendere la celebrazione dell’Eucarestia domenicale e dei funerali in chiesa, oltre ai battesimi e a tutti gli altri sacramenti”. Lo scrive il Cardinale Gualtiero Bassetti nella “Lettera settimanale” che invia ai fedeli della sua diocesi di Perugia - Città della Pieve da quando è iniziato il “lockdown” a causa del Coronavirus. In questa ultima Lettera (qui il testo integrale), inviata oggi pomeriggio con la Newsletter “Nuntium Perusinum”, il Cardinale si rivolge alle Istituzioni affinché possa riprendere la vita della comunità ecclesiale, “naturalmente seguendo quelle misure necessarie a garantire la sicurezza in presenza di più persone nei luoghi pubblici”. Con queste parole il Card. Bassetti, si rivolge sì alle istituzioni civili ma il lungo e meditato messaggio è rivolto in particolare a coloro che in questo periodo sono stati coinvolti nel dibattito suscitato da fedeli, parroci e anche vescovi che hanno espresso critiche anche accese alla scelta fatta dalla Conferenza episcopale italiana di “chiudere le Chiese”.

Messe in streaming e dimensione sacerdotale del Battesimo

Nel testo Bassetti descrive una Chiesa che saprebbe dire “come si affronta una situazione di persecuzione” ma è rimasta “disorientata” da un evento mai vissuto prima. Così “generosità e inventiva” hanno moltiplicato le messe in streaming ma - sottolinea Bassetti toccando un punto caldo del dibattito sulle messe che non si è ancora chiuso, “guardare la Messa non è celebrarla”. “Cose che - sottolinea - chiamano in causa, se non del tutto almeno in parte, la responsabilità dei laici e la fede nella dimensione sacerdotale propria del Battesimo”. Il Cardinale offre dunque una riflessione sul momento presente della Chiesa che si è trovata nel deserto “esattamente come è accaduto al popolo di Israele”. “La Chiesa condivide con l’intera umanità questa improvvisa condizione di deserto globalizzato. Come riuscire a viverla? Questo è il punto su cui può venirci in aiuto la parola di Dio: che cosa ci può dire la Scrittura in relazione al deserto? E al deserto dei nostri giorni?”.

Domande tra Dio e l’uomo

E nel deserto di oggi riecheggia l’antica domanda del credente: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?». “Questa - sottolinea Bassetti - non è la domanda di un ateo, ma il dubbio di un credente che non ha ancora pienamente compreso che il Dio di Israele è un Dio liberatore. E tuttavia la domanda rimane, con tutta la sua forza provocatoria e scandalosa”. Il Cardinale Bassetti parla, dunque ai credenti, alla “comunità cristiana” alla quale chiede un “supplemento di umanità” che “non sempre noi cristiani riusciamo ad avere”. La domanda che dovrebbe porsi il credente, avverte Bassetti rieggendo il brano della Genesi in cui Dio cerca l’uomo, è “quella sulla nostra identità. Chi siamo noi?”. Il rischio, avverte Bassetti, è che ci costruiamo i nostro “vitello d’oro”, “Un dio-idolo a nostro uso e consumo, che risponda alle nostre esigenze. Ebbene, quel dio non esiste, ce lo siamo appunto creati. E lo accusiamo poi di aver mandato la pandemia”.

La salvezza viene dalla scienza?

La riflessione che il Cardinale chiede ai suoi fedeli non è fine a se stessa ma pone la grande questione della capacità di annuncio evengelico nel mondo in cui viviamo. “Se non ci poniamo correttamente la questione della ‘identità’ di Dio, rischiamo seriamente - avverte Bassetti - che, una volta usciti da questa pandemia, il mondo occidentale rimanga ancor più convinto che la vera salvezza viene solo dalla scienza e che la religione può tutt’al più avere un ruolo subalterno, magari consolatorio, ai margini della razionalità”. Una questione che il Cardinale pone nella sua dimensione ecumenica quando sottolinea che “Per le Chiese cristiane è l’ora di puntare sulla maturità della fede”.

La crisi rivela chi siamo

Quella che oggi stiamo vivendo, scrive Bassetti, è certamente un’ora di crisi ed è anche anche un’ora “apocalittica”, ma “nel senso biblico del termine: non cioè ‘distruzione’, ma ‘rivelazione’. In quest’ora della storia, il Signore ci rivela per quel che veramente siamo, per quello in cui realmente crediamo”. L’augurio del Cardinale è che da questa crisi “nasca quella compassione universale radicata nella Misericordia di Dio che ci renda più umani, nella convinzione che l’ultima parola della vita non è né la sofferenza, né il dolore, né la morte, ma l’amore, la bontà e la Resurrezione”.]]>
Messe on line. Papa Francesco: sì, “ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci” https://www.lavoce.it/messeonline-papa-si-ma-per-uscire-dal-tunnel-familiarita/ Thu, 23 Apr 2020 09:12:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56958

“Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa […] questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”. Così Papa Francesco nell’omelia del 17 aprile a Santa Marta, ha ammonito il popolo di Dio, mettendolo in guardia da una possibile deriva che questo tempo potrebbe portare con sé e che lui ha chiamato “viralizzazione”, cioè il rischio di non aver più la ferma consapevolezza che la familiarità con Gesù è concreta e non virtuale, come lo è stata quella vissuta dai discepoli con il Risorto e commentata dal Papa in Santa Marta (cfr. Gv 21,1-14). Parole semplici e precise che potrebbero aprire una lunga e densa riflessione che tutto il popolo di Dio è invitato ad affrontare. Perché, continua il Santo Padre, “è vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo: ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci”. Le misure adottate per contrastare l’attuale pandemia effettivamente hanno portato a non ritrovarsi più come popolo che celebrare insieme la Cena del Signore, come il non abitare e vivere i luoghi tipici della comunità cristiana, pensiamo alle chiese o agli oratori, come agli altri luoghi pastorali. Tutto ciò è stato, dati alla mano, necessario per aiutare il rallentamento dell’epidemia nella speranza che la corsa, in un futuro non troppo remoto, possa anche trovare la sua fine. Vietare gli assembramenti che non potessero assicurare il così detto “distanziamento sociale”, ha portato a vivere un altro ambiente, quello virtuale, nel quale anche la Chiesa, che già lo abitava timidamente da tempo, si è catapultata per non arrendersi di fronte alla realtà complessa che si sta attraversando.

Nel tunnel della straordinarietà

D’altra parte tra distanziamento e fede on-line, da non demonizzare, si potrebbe correre il rischio di rimanere intrappolati nel “tunnel” della straordinarietà, dettata dagli eventi, assunta come via ordinaria di essere Chiesa. Cosa possiamo fare di fronte a questa possibile deriva? Anzitutto ricordare cosa significa essere comunità cristiana. Per far ciò possiamo lasciare che la Scrittura illumini la riflessione, in particolare l’immagine delineata in Atti degli Apostoli: i battezzati
“erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio” (v. 42-47).
Significativo il fatto che in tutto il racconto viene sempre utilizzato il plurale ma soprattutto tutto ciò che i primi battezzati facevano lo facevano insieme.

La fede vissuta al plurale

Lo spezzare il pane (fede celebrata), come l’essere assidui nell'insegnamento degli apostoli (la fede annunciata), infine l’avere in comune ogni cosa (la fede vissuta): non è questione di singolare ma di plurale. La “familiarità” richiamata da papa Francesco dunque, non può essere solo ideale o spirituale né tanto meno solo digitale, perché “può diventare – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio”. La strada tracciata dal Pontefice, per vivere questa familiarità con Gesù, sembra reggersi dunque in una relazione sì intima ma al contempo necessariamente comunitaria. Dove ciò che oggi è vietato o visto con sospetto, cioè il contatto reale, invece è la chiave. Non resta dunque che attendere di ritornare ad essere Chiesa dell’incontro, della prossimità, della familiarità, non mediata dallo schermo. Attesa che non significa immobilità o adagiamento al contesto attuale. All’opposto significa progettare, tra una diretta e l’altra, il come tornare ad essere ciò che ora siamo solo in parte. Francesco Verzini]]>

“Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa […] questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”. Così Papa Francesco nell’omelia del 17 aprile a Santa Marta, ha ammonito il popolo di Dio, mettendolo in guardia da una possibile deriva che questo tempo potrebbe portare con sé e che lui ha chiamato “viralizzazione”, cioè il rischio di non aver più la ferma consapevolezza che la familiarità con Gesù è concreta e non virtuale, come lo è stata quella vissuta dai discepoli con il Risorto e commentata dal Papa in Santa Marta (cfr. Gv 21,1-14). Parole semplici e precise che potrebbero aprire una lunga e densa riflessione che tutto il popolo di Dio è invitato ad affrontare. Perché, continua il Santo Padre, “è vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo: ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci”. Le misure adottate per contrastare l’attuale pandemia effettivamente hanno portato a non ritrovarsi più come popolo che celebrare insieme la Cena del Signore, come il non abitare e vivere i luoghi tipici della comunità cristiana, pensiamo alle chiese o agli oratori, come agli altri luoghi pastorali. Tutto ciò è stato, dati alla mano, necessario per aiutare il rallentamento dell’epidemia nella speranza che la corsa, in un futuro non troppo remoto, possa anche trovare la sua fine. Vietare gli assembramenti che non potessero assicurare il così detto “distanziamento sociale”, ha portato a vivere un altro ambiente, quello virtuale, nel quale anche la Chiesa, che già lo abitava timidamente da tempo, si è catapultata per non arrendersi di fronte alla realtà complessa che si sta attraversando.

Nel tunnel della straordinarietà

D’altra parte tra distanziamento e fede on-line, da non demonizzare, si potrebbe correre il rischio di rimanere intrappolati nel “tunnel” della straordinarietà, dettata dagli eventi, assunta come via ordinaria di essere Chiesa. Cosa possiamo fare di fronte a questa possibile deriva? Anzitutto ricordare cosa significa essere comunità cristiana. Per far ciò possiamo lasciare che la Scrittura illumini la riflessione, in particolare l’immagine delineata in Atti degli Apostoli: i battezzati
“erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio” (v. 42-47).
Significativo il fatto che in tutto il racconto viene sempre utilizzato il plurale ma soprattutto tutto ciò che i primi battezzati facevano lo facevano insieme.

La fede vissuta al plurale

Lo spezzare il pane (fede celebrata), come l’essere assidui nell'insegnamento degli apostoli (la fede annunciata), infine l’avere in comune ogni cosa (la fede vissuta): non è questione di singolare ma di plurale. La “familiarità” richiamata da papa Francesco dunque, non può essere solo ideale o spirituale né tanto meno solo digitale, perché “può diventare – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio”. La strada tracciata dal Pontefice, per vivere questa familiarità con Gesù, sembra reggersi dunque in una relazione sì intima ma al contempo necessariamente comunitaria. Dove ciò che oggi è vietato o visto con sospetto, cioè il contatto reale, invece è la chiave. Non resta dunque che attendere di ritornare ad essere Chiesa dell’incontro, della prossimità, della familiarità, non mediata dallo schermo. Attesa che non significa immobilità o adagiamento al contesto attuale. All’opposto significa progettare, tra una diretta e l’altra, il come tornare ad essere ciò che ora siamo solo in parte. Francesco Verzini]]>
Coronavirus. Niente messe, ma almeno la comunione si può fare? https://www.lavoce.it/coronavirus-la-comunione-si-puo-fare/ https://www.lavoce.it/coronavirus-la-comunione-si-puo-fare/#comments Tue, 21 Apr 2020 13:11:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56910 logo rubrica domande sulla liturgia

Ad oggi ancora non è possibile partecipare alla Messa. È possibile ricevere almeno la comunione, sempre chiaramente rispettando tutte le norme igienico-sanitarie? In molti se lo chiedono. Cercherò di rispondere tenendo conto dell’attuale situazione che le nostre comunità cristiane stanno vivendo. Non mi permettono di dare una soluzione assoluta ma piuttosto una risposta aperta. Cercando di suscitare una riflessione, anche provocatoria, sia sua sia degli altri lettori, preti o laici che siano.

Comunione fuori dalla messa

Partiamo anzitutto da un dato storico che ci permette di collocare la comunione fuori dalla messa nel suo contesto originario. Giustino, martire e apologeta cristiano del II secolo, nella sua Prima Apologia, descrivendo l’assemblea eucaristica domenicale testimonia che “a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi  (il pane e il vino, ndr) sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi” (cfr. Prima Apologia, c.67) (Il brano è proposto nell'Ufficio delle letture della III domenica di Pasqua, quest'anno il 26 aprile). Da questo possiamo dedurre come conseguenza che la Chiesa, almeno in alcune regioni geografiche, sin dalle origini abbia assunto come prassi quella di comunicare anche le persone assenti alla celebrazione. Giustino non specifica il motivo dell’assenza, ma possiamo supporre che gli assenti fossero coloro impossibilitati a prendere parte alla celebrazione, come gli ammalati. Questo in qualche maniera giustificherebbe la prassi sempre più diffusa nella Chiesa di conservare l’eucarestia anzitutto per la comunione ai malati o ai morenti. Il resto dei fedeli partecipavano e partecipano oggi come allora alla comunione sacramentale nella celebrazione della messa – o della celebrazione della Parola nel caso in cui sia un diacono a presiederla - e non al di fuori di essa. Ci sono però alcuni documenti magisteriali, come anche il Rito della comunione fuori dalla messa e culto eucaristico, che aprono alla possibilità di dare la comunione “anche fuori dalla Messa ai fedeli che ne fanno richiesta” (n.14). Possiamo quindi rispondere alla domanda in maniera affermativa. La possibilità di ricevere la comunione fuori dalla messa oggi è legittimata dall’indicazione del rituale, poiché attualmente i fedeli non possono prendere parte alla celebrazione.

Ciò che è legittimo è anche opportuno?

Detto questo, pongo una domanda: cosa ci manca in questo momento emergenziale? Cioè perché chiediamo come laici, o pratichiamo come preti, la comunione fuori dalla messa? Mi permetto di chiederlo perché - senza giudizio alcuno - se la risposta fosse limitata al solo desiderio, più che comprensibile, di fare la comunione allora ci si potrebbe chiedere se abbiamo consapevolezza di cosa sia l’eucarestia. L'eucarestia è una celebrazione ricca di riti e parole che concorrono tutti all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa? Oppure l’eucarestia sono solo le specie eucaristiche quasi fossero uno dei tanti oggetti che rispondono a qualche nostro bisogno?

Infine: tutto ciò che è legittimo è anche opportuno?

Nella situazione che stiamo vivendo è opportuno fare la comunione fuori dalla messa, ingenerando il rischio di sganciare l’eucarestia dal suo contesto celebrativo, che non è riducibile alle sole specie eucaristiche, e magari di avallare con questa prassi una fede poco matura che cade nel devozionismo? Buona riflessione. Francesco Verzini]]>
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Ad oggi ancora non è possibile partecipare alla Messa. È possibile ricevere almeno la comunione, sempre chiaramente rispettando tutte le norme igienico-sanitarie? In molti se lo chiedono. Cercherò di rispondere tenendo conto dell’attuale situazione che le nostre comunità cristiane stanno vivendo. Non mi permettono di dare una soluzione assoluta ma piuttosto una risposta aperta. Cercando di suscitare una riflessione, anche provocatoria, sia sua sia degli altri lettori, preti o laici che siano.

Comunione fuori dalla messa

Partiamo anzitutto da un dato storico che ci permette di collocare la comunione fuori dalla messa nel suo contesto originario. Giustino, martire e apologeta cristiano del II secolo, nella sua Prima Apologia, descrivendo l’assemblea eucaristica domenicale testimonia che “a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi  (il pane e il vino, ndr) sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi” (cfr. Prima Apologia, c.67) (Il brano è proposto nell'Ufficio delle letture della III domenica di Pasqua, quest'anno il 26 aprile). Da questo possiamo dedurre come conseguenza che la Chiesa, almeno in alcune regioni geografiche, sin dalle origini abbia assunto come prassi quella di comunicare anche le persone assenti alla celebrazione. Giustino non specifica il motivo dell’assenza, ma possiamo supporre che gli assenti fossero coloro impossibilitati a prendere parte alla celebrazione, come gli ammalati. Questo in qualche maniera giustificherebbe la prassi sempre più diffusa nella Chiesa di conservare l’eucarestia anzitutto per la comunione ai malati o ai morenti. Il resto dei fedeli partecipavano e partecipano oggi come allora alla comunione sacramentale nella celebrazione della messa – o della celebrazione della Parola nel caso in cui sia un diacono a presiederla - e non al di fuori di essa. Ci sono però alcuni documenti magisteriali, come anche il Rito della comunione fuori dalla messa e culto eucaristico, che aprono alla possibilità di dare la comunione “anche fuori dalla Messa ai fedeli che ne fanno richiesta” (n.14). Possiamo quindi rispondere alla domanda in maniera affermativa. La possibilità di ricevere la comunione fuori dalla messa oggi è legittimata dall’indicazione del rituale, poiché attualmente i fedeli non possono prendere parte alla celebrazione.

Ciò che è legittimo è anche opportuno?

Detto questo, pongo una domanda: cosa ci manca in questo momento emergenziale? Cioè perché chiediamo come laici, o pratichiamo come preti, la comunione fuori dalla messa? Mi permetto di chiederlo perché - senza giudizio alcuno - se la risposta fosse limitata al solo desiderio, più che comprensibile, di fare la comunione allora ci si potrebbe chiedere se abbiamo consapevolezza di cosa sia l’eucarestia. L'eucarestia è una celebrazione ricca di riti e parole che concorrono tutti all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa? Oppure l’eucarestia sono solo le specie eucaristiche quasi fossero uno dei tanti oggetti che rispondono a qualche nostro bisogno?

Infine: tutto ciò che è legittimo è anche opportuno?

Nella situazione che stiamo vivendo è opportuno fare la comunione fuori dalla messa, ingenerando il rischio di sganciare l’eucarestia dal suo contesto celebrativo, che non è riducibile alle sole specie eucaristiche, e magari di avallare con questa prassi una fede poco matura che cade nel devozionismo? Buona riflessione. Francesco Verzini]]>
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Giovedì santo. In quella Cena si dà valore ai piedi https://www.lavoce.it/giovedi-santo-lavanda-dei-piedi/ Wed, 25 Mar 2020 12:00:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56547 logo rubrica domande sulla liturgia

Il Giovedì santo si celebra l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio. Allora perché il Vangelo del giorno non ne parla?

Sul far della sera del Giovedì santo le comunità cristiane si ritrovano - o così avveniva: quest’anno farà probabilmente eccezione - nella propria chiesa parrocchiale insieme ai presbiteri che lì svolgono il ministero, per dare inizio al Triduo pasquale con la celebrazione della messa in Coena Domini (la Cena del Signore). In questa celebrazione si canta il Gloria, che non era più stato cantato dall’inizio di Quaresima, e si suonano le campane, che non suoneranno più fino alla Veglia pasquale, per sottolineare lo spirito con il quale si celebrano gli ultimi istanti di vita del Signore Gesù, che culmineranno con la sua risurrezione. Attraverso i testi liturgici e i riti che vi si compiono, sono sottolineati due temi preziosissimi per la comunità cristiana: l’istituzione dell’eucarestia e del sacerdozio ministeriale. Potremmo immaginare che nella messa in cui si fa memoria dell’Ultima Cena del Signore il testo scritturistico di riferimento sia uno dei racconti d’istituzione riportati dai Vangeli sinottici (Mt 26,17-29; Mc 14,12-16; Lc 22,14-20), invece il Vangelo proclamato è sì della Cena del Signore, ma preso da Giovanni (13,1-15), nel quale si riporta la lavanda dei piedi. Uno dei racconti d’istituzione dell’eucarestia viene comunque proclamato: la seconda lettura è tratta dalla Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (11, 23-26), nella quale troviamo il testo più antico dell’istituzione. È significativo però il fatto che nel giorno in cui i temi portanti della liturgia sono l’eucarestia e il sacerdozio ministeriale, la Parola e il rito che focalizzano l’attenzione sono la lavanda dei piedi. Non solo si proclama il brano giovanneo, ma, dopo l’omelia, ha luogo l’attualizzazione di ciò che era narrato nel brano.

Il significato del gesto spiegato da Gesù

È come se queste due cose - Parola proclamata e rito della lavanda dei piedi - ci offrissero la chiave di lettura per interpretare i temi portanti della celebrazione. Anzi, è Gesù stesso a consegnarci la chiave interpretativa, quando, terminata la lavanda dei piedi ai suoi apostoli, chiede: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,12-15). Talvolta sono i sacerdoti stessi a dover ri-comprendere che l’Ordine non può essere inteso solo come l’ingresso in un ordo sacro, ma si viene ordinati a servizio del popolo di Dio. Su questo punto, il gesto rituale della lavanda dei piedi invita ogni anno a ripensare che la nostra vocazione è di essere “Chiesa del grembiule”, per utilizzare le celebri parole di don Tonino Bello. È la stessa eucarestia - che continuiamo ad adorare a fine celebrazione nel Giovedì santo - a ‘dirci’ che il Signore Gesù si è sacrificato per noi, e così tutto il popolo di Dio, ministri ordinati e non, ha questa comune vocazione: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12). Don Francesco Verzini]]>
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Il Giovedì santo si celebra l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio. Allora perché il Vangelo del giorno non ne parla?

Sul far della sera del Giovedì santo le comunità cristiane si ritrovano - o così avveniva: quest’anno farà probabilmente eccezione - nella propria chiesa parrocchiale insieme ai presbiteri che lì svolgono il ministero, per dare inizio al Triduo pasquale con la celebrazione della messa in Coena Domini (la Cena del Signore). In questa celebrazione si canta il Gloria, che non era più stato cantato dall’inizio di Quaresima, e si suonano le campane, che non suoneranno più fino alla Veglia pasquale, per sottolineare lo spirito con il quale si celebrano gli ultimi istanti di vita del Signore Gesù, che culmineranno con la sua risurrezione. Attraverso i testi liturgici e i riti che vi si compiono, sono sottolineati due temi preziosissimi per la comunità cristiana: l’istituzione dell’eucarestia e del sacerdozio ministeriale. Potremmo immaginare che nella messa in cui si fa memoria dell’Ultima Cena del Signore il testo scritturistico di riferimento sia uno dei racconti d’istituzione riportati dai Vangeli sinottici (Mt 26,17-29; Mc 14,12-16; Lc 22,14-20), invece il Vangelo proclamato è sì della Cena del Signore, ma preso da Giovanni (13,1-15), nel quale si riporta la lavanda dei piedi. Uno dei racconti d’istituzione dell’eucarestia viene comunque proclamato: la seconda lettura è tratta dalla Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (11, 23-26), nella quale troviamo il testo più antico dell’istituzione. È significativo però il fatto che nel giorno in cui i temi portanti della liturgia sono l’eucarestia e il sacerdozio ministeriale, la Parola e il rito che focalizzano l’attenzione sono la lavanda dei piedi. Non solo si proclama il brano giovanneo, ma, dopo l’omelia, ha luogo l’attualizzazione di ciò che era narrato nel brano.

Il significato del gesto spiegato da Gesù

È come se queste due cose - Parola proclamata e rito della lavanda dei piedi - ci offrissero la chiave di lettura per interpretare i temi portanti della celebrazione. Anzi, è Gesù stesso a consegnarci la chiave interpretativa, quando, terminata la lavanda dei piedi ai suoi apostoli, chiede: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,12-15). Talvolta sono i sacerdoti stessi a dover ri-comprendere che l’Ordine non può essere inteso solo come l’ingresso in un ordo sacro, ma si viene ordinati a servizio del popolo di Dio. Su questo punto, il gesto rituale della lavanda dei piedi invita ogni anno a ripensare che la nostra vocazione è di essere “Chiesa del grembiule”, per utilizzare le celebri parole di don Tonino Bello. È la stessa eucarestia - che continuiamo ad adorare a fine celebrazione nel Giovedì santo - a ‘dirci’ che il Signore Gesù si è sacrificato per noi, e così tutto il popolo di Dio, ministri ordinati e non, ha questa comune vocazione: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12). Don Francesco Verzini]]>
La Luce che illumina i ciechi https://www.lavoce.it/la-luce-che-illumina-i-ciechi/ Sat, 21 Mar 2020 13:22:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56522 logo reubrica commento al Vangelo

Siamo alla seconda tappa del nostro cammino verso la Pasqua segnato dalle grandi icone evangeliche in cui Gesù si identifica con i “simboli” battesimali. Proveniamo dalla domenica in cui ci siamo dissetati all’acqua viva: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno” ( Gv 4,14); questa domenica veniamo illuminati da Cristo luce del mondo (v. 5); domenica prossima Lazzaro attesterà che Cristo è la risurrezione e la vita ( Gv 11,25). Un cammino che ci accompagna alla riscoperta del nostro battesimo e accompagna coloro che nella Veglia pasquale risorgeranno a vita nuova, immersi nell’acqua che illumina e dà vita. Questa quarta domenica rappresenta anche una particolarità nel percorso quaresimale; è chiamata “domenica in Laetare ”, ossia domenica della gioia. Il termine è mutuato dall’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: “Rallègrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”. Il motivo della gioia e dell’esultanza - ricorda la Colletta pasquale - è l’approssimarsi della Pasqua, verso la quale siamo chiamati a camminare con fede viva.

Tempo di digiuno eucaristico

Ma come gioire in tempo di deserto liturgico, di “digiuno eucaristico” del popolo di Dio? Con la memoria grata per l’abbondanza della grazia celebrata e vissuta nel tempo. Una memoria che irrora di speranza l’attuale deserto, dove “lo Spirito ci ha condotti”, un deserto che però continua a essere irrigato e fiorirà a tempo debito. Viviamo bene anche questo tempo senza cercare “colpevoli”, come ci indica il Vangelo di questo domenica. Gesù, infatti, supera la visione della malattia come conseguenza del peccato. I discepoli stessi lo interrogano proprio su questo, e chiedono conto a Gesù della condizione di quell’uomo che sulla strada sta chiedendo l’elemosina ( Gv 9,1-2). Il luogo della vita, ogni condizione della vita è accompagnata dalla presenza di Cristo, e spesso le situazioni di precarietà appaiono luoghi privilegiati della manifestazione del Signore, infatti Gesù completa l’insegnamento ai discepoli dicendo che quest’uomo è cieco “perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (v. 3). Ritroveremo un’affermazione simile nel Vangelo di domenica prossima, nel dialogo tra i discepoli e Gesù di fronte alla malattia di Lazzaro: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” ( Gv 11,4).

Il farisei non “vedono”, ma il cieco sì...

Mentre accompagna la fatica dei discepoli con il suo insegnamento, Gesù è tuttavia costretto dall’incredulità di giudei, farisei, scribi e dottori della Legge a emettere una delle sentenze più dure nei loro confronti: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi” (v. 39). La Luce che illumina i cechi rende cieco chi ha la pretesa di vedere con le proprie le lenti distorte dalla durezza di cuore. Il cieco nato si lascia illuminare da Gesù, “vera luce del mondo” ( Gv 1,9) e “alla sua luce vede la Luce” ( Sal 36,10). Il cammino di “illuminazione” del cieco nato coincide con un cammino nella fede, che lo porta a riconoscere Gesù come il Figlio dell’uomo fino alla prostrazione adorante ( Gv 9,35-38). Un percorso reso possibile dalla grazia che viene dall’alto e dall’umiltà che lo solleva dal buio e dal fango della vita, lavata dall’acqua della piscina di Siloe (v. 7). Mentre la luce si fa largo nelle tenebre del cieco, la stessa luce getta nella tenebre quanti si sono certi della loro “indiscutibile” capacità di vedere. Costoro non riescono a vedere nemmeno la realtà dei fatti: il cieco per ben due volte ha dovuto spiegare loro l’accaduto (vv. 15.26-27)! La mancanza di fede sembra distorcere anche la capacità fisica di vedere la realtà. Il vedere nel Vangelo di Giovanni non è solo uno dei cinque sensi, ma è la capacità di guardare la realtà con gli occhi della fede, ecco perché Gesù chiama ciechi e guide cieche i suoi oppositori ( Mt 15,14).

Il desiderio di Lui è già comunione con Lui

La fede in questo nostro tempo è messa alla prova, ma proprio nella prova il Signore si fa presente con la sua consolazione. Mi è molto di aiuto in questo tempo la parola di un’anziana che, inferma sul suo letto, un po’ addormentata, alla domanda se intendeva fare la comunione, disse: “Sì, non aspettavo che questo momento, la desideravo come un cieco desidera la luce”. Una stupenda sintesi della nostra fede: il desiderio di Lui è già comunione con Lui. Don Andrea Rossi]]>
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Siamo alla seconda tappa del nostro cammino verso la Pasqua segnato dalle grandi icone evangeliche in cui Gesù si identifica con i “simboli” battesimali. Proveniamo dalla domenica in cui ci siamo dissetati all’acqua viva: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno” ( Gv 4,14); questa domenica veniamo illuminati da Cristo luce del mondo (v. 5); domenica prossima Lazzaro attesterà che Cristo è la risurrezione e la vita ( Gv 11,25). Un cammino che ci accompagna alla riscoperta del nostro battesimo e accompagna coloro che nella Veglia pasquale risorgeranno a vita nuova, immersi nell’acqua che illumina e dà vita. Questa quarta domenica rappresenta anche una particolarità nel percorso quaresimale; è chiamata “domenica in Laetare ”, ossia domenica della gioia. Il termine è mutuato dall’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: “Rallègrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”. Il motivo della gioia e dell’esultanza - ricorda la Colletta pasquale - è l’approssimarsi della Pasqua, verso la quale siamo chiamati a camminare con fede viva.

Tempo di digiuno eucaristico

Ma come gioire in tempo di deserto liturgico, di “digiuno eucaristico” del popolo di Dio? Con la memoria grata per l’abbondanza della grazia celebrata e vissuta nel tempo. Una memoria che irrora di speranza l’attuale deserto, dove “lo Spirito ci ha condotti”, un deserto che però continua a essere irrigato e fiorirà a tempo debito. Viviamo bene anche questo tempo senza cercare “colpevoli”, come ci indica il Vangelo di questo domenica. Gesù, infatti, supera la visione della malattia come conseguenza del peccato. I discepoli stessi lo interrogano proprio su questo, e chiedono conto a Gesù della condizione di quell’uomo che sulla strada sta chiedendo l’elemosina ( Gv 9,1-2). Il luogo della vita, ogni condizione della vita è accompagnata dalla presenza di Cristo, e spesso le situazioni di precarietà appaiono luoghi privilegiati della manifestazione del Signore, infatti Gesù completa l’insegnamento ai discepoli dicendo che quest’uomo è cieco “perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (v. 3). Ritroveremo un’affermazione simile nel Vangelo di domenica prossima, nel dialogo tra i discepoli e Gesù di fronte alla malattia di Lazzaro: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” ( Gv 11,4).

Il farisei non “vedono”, ma il cieco sì...

Mentre accompagna la fatica dei discepoli con il suo insegnamento, Gesù è tuttavia costretto dall’incredulità di giudei, farisei, scribi e dottori della Legge a emettere una delle sentenze più dure nei loro confronti: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi” (v. 39). La Luce che illumina i cechi rende cieco chi ha la pretesa di vedere con le proprie le lenti distorte dalla durezza di cuore. Il cieco nato si lascia illuminare da Gesù, “vera luce del mondo” ( Gv 1,9) e “alla sua luce vede la Luce” ( Sal 36,10). Il cammino di “illuminazione” del cieco nato coincide con un cammino nella fede, che lo porta a riconoscere Gesù come il Figlio dell’uomo fino alla prostrazione adorante ( Gv 9,35-38). Un percorso reso possibile dalla grazia che viene dall’alto e dall’umiltà che lo solleva dal buio e dal fango della vita, lavata dall’acqua della piscina di Siloe (v. 7). Mentre la luce si fa largo nelle tenebre del cieco, la stessa luce getta nella tenebre quanti si sono certi della loro “indiscutibile” capacità di vedere. Costoro non riescono a vedere nemmeno la realtà dei fatti: il cieco per ben due volte ha dovuto spiegare loro l’accaduto (vv. 15.26-27)! La mancanza di fede sembra distorcere anche la capacità fisica di vedere la realtà. Il vedere nel Vangelo di Giovanni non è solo uno dei cinque sensi, ma è la capacità di guardare la realtà con gli occhi della fede, ecco perché Gesù chiama ciechi e guide cieche i suoi oppositori ( Mt 15,14).

Il desiderio di Lui è già comunione con Lui

La fede in questo nostro tempo è messa alla prova, ma proprio nella prova il Signore si fa presente con la sua consolazione. Mi è molto di aiuto in questo tempo la parola di un’anziana che, inferma sul suo letto, un po’ addormentata, alla domanda se intendeva fare la comunione, disse: “Sì, non aspettavo che questo momento, la desideravo come un cieco desidera la luce”. Una stupenda sintesi della nostra fede: il desiderio di Lui è già comunione con Lui. Don Andrea Rossi]]>
Chiese umbre. Ora la liturgia va online https://www.lavoce.it/chiese-umbre-liturgia-online/ Fri, 13 Mar 2020 16:35:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56446

È una Quaresima surreale e inimmaginabile solo fino a qualche settimana fa, quella che stanno vivendo i cattolici anche in Umbria. I provvedimenti del Governo di fatto bloccano tutta l’Italia e dettano molti limiti alle possibilità di spostamento delle persone, di apertura e organizzazione di tutti i luoghi pubblici, di gestione della quotidianità di ciascuno di noi. “Queste ulteriori restrizioni - commentano i Vescovi umbri - generano sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli. Attraverso il grave sacrificio richiesto ai credenti, la comunità cristiana intende assicurare il proprio significativo contributo alla tutela della salute pubblica, collaborando lealmente con le Istituzioni civili in questo momento di emergenza nazionale”.

Le parole dei Vescovi Umbri

Niente messe nelle cattedrali, nei santuari e nelle chiese umbre. Almeno non con la presenza dei fedeli. I riti cambiano e si adeguano ai tempi, spostandosi sui social media che rimangono pressoché gli unici spazi di relazione che superano la dimensione domestica e familiare. “I fedeli sono invitati a dedicare un tempo conveniente - aggiunge la Conferenza episcopale umbra nella sua ultima nota - all’ascolto della Parola di Dio, alla preghiera e alla carità; possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”.

PREGARE PER VIA TECNOLOGICA

TV2000 canale 28 in tv e 157 su Sky, www.tv2000.it/live Ore 7 - Messa di Papa Francesco da Santa Marta Ore 8.30 - Messa Ore 12 - Angelus Ore 15 - Coroncina della Divina Misericordia Ore 18 - Rosario da Lourdes Ore 19 - Messa dal santuario del Divino Amore Ore 20 - Rosario a Maria che scioglie i nodi 

Maria Vision Assisi canale 602 in tv, www.mariavision.it/mariavision-italia Ore 11 - Messa dal santuario della Spogliazione (solo festivi) Ore 12 - Adorazione eucaristica dalla chiesa del Serafico Ore 17.30 - Rosario e messa dal santuario della Spogliazione

 Basilica di San Francesco  www.facebook.com/sanfrancescoassisi/live_videoswww.sanfrancesco.org Ore 06.30 - Lodi e messa dalla basilica inferiore Ore 12.30 - Ora media dalla Tomba Ore 18.30 - Vespri e messa dalla basilica inferiore

 Basilica di Santa Maria degli Angeliwww.porziuncola.org/webtv.html Ore 06.30 - Lodi e messa Ore 17.30 - Rosario e messa Ore 19 - Vespri

Chiese diocesane dell'Umbria Ore 08 - Terni : Messa feriale dalla chiesa di San Giovannino ( www.facebook.com/diocesiterninarniamelia )

Ore 18 - Spoleto : Messa dalla cattedrale di Santa Maria Assunta ( www.facebook.com/archidiocesispoletonorcia )

Ore 18 - Foligno : Messa feriale e festiva da varie chiese della diocesi (Radio gente umbra - Fm 88.60 -93; www.diocesidifoligno.it ; www.facebook.com/diocesidifoligno )

  L’accesso ai luoghi di culto non è però precluso ai singoli fedeli che possono ritagliarsi momenti di preghiera individuale, avendo cura di osservare la distanza di sicurezza. “La situazione che si è venuta a creare - spiegano ancora i Vescovi umbri - ci conduce ad una esperienza particolare di ‘digiuno’, privandoci dei momenti di preghiera e di incontro comunitario che accompagnano il cammino quotidiano del credente, specialmente in questo tempo di Quaresima. Ciò tuttavia offre l’occasione di coltivare la preghiera personale e in famiglia e di dedicare un congruo tempo all’ascolto e alla meditazione della Parola di Dio, affinché questi giorni che siamo chiamati a vivere diventino per tutti un momento di grazia che rinnova la vita cristiana e ottiene la benedizione di Dio a quanti sono colpiti e ai loro familiari; agli anziani, esposti più di altri alla solitudine; a tutti gli operatori sanitari e al loro generoso servizio; a quanti affrontano le pesanti conseguenze di questa crisi sul piano lavorativo ed economico; a chi ha responsabilità scientifiche e politiche di tutela della salute pubblica”.

La Conferenza episcopale italiana

“Tale inedita situazione - commenta una nota della Conferenza episcopale italiana - deve poter incontrare una risposta non rassegnata né disarmante. Va in questa direzione l’impegno con cui la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le sue Diocesi e parrocchie, sta affrontando questo tempo, che come ricorda papa Francesco costituisce un cambiamento d’epoca, per molti versi spiazzante. Più che soffiare sulla paura, più che attardarci sui distinguo, più che puntare i riflettori sulle limitazioni e sui divieti del Decreto, la Chiesa tutta sente una responsabilità enorme di prossimità al Paese”. Questa vicinanza a tutti gli italiani - aggiungono i Vescovi italiani “si esprime nell’apertura delle chiese, nella disponibilità dei sacerdoti ad accompagnare il cammino spirituale delle persone con l’ascolto, la preghiera e il sacramento della riconciliazione; nel loro celebrare quotidianamente – senza popolo, ma per tutto il popolo – l’Eucaristia; nel loro visitare ammalati e anziani, anche con i sacramenti degli infermi; nel loro recarsi sui cimiteri per la benedizione dei defunti”. Anche stavolta “la prossimità ha il volto della carità”, assicurando in diocesi e parrocchie - spiega Caritas italiana - i servizi essenziali a favore dei poveri, quali le mense, gli empori, i dormitori, i centri d’ascolto. Nonostante lo stop a quasi tutte le iniziative pastorali, si moltiplicano sul territorio nazionale e umbro le iniziative in campo liturgico e caritativo, sostenute dai Vescovi e dalla passione di preti e laici, di animatori e volontari.

Daniele Morini

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È una Quaresima surreale e inimmaginabile solo fino a qualche settimana fa, quella che stanno vivendo i cattolici anche in Umbria. I provvedimenti del Governo di fatto bloccano tutta l’Italia e dettano molti limiti alle possibilità di spostamento delle persone, di apertura e organizzazione di tutti i luoghi pubblici, di gestione della quotidianità di ciascuno di noi. “Queste ulteriori restrizioni - commentano i Vescovi umbri - generano sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli. Attraverso il grave sacrificio richiesto ai credenti, la comunità cristiana intende assicurare il proprio significativo contributo alla tutela della salute pubblica, collaborando lealmente con le Istituzioni civili in questo momento di emergenza nazionale”.

Le parole dei Vescovi Umbri

Niente messe nelle cattedrali, nei santuari e nelle chiese umbre. Almeno non con la presenza dei fedeli. I riti cambiano e si adeguano ai tempi, spostandosi sui social media che rimangono pressoché gli unici spazi di relazione che superano la dimensione domestica e familiare. “I fedeli sono invitati a dedicare un tempo conveniente - aggiunge la Conferenza episcopale umbra nella sua ultima nota - all’ascolto della Parola di Dio, alla preghiera e alla carità; possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”.

PREGARE PER VIA TECNOLOGICA

TV2000 canale 28 in tv e 157 su Sky, www.tv2000.it/live Ore 7 - Messa di Papa Francesco da Santa Marta Ore 8.30 - Messa Ore 12 - Angelus Ore 15 - Coroncina della Divina Misericordia Ore 18 - Rosario da Lourdes Ore 19 - Messa dal santuario del Divino Amore Ore 20 - Rosario a Maria che scioglie i nodi 

Maria Vision Assisi canale 602 in tv, www.mariavision.it/mariavision-italia Ore 11 - Messa dal santuario della Spogliazione (solo festivi) Ore 12 - Adorazione eucaristica dalla chiesa del Serafico Ore 17.30 - Rosario e messa dal santuario della Spogliazione

 Basilica di San Francesco  www.facebook.com/sanfrancescoassisi/live_videoswww.sanfrancesco.org Ore 06.30 - Lodi e messa dalla basilica inferiore Ore 12.30 - Ora media dalla Tomba Ore 18.30 - Vespri e messa dalla basilica inferiore

 Basilica di Santa Maria degli Angeliwww.porziuncola.org/webtv.html Ore 06.30 - Lodi e messa Ore 17.30 - Rosario e messa Ore 19 - Vespri

Chiese diocesane dell'Umbria Ore 08 - Terni : Messa feriale dalla chiesa di San Giovannino ( www.facebook.com/diocesiterninarniamelia )

Ore 18 - Spoleto : Messa dalla cattedrale di Santa Maria Assunta ( www.facebook.com/archidiocesispoletonorcia )

Ore 18 - Foligno : Messa feriale e festiva da varie chiese della diocesi (Radio gente umbra - Fm 88.60 -93; www.diocesidifoligno.it ; www.facebook.com/diocesidifoligno )

  L’accesso ai luoghi di culto non è però precluso ai singoli fedeli che possono ritagliarsi momenti di preghiera individuale, avendo cura di osservare la distanza di sicurezza. “La situazione che si è venuta a creare - spiegano ancora i Vescovi umbri - ci conduce ad una esperienza particolare di ‘digiuno’, privandoci dei momenti di preghiera e di incontro comunitario che accompagnano il cammino quotidiano del credente, specialmente in questo tempo di Quaresima. Ciò tuttavia offre l’occasione di coltivare la preghiera personale e in famiglia e di dedicare un congruo tempo all’ascolto e alla meditazione della Parola di Dio, affinché questi giorni che siamo chiamati a vivere diventino per tutti un momento di grazia che rinnova la vita cristiana e ottiene la benedizione di Dio a quanti sono colpiti e ai loro familiari; agli anziani, esposti più di altri alla solitudine; a tutti gli operatori sanitari e al loro generoso servizio; a quanti affrontano le pesanti conseguenze di questa crisi sul piano lavorativo ed economico; a chi ha responsabilità scientifiche e politiche di tutela della salute pubblica”.

La Conferenza episcopale italiana

“Tale inedita situazione - commenta una nota della Conferenza episcopale italiana - deve poter incontrare una risposta non rassegnata né disarmante. Va in questa direzione l’impegno con cui la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le sue Diocesi e parrocchie, sta affrontando questo tempo, che come ricorda papa Francesco costituisce un cambiamento d’epoca, per molti versi spiazzante. Più che soffiare sulla paura, più che attardarci sui distinguo, più che puntare i riflettori sulle limitazioni e sui divieti del Decreto, la Chiesa tutta sente una responsabilità enorme di prossimità al Paese”. Questa vicinanza a tutti gli italiani - aggiungono i Vescovi italiani “si esprime nell’apertura delle chiese, nella disponibilità dei sacerdoti ad accompagnare il cammino spirituale delle persone con l’ascolto, la preghiera e il sacramento della riconciliazione; nel loro celebrare quotidianamente – senza popolo, ma per tutto il popolo – l’Eucaristia; nel loro visitare ammalati e anziani, anche con i sacramenti degli infermi; nel loro recarsi sui cimiteri per la benedizione dei defunti”. Anche stavolta “la prossimità ha il volto della carità”, assicurando in diocesi e parrocchie - spiega Caritas italiana - i servizi essenziali a favore dei poveri, quali le mense, gli empori, i dormitori, i centri d’ascolto. Nonostante lo stop a quasi tutte le iniziative pastorali, si moltiplicano sul territorio nazionale e umbro le iniziative in campo liturgico e caritativo, sostenute dai Vescovi e dalla passione di preti e laici, di animatori e volontari.

Daniele Morini

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Coronavirus. Quanto stare distanti? La scienza e la misura, la misura e la fede https://www.lavoce.it/coronavirus-distanti-misura/ Thu, 12 Mar 2020 19:07:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56438 misura per distanza da tenere causa Coronavirus

Da tempo gli esperti sostengono che la società digitale abbia portato una novità, soprattutto tra i giovani: l’estraniazione della fisicità, l’enfatizzazione delle relazioni non agite, la facilità dell’isolamento. Ora siamo davvero isolati e per di più chiusi in casa, alcuni più pazienti, altri spazientiti. Sembra – e dico sembra, perché i tanti studi matematici che si stanno avvicendando dovranno poi essere comparati e valutati – che il Covid-19 sia più aggressivo che in Cina e che le misure di sicurezza debbano essere rispettate al dettaglio se vogliamo che lo scenario cambi intorno alla metà di aprile. Serve molto equilibrio tra razionalità ed emotività, tra saper obbedire e saper dubitare. Nessuno ha davvero contezza completa di quanto sta accadendo e di come cambierà la storia.

Dibattito nella Chiesa

Poi ci siamo noi cristiani. Che non possiamo partecipare alle celebrazioni e comunicarci. C’è chi dice che non era mai accaduto prima (opinabile, si pensi al braccio di ferro tra istituzioni e chiesa ai tempi della peste nera come ricordavano anche Galileo e poi Manzoni), c’è chi dice che il governo non ha diritto a fare questo (opinabile, si ricordi il Patto internazionale sui diritti civili e politici che permette al governo di intervenire in materia religiosa in situazioni di emergenza sanitaria), c’è chi dice che la Chiesa doveva essere più chiara nel distinguere tra sospensione e dispensa delle funzioni religiose fornendo subito chiavi di lettura propositive (meno opinabile?, ma molto si sta facendo in questi giorni).

Il problema

Il problema di fondo è duplice ed è serio: dapprima la fatica, inimmaginabile per un non credente, di fare a meno del corpo di Cristo per tanto tempo; in secondo luogo, la fatica comprensibile a tutti di esonerarsi dal contatto con gli altri. Da qui la domanda: per quanto e in che misura? Quanti giorni? Quanto spazio tra una persona e l’altra?

Spunti dalla Parola di Dio e dagli antichi greci

Nelle letture di questi giorni la ricchezza della Parola di Dio è però così abbondante che se si partisse da lì troveremmo forse più pace. Abbiamo trovato due riferimenti alla “misura”. Nel vangelo del 9 marzo: “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38). Nell’Ufficio delle letture del 10 marzo descrivendo la manna che gli Israeliti ricevettero nel deserto: “Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. (Esodo 16,16). Sono due approcci diversi al concetto di misura. Misurare per gli antichi Greci aveva due significati. Da una parte, la misura era costruzione di un rapporto, un approccio “archimedeo”: non ogni unità va bene per tutte le grandezze, ma in base a ciò che si misura occorre una appropriata unità. Si può misurare un tavolo con una spanna, ma con una spanna non si può misurare la punta di un chiodo. Dall’altra parte, misurare era prendere un’unità, “assoluta”, e moltiplicarla: un approccio “platonico” al numero, pensato come entità ideale ripetendo la quale si ottenevano altri numeri (dall’1 al 2, e così via, col problematico passaggio dall’unità alla molteplicità su cui i filosofi poi si sono arrovellati).

La “misura pigiata” di Gesù

Andiamo a quanto dice Gesù: “pigiate” la vostra misura. Evidentemente, una misura “archimedea”, che va adattata per poterci contare il più possibile. Generosità significa “pigiare” la nostra misura, non essere dozzinali, giocar di fino, saper rendere tutto misurabile e contenibile. Più la misura è pigiata e stretta, più è moltiplicabile. È il farsi piccoli che santa Teresina di Lisieux suggeriva. Come il sacrificio interiore che viene chiesto in questi giorni: offrire la rinuncia al pane eucaristico affinché si moltiplichi a dismisura il desiderio di Gesù e si tramuti ora in servizio e passione per la nostra comunità, che sta vivendo una difficoltà collettiva. Prendiamo l’istruzione che il Signore dà agli Israeliti: un omer a testa, detto anche “covone”, a indicare il volume di manna destinata a ogni persona (poco più di 3,5 litri, cf. Es 16, 35-36) e da cui prende il nome anche un’antica benedizione ebraica. Una misura precisa e ripetibile. A ciascuno la sua. Come l’impegno personale, sopra ricordato, che viene chiesto oggi ad ognuno di noi: isolarci e cambiare le regole quotidiane per evitare che i disagi di adesso si prolunghino oltre aprile e che i gravi danni socioeconomici siano recuperabili, pensando agli altri prima che a noi.

Flavia Marcacci

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misura per distanza da tenere causa Coronavirus

Da tempo gli esperti sostengono che la società digitale abbia portato una novità, soprattutto tra i giovani: l’estraniazione della fisicità, l’enfatizzazione delle relazioni non agite, la facilità dell’isolamento. Ora siamo davvero isolati e per di più chiusi in casa, alcuni più pazienti, altri spazientiti. Sembra – e dico sembra, perché i tanti studi matematici che si stanno avvicendando dovranno poi essere comparati e valutati – che il Covid-19 sia più aggressivo che in Cina e che le misure di sicurezza debbano essere rispettate al dettaglio se vogliamo che lo scenario cambi intorno alla metà di aprile. Serve molto equilibrio tra razionalità ed emotività, tra saper obbedire e saper dubitare. Nessuno ha davvero contezza completa di quanto sta accadendo e di come cambierà la storia.

Dibattito nella Chiesa

Poi ci siamo noi cristiani. Che non possiamo partecipare alle celebrazioni e comunicarci. C’è chi dice che non era mai accaduto prima (opinabile, si pensi al braccio di ferro tra istituzioni e chiesa ai tempi della peste nera come ricordavano anche Galileo e poi Manzoni), c’è chi dice che il governo non ha diritto a fare questo (opinabile, si ricordi il Patto internazionale sui diritti civili e politici che permette al governo di intervenire in materia religiosa in situazioni di emergenza sanitaria), c’è chi dice che la Chiesa doveva essere più chiara nel distinguere tra sospensione e dispensa delle funzioni religiose fornendo subito chiavi di lettura propositive (meno opinabile?, ma molto si sta facendo in questi giorni).

Il problema

Il problema di fondo è duplice ed è serio: dapprima la fatica, inimmaginabile per un non credente, di fare a meno del corpo di Cristo per tanto tempo; in secondo luogo, la fatica comprensibile a tutti di esonerarsi dal contatto con gli altri. Da qui la domanda: per quanto e in che misura? Quanti giorni? Quanto spazio tra una persona e l’altra?

Spunti dalla Parola di Dio e dagli antichi greci

Nelle letture di questi giorni la ricchezza della Parola di Dio è però così abbondante che se si partisse da lì troveremmo forse più pace. Abbiamo trovato due riferimenti alla “misura”. Nel vangelo del 9 marzo: “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38). Nell’Ufficio delle letture del 10 marzo descrivendo la manna che gli Israeliti ricevettero nel deserto: “Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. (Esodo 16,16). Sono due approcci diversi al concetto di misura. Misurare per gli antichi Greci aveva due significati. Da una parte, la misura era costruzione di un rapporto, un approccio “archimedeo”: non ogni unità va bene per tutte le grandezze, ma in base a ciò che si misura occorre una appropriata unità. Si può misurare un tavolo con una spanna, ma con una spanna non si può misurare la punta di un chiodo. Dall’altra parte, misurare era prendere un’unità, “assoluta”, e moltiplicarla: un approccio “platonico” al numero, pensato come entità ideale ripetendo la quale si ottenevano altri numeri (dall’1 al 2, e così via, col problematico passaggio dall’unità alla molteplicità su cui i filosofi poi si sono arrovellati).

La “misura pigiata” di Gesù

Andiamo a quanto dice Gesù: “pigiate” la vostra misura. Evidentemente, una misura “archimedea”, che va adattata per poterci contare il più possibile. Generosità significa “pigiare” la nostra misura, non essere dozzinali, giocar di fino, saper rendere tutto misurabile e contenibile. Più la misura è pigiata e stretta, più è moltiplicabile. È il farsi piccoli che santa Teresina di Lisieux suggeriva. Come il sacrificio interiore che viene chiesto in questi giorni: offrire la rinuncia al pane eucaristico affinché si moltiplichi a dismisura il desiderio di Gesù e si tramuti ora in servizio e passione per la nostra comunità, che sta vivendo una difficoltà collettiva. Prendiamo l’istruzione che il Signore dà agli Israeliti: un omer a testa, detto anche “covone”, a indicare il volume di manna destinata a ogni persona (poco più di 3,5 litri, cf. Es 16, 35-36) e da cui prende il nome anche un’antica benedizione ebraica. Una misura precisa e ripetibile. A ciascuno la sua. Come l’impegno personale, sopra ricordato, che viene chiesto oggi ad ognuno di noi: isolarci e cambiare le regole quotidiane per evitare che i disagi di adesso si prolunghino oltre aprile e che i gravi danni socioeconomici siano recuperabili, pensando agli altri prima che a noi.

Flavia Marcacci

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Anche senza popolo, è Messa per il popolo https://www.lavoce.it/anche-senza-popolo-messa/ Thu, 12 Mar 2020 14:21:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56433 Mons. Luigi Filippucci celebra la messa

Anche in Umbria le comunità cristiane si sono ritrovate a non potersi riunire per la celebrazione eucaristica a causa dell'emergenza Coronavirus/Covid19. Una decisione che ha sollevato obiezioni, proteste e domande. Infatti il comunicato dell’8 marzo della Conferenza episcopale italiana così afferma: “Il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, entrato in vigore quest’oggi, sospende a livello preventivo, fino a venerdì 3 aprile, sull’intero territorio nazionale le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. L’interpretazione fornita dal Governo include rigorosamente le messe e le esequie tra le “cerimonie religiose”. Quindi, interpretandola in soldoni: niente più messa.

Cosa dice la Chiesa

Decisione che ad alcuni sembra in contrasto con ciò che la Chiesa vive e insegna. Infatti, dopo quell’Ultima Cena celebrata da Gesù la comunità cristiana mai ha cessato di far memoriale del mistero pasquale. La prima testimonianza ci viene dagli Atti degli apostoli: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42), e da quelle prime comunità giudeo-cristiane ininterrottamente l’invito: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11, 24) mai ha cessato di risuonare ed essere accolto dalla Chiesa. Questo perché mai e poi mai essa può tralasciare ciò la edifica, ciò che la nutre, ciò che è per la sua stessa vita “fonte” e “culmine” (Sacrosanctum Concilium, 10; Lumen gentium, 11), perché il popolo di Dio non può fare a meno della celebrazione dell’evento che lo ha redento. Ma allora la Chiesa che è in Italia entra in contraddizione con il suo Maestro? Certo che no, anche se a agli occhi di alcuni incauti parrebbe di sì... La Chiesa che è in Italia e di conseguenza le varie Regioni ecclesiastiche si sono conformate a ciò che il Governo ha disposto, con sofferenza, certo, perché in qualche maniera viene meno il nostro cuore, ma come lo stesso comunicato afferma: “L’accoglienza del decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica”. E dunque come possiamo affermare che non viene meno a quel “fate questo in memoria di me”? Non ne viene meno perché la messa non è finita! Infatti non è stato fatto divieto assoluto di celebrare, ma di celebrare con il popolo; e ciò significa che i Pastori continueranno a celebrare l’eucarestia ma senza la presenza del popolo.

Le indicazioni del Messale Romano

È vero, il Messale romano così afferma: “Quando il popolo si è redunato...”, perché costitutivamente la celebrazione eucaristica è affare di popolo e non di clero. Il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium al numero 27 afferma: “Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della messa benché qualsiasi messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale e per l’amministrazione dei sacramenti”. Ma, come si dice, di necessità si fa virtù, e quindi possiamo continuare a sostenere i fedeli con la celebrazione eucaristica senza la loro presenza fisica, tanto che nel Messale romano troviamo una sezione dedicata alla messa senza il popolo, che poco cambia dalla celebrazione della messa con il popolo, se non per la presenza di un unico altro ministro. Potremmo così dire: Missa sine populo sed pro populo, messa senza il popolo ma per il popolo. Quindi nulla di contraddittorio, ancor più se si pensa all’eucaristia come sacramento della carità, dell’amore di Dio. Questo spinge la Chiesa a far sì che i frutti di ciò che abbiamo celebrato possano diventare nella nostra vita buoni e maturi con segni di carità concreti quali - per esempio, tanto per richiamarci all’attualità di questi giorni - la tutela della salute dei propri fedeli.

I Vescovi umbri

I Vescovi umbri nel loro messaggio hanno sottolineato che “possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”. Pur non potendo in nessuna maniera sostituire la presenza fisica del popolo, tali mezzi possono però rendere visibile il sostegno spirituale che tanti sacerdoti continuano a donare celebrando l’eucaristia a favore del popolo di Dio, diventando così segno di speranza in un tempo dove potremmo rischiare di perderla. Questa “pausa obbligata” dalla celebrazione eucaristica, che i fedeli sono chiamati a vivere in questo momento, oltre a essere motivo di responsabilità nei confronti della salute pubblica, può essere un tempo opportuno per riscoprire due dimensioni. La prima, quella di ritrovare nelle nostre famiglie la dimensione della preghiera, una sorta di recupero di una celebrazione familiare. Purtroppo la liturgia cattolica non ha codificate celebrazioni nelle quali i componenti della famiglia in qualche maniera intervengono attivamente nello svolgimento del rito nelle proprie case, come invece ci testimonia l’Esodo (12,21-27) nel rito della Pasqua ebraica. Ma nulla vieta di ritrovarsi e pregare nell’ascolto della Parola di Dio, la recita della liturgia delle ore, o con la preghiera del rosario e altre devozioni, facendo sì che la famiglia torni a essere “piccola Chiesa e sacramento del Tuo amore”.

Un’ultima considerazione

Nella logica del tempo liturgico che stiamo vivendo, cioè quello di Quaresima, è stato chiesto al popolo cristiano di fare un ‘digiuno’ particolare che difficilmente ci saremmo immaginati, un digiuno che può farci riscoprire il valore delle cose. Forse, dunque, questo tempo può diventare propizio per accogliere in noi questo sentimento di vuoto, così da poter tornare in futuro a celebrare l’eucaristia con una diversa consapevolezza, cioè con la consapevolezza che di essa non possiamo fare a meno. Don Francesco Verzini]]>
Mons. Luigi Filippucci celebra la messa

Anche in Umbria le comunità cristiane si sono ritrovate a non potersi riunire per la celebrazione eucaristica a causa dell'emergenza Coronavirus/Covid19. Una decisione che ha sollevato obiezioni, proteste e domande. Infatti il comunicato dell’8 marzo della Conferenza episcopale italiana così afferma: “Il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, entrato in vigore quest’oggi, sospende a livello preventivo, fino a venerdì 3 aprile, sull’intero territorio nazionale le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. L’interpretazione fornita dal Governo include rigorosamente le messe e le esequie tra le “cerimonie religiose”. Quindi, interpretandola in soldoni: niente più messa.

Cosa dice la Chiesa

Decisione che ad alcuni sembra in contrasto con ciò che la Chiesa vive e insegna. Infatti, dopo quell’Ultima Cena celebrata da Gesù la comunità cristiana mai ha cessato di far memoriale del mistero pasquale. La prima testimonianza ci viene dagli Atti degli apostoli: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42), e da quelle prime comunità giudeo-cristiane ininterrottamente l’invito: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11, 24) mai ha cessato di risuonare ed essere accolto dalla Chiesa. Questo perché mai e poi mai essa può tralasciare ciò la edifica, ciò che la nutre, ciò che è per la sua stessa vita “fonte” e “culmine” (Sacrosanctum Concilium, 10; Lumen gentium, 11), perché il popolo di Dio non può fare a meno della celebrazione dell’evento che lo ha redento. Ma allora la Chiesa che è in Italia entra in contraddizione con il suo Maestro? Certo che no, anche se a agli occhi di alcuni incauti parrebbe di sì... La Chiesa che è in Italia e di conseguenza le varie Regioni ecclesiastiche si sono conformate a ciò che il Governo ha disposto, con sofferenza, certo, perché in qualche maniera viene meno il nostro cuore, ma come lo stesso comunicato afferma: “L’accoglienza del decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica”. E dunque come possiamo affermare che non viene meno a quel “fate questo in memoria di me”? Non ne viene meno perché la messa non è finita! Infatti non è stato fatto divieto assoluto di celebrare, ma di celebrare con il popolo; e ciò significa che i Pastori continueranno a celebrare l’eucarestia ma senza la presenza del popolo.

Le indicazioni del Messale Romano

È vero, il Messale romano così afferma: “Quando il popolo si è redunato...”, perché costitutivamente la celebrazione eucaristica è affare di popolo e non di clero. Il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium al numero 27 afferma: “Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della messa benché qualsiasi messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale e per l’amministrazione dei sacramenti”. Ma, come si dice, di necessità si fa virtù, e quindi possiamo continuare a sostenere i fedeli con la celebrazione eucaristica senza la loro presenza fisica, tanto che nel Messale romano troviamo una sezione dedicata alla messa senza il popolo, che poco cambia dalla celebrazione della messa con il popolo, se non per la presenza di un unico altro ministro. Potremmo così dire: Missa sine populo sed pro populo, messa senza il popolo ma per il popolo. Quindi nulla di contraddittorio, ancor più se si pensa all’eucaristia come sacramento della carità, dell’amore di Dio. Questo spinge la Chiesa a far sì che i frutti di ciò che abbiamo celebrato possano diventare nella nostra vita buoni e maturi con segni di carità concreti quali - per esempio, tanto per richiamarci all’attualità di questi giorni - la tutela della salute dei propri fedeli.

I Vescovi umbri

I Vescovi umbri nel loro messaggio hanno sottolineato che “possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”. Pur non potendo in nessuna maniera sostituire la presenza fisica del popolo, tali mezzi possono però rendere visibile il sostegno spirituale che tanti sacerdoti continuano a donare celebrando l’eucaristia a favore del popolo di Dio, diventando così segno di speranza in un tempo dove potremmo rischiare di perderla. Questa “pausa obbligata” dalla celebrazione eucaristica, che i fedeli sono chiamati a vivere in questo momento, oltre a essere motivo di responsabilità nei confronti della salute pubblica, può essere un tempo opportuno per riscoprire due dimensioni. La prima, quella di ritrovare nelle nostre famiglie la dimensione della preghiera, una sorta di recupero di una celebrazione familiare. Purtroppo la liturgia cattolica non ha codificate celebrazioni nelle quali i componenti della famiglia in qualche maniera intervengono attivamente nello svolgimento del rito nelle proprie case, come invece ci testimonia l’Esodo (12,21-27) nel rito della Pasqua ebraica. Ma nulla vieta di ritrovarsi e pregare nell’ascolto della Parola di Dio, la recita della liturgia delle ore, o con la preghiera del rosario e altre devozioni, facendo sì che la famiglia torni a essere “piccola Chiesa e sacramento del Tuo amore”.

Un’ultima considerazione

Nella logica del tempo liturgico che stiamo vivendo, cioè quello di Quaresima, è stato chiesto al popolo cristiano di fare un ‘digiuno’ particolare che difficilmente ci saremmo immaginati, un digiuno che può farci riscoprire il valore delle cose. Forse, dunque, questo tempo può diventare propizio per accogliere in noi questo sentimento di vuoto, così da poter tornare in futuro a celebrare l’eucaristia con una diversa consapevolezza, cioè con la consapevolezza che di essa non possiamo fare a meno. Don Francesco Verzini]]>
Messe: anche in Umbria celebrazioni sospese fino al 3 aprile. La nota Ceu https://www.lavoce.it/messe-anche-in-umbria-celebrazioni-sospese-fino-al-3-aprile-la-nota-ceu/ Sun, 08 Mar 2020 19:35:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56411 assemblea

La celebrazione della messa è sospesa in tutte le chiese della regione fino a venerdì 3 aprile. Lo ha stabilito la Conferenza episcopale umbra con una decisione che accoglie le indicazioni fornite dalla Cei nella stessa giornata. La nota del presidente Ceu, l'arcivescovo di Spoleto - Norcia mons. Renato Boccardo, è arrivata nella tarda serta di questa domenica 8 marzo. Pubblichiamo il testo integrale. «A seguito del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri entrato in vigore quest’oggi 8 marzo per contrastare la diffusione del “coronavirus”, e a completamento della Nota della Conferenza Episcopale Umbra del 5 marzo u.s. i Vescovi della Regione Ecclesiastica stabiliscono la sospensione della celebrazione di tutte le SS. Messe feriali e festive con la presenza dei fedeli in tutte le chiese e santuari della Regione, fino a venerdì 3 aprile p.v. compreso. Tra le “cerimonie civili e religiose” il Decreto governativo include esplicitamente anche i funerali. Il rito funebre dovrà dunque essere celebrato senza Messa, direttamente al cimitero, alla presenza dei soli stretti familiari, secondo quanto previsto al cap. IV del Rito delle Esequie. Queste ulteriori restrizioni generano sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli. Attraverso il grave sacrificio richiesto ai credenti, la comunità cristiana intende assicurare il proprio significativo contributo alla tutela della salute pubblica, collaborando lealmente con le Istituzioni civili in questo momento di emergenza nazionale. Nell’impossibilità di adempiere al precetto festivo ai sensi del can. 1248§2, i fedeli sono invitati a dedicare un tempo conveniente all’ascolto della Parola di Dio, alla preghiera e alla carità; possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social. L’accesso ai luoghi di culto sia consentito ai singoli fedeli che vogliano recarvisi per la preghiera individuale, avendo cura che venga osservata la distanza di precauzione igienica».]]>
assemblea

La celebrazione della messa è sospesa in tutte le chiese della regione fino a venerdì 3 aprile. Lo ha stabilito la Conferenza episcopale umbra con una decisione che accoglie le indicazioni fornite dalla Cei nella stessa giornata. La nota del presidente Ceu, l'arcivescovo di Spoleto - Norcia mons. Renato Boccardo, è arrivata nella tarda serta di questa domenica 8 marzo. Pubblichiamo il testo integrale. «A seguito del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri entrato in vigore quest’oggi 8 marzo per contrastare la diffusione del “coronavirus”, e a completamento della Nota della Conferenza Episcopale Umbra del 5 marzo u.s. i Vescovi della Regione Ecclesiastica stabiliscono la sospensione della celebrazione di tutte le SS. Messe feriali e festive con la presenza dei fedeli in tutte le chiese e santuari della Regione, fino a venerdì 3 aprile p.v. compreso. Tra le “cerimonie civili e religiose” il Decreto governativo include esplicitamente anche i funerali. Il rito funebre dovrà dunque essere celebrato senza Messa, direttamente al cimitero, alla presenza dei soli stretti familiari, secondo quanto previsto al cap. IV del Rito delle Esequie. Queste ulteriori restrizioni generano sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli. Attraverso il grave sacrificio richiesto ai credenti, la comunità cristiana intende assicurare il proprio significativo contributo alla tutela della salute pubblica, collaborando lealmente con le Istituzioni civili in questo momento di emergenza nazionale. Nell’impossibilità di adempiere al precetto festivo ai sensi del can. 1248§2, i fedeli sono invitati a dedicare un tempo conveniente all’ascolto della Parola di Dio, alla preghiera e alla carità; possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social. L’accesso ai luoghi di culto sia consentito ai singoli fedeli che vogliano recarvisi per la preghiera individuale, avendo cura che venga osservata la distanza di precauzione igienica».]]>
Il banchetto di nozze dell’Agnello https://www.lavoce.it/banchetto-nozze-agnello/ Sun, 03 Mar 2019 08:00:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54121 logo rubrica domande sulla liturgia

Dopo la Preghiera eucaristica, la celebrazione continua e si conclude con tutta una serie di azioni e di parole. Non ce n’è qualcuna che pare “di troppo”?

La celebrazione eucaristica porta in sé due dimensioni inscindibili: è banchetto sacrificale, in quanto memoriale del Mistero pasquale, e banchetto conviviale, in quanto i cristiani sono invitati alle nozze dell’Agnello (vedi Apocalisse19). Per questo la messa non si conclude con la Preghiera eucaristica, ma continua con i riti di Comunione, grazie ai quali i battezzati possono partecipare pienamente alla celebrazione mangiando il corpo e bevendo il sangue di Cristo.

La comunione eucaristica quindi è preparata da una serie di riti che mirano a ben disporre i fedeli a ricevere le specie eucaristiche, e sono in sintesi: il Padre nostro , lo scambio della pace e la frazione del pane. Potremmo dire che queste tre azioni rituali rientrano nella dimensione della Comunione: comunione con il Padre, comunione con i fratelli, comunione con Cristo.

Infatti nel Padre nostro , unica preghiera insegnata ai discepoli da Gesù, “si chiede il pane quotidiano, nel quale i cristiani scorgono un particolare riferimento al pane eucaristico, e si implora la purificazione dei peccati, così realmente i santi doni vengono dati ai santi” (Ordinamento generale del Messale romano, n. 81).

Con il rito di pace invece la Chiesa “implora la pace e l’unità per se stessa e per l’intera famiglia umana, e i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole” (Ordinamento generale, n. 82). Segue poi, accompagnata dal canto dell’ Agnello di Dio , la frazione del pane. Questo antichissimo gesto, che nei primi secoli ha dato il nome - fractio panis - a tutta la celebrazione eucaristica, esprime il fatto che “i molti fedeli, nella Comunione dall’unico pane di vita, che è il Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo, costituiscono un solo corpo (1Cor 10,17)” (Ordinamento generale , n. 83).

Il sacerdote nello spezzare il pane mette un piccolo frammento nel calice, a significare l’unità tra il corpo e il sangue di Cristo nell’opera della nostra redenzione.

Segue poi la Comunione sacramentale, accompagnata dal canto e seguita dal silenzio orante. Significative le parole di invito delle dal sacerdote nella versione latina: Beati qui ad coenam Agni vocati sunt, “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” o “al banchetto di nozze dell’Agnello”, riprendendo il tema che compare nel libro dell’ Apocalisse al capitolo 19. Infatti, pur essendo più intuitiva la versione in italiano, “Beati gli invitati alla cena del Signore”, quella latina richiama indubbiamente a due dimensioni: quella escatologica e quella sponsale.

Infatti l’eucarestia è anticipazione del banchetto eterno, e in essa i fedeli possono pregustare la liturgia che viene celebrata nella Gerusalemme celeste. Non solo, parlare di nozze dell’Agnello sottolinea l’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa, grazie alla quale il fedele che si comunica al corpo e al sangue del Signore si unisce con lui come una sposa con il suo Sposo, affinché diventi una sola cosa con Cristo. Si va così verso la conclusione della celebrazione eucaristica che termina con l’ Ite, missa est, aprendo il cristiano alla missione nel mondo.

Don Francesco Verzini

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Dopo la Preghiera eucaristica, la celebrazione continua e si conclude con tutta una serie di azioni e di parole. Non ce n’è qualcuna che pare “di troppo”?

La celebrazione eucaristica porta in sé due dimensioni inscindibili: è banchetto sacrificale, in quanto memoriale del Mistero pasquale, e banchetto conviviale, in quanto i cristiani sono invitati alle nozze dell’Agnello (vedi Apocalisse19). Per questo la messa non si conclude con la Preghiera eucaristica, ma continua con i riti di Comunione, grazie ai quali i battezzati possono partecipare pienamente alla celebrazione mangiando il corpo e bevendo il sangue di Cristo.

La comunione eucaristica quindi è preparata da una serie di riti che mirano a ben disporre i fedeli a ricevere le specie eucaristiche, e sono in sintesi: il Padre nostro , lo scambio della pace e la frazione del pane. Potremmo dire che queste tre azioni rituali rientrano nella dimensione della Comunione: comunione con il Padre, comunione con i fratelli, comunione con Cristo.

Infatti nel Padre nostro , unica preghiera insegnata ai discepoli da Gesù, “si chiede il pane quotidiano, nel quale i cristiani scorgono un particolare riferimento al pane eucaristico, e si implora la purificazione dei peccati, così realmente i santi doni vengono dati ai santi” (Ordinamento generale del Messale romano, n. 81).

Con il rito di pace invece la Chiesa “implora la pace e l’unità per se stessa e per l’intera famiglia umana, e i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole” (Ordinamento generale, n. 82). Segue poi, accompagnata dal canto dell’ Agnello di Dio , la frazione del pane. Questo antichissimo gesto, che nei primi secoli ha dato il nome - fractio panis - a tutta la celebrazione eucaristica, esprime il fatto che “i molti fedeli, nella Comunione dall’unico pane di vita, che è il Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo, costituiscono un solo corpo (1Cor 10,17)” (Ordinamento generale , n. 83).

Il sacerdote nello spezzare il pane mette un piccolo frammento nel calice, a significare l’unità tra il corpo e il sangue di Cristo nell’opera della nostra redenzione.

Segue poi la Comunione sacramentale, accompagnata dal canto e seguita dal silenzio orante. Significative le parole di invito delle dal sacerdote nella versione latina: Beati qui ad coenam Agni vocati sunt, “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” o “al banchetto di nozze dell’Agnello”, riprendendo il tema che compare nel libro dell’ Apocalisse al capitolo 19. Infatti, pur essendo più intuitiva la versione in italiano, “Beati gli invitati alla cena del Signore”, quella latina richiama indubbiamente a due dimensioni: quella escatologica e quella sponsale.

Infatti l’eucarestia è anticipazione del banchetto eterno, e in essa i fedeli possono pregustare la liturgia che viene celebrata nella Gerusalemme celeste. Non solo, parlare di nozze dell’Agnello sottolinea l’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa, grazie alla quale il fedele che si comunica al corpo e al sangue del Signore si unisce con lui come una sposa con il suo Sposo, affinché diventi una sola cosa con Cristo. Si va così verso la conclusione della celebrazione eucaristica che termina con l’ Ite, missa est, aprendo il cristiano alla missione nel mondo.

Don Francesco Verzini

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I riti di introduzione della messa https://www.lavoce.it/riti-introduzione-messa/ https://www.lavoce.it/riti-introduzione-messa/#comments Sun, 03 Feb 2019 08:00:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53945 logo rubrica domande sulla liturgia

Si può notare come questa parte della celebrazione eucaristica sia ricca di azioni compiute sia dal popolo sia da colui che presiede. Quale ne è il senso?

In genere siamo abituati a fare attenzione ai momenti centrali di ogni celebrazione, che in questo caso sono la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica; ma in ogni messa il tutto è preceduto da una serie di riti introduttivi, da non sottovalutare nel loro significato e quindi nella loro attuazione.

Ogni azione, parola, momento che contraddistingue l’inizio della messa meriterebbe un approfondimento; qui ne sceglieremo alcuni dopo aver visto cosa dice l’ Ordinamento generale del messale romano (Ogmr: le norme che regolano la celebrazione eucaristica) in riferimento ai riti di introduzione, così da scoprirne anzitutto il senso complessivo.

L’ Ordinamento inserisce nella prima parte della messa almeno sei riti consecutivi i quali, si legge al n. 46, hanno “un carattere d’inizio, di introduzione e di preparazione. Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, si dispongano ad ascoltare con fede la Parola di Dio e a celebrare degnamente l’eucarestia”. Per questo, tutto ciò che si compie, dall’inizio del canto d’ingresso alla colletta, tende a rendere l’assemblea consapevole di essere popolo radunato in attesa del Risorto.

Una delle prime azioni che attirano la nostra attenzione sono l’inchino e il bacio che il presbitero rivolge all’altare in segno di riverenza e venerazione. Perché “l’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore (...) è il centro dell’azione di grazia che si compie con l’eucarestia” (Ogmr, n. 296), e ancor più, è segno permanente di Cristo sacerdote e vittima.

Poi il sacerdote con tutta l’assemblea si segna con il segno della croce, che dà inizio e conclude ogni liturgia ed esprime il nostro appartenere a Cristo sin dal giorno del battesimo, in forza del quale celebriamo l’eucarestia; e infine “il sacerdote con il saluto annunzia alla comunità radunata la presenza del Signore”.

Il rito dell’atto penitenziale trova la sua origine nella Scrittura: “Confessate gli uni agli altri i vostri peccati e pregate gli uni per gli altri per essere guariti” (Gc 5,16), e viene posto quindi all’inizio. L’atto penitenziale è premessa a tutta la celebrazione nel riconoscere la propria indegnità e nel confessare della misericordia di Dio. Seguono il Kyrie eleison -e il Gloria, nelle domeniche, feste e solennità. Con il primo canto “i fedeli acclamano il Signore e implorano la sua misericordia” (Ogmr, n. 52); con l’inno invece “la Chiesa, radunata nello Spirito santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello” (n. 53).

I riti di introduzione si concludono con la preghiera detta “colletta”, con cui il sacerdote invita i fedeli a pregare qualche momento in silenzio “per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera” (n. 54). Quindi, a mani allargate, dice l’orazione - che ha sempre carattere trinitario ed è rivolta in genere a Dio Padre ma anche al Figlio - che il popolo fa propria, concludendo con l’acclamazione “Amen”.

Don Francesco Verzini

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Si può notare come questa parte della celebrazione eucaristica sia ricca di azioni compiute sia dal popolo sia da colui che presiede. Quale ne è il senso?

In genere siamo abituati a fare attenzione ai momenti centrali di ogni celebrazione, che in questo caso sono la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica; ma in ogni messa il tutto è preceduto da una serie di riti introduttivi, da non sottovalutare nel loro significato e quindi nella loro attuazione.

Ogni azione, parola, momento che contraddistingue l’inizio della messa meriterebbe un approfondimento; qui ne sceglieremo alcuni dopo aver visto cosa dice l’ Ordinamento generale del messale romano (Ogmr: le norme che regolano la celebrazione eucaristica) in riferimento ai riti di introduzione, così da scoprirne anzitutto il senso complessivo.

L’ Ordinamento inserisce nella prima parte della messa almeno sei riti consecutivi i quali, si legge al n. 46, hanno “un carattere d’inizio, di introduzione e di preparazione. Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, si dispongano ad ascoltare con fede la Parola di Dio e a celebrare degnamente l’eucarestia”. Per questo, tutto ciò che si compie, dall’inizio del canto d’ingresso alla colletta, tende a rendere l’assemblea consapevole di essere popolo radunato in attesa del Risorto.

Una delle prime azioni che attirano la nostra attenzione sono l’inchino e il bacio che il presbitero rivolge all’altare in segno di riverenza e venerazione. Perché “l’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore (...) è il centro dell’azione di grazia che si compie con l’eucarestia” (Ogmr, n. 296), e ancor più, è segno permanente di Cristo sacerdote e vittima.

Poi il sacerdote con tutta l’assemblea si segna con il segno della croce, che dà inizio e conclude ogni liturgia ed esprime il nostro appartenere a Cristo sin dal giorno del battesimo, in forza del quale celebriamo l’eucarestia; e infine “il sacerdote con il saluto annunzia alla comunità radunata la presenza del Signore”.

Il rito dell’atto penitenziale trova la sua origine nella Scrittura: “Confessate gli uni agli altri i vostri peccati e pregate gli uni per gli altri per essere guariti” (Gc 5,16), e viene posto quindi all’inizio. L’atto penitenziale è premessa a tutta la celebrazione nel riconoscere la propria indegnità e nel confessare della misericordia di Dio. Seguono il Kyrie eleison -e il Gloria, nelle domeniche, feste e solennità. Con il primo canto “i fedeli acclamano il Signore e implorano la sua misericordia” (Ogmr, n. 52); con l’inno invece “la Chiesa, radunata nello Spirito santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello” (n. 53).

I riti di introduzione si concludono con la preghiera detta “colletta”, con cui il sacerdote invita i fedeli a pregare qualche momento in silenzio “per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera” (n. 54). Quindi, a mani allargate, dice l’orazione - che ha sempre carattere trinitario ed è rivolta in genere a Dio Padre ma anche al Figlio - che il popolo fa propria, concludendo con l’acclamazione “Amen”.

Don Francesco Verzini

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Il primo nucleo dell’eucaristia https://www.lavoce.it/nucleo-eucaristia/ Sun, 20 Jan 2019 08:00:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53821 logo rubrica domande sulla liturgia

La celebrazione eucaristica attuale da dove trae la sua origine? C’è un nucleo originario che riguarda non solo la Chiesa cattolica, ma anche le altre Confessioni cristiane?

La celebrazione eucaristica affonda le sue radici nella cena pasquale celebrata da Gesù all’inizio della sua passione. Le diverse tradizioni rituali e le divergenze teologiche e interpretative esistenti ancor oggi tra le varie Chiese e Confessioni cristiane hanno in comune il riferimento ai testi biblici che narrano ciò che Gesù fece con il gruppo degli apostoli “nella notte in cui fu tradito”.

Seppure con alcune differenze, esprimono una fedeltà al comando: “Fate questo in memoria di me”. Quindi possiamo dire che il punto di partenza sono i gesti e le parole compiute dal Messia nell’Ultima Cena, della quale sono arrivate a noi diverse testimonianze nei Vangeli e in Paolo. Si tratta dei racconti d’istituzione, che testimoniano la presenza di due tradizioni parallele già nelle prime comunità cristiane: la tradizione marciana e la tradizione paolina.

Della prima fanno parte i racconti riportati in Marco 14,17-26 e in Matteo 26,20-30, della seconda invece il racconto in Luca 22,14-20 e nella Prima lettera ai Corinzi 11,2325. Non sembri strano al lettore il fatto di avere due tradizioni che seppur nelle differenze, dovute a svariati motivi - riportano la stessa sostanza: Gesù si è consegnato ai suoi con un’azione rituale anticipatrice, nella quale ha significato il suo successivo sacrificio.

Potremmo quidedicare parole su parole all’esegesi dei testi d’istituzione, ma per ora può bastare indicare che cosa abbia voluto significare il Maestro nel benedire, spezzare e distribuire il pane, come nel benedire e distribuire il calice del vino, e per quale motivo lo ha fatto. Anzitutto, i quattro racconti fanno riferimento alla Pasqua ebraica, che fa memoria della liberazione del popolo dall’Egitto, sottolineando il contesto nel quale si svolse la cena: la solennità pasquale.

Pur avendo ancora sul tavolo del dibattito molte questioni legate alla cronologia dei fatti, non è difficile percepire che l’intento degli evangelisti e di Paolo è quello di far comprendere come il Cristo sia il nuovo agnello pasquale, immolato per la salvezza dell’uomo. Ciò che Giovanni Battista aveva profetizzato, “ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,36), diventa qui evidente.

La Lettera agli Ebrei preciserà: “Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà [salvifica, ndr ] siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre” (Eb 10,9-10). Il secondo passo della nostra riflessione è rispondere sinteticamente al perché il Signore abbia celebrato l’Ultima Cena indicando nei segni del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue.

Il “fate questo in memoria di me” della tradizione paolina non è solo un comando con cui viene ordinato agli apostoli di ripetere ciò che egli ha compiuto, è molto di più: al gruppo dei Dodici e quindi alla Chiesa è stato consegnato il sacramento con il quale perpetuare il mistero pasquale. La celebrazione eucaristica è l’orizzonte entro cui il Risorto, sacrificatosi una volta per tutte, continua a donarsi alla sua Chiesa affinché ogni persona in ogni tempo possa vivere l’evento che ci ha salvati.

Don Francesco Verzini

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La celebrazione eucaristica attuale da dove trae la sua origine? C’è un nucleo originario che riguarda non solo la Chiesa cattolica, ma anche le altre Confessioni cristiane?

La celebrazione eucaristica affonda le sue radici nella cena pasquale celebrata da Gesù all’inizio della sua passione. Le diverse tradizioni rituali e le divergenze teologiche e interpretative esistenti ancor oggi tra le varie Chiese e Confessioni cristiane hanno in comune il riferimento ai testi biblici che narrano ciò che Gesù fece con il gruppo degli apostoli “nella notte in cui fu tradito”.

Seppure con alcune differenze, esprimono una fedeltà al comando: “Fate questo in memoria di me”. Quindi possiamo dire che il punto di partenza sono i gesti e le parole compiute dal Messia nell’Ultima Cena, della quale sono arrivate a noi diverse testimonianze nei Vangeli e in Paolo. Si tratta dei racconti d’istituzione, che testimoniano la presenza di due tradizioni parallele già nelle prime comunità cristiane: la tradizione marciana e la tradizione paolina.

Della prima fanno parte i racconti riportati in Marco 14,17-26 e in Matteo 26,20-30, della seconda invece il racconto in Luca 22,14-20 e nella Prima lettera ai Corinzi 11,2325. Non sembri strano al lettore il fatto di avere due tradizioni che seppur nelle differenze, dovute a svariati motivi - riportano la stessa sostanza: Gesù si è consegnato ai suoi con un’azione rituale anticipatrice, nella quale ha significato il suo successivo sacrificio.

Potremmo quidedicare parole su parole all’esegesi dei testi d’istituzione, ma per ora può bastare indicare che cosa abbia voluto significare il Maestro nel benedire, spezzare e distribuire il pane, come nel benedire e distribuire il calice del vino, e per quale motivo lo ha fatto. Anzitutto, i quattro racconti fanno riferimento alla Pasqua ebraica, che fa memoria della liberazione del popolo dall’Egitto, sottolineando il contesto nel quale si svolse la cena: la solennità pasquale.

Pur avendo ancora sul tavolo del dibattito molte questioni legate alla cronologia dei fatti, non è difficile percepire che l’intento degli evangelisti e di Paolo è quello di far comprendere come il Cristo sia il nuovo agnello pasquale, immolato per la salvezza dell’uomo. Ciò che Giovanni Battista aveva profetizzato, “ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,36), diventa qui evidente.

La Lettera agli Ebrei preciserà: “Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà [salvifica, ndr ] siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre” (Eb 10,9-10). Il secondo passo della nostra riflessione è rispondere sinteticamente al perché il Signore abbia celebrato l’Ultima Cena indicando nei segni del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue.

Il “fate questo in memoria di me” della tradizione paolina non è solo un comando con cui viene ordinato agli apostoli di ripetere ciò che egli ha compiuto, è molto di più: al gruppo dei Dodici e quindi alla Chiesa è stato consegnato il sacramento con il quale perpetuare il mistero pasquale. La celebrazione eucaristica è l’orizzonte entro cui il Risorto, sacrificatosi una volta per tutte, continua a donarsi alla sua Chiesa affinché ogni persona in ogni tempo possa vivere l’evento che ci ha salvati.

Don Francesco Verzini

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L’eucaristia nella vita cristiana https://www.lavoce.it/eucaristia-vita-cristiana/ Sun, 13 Jan 2019 08:00:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53783 logo rubrica domande sulla liturgia

Perché si dà tanta importanza alla celebrazione eucaristica? Perché di domenica è precetto, e se non si partecipa si fa peccato? Insomma, perché celebriamo l’eucarestia?

Potremmo occupare l’intera risposta alla domanda citando i testi magisteriali nei quali si ribadisce il precetto domenicale e festivo di partecipare alla celebrazione eucaristica, ma credo che questo non basterebbe.

Infatti soprattutto oggi, nel tempo in cui le regole ci stanno spesso strette, prima di rispondere alla domanda nella maniera più facile: “Si deve andare a messa la domenica perché è precetto, e se deliberatamente non ci si va, si commette peccato grave”, bisognerà capire il motivo per cui la Chiesa ha mantenuto questo precetto, così da illuminare anche la buona abitudine di alcuni cristiani di partecipare nei giorni feriali alla messa, pur non avendo l’obbligo di farlo, e quindi scoprire il senso profondo della nostra partecipazione alla celebrazione eucaristica.

Lo stesso Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium, al numero 11 afferma che il sacrificio eucaristico è “fonte e apice di tutta la vita cristiana”, ma perché? Se prendiamo tra le mani i racconti dell’Ultima Cena, vediamo come, nel Vangelo di Luca, Gesù dopo aver reso grazie sul pane, averlo spezzato e distribuito ai suoi, conclude il suo discorso dicendo: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19).

Affermando questo, il Signore richiama a un’attenzione tutta particolare da rivolgere alla Cena, oltre al fatto che potremmo dire già da qui che celebrare l’eucarestia è risposta all’invito di Gesù, è obbedienza a un suo comando. Come mai però Gesù pone questo particolare accento? Perché - come lui stesso ci dice nel Vangelo di Luca - celebrare l’eucarestia è far memoriale del Mistero pasquale, che egli stesso ha anticipato ritualmente nell’Ultima Cena.

Partecipare quindi alla messa è darmi la possibilità di godere dell’evento che mi ha salvato: la morte e resurrezione di Gesù. Se così non fosse, solo i testimoni oculari dell’evento accaduto duemila anni fa sarebbero “fortunati”... ma lo stesso Signore ci ha consegnato una modalità con la quale è possibile vivere quell’evento compiuto una volta per tutte (vedi Eb 7).

Sempre nel Vangelo di Luca, dopo la risurrezione di Cristo ci viene narrato il suo incontro con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-31). Giunti a destinazione, dopo aver spezzato il pane, Gesù scompare dalla loro vista, dando così il senso che è possibile incontrare il Risorto nella Chiesa partecipando alla sua mensa.

Talvolta è difficile per noi comprendere questo, perché diamo a livello linguistico un significato quasi superficiale al termine “memoriale”: infatti potremmo fermaci alla dimensione del ricordo, ma nella cultura semitica (quella originaria di Gesù) il “fare memoria / memoriale” è non solo ricordarsi di qualcosa già avvenuto, ma rendere presente, attuale, vivo, ciò che si ricorda, riproducendone ritualmente la stessa potenza. Celebrare l’eucarestia è quindi rendere presente a ogni essere umano in ogni tempo, attraverso i segni del pane e del vino, il Mistero pasquale di Cristo.

Da qui la necessità di ‘difendere’ con il precetto domenicale e festivo quella che in realtà dovrebbe essere anzitutto l’esigenza di ogni cristiano.

Don Francesco Verzini

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Perché si dà tanta importanza alla celebrazione eucaristica? Perché di domenica è precetto, e se non si partecipa si fa peccato? Insomma, perché celebriamo l’eucarestia?

Potremmo occupare l’intera risposta alla domanda citando i testi magisteriali nei quali si ribadisce il precetto domenicale e festivo di partecipare alla celebrazione eucaristica, ma credo che questo non basterebbe.

Infatti soprattutto oggi, nel tempo in cui le regole ci stanno spesso strette, prima di rispondere alla domanda nella maniera più facile: “Si deve andare a messa la domenica perché è precetto, e se deliberatamente non ci si va, si commette peccato grave”, bisognerà capire il motivo per cui la Chiesa ha mantenuto questo precetto, così da illuminare anche la buona abitudine di alcuni cristiani di partecipare nei giorni feriali alla messa, pur non avendo l’obbligo di farlo, e quindi scoprire il senso profondo della nostra partecipazione alla celebrazione eucaristica.

Lo stesso Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium, al numero 11 afferma che il sacrificio eucaristico è “fonte e apice di tutta la vita cristiana”, ma perché? Se prendiamo tra le mani i racconti dell’Ultima Cena, vediamo come, nel Vangelo di Luca, Gesù dopo aver reso grazie sul pane, averlo spezzato e distribuito ai suoi, conclude il suo discorso dicendo: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19).

Affermando questo, il Signore richiama a un’attenzione tutta particolare da rivolgere alla Cena, oltre al fatto che potremmo dire già da qui che celebrare l’eucarestia è risposta all’invito di Gesù, è obbedienza a un suo comando. Come mai però Gesù pone questo particolare accento? Perché - come lui stesso ci dice nel Vangelo di Luca - celebrare l’eucarestia è far memoriale del Mistero pasquale, che egli stesso ha anticipato ritualmente nell’Ultima Cena.

Partecipare quindi alla messa è darmi la possibilità di godere dell’evento che mi ha salvato: la morte e resurrezione di Gesù. Se così non fosse, solo i testimoni oculari dell’evento accaduto duemila anni fa sarebbero “fortunati”... ma lo stesso Signore ci ha consegnato una modalità con la quale è possibile vivere quell’evento compiuto una volta per tutte (vedi Eb 7).

Sempre nel Vangelo di Luca, dopo la risurrezione di Cristo ci viene narrato il suo incontro con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-31). Giunti a destinazione, dopo aver spezzato il pane, Gesù scompare dalla loro vista, dando così il senso che è possibile incontrare il Risorto nella Chiesa partecipando alla sua mensa.

Talvolta è difficile per noi comprendere questo, perché diamo a livello linguistico un significato quasi superficiale al termine “memoriale”: infatti potremmo fermaci alla dimensione del ricordo, ma nella cultura semitica (quella originaria di Gesù) il “fare memoria / memoriale” è non solo ricordarsi di qualcosa già avvenuto, ma rendere presente, attuale, vivo, ciò che si ricorda, riproducendone ritualmente la stessa potenza. Celebrare l’eucarestia è quindi rendere presente a ogni essere umano in ogni tempo, attraverso i segni del pane e del vino, il Mistero pasquale di Cristo.

Da qui la necessità di ‘difendere’ con il precetto domenicale e festivo quella che in realtà dovrebbe essere anzitutto l’esigenza di ogni cristiano.

Don Francesco Verzini

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I funerali con o senza la messa https://www.lavoce.it/funerali-senza-la-messa/ Sun, 24 Jun 2018 08:00:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52138 logo rubrica domande sulla liturgia

Caro don Verzini, purtroppo negli ultimi tempi diversi amici ci hanno lasciato, e sono andata al loro funerale. In una parrocchia il funerale “classico”, con la messa e scarsa partecipazione all’eucarestia, poi l’accompagnamento a piedi al cimitero, con il parroco in prima fila (nei piccoli paesi ancora si può). In un’altra parrocchia, invece, niente messa e quindi niente “triste spettacolo” all’eucarestia, e il parroco non è venuto al cimitero. Ma non sarebbe meglio celebrare sempre il funerale con la messa? È vero, la modalità con cui si celebra il rito delle esequie è differente da parrocchia a parrocchia, sia per motivi pastorali sia per la modalità di partecipazione dei fedeli. Eppure credo sia uno dei momenti cruciali nella vita di fede delle persone, proprio perché il mistero della morte di un caro ci interroga, tanto da essere anche momento per l’abbandono o l’avvicinamento alla vita di fede. Per questo il rito delle esequie è strutturato in maniera tale da accompagnare i tempi e luoghi dell’esperienza della morte dei fedeli, annunciando il Vangelo della risurrezione di Cristo. Il Rituale prevede tre tipi di celebrazione: il primo è quello tradizionale, che vedremo sinteticamente; il secondo si svolge tutto al cimitero; il terzo, che nel rituale italiano non è previsto, è la celebrazione delle esequie in casa del defunto. Il primo schema, quello classico, prevede la celebrazione in tre luoghi fisici e simbolici, intervallata da processioni, che ancora nei piccoli paesi si svolgono a piedi. Il primo luogo è nella casa del defunto, luogo di vita e di affetto; il secondo luogo è in chiesa, dove ogni fedele è stato generato nella fede e dove si è nutrito dell’eucarestia; il terzo è il cimitero, luogo di riposo e di attesa della risurrezione. Per ogni luogo chiaramente sono pensate specifiche azioni rituali. Perlopiù siamo abituati a partecipare alla parte centrale, che in molte parrocchie è l’unico momento celebrativo che si svolge, ossia il rito in chiesa. In alcune parrocchie è inserito nella celebrazione eucaristica, in altre nella sola liturgia della Parola. Questa seconda possibilità è liberamente scelta dal parroco, e spesso è dettata dal timore che nessuno si accosti alla Comunione o che molti si accostino pur non partecipando costantemente alla vita celebrativa della comunità. Sta di fatto che la forma tradizionale è prevista all’interno della liturgia, con la possibilità di omettere la Comunione per prescrizioni liturgiche o per motivi pastorali. La scelta di celebrare il rito delle esequie nella celebrazione eucaristica è per sottolineare lo stretto legame con il Mistero pasquale che si celebra. Infatti i riti esequiali sono da vivere nell’ottica della Pasqua del Signore, la quale trasforma la morte da un addio a un esodo da questo mondo al Padre. È chiaro quindi che il rito delle esequie celebrato all’interno della messa evidenzia come il Mistero pasquale di Cristo, di cui stiamo facendo memoriale, illumina il mistero di morte dell’uomo, aprendolo alla speranza della risurrezione.  
Grazie a don Verzini, che ci saluta per la pausa estiva ma lo ritroveremo qui a settembre
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Caro don Verzini, purtroppo negli ultimi tempi diversi amici ci hanno lasciato, e sono andata al loro funerale. In una parrocchia il funerale “classico”, con la messa e scarsa partecipazione all’eucarestia, poi l’accompagnamento a piedi al cimitero, con il parroco in prima fila (nei piccoli paesi ancora si può). In un’altra parrocchia, invece, niente messa e quindi niente “triste spettacolo” all’eucarestia, e il parroco non è venuto al cimitero. Ma non sarebbe meglio celebrare sempre il funerale con la messa? È vero, la modalità con cui si celebra il rito delle esequie è differente da parrocchia a parrocchia, sia per motivi pastorali sia per la modalità di partecipazione dei fedeli. Eppure credo sia uno dei momenti cruciali nella vita di fede delle persone, proprio perché il mistero della morte di un caro ci interroga, tanto da essere anche momento per l’abbandono o l’avvicinamento alla vita di fede. Per questo il rito delle esequie è strutturato in maniera tale da accompagnare i tempi e luoghi dell’esperienza della morte dei fedeli, annunciando il Vangelo della risurrezione di Cristo. Il Rituale prevede tre tipi di celebrazione: il primo è quello tradizionale, che vedremo sinteticamente; il secondo si svolge tutto al cimitero; il terzo, che nel rituale italiano non è previsto, è la celebrazione delle esequie in casa del defunto. Il primo schema, quello classico, prevede la celebrazione in tre luoghi fisici e simbolici, intervallata da processioni, che ancora nei piccoli paesi si svolgono a piedi. Il primo luogo è nella casa del defunto, luogo di vita e di affetto; il secondo luogo è in chiesa, dove ogni fedele è stato generato nella fede e dove si è nutrito dell’eucarestia; il terzo è il cimitero, luogo di riposo e di attesa della risurrezione. Per ogni luogo chiaramente sono pensate specifiche azioni rituali. Perlopiù siamo abituati a partecipare alla parte centrale, che in molte parrocchie è l’unico momento celebrativo che si svolge, ossia il rito in chiesa. In alcune parrocchie è inserito nella celebrazione eucaristica, in altre nella sola liturgia della Parola. Questa seconda possibilità è liberamente scelta dal parroco, e spesso è dettata dal timore che nessuno si accosti alla Comunione o che molti si accostino pur non partecipando costantemente alla vita celebrativa della comunità. Sta di fatto che la forma tradizionale è prevista all’interno della liturgia, con la possibilità di omettere la Comunione per prescrizioni liturgiche o per motivi pastorali. La scelta di celebrare il rito delle esequie nella celebrazione eucaristica è per sottolineare lo stretto legame con il Mistero pasquale che si celebra. Infatti i riti esequiali sono da vivere nell’ottica della Pasqua del Signore, la quale trasforma la morte da un addio a un esodo da questo mondo al Padre. È chiaro quindi che il rito delle esequie celebrato all’interno della messa evidenzia come il Mistero pasquale di Cristo, di cui stiamo facendo memoriale, illumina il mistero di morte dell’uomo, aprendolo alla speranza della risurrezione.  
Grazie a don Verzini, che ci saluta per la pausa estiva ma lo ritroveremo qui a settembre
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In piedi o in ginocchio alla consacrazione https://www.lavoce.it/piedi-ginocchio-alla-consacrazione/ Tue, 01 May 2018 08:00:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51778 logo rubrica domande sulla liturgia

Caro don Verzini, nella messa, durante l’elevazione dell’ostia c’è chi si mette in ginocchio piegando il capo verso terra, altri pure stando in ginocchio alzano gli occhi per guardare il sacerdote, altri ancora restano in piedi. Chi ha ragione? A. B. Perugia La domanda denota un problema che molte delle nostre assemblee soffrono, e che è più ampio rispetto al mettersi in ginocchio o restare in piedi. Mi riferisco a tutti gli atteggiamenti del corpo, alle acclamazioni, o ai canti, che tendono a far sì che la comunità partecipi attivamente alla liturgia facendone una preghiera comunitaria, la preghiera della Chiesa. Tante volte ci capita di partecipare a celebrazioni in cui, pur essendo nello stesso luogo e nello stesso momento, ognuno celebra per conto proprio: chi canta e chi no, chi si inginocchia e chi rimane in pieni, chi proclama il Credo ad alta voce chi invece sotto voce, e così via. Tutti questi momenti e gesti dovrebbero non solo servire a fare in modo che la liturgia splenda per decoro e semplicità, ma anche a denotare una caratteristica della liturgia stessa, quella di essere preghiera comunitaria e celebrazione di tutto il Corpo di Cristo, di tutte le sue membra. In questo contesto si inserisce anche la sua domanda, per la quale troviamo risposte chiare nei documenti magisteriali che danno indicazioni ai Pastori per educare il proprio gregge a essere un “corpo” che celebra. Infatti l’ Ordinamento del Messale romano (il testo è su w2.vatican.va) al numero 43 afferma: i fedeli “s’inginocchino poi alla consacrazione, a meno che lo impediscano lo stato di salute, la ristrettezza del luogo, o il gran numero dei presenti, o altri ragionevoli motivi. Quelli che non si inginocchiano alla consacrazione, facciano un profondo inchino mentre il sacerdote genuflette dopo la consacrazione”. In questo poi si inserisce la Precisazione della Conferenza episcopale italiana al Messale romano, dando un’ulteriore indicazione: “In ginocchio, se possibile, dall’inizio dell’epiclesi preconsacratoria (gesto dell’imposizione delle mani) fino all’elevazione del calice inclusa”. Sappiamo quindi che il gesto da parte dell’assemblea dell’inginocchiarsi è prescritto durante la consacrazione, più precisamente dall’imposizione delle mani sulle specie eucaristiche fino al “mistero della fede” escluso. Ponendo qui il gesto dell’inginocchiarsi, presente tra l’altro da molti secoli, si vuol sottolineare come si stia rendendo presente di fronte ai nostri occhi la presenza del Signore nel pane e nel vino. Questo gesto di adorazione e di contemplazione delle specie consacrate, alle quali deve essere rivolto il nostro sguardo, è segno che l’uomo è disposto ad accogliere questo grande dono che Dio ci sta facendo: la presenza di suo Figlio in mezzo al suo popolo.  ]]>
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Caro don Verzini, nella messa, durante l’elevazione dell’ostia c’è chi si mette in ginocchio piegando il capo verso terra, altri pure stando in ginocchio alzano gli occhi per guardare il sacerdote, altri ancora restano in piedi. Chi ha ragione? A. B. Perugia La domanda denota un problema che molte delle nostre assemblee soffrono, e che è più ampio rispetto al mettersi in ginocchio o restare in piedi. Mi riferisco a tutti gli atteggiamenti del corpo, alle acclamazioni, o ai canti, che tendono a far sì che la comunità partecipi attivamente alla liturgia facendone una preghiera comunitaria, la preghiera della Chiesa. Tante volte ci capita di partecipare a celebrazioni in cui, pur essendo nello stesso luogo e nello stesso momento, ognuno celebra per conto proprio: chi canta e chi no, chi si inginocchia e chi rimane in pieni, chi proclama il Credo ad alta voce chi invece sotto voce, e così via. Tutti questi momenti e gesti dovrebbero non solo servire a fare in modo che la liturgia splenda per decoro e semplicità, ma anche a denotare una caratteristica della liturgia stessa, quella di essere preghiera comunitaria e celebrazione di tutto il Corpo di Cristo, di tutte le sue membra. In questo contesto si inserisce anche la sua domanda, per la quale troviamo risposte chiare nei documenti magisteriali che danno indicazioni ai Pastori per educare il proprio gregge a essere un “corpo” che celebra. Infatti l’ Ordinamento del Messale romano (il testo è su w2.vatican.va) al numero 43 afferma: i fedeli “s’inginocchino poi alla consacrazione, a meno che lo impediscano lo stato di salute, la ristrettezza del luogo, o il gran numero dei presenti, o altri ragionevoli motivi. Quelli che non si inginocchiano alla consacrazione, facciano un profondo inchino mentre il sacerdote genuflette dopo la consacrazione”. In questo poi si inserisce la Precisazione della Conferenza episcopale italiana al Messale romano, dando un’ulteriore indicazione: “In ginocchio, se possibile, dall’inizio dell’epiclesi preconsacratoria (gesto dell’imposizione delle mani) fino all’elevazione del calice inclusa”. Sappiamo quindi che il gesto da parte dell’assemblea dell’inginocchiarsi è prescritto durante la consacrazione, più precisamente dall’imposizione delle mani sulle specie eucaristiche fino al “mistero della fede” escluso. Ponendo qui il gesto dell’inginocchiarsi, presente tra l’altro da molti secoli, si vuol sottolineare come si stia rendendo presente di fronte ai nostri occhi la presenza del Signore nel pane e nel vino. Questo gesto di adorazione e di contemplazione delle specie consacrate, alle quali deve essere rivolto il nostro sguardo, è segno che l’uomo è disposto ad accogliere questo grande dono che Dio ci sta facendo: la presenza di suo Figlio in mezzo al suo popolo.  ]]>
Vino da messa ‘made in Todi’ https://www.lavoce.it/vino-messa-made-todi/ Tue, 17 Apr 2018 11:00:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51635

Mercoledì prossimo, 18 aprile, alle ore 11 presso l’aula magna della “cittadella agraria” di Todi, sede della scuola di agricoltura più antica d’Italia, verrà presentato, dopo un percorso progettuale avviato nell’estate del 2017, un vino da messa prodotto secondo quanto disposto dal Codice di diritto canonico, il cui canone 924, comma 3, dispone che vinum debet esse naturale ex genimine vitis et non corruptum (“il vino deve essere naturale, frutto della vite, e non alterato”). All’evento sarà presente il vescovo Benedetto Tuzia, al quale compete l’autorizzazione per l’apposizione del sigillo ecclesiale sull’etichetta, ove comparirà la dicitura “Berit” (Alleanza), vino di uve Grechetto di Todi per la messa ex genimine vitis. Tutto parte, dunque, dall’istituto agrario Ciuffelli, nella cui cantina sperimentale, una delle più moderne d’Italia, l’enologo Martin Paolucci, ex allievo della scuola, ha voluto dar vita a questa impegnativa, particolare e limitata produzione enologica. Ogni elemento è stato scelto con cura, a partire dalle uve, selezionate a mano nei vigneti della casa diocesana di Spagliagrano, di proprietà dell’Istituto per il sostentamento del clero. La microvinificazione è stata poi seguita con attenzione in tutta la filiera enologica, dal mosto al vino, mettendo in atto tutti i procedimenti e i controlli, disposti dal canone sopracitato, riguardo ai vini destinati alle celebrazioni liturgiche. Nelle scorse settimane è spettato a don Alessandro Fortunati, vicario episcopale per la cultura e formazione permanente, nonché direttore dell’Ufficio liturgico diocesano, il compito di prelevare - alla presenza di due giovani studenti dell’indirizzo enologico della scuola - dei campioni per procedere alle analisi finali, eseguite da un qualificato laboratorio esterno. Tali analisi hanno validato, in via definitiva, la speciale qualità del vino imbottigliato nella cantina Montecristo per avere quale destinazione unica ed esclusiva le parrocchie di tutta Italia. Il progetto, oltre alla sua particolarità dal punto di vista culturale, valorizza il vitigno autoctono per eccellenza, il Grechetto, grazie al quale lo stesso istituto Ciuffelli si era imposto negli anni scorsi sulla scena nazionale nell’ambito di concorsi enologici promossi dai ministeri dell’Agricoltura e dell’Istruzione. Segnaliamo, infine, che, in occasione della presentazione del progetto si terrà una conferenza sulla storia del vino nelle sacre Scritture e sul suo significato nella liturgia cristiano-cattolica, per la quale è simbolo di benessere, fecondità e benedizione.  ]]>

Mercoledì prossimo, 18 aprile, alle ore 11 presso l’aula magna della “cittadella agraria” di Todi, sede della scuola di agricoltura più antica d’Italia, verrà presentato, dopo un percorso progettuale avviato nell’estate del 2017, un vino da messa prodotto secondo quanto disposto dal Codice di diritto canonico, il cui canone 924, comma 3, dispone che vinum debet esse naturale ex genimine vitis et non corruptum (“il vino deve essere naturale, frutto della vite, e non alterato”). All’evento sarà presente il vescovo Benedetto Tuzia, al quale compete l’autorizzazione per l’apposizione del sigillo ecclesiale sull’etichetta, ove comparirà la dicitura “Berit” (Alleanza), vino di uve Grechetto di Todi per la messa ex genimine vitis. Tutto parte, dunque, dall’istituto agrario Ciuffelli, nella cui cantina sperimentale, una delle più moderne d’Italia, l’enologo Martin Paolucci, ex allievo della scuola, ha voluto dar vita a questa impegnativa, particolare e limitata produzione enologica. Ogni elemento è stato scelto con cura, a partire dalle uve, selezionate a mano nei vigneti della casa diocesana di Spagliagrano, di proprietà dell’Istituto per il sostentamento del clero. La microvinificazione è stata poi seguita con attenzione in tutta la filiera enologica, dal mosto al vino, mettendo in atto tutti i procedimenti e i controlli, disposti dal canone sopracitato, riguardo ai vini destinati alle celebrazioni liturgiche. Nelle scorse settimane è spettato a don Alessandro Fortunati, vicario episcopale per la cultura e formazione permanente, nonché direttore dell’Ufficio liturgico diocesano, il compito di prelevare - alla presenza di due giovani studenti dell’indirizzo enologico della scuola - dei campioni per procedere alle analisi finali, eseguite da un qualificato laboratorio esterno. Tali analisi hanno validato, in via definitiva, la speciale qualità del vino imbottigliato nella cantina Montecristo per avere quale destinazione unica ed esclusiva le parrocchie di tutta Italia. Il progetto, oltre alla sua particolarità dal punto di vista culturale, valorizza il vitigno autoctono per eccellenza, il Grechetto, grazie al quale lo stesso istituto Ciuffelli si era imposto negli anni scorsi sulla scena nazionale nell’ambito di concorsi enologici promossi dai ministeri dell’Agricoltura e dell’Istruzione. Segnaliamo, infine, che, in occasione della presentazione del progetto si terrà una conferenza sulla storia del vino nelle sacre Scritture e sul suo significato nella liturgia cristiano-cattolica, per la quale è simbolo di benessere, fecondità e benedizione.  ]]>