Elezioni 2018 Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/elezioni-2018/ Settimanale di informazione regionale Fri, 26 Mar 2021 14:53:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Elezioni 2018 Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/elezioni-2018/ 32 32 Gli umbri non votano più a sinistra. Perché? https://www.lavoce.it/gli-umbri-non-votano-piu-sinistra-perche/ Fri, 06 Jul 2018 11:23:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52260

di Daris Giancarlini

Era il 1984 quando La Voce, con mons. Elio Bromuri alla sua guida da circa un anno, dedicò una serie di articoli e interviste ad approfondire il tema “Perché l’Umbria è rossa”. Potrebbe essere, quello che stiamo vivendo, il momento giusto per porsi il quesito totalmente opposto, e cioè valutare se, dopo il voto politico del 4marzo scorso e quello amministrativo di giugno in centri importanti come Terni, Spoleto e Umbertide, si possa definitivamente archiviare l’esperienza della sinistra, storica o nuova che sia, al governo della regione. Per fare posto a nuove colorazioni, con la Lega di Salvini a mietere consensi, Fratelli d’Italia in crescita e Forza Italia a cercare di tenere botta.

Un’Umbria politicamente di centrodestra, con il Movimento 5 stelle, ormai da qualche tornata elettorale, intorno al 27 per cento. Di sicuro, ragionare su cambiamenti politici di questa dimensione e di questa portata storica, che rientrano in dinamiche politiche, sociali ed economiche di più vasto raggio, richiede un tipo di analisi che non si fermi a uno solo o a pochi aspetti della questione.

Così, non basta parlare della ‘polverizzazione’ delle classi sociali e, in particolare, della scomparsa di quella storicamente conosciuta come classe operaia, in Umbria come nel resto d’Italia, per motivare la crisi della sinistra tutta, dal Pd ai movimenti e partiti che gravitano in quest’area. Così come non è soltanto recitare il De profundis a quella cultura contadina tessuto connettivo dell’Umbria di alcuni decenni or sono - che può servire a giustificare un arretramento di quelle forze politiche, principalmente di centro e a ispirazione cattolica, sulle quali ormai il dibattito politico sembra aver steso un velo tutt’altro che pietoso, lasciando spazio ad approcci esistenziali ed etici che poco hanno a che fare con quel ‘mondo antico’ della solidarietà e della genuinità (continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce).

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di Daris Giancarlini

Era il 1984 quando La Voce, con mons. Elio Bromuri alla sua guida da circa un anno, dedicò una serie di articoli e interviste ad approfondire il tema “Perché l’Umbria è rossa”. Potrebbe essere, quello che stiamo vivendo, il momento giusto per porsi il quesito totalmente opposto, e cioè valutare se, dopo il voto politico del 4marzo scorso e quello amministrativo di giugno in centri importanti come Terni, Spoleto e Umbertide, si possa definitivamente archiviare l’esperienza della sinistra, storica o nuova che sia, al governo della regione. Per fare posto a nuove colorazioni, con la Lega di Salvini a mietere consensi, Fratelli d’Italia in crescita e Forza Italia a cercare di tenere botta.

Un’Umbria politicamente di centrodestra, con il Movimento 5 stelle, ormai da qualche tornata elettorale, intorno al 27 per cento. Di sicuro, ragionare su cambiamenti politici di questa dimensione e di questa portata storica, che rientrano in dinamiche politiche, sociali ed economiche di più vasto raggio, richiede un tipo di analisi che non si fermi a uno solo o a pochi aspetti della questione.

Così, non basta parlare della ‘polverizzazione’ delle classi sociali e, in particolare, della scomparsa di quella storicamente conosciuta come classe operaia, in Umbria come nel resto d’Italia, per motivare la crisi della sinistra tutta, dal Pd ai movimenti e partiti che gravitano in quest’area. Così come non è soltanto recitare il De profundis a quella cultura contadina tessuto connettivo dell’Umbria di alcuni decenni or sono - che può servire a giustificare un arretramento di quelle forze politiche, principalmente di centro e a ispirazione cattolica, sulle quali ormai il dibattito politico sembra aver steso un velo tutt’altro che pietoso, lasciando spazio ad approcci esistenziali ed etici che poco hanno a che fare con quel ‘mondo antico’ della solidarietà e della genuinità (continua a leggere gratuitamente sull'edizione digitale de La Voce).

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Le promesse di Salvini e Di Maio https://www.lavoce.it/le-promesse-salvini-maio/ Mon, 28 May 2018 08:00:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51946 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Il “contratto di governo” siglato fra Salvini e Di Maio vale solo per loro due, o al massimo per i rispettivi movimenti politici. Infatti è il risultato di un confronto tra i ruspettivi programmi elettorali, nella faticosa ricerca di una sintesi che eliminasse tutti i punti in contrasto e rilanciasse le proposte su cui si potesse registrare una certa convergenza. Non dobbiamo invece prenderlo come una garanzia che quelle proposte saranno effettivamente realizzate. È lecito infatti sospettare che i contraenti non si siano preoccupati seriamente della loro fattibilità, che invece non è scontata; e lo è ancora meno se le si prendono in considerazione nel loro insieme. Prendiamo la proposta più attraente per la grande massa degli elettori: quella di una forte diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito. Di certo è facile raccogliere consensi elettorali promettendo una riduzione di tasse così marcata: ma sarà possibile che lo Stato rinunci di colpo a una grossa fetta delle sue entrate? Comunque, ammettendo che ci riesca, diventerà poi impossibile mantenere altre promesse già difficili, come il reddito di cittadinanza – sia pure ridimensionato a semplice sussidio di disoccupazione – o l’anticipazione dell’età pensionabile. Capisco che si diventa noiosi ribattendo sempre questo chiodo delle coperture finanziarie e delle compatibilità, ma non si può governare un grande Paese senza tenere d’occhio i conti. Specie se si tratta di un Paese già indebitato in misura abnorme. Chi sostiene il contrario – come i sostenitori del nuovo Governo e dei suoi programmi – si appella all’autorità dell’economista Keynes (1883-1946), quello che ha inventato la teoria della spesa pubblica in deficit come motore dell’economia nazionale. Ma il fatto è che la ricetta di Keynes in Italia la stiamo applicando massicciamente da settant’anni, ed è ben per questo che ci troviamo indebitati come siamo; mentre lui l’aveva concepita solo come rimedio per superare una situazione congiunturale negativa. Altrimenti vale il principio che “non esiste un pasto gratis”. Ricordarlo è antipatico, ma è così.  ]]>
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di Pier Giorgio Lignani Il “contratto di governo” siglato fra Salvini e Di Maio vale solo per loro due, o al massimo per i rispettivi movimenti politici. Infatti è il risultato di un confronto tra i ruspettivi programmi elettorali, nella faticosa ricerca di una sintesi che eliminasse tutti i punti in contrasto e rilanciasse le proposte su cui si potesse registrare una certa convergenza. Non dobbiamo invece prenderlo come una garanzia che quelle proposte saranno effettivamente realizzate. È lecito infatti sospettare che i contraenti non si siano preoccupati seriamente della loro fattibilità, che invece non è scontata; e lo è ancora meno se le si prendono in considerazione nel loro insieme. Prendiamo la proposta più attraente per la grande massa degli elettori: quella di una forte diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito. Di certo è facile raccogliere consensi elettorali promettendo una riduzione di tasse così marcata: ma sarà possibile che lo Stato rinunci di colpo a una grossa fetta delle sue entrate? Comunque, ammettendo che ci riesca, diventerà poi impossibile mantenere altre promesse già difficili, come il reddito di cittadinanza – sia pure ridimensionato a semplice sussidio di disoccupazione – o l’anticipazione dell’età pensionabile. Capisco che si diventa noiosi ribattendo sempre questo chiodo delle coperture finanziarie e delle compatibilità, ma non si può governare un grande Paese senza tenere d’occhio i conti. Specie se si tratta di un Paese già indebitato in misura abnorme. Chi sostiene il contrario – come i sostenitori del nuovo Governo e dei suoi programmi – si appella all’autorità dell’economista Keynes (1883-1946), quello che ha inventato la teoria della spesa pubblica in deficit come motore dell’economia nazionale. Ma il fatto è che la ricetta di Keynes in Italia la stiamo applicando massicciamente da settant’anni, ed è ben per questo che ci troviamo indebitati come siamo; mentre lui l’aveva concepita solo come rimedio per superare una situazione congiunturale negativa. Altrimenti vale il principio che “non esiste un pasto gratis”. Ricordarlo è antipatico, ma è così.  ]]>
Ci vuole altro che un contratto https://www.lavoce.it/ci-vuole-altro-un-contratto/ Mon, 21 May 2018 08:00:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51910 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani Come spesso mi succede quando scrivo i miei commenti, i tempi tecnici della pubblicazione e della distribuzione del giornale fanno sì che quando leggerete queste righe avrete già saputo quello che io, mentre scrivo, non posso sapere: e cioè come sarà andato a finire il tormentone delle trattative fra Di Maio e Salvini, se avranno deciso di abbandonare la partita o, al contrario, avranno trovato l’accordo. Nel secondo caso, avrete saputo anche il nome del nuovo primo ministro, mentre io adesso non provo neanche a indovinarlo. Qualche cosa la posso dire comunque. Per esempio, che proprio questo fatto è di una stravaganza assoluta. Parlo del fatto che due forze politiche emergenti stiano a discutere giorni e notti intorno a un programma di governo – un programma tanto preciso da essere consacrato in un “contratto” – lasciando come ultima cosa la scelta dell’uomo (o della donna) che ne sarà il capo. Come ha detto una persona di buon senso come l’onorevole Giorgia Meloni, è come se uno organizzasse la sua festa di matrimonio e mandasse anche gli inviti, senza avere ancora deciso chi sarà la sposa. Non è vero che, una volta fatto il programma (o il “contratto”), tutto è deciso e la scelta del capo del governo è una faccenda secondaria. Infatti già il giorno dopo che un nuovo governo è entrato in carica possono succedere cose che nessuno aveva previsto e che richiedono decisioni immediate. Viviamo, per dire, in un mondo nel quale Trump da un giorno all’altro decide di fare la pace con la Corea del Nord – dopo 65 anni – e nello stesso tempo di rompere gli accordi con l’Iran sull’armamento nucleare, di scatenare una guerra commerciale con la Cina e con l’Europa, di soffiare sul fuoco in Medio Oriente, e non so che altro. A parte Trump, potrebbe succedere che lo spread vada a 700 (è già successo nel 2011), che qualche grande banca americana fallisca (idem), che una setta di fanatici suicidi butti giù qualche grattacielo a New York. Ecco perché, piuttosto che un minuzioso “contratto” sui dettagli ci vuole un consenso di fondo sui grandi indirizzi e la fiducia nella capacità dei governanti di far fronte con prontezza e flessibilità alle sorprese della vita.  ]]>
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di Pier Giorgio Lignani Come spesso mi succede quando scrivo i miei commenti, i tempi tecnici della pubblicazione e della distribuzione del giornale fanno sì che quando leggerete queste righe avrete già saputo quello che io, mentre scrivo, non posso sapere: e cioè come sarà andato a finire il tormentone delle trattative fra Di Maio e Salvini, se avranno deciso di abbandonare la partita o, al contrario, avranno trovato l’accordo. Nel secondo caso, avrete saputo anche il nome del nuovo primo ministro, mentre io adesso non provo neanche a indovinarlo. Qualche cosa la posso dire comunque. Per esempio, che proprio questo fatto è di una stravaganza assoluta. Parlo del fatto che due forze politiche emergenti stiano a discutere giorni e notti intorno a un programma di governo – un programma tanto preciso da essere consacrato in un “contratto” – lasciando come ultima cosa la scelta dell’uomo (o della donna) che ne sarà il capo. Come ha detto una persona di buon senso come l’onorevole Giorgia Meloni, è come se uno organizzasse la sua festa di matrimonio e mandasse anche gli inviti, senza avere ancora deciso chi sarà la sposa. Non è vero che, una volta fatto il programma (o il “contratto”), tutto è deciso e la scelta del capo del governo è una faccenda secondaria. Infatti già il giorno dopo che un nuovo governo è entrato in carica possono succedere cose che nessuno aveva previsto e che richiedono decisioni immediate. Viviamo, per dire, in un mondo nel quale Trump da un giorno all’altro decide di fare la pace con la Corea del Nord – dopo 65 anni – e nello stesso tempo di rompere gli accordi con l’Iran sull’armamento nucleare, di scatenare una guerra commerciale con la Cina e con l’Europa, di soffiare sul fuoco in Medio Oriente, e non so che altro. A parte Trump, potrebbe succedere che lo spread vada a 700 (è già successo nel 2011), che qualche grande banca americana fallisca (idem), che una setta di fanatici suicidi butti giù qualche grattacielo a New York. Ecco perché, piuttosto che un minuzioso “contratto” sui dettagli ci vuole un consenso di fondo sui grandi indirizzi e la fiducia nella capacità dei governanti di far fronte con prontezza e flessibilità alle sorprese della vita.  ]]>
Le parole accorate e realistiche di Mattarella https://www.lavoce.it/le-parole-accorate-realistiche-mattarella/ Wed, 09 May 2018 14:49:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51844 di Francesco Bonini

Con il suo modo, sereno e pacato, semplice e lucido, il presidente della Repubblica è stato chiaro. Sono passati due mesi e più, si deve comunque procedere a un nuovo governo. Con le prospettive che indicherà il Parlamento: fiducia, sfiducia o non sfiducia. Parole antiche, quelle su cui aveva lavorato Moro prima del suo assassinio, che proprio in questi giorni si commemora.

Già, Moro. Così lontano e così vicino.

Nelle tante manifestazioni che lo ricordano oggi, quarant’anni dopo, siamo tutti interessati ai “misteri”. Ricerca inutile. Purtroppo forse non ci sono sensazionali verità da svelare: c’è piuttosto una ordinaria banalità del male ideologico, che ha ammazzato prima la sua scorta e poi lo ha assassinato, e c’è la banalità del male e degli interessi di quei tanti che hanno speculato, in quei giorni drammatici, sulle dinamiche del terrorismo degli anni Settanta, servizi e faccendieri di tutte le provenienze.

Moro allora, come tutti gli statisti della seconda metà del secolo scorso ci insegnerebbe, come ha insegnato allo stesso Mattarella, che la politica è professione e passione. Non è una perenne campagna elettorale, ma implica la responsabilità di rappresentare e, dunque, di governare. È la capacità di disegnare visioni, ma nello stesso tempo di costruire percorsi. È conflitto, ma anche incontro, è azzardo, ma anche compromesso. E soprattutto è inserita in un tessuto, in una comunità, cui deve rispondere. Tutto stritolato dalla frammentazione individualistica.

Tutto questo ha cercato di dire Mattarella, nelle sue parole accorate ma nello stesso tempo realistiche.

Come sempre l’Italia è in bilico, in questo senso tra la Spagna e la Germania. Qualche tempo fa in Spagna si è votato e rivotato, con risultati ovviamente non molto differenti. In Germania si è discusso tra i partiti, prima in una direzione e poi nell’altra e si è costituito un governo retto da un accordo molto dettagliato.

C’è una terza via? Ce lo dovranno dire i nostri leader, come si proclamano. Il problema è che da quando ci è stato spiegato che le alternanze avrebbero risolto tutti i mali del sistema italiano, ovvero da un quarto di secolo a questa parte, tutti i leader, piccoli e grandi, vecchi e giovani, hanno imparato molto bene a fare le campagne elettorali, a vincere le elezioni, ma poi entrano in confusione, e brancolano di fronte alle responsabilità di governo. Ecco, allora, la seconda domanda: se i nostri rappresentati sono impegnati sempre in campagna elettorale, chi governa? I tanto deprecati tecnocrati di Bruxelles o i cosiddetti poteri forti? Se è difficile dare delle risposte quantomeno porsi le buone domande può aiutare.

Nella campagna elettorale permanente noi elettori siamo trattati da consumatori: un marketing aggressivo ci tiene sempre sull’orlo di una crisi di nervi. In questo modo però la moneta cattiva scaccia quella buona e ci troviamo tutti più poveri. Si ritrova più povero tutto il Paese. Con il rischio crescente della più evidente irrilevanza. Che si misura poi concretamente nel portafoglio di tutti noi.

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Elezioni 2018. Se Moro e Berlinguer… https://www.lavoce.it/elezioni-2018-moro-berlinguer/ Tue, 08 May 2018 11:24:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51836

di Daris Giancarlini

Nell’attuale fase della politica italiana, a due mesi esatti dal voto, la parola-chiave di ogni confronto su eventuali maggioranze da formare per governare il Paese dovrebbe essere “responsabilità”.

Perché incombono importanti appuntamenti internazionali, perché il debito pubblico continua a essere una sorta di nodo scorsoio, e perché la rassicurante e decisiva presenza di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea non sarà eterna. Già queste tre problematiche dovrebbero bastare a piegare e condizionare qualsiasi ragionamento delle tre principali forze in campo a quella responsabilità nei confronti dei cittadini che fa scalare in secondo piano l’interesse di parte, per far primeggiare il bene comune, anche a costo di perdere consenso. È chiedere troppo, a una generazione politica che sembra mettere la maggior parte dell’impegno a far accrescere quel rancore sociale che il Censis ha ufficializzato come registro principale dell’Italia odierna? Intanto questi due mesi sono trascorsi a dire “no, tu no”: Di Maio lo dice a Berlusconi, Salvini lo oppone al Pd, che - a sua volta - loribadisce agli altri due (con qualche cedimento, dopo l’esplorazione del presidente della Camera, Roberto Fico). Si dice: chi si è insultato per anni, in maniera viscerale e persino violenta nel linguaggio, come può pensare di costruire un accordo per governare? Osservazione sacrosanta, ma che con la politica, la vera politica, ha poco a che fare. Perché comunisti e democristiani, nel dopoguerra, si insultavano senza ritegno, per non parlare delle aggressioni fisiche; ma i loro leader, quando si trattò di fare il bene degli italiani, trovarono più di un punto di convergenza. E così successe, almeno nella teoria, tra Moro e Berlinguer negli anni Settanta. I quali non si sognarono mai di denigrare a “inciucio” la parola “compromesso”, che è il sale, l’essenza della politica. Ed ebbero il coraggio di rischiare di perdere il consenso della propria base, pur di realizzare ciò che ritenevano giusto per garantire democrazia e libertà.

Riscoprire questo coraggio potrebbe essere decisivo, per sbloccare la situazione. Basta essere responsabili.

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di Daris Giancarlini

Nell’attuale fase della politica italiana, a due mesi esatti dal voto, la parola-chiave di ogni confronto su eventuali maggioranze da formare per governare il Paese dovrebbe essere “responsabilità”.

Perché incombono importanti appuntamenti internazionali, perché il debito pubblico continua a essere una sorta di nodo scorsoio, e perché la rassicurante e decisiva presenza di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea non sarà eterna. Già queste tre problematiche dovrebbero bastare a piegare e condizionare qualsiasi ragionamento delle tre principali forze in campo a quella responsabilità nei confronti dei cittadini che fa scalare in secondo piano l’interesse di parte, per far primeggiare il bene comune, anche a costo di perdere consenso. È chiedere troppo, a una generazione politica che sembra mettere la maggior parte dell’impegno a far accrescere quel rancore sociale che il Censis ha ufficializzato come registro principale dell’Italia odierna? Intanto questi due mesi sono trascorsi a dire “no, tu no”: Di Maio lo dice a Berlusconi, Salvini lo oppone al Pd, che - a sua volta - loribadisce agli altri due (con qualche cedimento, dopo l’esplorazione del presidente della Camera, Roberto Fico). Si dice: chi si è insultato per anni, in maniera viscerale e persino violenta nel linguaggio, come può pensare di costruire un accordo per governare? Osservazione sacrosanta, ma che con la politica, la vera politica, ha poco a che fare. Perché comunisti e democristiani, nel dopoguerra, si insultavano senza ritegno, per non parlare delle aggressioni fisiche; ma i loro leader, quando si trattò di fare il bene degli italiani, trovarono più di un punto di convergenza. E così successe, almeno nella teoria, tra Moro e Berlinguer negli anni Settanta. I quali non si sognarono mai di denigrare a “inciucio” la parola “compromesso”, che è il sale, l’essenza della politica. Ed ebbero il coraggio di rischiare di perdere il consenso della propria base, pur di realizzare ciò che ritenevano giusto per garantire democrazia e libertà.

Riscoprire questo coraggio potrebbe essere decisivo, per sbloccare la situazione. Basta essere responsabili.

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Elezioni in Umbria, i partiti al via https://www.lavoce.it/elezioni-umbria-partiti-al-via/ Sun, 22 Apr 2018 11:22:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51729

di Daris Giancarlini L’Umbria fra non molto ri-vota. A Cannara, Corciano, Monte Santa Maria Tiberina, Passignano sul Trasimeno. Ma anche - e soprattutto - in alcuni Comuni importanti come Terni, Spoleto e Umbertide. Accomunati, gli ultimi tre, dalla fine anticipata dei rispettivi cicli amministrativi: nel caso di Spoleto, per l’evento tragico della morte prematura del sindaco. Per Terni è stato il collasso delle finanze comunali a far decretare lo stop della sindacatura Di Girolamo, mentre a Umbertide è praticamente implosa la maggioranza di centrosinistra che governava la città. In questi giorni, partiti e schieramenti stanno ufficializzando le candidature a sindaco. Non senza qualche trauma politico: a Terni, per esempio, un blitz del segretario della Lega, Matteo Salvini, ha praticamente imposto al resto del centrodestra il candidato alla guida della seconda provincia umbra: Leonardo Latini. Ne è seguito qualche mugugno di esponenti del resto della coalizione, ma nulla più; la Lega primeggia a livello nazionale nello schieramento completato da Forza Italia e Fratelli d’Italia, e il segretario leghista non è uno che si fa pregare se capisce che è il suo turno di dare le carte. Anche il Movimento 5 stelle ha scelto il candidato sindaco, nella persona di Thomas De Luca, che fino allo scioglimento del Consiglio comunale ternano è stato il battagliero capogruppo dei pentastellati. E il Pd? A Umbertide ha ufficializzato la candidatura di Paola Avorio. In quel Comune si voterà scegliendo fra 6 liste, tra cui quella dell’ex sindaco Locchi, che era del Pd. A Terni in pole position c’è la candidatura di Massimo Piccioni, ma su questo nome una fazione del partito è in forte disaccordo. A Spoleto siamo ancora a livello di ipotesi; si parla di un nome che rappresenti la società civile. Già, la società civile: quando la politica si appella a questa risorsa, è come se ammettesse le proprie difficoltà e inadeguatezze. Lo fa cercando dei nomi ‘esterni’ alle proprie ‘mura’ di cinta, confessando una sorta di impotenza a leggere i fenomeni sociali e a trovare le ricette per indirizzarne l’esito. O forse è soltanto una fase transitoria, di ‘riverniciatura’ delle pareti esterni di un ‘castello’ dove, passata la tempesta del mancato consenso, la politica politicata torna a rinchiudersi. Un mancato consenso che, per il Pd in Umbria, ha assunto i tratti della disfatta alle recenti elezioni politiche. Per quali cause? Dal Pd, a oltre 40 giorni dal voto, non è arrivata alcuna analisi ufficiale. Sembra prevalere la voglia di ripartire dopo la sconfitta. Ma come ci si può curare un malanno, se non si compie una diagnosi attenta e profonda delle motivazioni che lo hanno provocato? Qualche esponente locale del Pd umbro, come la deputata Anna Ascani, invoca delle novità nelle candidature per il voto amministrativo, per - parole sue - “scombinare il quadro”. Se la stessa deputata spiegasse cosa intende per “quadro” (l’assetto dirigenziale del suo partito? Le modalità di gestione del potere nelle istituzioni?), ne trarremmo beneficio tutti. E forse, anche il Pd.  ]]>

di Daris Giancarlini L’Umbria fra non molto ri-vota. A Cannara, Corciano, Monte Santa Maria Tiberina, Passignano sul Trasimeno. Ma anche - e soprattutto - in alcuni Comuni importanti come Terni, Spoleto e Umbertide. Accomunati, gli ultimi tre, dalla fine anticipata dei rispettivi cicli amministrativi: nel caso di Spoleto, per l’evento tragico della morte prematura del sindaco. Per Terni è stato il collasso delle finanze comunali a far decretare lo stop della sindacatura Di Girolamo, mentre a Umbertide è praticamente implosa la maggioranza di centrosinistra che governava la città. In questi giorni, partiti e schieramenti stanno ufficializzando le candidature a sindaco. Non senza qualche trauma politico: a Terni, per esempio, un blitz del segretario della Lega, Matteo Salvini, ha praticamente imposto al resto del centrodestra il candidato alla guida della seconda provincia umbra: Leonardo Latini. Ne è seguito qualche mugugno di esponenti del resto della coalizione, ma nulla più; la Lega primeggia a livello nazionale nello schieramento completato da Forza Italia e Fratelli d’Italia, e il segretario leghista non è uno che si fa pregare se capisce che è il suo turno di dare le carte. Anche il Movimento 5 stelle ha scelto il candidato sindaco, nella persona di Thomas De Luca, che fino allo scioglimento del Consiglio comunale ternano è stato il battagliero capogruppo dei pentastellati. E il Pd? A Umbertide ha ufficializzato la candidatura di Paola Avorio. In quel Comune si voterà scegliendo fra 6 liste, tra cui quella dell’ex sindaco Locchi, che era del Pd. A Terni in pole position c’è la candidatura di Massimo Piccioni, ma su questo nome una fazione del partito è in forte disaccordo. A Spoleto siamo ancora a livello di ipotesi; si parla di un nome che rappresenti la società civile. Già, la società civile: quando la politica si appella a questa risorsa, è come se ammettesse le proprie difficoltà e inadeguatezze. Lo fa cercando dei nomi ‘esterni’ alle proprie ‘mura’ di cinta, confessando una sorta di impotenza a leggere i fenomeni sociali e a trovare le ricette per indirizzarne l’esito. O forse è soltanto una fase transitoria, di ‘riverniciatura’ delle pareti esterni di un ‘castello’ dove, passata la tempesta del mancato consenso, la politica politicata torna a rinchiudersi. Un mancato consenso che, per il Pd in Umbria, ha assunto i tratti della disfatta alle recenti elezioni politiche. Per quali cause? Dal Pd, a oltre 40 giorni dal voto, non è arrivata alcuna analisi ufficiale. Sembra prevalere la voglia di ripartire dopo la sconfitta. Ma come ci si può curare un malanno, se non si compie una diagnosi attenta e profonda delle motivazioni che lo hanno provocato? Qualche esponente locale del Pd umbro, come la deputata Anna Ascani, invoca delle novità nelle candidature per il voto amministrativo, per - parole sue - “scombinare il quadro”. Se la stessa deputata spiegasse cosa intende per “quadro” (l’assetto dirigenziale del suo partito? Le modalità di gestione del potere nelle istituzioni?), ne trarremmo beneficio tutti. E forse, anche il Pd.  ]]>
Il maestro Mattarella di fronte a scolari un po’ impreparati https://www.lavoce.it/maestro-mattarella-fronte-scolari-un-po-impreparati/ Mon, 16 Apr 2018 09:37:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51665

di Daris Giancarlini Più di mese dalle elezioni, e che è successo? Nulla, apparentemente, nonostante un primo e un secondo passaggio al Quirinale. I toni e i contenuti di vincitori (cinquestelle da una parte e, dall’altra, Lega nel centrodestra) e vinti (Pd e tutta la sinistra) sono ancora quelli di una campagna elettorale cominciata prima del referendum istituzionale del 4 dicembre 2017, e ancora lungi dal lasciare il posto alla “politica”, che guarda alla costruzione del possibile nell’interesse collettivo. Almeno all’apparenza, le tre principali forze politiche sembrano impegnate a costruire scenari più orientati a non scontentare i propri elettorati di riferimento che a prospettare soluzioni per uscire dalla propaganda e dare un Governo al Paese. Molto potrebbe dipendere dal fatto che, almeno fino ai primi giorni di giugno, sono in agenda appuntamenti elettorali regionali e locali di una certa rilevanza. Non si smette mai di votare, non si smette mai di fare campagna elettorale. Una spiegazione, questa, molto più rassicurante di quella che vede l’attuale generazione di politici sostanzialmente più incline a lanciare slogan brevi, per attrarre consensi, più che a studiare e proporre soluzioni ai problemi dei cittadini. Insomma, molto più facile costruire un programma per attrarre consensi piuttosto che attuare maggioranze che permettano di affrontare le emergenze che la quotidianità propone. Una quotidianità che non fa sconti, fatta di richiami dall’Unione europea e di cifre pesanti sulla situazione dell’economia italiana. Basterà la saggezza del Capo dello Stato per cercare o inventare una soluzione? Probabilmente non sarà sufficiente neanche il secondo giro di incontri al Colle per sbrogliare una matassa di fronte alla quale stando ai retroscena emersi dopo il primo giro di consultazioni - Mattarella si trova a ragionare con i leader dei partiti alla stregua di un professore che ascolta studenti palesemente impreparati. Va detto che stupirsi oggi della situazione di blocco delle possibili soluzioni di Governo equivale a non ricordarsi che l’attuale legge elettorale, nel suo impianto, proprio questo lasciava intendere. Le maggioranze, con questo tipo di legge elettorale prevalentemente proporzionale, non escono direttamente dalle urne. Vanno (andrebbero) trovate con il confronto politico tra leader politici. E in Parlamento. Ma i blocchi e i veti (Di Maio che non apre del tutto a Salvini se c’è Berlusconi, o al Pd se c’è Renzi) e le auto-esclusioni dal gioco (con il Pd che interpreta il proprio 18 per cento di consensi come un’indicazione a non governare) hanno finora allontanato qualsiasi ipotesi di maggioranze per governare. Come finirà? Con un governo Legacinquestelle, fanno trapelare i politologi meglio informati. Ma non sarà per subito.  ]]>

di Daris Giancarlini Più di mese dalle elezioni, e che è successo? Nulla, apparentemente, nonostante un primo e un secondo passaggio al Quirinale. I toni e i contenuti di vincitori (cinquestelle da una parte e, dall’altra, Lega nel centrodestra) e vinti (Pd e tutta la sinistra) sono ancora quelli di una campagna elettorale cominciata prima del referendum istituzionale del 4 dicembre 2017, e ancora lungi dal lasciare il posto alla “politica”, che guarda alla costruzione del possibile nell’interesse collettivo. Almeno all’apparenza, le tre principali forze politiche sembrano impegnate a costruire scenari più orientati a non scontentare i propri elettorati di riferimento che a prospettare soluzioni per uscire dalla propaganda e dare un Governo al Paese. Molto potrebbe dipendere dal fatto che, almeno fino ai primi giorni di giugno, sono in agenda appuntamenti elettorali regionali e locali di una certa rilevanza. Non si smette mai di votare, non si smette mai di fare campagna elettorale. Una spiegazione, questa, molto più rassicurante di quella che vede l’attuale generazione di politici sostanzialmente più incline a lanciare slogan brevi, per attrarre consensi, più che a studiare e proporre soluzioni ai problemi dei cittadini. Insomma, molto più facile costruire un programma per attrarre consensi piuttosto che attuare maggioranze che permettano di affrontare le emergenze che la quotidianità propone. Una quotidianità che non fa sconti, fatta di richiami dall’Unione europea e di cifre pesanti sulla situazione dell’economia italiana. Basterà la saggezza del Capo dello Stato per cercare o inventare una soluzione? Probabilmente non sarà sufficiente neanche il secondo giro di incontri al Colle per sbrogliare una matassa di fronte alla quale stando ai retroscena emersi dopo il primo giro di consultazioni - Mattarella si trova a ragionare con i leader dei partiti alla stregua di un professore che ascolta studenti palesemente impreparati. Va detto che stupirsi oggi della situazione di blocco delle possibili soluzioni di Governo equivale a non ricordarsi che l’attuale legge elettorale, nel suo impianto, proprio questo lasciava intendere. Le maggioranze, con questo tipo di legge elettorale prevalentemente proporzionale, non escono direttamente dalle urne. Vanno (andrebbero) trovate con il confronto politico tra leader politici. E in Parlamento. Ma i blocchi e i veti (Di Maio che non apre del tutto a Salvini se c’è Berlusconi, o al Pd se c’è Renzi) e le auto-esclusioni dal gioco (con il Pd che interpreta il proprio 18 per cento di consensi come un’indicazione a non governare) hanno finora allontanato qualsiasi ipotesi di maggioranze per governare. Come finirà? Con un governo Legacinquestelle, fanno trapelare i politologi meglio informati. Ma non sarà per subito.  ]]>
Un voto chiaro e radicalizzato https://www.lavoce.it/un-voto-chiaro-radicalizzato/ Wed, 07 Mar 2018 15:50:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51362 di Francesco Bonini

Un voto chiaro, un voto polarizzato, radicalizzato. Gli italiani sono inquieti e insoddisfatti, e a ogni elezione cambiano maggioranza. Il 5 marzo, rispetto a cinque anni fa, si contano due milioni in più di voti ai cinquestelle, due milioni in più alla coalizione di centrodestra, due milioni in meno al Pd; nel frattempo due milioni di voti finiti a Monti sono evaporati. All’interno del centrodestra la Lega (non più Nord) guadagna quattro milioni di voti, primo partito dell’alleanza.

Fin qui i numeri, che ci consegnano peraltro un sistema sfilacciato, in moto accelerato, “sbussolato” come non pochi altri, in Europa. In ogni caso sono sconfitte o, comunque sia, perdono consensi quelle forze politiche che più schierano candidati “vecchi”, dal Pd a Leu, da Forza Italia a Noi con l’Italia. Perché la spinta a cambiare, a un cambiamento di dirigenza politica, è sempre più forte.

L’Italia, più di sempre, risulta spaccata geograficamente, con la zona “rossa” sempre più compressa. Il confine tra l’area ad egemonia centrodestra e quella a egemonia cinquestelle passa per Roma e il Lazio. Italia spaccata anche in ordine alle promesse, ovvero ai programmi dei due schieramenti vincitori, il centrodestra a trazione leghista e il Movimento 5 stelle. Da una parte risaltano i temi del fisco, della sicurezza; dall’altra quelli della protezione e del reddito di cittadinanza.

Eccoci, allora, alle prospettive. Le dichiarazioni di oggi e le promesse di ieri si dovranno infatti tradurre in programmi e in formule di governo. Per queste ultime ci vuole tempo e ci vuole senso di responsabilità. Perché nessuno ha – e qui la prudenza degli elettori è coerente con i risultati del referendum costituzionale – la maggioranza. Urgono accordi e dovrebbe essere istituita una multa per tutti coloro che usano arbitrariamente la parola “inciucio”.

I risultati elettorali in ogni caso impongono una profonda riflessione a tutti, vincitori e vinti. Impongono anche una profonda riflessione al cosiddetto mondo cattolico, la necessità di una nuova e migliore offerta politica per i cattolici.

Guardando in prospettiva, non sarà certo facile combinare una maggioranza e, dunque, un Governo. Il primo appuntamento sarà l’elezione dei Presidenti di Camera e Senato. Un passaggio molto delicato, in cui si metterà alla prova la qualità delle forze politiche, per scegliere persone di alto profilo.

Per il Governo, come è stato fatto altrove, prendiamoci tutto il tempo necessario, senza dimenticare la consegna proposta dal card. Bassetti, presidente della Cei: occorre ripartire da quella consegna con i tre verbi “ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società”. Non un invito predicatorio, ma una precisa necessità politica.

La sostanza della nostra democrazia è forte, l’Italia è un Paese avanzato, uno dei Paesichiave di un’Europa, alle prese con anni complicati. Non c’è stata la temuta flessione della partecipazione: solo due punti di flessione, comunque sopra il 73%. La classe politica nuova emersa delle urne è ormai di fronte a pressanti responsabilità.

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Elezioni 2018. I risultati nei collegi uninominali in Umbria https://www.lavoce.it/risultati-delle-elezioni-nei-collegi-uninominali-umbria/ Mon, 05 Mar 2018 16:25:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51351 voto suppletivo

In Umbria è la coalizione di centro destra ad aver prevalso nelle elezioni politiche di domenica 4 marzo. Questi i risultati dei cinque collegi uninominali della nostra regione:
CAMERA – COLLEGIO 1 (Perugia): Emanuele Prisco (centrodestra) 35,38%, Giacomo Leonello Leonelli (centrosinistra) 30,25%, Paola Giannetakis (M5s) 25,05%
CAMERA – COLLEGIO 2 (Foligno): Riccardo Augusto Marchetti (centrodestra) 37,43%, Gino Di Manici Proietti (M5s) 28,55%, Gianpiero Bocci 26,99% (Pd)
CAMERA – COLLEGIO 3 (Terni): Raffaele Nevi (centrodestra) 37,45%, Lucio Riccetti (M5s) 28,83%, Cesare Damiano (centrosinistra) 25,4%
SENATO – COLLEGIO 1 (Perugia): Francesco Zaffini (centrodestra) 36,13%, Giampiero Giulietti (centrosinistra) 29,8%, Francesca Tizi (M5s) 26,16%
SENATO – COLLEGIO 2 (Terni): Donatella Tesei (centrodestra) 38,54%, Marco Moroni (M5s) 28,04%, Simonetta Mignozzetti (centrosinistra) 25,67%
  L'affluenza alle urne in Umbria si attesta al 78,23%, di poco inferiore rispetto alle politiche del 2013 quando aveva votato il 79,53% degli aventi diritto.]]>
voto suppletivo

In Umbria è la coalizione di centro destra ad aver prevalso nelle elezioni politiche di domenica 4 marzo. Questi i risultati dei cinque collegi uninominali della nostra regione:
CAMERA – COLLEGIO 1 (Perugia): Emanuele Prisco (centrodestra) 35,38%, Giacomo Leonello Leonelli (centrosinistra) 30,25%, Paola Giannetakis (M5s) 25,05%
CAMERA – COLLEGIO 2 (Foligno): Riccardo Augusto Marchetti (centrodestra) 37,43%, Gino Di Manici Proietti (M5s) 28,55%, Gianpiero Bocci 26,99% (Pd)
CAMERA – COLLEGIO 3 (Terni): Raffaele Nevi (centrodestra) 37,45%, Lucio Riccetti (M5s) 28,83%, Cesare Damiano (centrosinistra) 25,4%
SENATO – COLLEGIO 1 (Perugia): Francesco Zaffini (centrodestra) 36,13%, Giampiero Giulietti (centrosinistra) 29,8%, Francesca Tizi (M5s) 26,16%
SENATO – COLLEGIO 2 (Terni): Donatella Tesei (centrodestra) 38,54%, Marco Moroni (M5s) 28,04%, Simonetta Mignozzetti (centrosinistra) 25,67%
  L'affluenza alle urne in Umbria si attesta al 78,23%, di poco inferiore rispetto alle politiche del 2013 quando aveva votato il 79,53% degli aventi diritto.]]>
Elezioni 2018. Commento ai risultati di Paolo Pombeni https://www.lavoce.it/elezioni-2018-commento-ai-risultati-paolo-pombeni/ https://www.lavoce.it/elezioni-2018-commento-ai-risultati-paolo-pombeni/#comments Mon, 05 Mar 2018 15:57:35 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51352

“Questa è veramente la Terza Repubblica”. Così Paolo Pombeni, un autorevole studioso della politica italiana e non solo, commenta l’esito del voto del 4 marzo. “Il dato complessivo che emerge – spiega – è quello di un Paese che ha voglia di cambiare la sua classe dirigente. Non a caso i due partiti che hanno vinto, il Movimento 5 Stelle e la Lega, sono fuori dalle filiere tradizionali. Questa voglia di cambiare è così forte che si è disposti anche a correre il rischio di qualche avventura”. Professore, a dispetto di molte previsioni, la partecipazione al voto ha tenuto. A che cosa si deve questo dato? Al di là dell’irrazionalità di molte proposte circolate durante la campagna elettorale, c’era la percezione di essere a un giro di boa storico e questo ha mobilitato sia coloro che volevano un cambiamento, sia quelli che invece lo temevano. Senza questa affluenza alle urne non avremmo i risultati che abbiamo di fronte. Cinque stelle primo partito e centro-destra prima coalizione erano gli esiti che da mesi i sondaggi indicavano. Eppure il modo in cui questo si è realizzato ha avuto l’effetto di un terremoto politico.  Lo si deve al fatto che sono state superate alcune importanti soglie psicologiche. Per i Cinquestelle la soglia è stata quella del 30% dei voti. Per la Lega, quella di aver superato Berlusconi, che a questo punto risulta definitivamente fuori dai giochi. Per il Pd, la perdita della capacità di essere una delle componenti che dà le carte. Adesso che cosa accadrà in Parlamento? Dipende da come reagiranno i partiti che hanno vinto le elezioni, se essi si lasceranno tentare dalla voglia di strafare o no. Se i Cinquestelle cercassero di strafare, finirebbero per costringere gli altri partiti a ricostituire una coalizione di tutti contro di loro. In caso contrario, si aprirebbero nuovi spazi politici tutti da verificare. Così pure se Salvini non immaginasse di poter consegnare il Paese al lepenismo e si comportasse concretamente in modo diverso. Quale governo vede possibile, con questi equilibri politici? A meno di colpi di scena imprevedibili, mi pare che si possano considerare due ipotesi di fondo: quella di un governo di minoranza oppure, lo si chiami come si vuole, quella di un governo di tregua. Nel primo caso si tratterebbe di un governo della coalizione con il maggiore numero dei voti, il centro-destra, che in nome dell’esigenza di non lasciare il Paese senza un governo potrebbe avere l’appoggio esterno momentaneo di un altro partito. E realisticamente non potrebbe che essere il Pd. Il quale, però, porrebbe delle condizioni: per esempio, che non sia Salvini a guidare l’esecutivo e che quest’ultimo non abbia una colorazione politica troppo forte. Forse anche intorno ai Cinquestelle, in quanto primo partito, potrebbe nascere un governo di minoranza e anche in questo caso l’interlocutore non potrebbe che essere il Pd. Certo, gli esecutivi di minoranza fanno una gran fatica a governare perché devono cercare di volta in volta i voti e questo induce anche a un forte trasformismo. L’altra ipotesi a cui ho accennato è quella di un governo di tregua, non politicamente connotato, che consenta di far decantare la situazione. Non credo però che tra i suoi compiti si possa inserire anche la riforma elettorale: con questi risultati, nessun partito ha voglia di mettere mano a un’operazione del genere. Sarebbe rischiosa sia per chi ha vinto, sia per chi ha perso.]]>

“Questa è veramente la Terza Repubblica”. Così Paolo Pombeni, un autorevole studioso della politica italiana e non solo, commenta l’esito del voto del 4 marzo. “Il dato complessivo che emerge – spiega – è quello di un Paese che ha voglia di cambiare la sua classe dirigente. Non a caso i due partiti che hanno vinto, il Movimento 5 Stelle e la Lega, sono fuori dalle filiere tradizionali. Questa voglia di cambiare è così forte che si è disposti anche a correre il rischio di qualche avventura”. Professore, a dispetto di molte previsioni, la partecipazione al voto ha tenuto. A che cosa si deve questo dato? Al di là dell’irrazionalità di molte proposte circolate durante la campagna elettorale, c’era la percezione di essere a un giro di boa storico e questo ha mobilitato sia coloro che volevano un cambiamento, sia quelli che invece lo temevano. Senza questa affluenza alle urne non avremmo i risultati che abbiamo di fronte. Cinque stelle primo partito e centro-destra prima coalizione erano gli esiti che da mesi i sondaggi indicavano. Eppure il modo in cui questo si è realizzato ha avuto l’effetto di un terremoto politico.  Lo si deve al fatto che sono state superate alcune importanti soglie psicologiche. Per i Cinquestelle la soglia è stata quella del 30% dei voti. Per la Lega, quella di aver superato Berlusconi, che a questo punto risulta definitivamente fuori dai giochi. Per il Pd, la perdita della capacità di essere una delle componenti che dà le carte. Adesso che cosa accadrà in Parlamento? Dipende da come reagiranno i partiti che hanno vinto le elezioni, se essi si lasceranno tentare dalla voglia di strafare o no. Se i Cinquestelle cercassero di strafare, finirebbero per costringere gli altri partiti a ricostituire una coalizione di tutti contro di loro. In caso contrario, si aprirebbero nuovi spazi politici tutti da verificare. Così pure se Salvini non immaginasse di poter consegnare il Paese al lepenismo e si comportasse concretamente in modo diverso. Quale governo vede possibile, con questi equilibri politici? A meno di colpi di scena imprevedibili, mi pare che si possano considerare due ipotesi di fondo: quella di un governo di minoranza oppure, lo si chiami come si vuole, quella di un governo di tregua. Nel primo caso si tratterebbe di un governo della coalizione con il maggiore numero dei voti, il centro-destra, che in nome dell’esigenza di non lasciare il Paese senza un governo potrebbe avere l’appoggio esterno momentaneo di un altro partito. E realisticamente non potrebbe che essere il Pd. Il quale, però, porrebbe delle condizioni: per esempio, che non sia Salvini a guidare l’esecutivo e che quest’ultimo non abbia una colorazione politica troppo forte. Forse anche intorno ai Cinquestelle, in quanto primo partito, potrebbe nascere un governo di minoranza e anche in questo caso l’interlocutore non potrebbe che essere il Pd. Certo, gli esecutivi di minoranza fanno una gran fatica a governare perché devono cercare di volta in volta i voti e questo induce anche a un forte trasformismo. L’altra ipotesi a cui ho accennato è quella di un governo di tregua, non politicamente connotato, che consenta di far decantare la situazione. Non credo però che tra i suoi compiti si possa inserire anche la riforma elettorale: con questi risultati, nessun partito ha voglia di mettere mano a un’operazione del genere. Sarebbe rischiosa sia per chi ha vinto, sia per chi ha perso.]]>
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Titubanti alle urne: perché https://www.lavoce.it/titubanti-alle-urne-perche/ Sun, 04 Mar 2018 08:00:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51340 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani L’incertezza di tanti elettori chiamati al voto non deriva - come molti dicono dall’astrusità delle schede elettorali e dalla complessità dei meccanismi che trasformeranno quelle schede in seggi parlamentari. Quanto a questo, in Italia si è visto di peggio. Ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica c’erano quattro diversi sistemi di voto - e di calcolo dei voti - rispettivamente per la Camera, il Senato, il Comune e la Provincia; e almeno tre su quattro comportavano formule di calcolo che solo pochi addetti ai lavori conoscevano. Ma nessuno ci faceva caso, perché agli elettori le formule algebriche non interessavano. A loro bastava e avanzava quello che sapevano: e cioè quali indirizzi politici c’erano dietro quei simboli di partito - lo scudo crociato, la falce e martello, il sole nascente, la fiamma tricolore - e quale di essi corrispondeva ai suoi interessi e (perché no?) ai suoi ideali. Sapevano anche chi erano quei tizi che si candidavano; li conoscevano perché per essere messi in lista bisognava avere alle spalle una storia di militanza, aver dato prova di sé nelle sezioni di partito, nelle parrocchie, nei sindacati, nelle associazioni culturali. Non c’era spazio per ambiguità, trasformismi, furberie. Se molti dei simboli che vedremo sulle schede il 4 marzo ci sembreranno poco leggibili, non sarà per i difetti tecnici della legge elettorale, ma perché troppe di quelle forze politiche non hanno un’identità precisa, una storia coerente, tanto meno un progetto chiaro. Oggi quando il progetto c’è ed è espresso con chiarezza, forse è anche peggio, perché è solo uno slogan suggestivo per acchiappare voti facendo leva su emozioni e paure irrazionali, o promettendo soluzioni semplici per problemi terribilmente complessi: come mirabolanti riduzioni di tasse, chiusura delle frontiere ai migranti, creazione di posti di lavoro dal nulla. Nessuno si occupa invece della politica internazionale, o globale, a medio e lungo periodo, che è invece quella che condizionerà di più il nostro futuro: non siamo più il centro del mondo, e da un pezzo.]]>
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di Pier Giorgio Lignani L’incertezza di tanti elettori chiamati al voto non deriva - come molti dicono dall’astrusità delle schede elettorali e dalla complessità dei meccanismi che trasformeranno quelle schede in seggi parlamentari. Quanto a questo, in Italia si è visto di peggio. Ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica c’erano quattro diversi sistemi di voto - e di calcolo dei voti - rispettivamente per la Camera, il Senato, il Comune e la Provincia; e almeno tre su quattro comportavano formule di calcolo che solo pochi addetti ai lavori conoscevano. Ma nessuno ci faceva caso, perché agli elettori le formule algebriche non interessavano. A loro bastava e avanzava quello che sapevano: e cioè quali indirizzi politici c’erano dietro quei simboli di partito - lo scudo crociato, la falce e martello, il sole nascente, la fiamma tricolore - e quale di essi corrispondeva ai suoi interessi e (perché no?) ai suoi ideali. Sapevano anche chi erano quei tizi che si candidavano; li conoscevano perché per essere messi in lista bisognava avere alle spalle una storia di militanza, aver dato prova di sé nelle sezioni di partito, nelle parrocchie, nei sindacati, nelle associazioni culturali. Non c’era spazio per ambiguità, trasformismi, furberie. Se molti dei simboli che vedremo sulle schede il 4 marzo ci sembreranno poco leggibili, non sarà per i difetti tecnici della legge elettorale, ma perché troppe di quelle forze politiche non hanno un’identità precisa, una storia coerente, tanto meno un progetto chiaro. Oggi quando il progetto c’è ed è espresso con chiarezza, forse è anche peggio, perché è solo uno slogan suggestivo per acchiappare voti facendo leva su emozioni e paure irrazionali, o promettendo soluzioni semplici per problemi terribilmente complessi: come mirabolanti riduzioni di tasse, chiusura delle frontiere ai migranti, creazione di posti di lavoro dal nulla. Nessuno si occupa invece della politica internazionale, o globale, a medio e lungo periodo, che è invece quella che condizionerà di più il nostro futuro: non siamo più il centro del mondo, e da un pezzo.]]>
Il grande gelo entra in campagna elettorale https://www.lavoce.it/grande-gelo-entra-campagna-elettorale/ Sat, 03 Mar 2018 08:00:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51344 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini Neve, ghiaccio, freddo polare... e Burian, o Buran o... buriana: non si è parlato d’altro, o quasi, negli ultimi dieci giorni. Prima con le previsioni: che dicevano tutte la stessa cosa, e cioè che da domenica pomeriggio anche l’Umbria sarebbe stata interessata dall’ondata di gelo. Cosa che, più o meno nei tempi e nei modi annunciati dai meteorologi dei tantissimi siti internet dedicati al “tempo che fa(rà)”, si è effettivamente verificata. Poi sono arrivate, implacabili al pari della neve, le polemiche: per i ritardi dei treni, per le scuole chiuse o aperte, per i mezzi spargisale che si sono fatti vedere in alcune zone piuttosto che in altre. I social media, come accade da un po’ di tempo a questa parte, si sono rilevati un veritiero ‘termometro’ (!) della reazione della gente a un evento così condizionante come quello del grande freddo. Così sono fioccati insulti e contumelie per chi si doveva attivare per tempo e l’ha fatto con ritardo, ma si sono anche scatenate schiere di fotografi improvvisati per immortalare la giornata di neve in tutti i suoi aspetti. Ma si poteva tenere fuori da queste reazioni il collegamento tra maltempo e campagna elettorale? La domanda è retorica... Si è arrivati al punto che, per esempio, le Amministrazioni di due Comuni confinanti e contigui, come Perugia e Corciano, sono state vituperate sui social, la prima da esponenti del centrosinistra (essendo la Giunta di centrodestra) e la seconda da rappresentanti e militanti del centrodestra (essendo la Giunta di centrosinistra). Insomma, una battaglia a palle di neve ‘militanti’. Così il gelo che avvolge la gente ‘normale’, alle prese con un posto di lavoro da raggiungere o un parente da portare dal dottore, si trasferisce anche nell’anima e nel cervello. Pensando a questo o quel politico che crede di attrarre consensi secondo il vecchio schema del “piove, Governo ladro...”.]]>
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di Daris Giancarlini Neve, ghiaccio, freddo polare... e Burian, o Buran o... buriana: non si è parlato d’altro, o quasi, negli ultimi dieci giorni. Prima con le previsioni: che dicevano tutte la stessa cosa, e cioè che da domenica pomeriggio anche l’Umbria sarebbe stata interessata dall’ondata di gelo. Cosa che, più o meno nei tempi e nei modi annunciati dai meteorologi dei tantissimi siti internet dedicati al “tempo che fa(rà)”, si è effettivamente verificata. Poi sono arrivate, implacabili al pari della neve, le polemiche: per i ritardi dei treni, per le scuole chiuse o aperte, per i mezzi spargisale che si sono fatti vedere in alcune zone piuttosto che in altre. I social media, come accade da un po’ di tempo a questa parte, si sono rilevati un veritiero ‘termometro’ (!) della reazione della gente a un evento così condizionante come quello del grande freddo. Così sono fioccati insulti e contumelie per chi si doveva attivare per tempo e l’ha fatto con ritardo, ma si sono anche scatenate schiere di fotografi improvvisati per immortalare la giornata di neve in tutti i suoi aspetti. Ma si poteva tenere fuori da queste reazioni il collegamento tra maltempo e campagna elettorale? La domanda è retorica... Si è arrivati al punto che, per esempio, le Amministrazioni di due Comuni confinanti e contigui, come Perugia e Corciano, sono state vituperate sui social, la prima da esponenti del centrosinistra (essendo la Giunta di centrodestra) e la seconda da rappresentanti e militanti del centrodestra (essendo la Giunta di centrosinistra). Insomma, una battaglia a palle di neve ‘militanti’. Così il gelo che avvolge la gente ‘normale’, alle prese con un posto di lavoro da raggiungere o un parente da portare dal dottore, si trasferisce anche nell’anima e nel cervello. Pensando a questo o quel politico che crede di attrarre consensi secondo il vecchio schema del “piove, Governo ladro...”.]]>
Cattolici in lista e al voto https://www.lavoce.it/cattolici-lista-al-voto/ Fri, 02 Mar 2018 11:17:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51326

In questi mesi, e soprattutto nelle ultime settimane, le associazioni cattoliche hanno chiesto ai candidati attenzione e impegno su temi concreti che vanno dal lavoro alla famiglia all’ambiente, alla vita e alla solidarietà. Allo stesso tempo l’associazionismo cattolico ha in genere rinunciato a dare indicazioni di preferenze relative a partiti e schieramenti così come hanno fatto gli stessi Vescovi. La ragione è semplice: nessun partito e nessuna coalizione offre ai credenti una scelta in cui possano riconoscersi senza dover rinunciare a qualcosa. Lo ha ben evidenziato su queste pagine nello scorso numero mons. Fausto Sciurpa, e non serve essere esperti di politica per rendersene conto. Neppure il libro dei Vangeli sventolato alla folla e a favore dei media può trarre in inganno chi il Vangelo non solo lo legge ma cerca di viverlo tutto, ogni giorno. Tra i candidati ci sono uomini e donne che cercano di vivere l’impegno politico in coerenza con la loro fede e lo fanno esprimendo scelte diverse. Alcuni senza farne una dichiarazione pubblica e politica, altri facendo della loro fede un segno di riconoscimento presentandosi come difensori dei valori cattolici. Una lista si presenta in nome della “famiglia” e del “popolo della famiglia” che è sceso in piazza più volte, “popolo” che su questa scelta si è diviso avendo i leader del “Comitato difendiamo i nostri figli” adottato una strategia diversa, quella di sostenere candidati che, provenienti o meno dalla loro storia, si impegnano sulla loro piattaforma di valori presentandosi in liste diverse (quasi sempre del centro destra). Il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia, aprendo i lavori del Consiglio permanente, il 22 gennaio scorso, indicava alla Chiesa italiana “tre verbi, tre azioni pastorali, tre sfide concrete per il futuro” che sono “ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società”. Poi, parlando delle elezioni in vista, ricordava “che la Chiesa non è un partito e non stringe accordi con alcun soggetto politico” e invitava, e ha continuato a farlo, a superare “sfiducia e disaffezione” per “partecipare alle urne con senso di responsabilità nei confronti della comunità nazionale”. Il lungo passaggio in cui si rivolgeva ai politici, ma anche ai cittadini che devono votare (il testo è pubblicato sul sito web della Cei) concludeva così: “In definitiva, vorrei ricordare a tutti: la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia!”. Se dalle urne uscissero premiati quei partiti che più si avvicinano a questo, sarebbe già un risultato tale da far dire a chi avrebbe voluto restare a casa “Andare e votare non è stato inutile”.  ]]>

In questi mesi, e soprattutto nelle ultime settimane, le associazioni cattoliche hanno chiesto ai candidati attenzione e impegno su temi concreti che vanno dal lavoro alla famiglia all’ambiente, alla vita e alla solidarietà. Allo stesso tempo l’associazionismo cattolico ha in genere rinunciato a dare indicazioni di preferenze relative a partiti e schieramenti così come hanno fatto gli stessi Vescovi. La ragione è semplice: nessun partito e nessuna coalizione offre ai credenti una scelta in cui possano riconoscersi senza dover rinunciare a qualcosa. Lo ha ben evidenziato su queste pagine nello scorso numero mons. Fausto Sciurpa, e non serve essere esperti di politica per rendersene conto. Neppure il libro dei Vangeli sventolato alla folla e a favore dei media può trarre in inganno chi il Vangelo non solo lo legge ma cerca di viverlo tutto, ogni giorno. Tra i candidati ci sono uomini e donne che cercano di vivere l’impegno politico in coerenza con la loro fede e lo fanno esprimendo scelte diverse. Alcuni senza farne una dichiarazione pubblica e politica, altri facendo della loro fede un segno di riconoscimento presentandosi come difensori dei valori cattolici. Una lista si presenta in nome della “famiglia” e del “popolo della famiglia” che è sceso in piazza più volte, “popolo” che su questa scelta si è diviso avendo i leader del “Comitato difendiamo i nostri figli” adottato una strategia diversa, quella di sostenere candidati che, provenienti o meno dalla loro storia, si impegnano sulla loro piattaforma di valori presentandosi in liste diverse (quasi sempre del centro destra). Il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia, aprendo i lavori del Consiglio permanente, il 22 gennaio scorso, indicava alla Chiesa italiana “tre verbi, tre azioni pastorali, tre sfide concrete per il futuro” che sono “ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società”. Poi, parlando delle elezioni in vista, ricordava “che la Chiesa non è un partito e non stringe accordi con alcun soggetto politico” e invitava, e ha continuato a farlo, a superare “sfiducia e disaffezione” per “partecipare alle urne con senso di responsabilità nei confronti della comunità nazionale”. Il lungo passaggio in cui si rivolgeva ai politici, ma anche ai cittadini che devono votare (il testo è pubblicato sul sito web della Cei) concludeva così: “In definitiva, vorrei ricordare a tutti: la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia!”. Se dalle urne uscissero premiati quei partiti che più si avvicinano a questo, sarebbe già un risultato tale da far dire a chi avrebbe voluto restare a casa “Andare e votare non è stato inutile”.  ]]>
Nonostante tutto, il meglio è votare https://www.lavoce.it/nonostante-meglio-votare/ Fri, 02 Mar 2018 08:07:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51324 voto suppletivo

di Daris Giancarlini Diceva Mark Twain che “se il voto servisse davvero a qualcosa, non ci lascerebbero votare”. Valutando numerosi commenti e analisi sulla legge elettorale predisposta per il voto del 4 marzo, il cosiddetto ‘Rosatellum’, la propensione a ritenere poco decisivo - in questa occasione - il recarsi o meno alle urne non sarebbe priva di fondamento. È forte la possibilità che il nuovo sistema elettorale non garantisca maggioranze certe. Questo indebolisce la motivazione del voto, se viene ritenuto non decisivo per il futuro del Paese e per la sua governabilità. D’altronde, esaminando i meccanismi del ‘Rosatellum’ si ravvisano margini di manovra molto risicati per l’elettore, a partire dal fatto che soltanto un terzo degli eletti sarà scelto dai cittadini. Poco, troppo poco. L’aggettivo più benevolo usato da analisti e commentatori per l’attuale legge elettorale (che sarà cambiata nella prossima legislatura) è ‘pessima’. I suoi detrattori, ma non soltanto, dicono che è stata pensata per non far vincere nessuno, e per creare uno sbocco politico ‘obbligato’ il 5 di marzo, cioè un governo destra-sinistra di larghe intese che escluda il Movimento 5 stelle. Ma il compito di un sistema elettorale non è fotografare l’esistente, quanto invece di permettere ai cittadini di esprimere le loro preferenze, e ai partiti e movimenti di provare a partecipare.

Chi sono i candidati al Senato per l'Umbria? Leggi l' analisi delle liste elettorali nella nostra regione

Prevedendo inoltre dei meccanismi per facilitare la formazione di maggioranze. Non sembra il caso del ‘Rosatellum’. Tutto questo, insieme ad altri fattori quali il protrarsi della crisi economica, crea tra i cittadini una situazione di incertezza in vista del voto, con la quota di indecisi che, secondo i sondaggi più recenti, si sarebbe stabilizzata sopra il 40 per cento. Altri sondaggi evidenziano che, in caso di impasse dopo il voto, la maggioranza degli italiani sarebbe favorevole a tornare subito alle urne; e contraria ad altri esperimenti di grande coalizione. Dunque, votare comunque viene considerato dai più come massimo esercizio di democrazia. Alle politiche del 2013 andò alle urne il 75,2 per cento degli aventi diritto, il minimo storico per una tornata politica in Italia. Le previsioni convergono su un aumento dell’astensionismo per il 4 marzo. Ma, fatti tutti i ragionamenti del caso su crisi dei partiti e della politica, l’unico strumento che hanno in mano i cittadini per migliorare le cose resta ancora il voto. Non utilizzarlo rischia di favorire il degrado della politica. “La democrazia è sopravvalutata”, dice il cinico protagonista di una fortunata serie televisiva americana. Ma di meglio, finora, non è stato trovato.  ]]>
voto suppletivo

di Daris Giancarlini Diceva Mark Twain che “se il voto servisse davvero a qualcosa, non ci lascerebbero votare”. Valutando numerosi commenti e analisi sulla legge elettorale predisposta per il voto del 4 marzo, il cosiddetto ‘Rosatellum’, la propensione a ritenere poco decisivo - in questa occasione - il recarsi o meno alle urne non sarebbe priva di fondamento. È forte la possibilità che il nuovo sistema elettorale non garantisca maggioranze certe. Questo indebolisce la motivazione del voto, se viene ritenuto non decisivo per il futuro del Paese e per la sua governabilità. D’altronde, esaminando i meccanismi del ‘Rosatellum’ si ravvisano margini di manovra molto risicati per l’elettore, a partire dal fatto che soltanto un terzo degli eletti sarà scelto dai cittadini. Poco, troppo poco. L’aggettivo più benevolo usato da analisti e commentatori per l’attuale legge elettorale (che sarà cambiata nella prossima legislatura) è ‘pessima’. I suoi detrattori, ma non soltanto, dicono che è stata pensata per non far vincere nessuno, e per creare uno sbocco politico ‘obbligato’ il 5 di marzo, cioè un governo destra-sinistra di larghe intese che escluda il Movimento 5 stelle. Ma il compito di un sistema elettorale non è fotografare l’esistente, quanto invece di permettere ai cittadini di esprimere le loro preferenze, e ai partiti e movimenti di provare a partecipare.

Chi sono i candidati al Senato per l'Umbria? Leggi l' analisi delle liste elettorali nella nostra regione

Prevedendo inoltre dei meccanismi per facilitare la formazione di maggioranze. Non sembra il caso del ‘Rosatellum’. Tutto questo, insieme ad altri fattori quali il protrarsi della crisi economica, crea tra i cittadini una situazione di incertezza in vista del voto, con la quota di indecisi che, secondo i sondaggi più recenti, si sarebbe stabilizzata sopra il 40 per cento. Altri sondaggi evidenziano che, in caso di impasse dopo il voto, la maggioranza degli italiani sarebbe favorevole a tornare subito alle urne; e contraria ad altri esperimenti di grande coalizione. Dunque, votare comunque viene considerato dai più come massimo esercizio di democrazia. Alle politiche del 2013 andò alle urne il 75,2 per cento degli aventi diritto, il minimo storico per una tornata politica in Italia. Le previsioni convergono su un aumento dell’astensionismo per il 4 marzo. Ma, fatti tutti i ragionamenti del caso su crisi dei partiti e della politica, l’unico strumento che hanno in mano i cittadini per migliorare le cose resta ancora il voto. Non utilizzarlo rischia di favorire il degrado della politica. “La democrazia è sopravvalutata”, dice il cinico protagonista di una fortunata serie televisiva americana. Ma di meglio, finora, non è stato trovato.  ]]>
Elezioni 2018. I fac-simile delle schede umbre e informazioni utili al voto https://www.lavoce.it/elezioni-2018-fac-simile-delle-schede-umbre-informazioni-utili-al-voto/ Wed, 28 Feb 2018 17:31:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51292

Domenica 4 marzo si vota dalle 7 alle 23 per eleggere la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica. - GLI ELETTORI. Sono chiamati ad eleggere la Camera 46.604.925 elettori di cui 24.174.723 femmine e 22.430.202 maschi, più il numero degli elettori che voteranno dall’estero 4.177.725. Il Senato è eletto solo dai cittadini che hanno compiuto almeno 25 anni e sono 42.871.428 più quelli esteri 3.791.774. I ragazzi di 18 anni che voteranno per la prima volta sono poco meno di 600mila. - L’AFFLUENZA. Alle elezioni politiche del 2006 l’affluenza è stata dell’ 83,62%, nel 2008 dell’80,51% e nel 2013 del 75,20%. - RIPARTIZIONE DEI SEGGI. All’Umbria spettano 9 deputati e 7 senatori, come nella legislatura che si è conclusa. La nuova legge elettorale prevede un sistema misto maggioritario e proporzionale. Un terzo dei seggi viene assegnato in collegi uninominali maggioritari (viene eletto il candidato che ottiene più voti degli altri in quel collegio), mentre circa i due terzi (ovvero la maggior parte dei seggi di cui è composto il Parlamento) sono attribuiti alle liste che abbiano superato la soglia di sbarramento (pari al 3% su base nazionale) in proporzione ai voti raccolti. I candidati del proporzionale vengono eletti nell’ordine in cui sono scritti in lista. - LA SCHEDA. Sulla scheda compaiono i nomi dei candidati nei collegi uninominali e per ognuno di essi il simbolo del partito collegato o più simboli nel caso siano in coalizione. Accanto al simbolo c’è una lista di minimo due e massimo quattro nomi che sono i candidati del proporzionale (vedi foto). [caption id="attachment_51310" align="alignleft" width="4134"] Collegio Camera 01 - Perugia[/caption]   [caption id="attachment_51306" align="alignleft" width="4134"] Collegio Camera 02 - Foligno[/caption] [caption id="attachment_51308" align="alignleft" width="1984"] Collegio Camera 03 - Terni[/caption] [caption id="attachment_51311" align="alignleft" width="3543"] Collegio Senato 01 - Perugia[/caption] [caption id="attachment_51312" align="alignleft" width="3543"] Collegio Senato 02 - Terni[/caption] - IL VOTO. L’elettore può segnare con una croce il simbolo del partito o il nome del candidato uninominale. Se li segna entrambi il voto è valido lo stesso, ma l’operazione è praticamente inutile in quanto il voto al partito va anche al candidato uninominale e viceversa il voto al nome del candidato va anche al partito collegato. Nel caso della coalizione, il voto dato al candidato uninominale viene distribuito in modo proporzionale tra i partiti che lo sostengono, in base ai voti ottenuti da ciascuno di essi in quel collegio. Non è ammesso il voto disgiunto, ovvero votare un candidato uninominale e un partito ad esso non collegato. - TAGLIANDO ANTIFRODE. Da quest’anno la scheda è dotata di un codice progressivo alfanumerico. Dopo aver votato l’elettore restituisce la scheda ripiegata al presidente del seggio, il quale stacca il tagliando e controlla che il numero corrisponda a quello annotato sul registro elettorale. A questo punto è il presidente stesso (non l’elettore) ad inserire la scheda nell’urna.  ]]>

Domenica 4 marzo si vota dalle 7 alle 23 per eleggere la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica. - GLI ELETTORI. Sono chiamati ad eleggere la Camera 46.604.925 elettori di cui 24.174.723 femmine e 22.430.202 maschi, più il numero degli elettori che voteranno dall’estero 4.177.725. Il Senato è eletto solo dai cittadini che hanno compiuto almeno 25 anni e sono 42.871.428 più quelli esteri 3.791.774. I ragazzi di 18 anni che voteranno per la prima volta sono poco meno di 600mila. - L’AFFLUENZA. Alle elezioni politiche del 2006 l’affluenza è stata dell’ 83,62%, nel 2008 dell’80,51% e nel 2013 del 75,20%. - RIPARTIZIONE DEI SEGGI. All’Umbria spettano 9 deputati e 7 senatori, come nella legislatura che si è conclusa. La nuova legge elettorale prevede un sistema misto maggioritario e proporzionale. Un terzo dei seggi viene assegnato in collegi uninominali maggioritari (viene eletto il candidato che ottiene più voti degli altri in quel collegio), mentre circa i due terzi (ovvero la maggior parte dei seggi di cui è composto il Parlamento) sono attribuiti alle liste che abbiano superato la soglia di sbarramento (pari al 3% su base nazionale) in proporzione ai voti raccolti. I candidati del proporzionale vengono eletti nell’ordine in cui sono scritti in lista. - LA SCHEDA. Sulla scheda compaiono i nomi dei candidati nei collegi uninominali e per ognuno di essi il simbolo del partito collegato o più simboli nel caso siano in coalizione. Accanto al simbolo c’è una lista di minimo due e massimo quattro nomi che sono i candidati del proporzionale (vedi foto). [caption id="attachment_51310" align="alignleft" width="4134"] Collegio Camera 01 - Perugia[/caption]   [caption id="attachment_51306" align="alignleft" width="4134"] Collegio Camera 02 - Foligno[/caption] [caption id="attachment_51308" align="alignleft" width="1984"] Collegio Camera 03 - Terni[/caption] [caption id="attachment_51311" align="alignleft" width="3543"] Collegio Senato 01 - Perugia[/caption] [caption id="attachment_51312" align="alignleft" width="3543"] Collegio Senato 02 - Terni[/caption] - IL VOTO. L’elettore può segnare con una croce il simbolo del partito o il nome del candidato uninominale. Se li segna entrambi il voto è valido lo stesso, ma l’operazione è praticamente inutile in quanto il voto al partito va anche al candidato uninominale e viceversa il voto al nome del candidato va anche al partito collegato. Nel caso della coalizione, il voto dato al candidato uninominale viene distribuito in modo proporzionale tra i partiti che lo sostengono, in base ai voti ottenuti da ciascuno di essi in quel collegio. Non è ammesso il voto disgiunto, ovvero votare un candidato uninominale e un partito ad esso non collegato. - TAGLIANDO ANTIFRODE. Da quest’anno la scheda è dotata di un codice progressivo alfanumerico. Dopo aver votato l’elettore restituisce la scheda ripiegata al presidente del seggio, il quale stacca il tagliando e controlla che il numero corrisponda a quello annotato sul registro elettorale. A questo punto è il presidente stesso (non l’elettore) ad inserire la scheda nell’urna.  ]]>
Alle urne tra le ragioni della protesta e quelle della stabilità https://www.lavoce.it/alle-urne-le-ragioni-della-protesta-quelle-della-stabilita/ Wed, 28 Feb 2018 15:52:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51290 di Francesco Bonini

Ci siamo, ecco finalmente le elezioni politiche. Se ne è cominciato a parlare dopo l’esito negativo del referendum costituzionale. Poi il governo Gentiloni ha espresso un equilibrio, che, grazie anche a una certa complessiva ripresa, ha riscosso un consenso trasversale. Ma ci siamo.

Con una prima incognita: quanti di noi andranno a votare. Non sembra, ma il risultato finale dipenderà molto da questo dato. Per questo i partiti hanno prima di tutto puntato a fidelizzare i propri elettori, a picchettare il loro patrimonio.

Gli ultimi giorni saranno decisivi per la partecipazione, anche perché solo ora stiamo realizzando la struttura – spesso bizzarra – dei collegi uninominali, dunque quali candidati i partiti e le coalizioni ci hanno proposto. Perché si tratta di prendere o lasciare, non essendo possibile il cosiddetto voto disgiunto.

La competizione per ottenere seggi sembra ristretta a una quadriglia: le due coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra, il Movimento 5 stelle, e Liberi e uguali. Ma se abbiamo la pazienza, come è necessario per dovere di cittadinanza, di informarci, possiamo scoprire che in realtà la scelta è molto ampia, cosicché vi è ampia possibilità, per chi lo desiderasse, di affermazione identitaria o di protesta.

E qui sta il punto di queste elezioni per la XVIII legislatura, la risultante tra le ragioni della protesta e quelle della stabilità, i due sentimenti che ci percorrono. È qui il crinale stretto della governabilità italiana, che sembra sempre un miraggio. Non è questione di legge elettorale, come ci hanno spiegato, sbagliando, legioni di esperti e di politici. È questione di sistema: guardando tutti al breve o brevissimo termine, non si consolidano né le forze politiche né gli indirizzi programmatici: ci si ingrossa all’opposizione e poi al governo ci si sgonfia.

Dal punto di vista dei contenuti la campagna elettorale non sembra avere detto nulla di nuovo. C’è un grande problema fiscale, e dunque di lavoro e di sviluppo; ci sono i problemi legati all’immigrazione, tanto quella reale che quella “percepita”; restano i grandi temi del riassetto delle infrastrutture e di quella grande infrastruttura che è la pubblica amministrazione, compreso il sistema educativo, scolastico e universitario.

In realtà il vero punto è che l’Italia europea, ovvero l’Italia che deve assumere il proprio ruolo nell’Unione, non ha bisogno di un continuo rilancio di presunte riforme, ma ha bisogno di buon Governo responsabile e onesto, il buon governo delle cose ordinarie, il solo in grado di assicurare delle risposte serie all’oggettivo malessere in cui tanti oggi ci troviamo.

In questo senso, forse non si è sentita abbastanza in questa campagna elettorale la voce dei cattolici – non per un’affermazione identitaria, ma per ricordare a tutti il senso di un indirizzo di sviluppo complessivo del Paese.

Un discorso comunque da riprendere urgentemente dopo elezioni incerte come quelle del 4 marzo, per offrire una sicura bussola per tutti.

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Elezioni 2018. Quale voto per i cattolici https://www.lavoce.it/elezioni-2018-quale-voto-cattolici/ Tue, 27 Feb 2018 11:00:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51286

di Fausto Sciurpa Al momento dell’impegno e della scelta politica, in un quadro pluralistico di prospettive spesso parziali e antitetiche, non facilmente componibili, la coscienza cristiana, spesso lacerata da valori in conflitto, mentre si orienta per l’una o l’altra scelta, ne dovrà saper valutare responsabilmente e criticamente l’opportunità (etica della responsabilità) e la coerenza (etica della convinzione). Al tempo stesso, quale che sia la scelta, dovrà adoperarsi per creare le condizioni generali (il bene comune) favorevoli alla crescita e all’esercizio dei valori in cui crede. La difesa di “singoli” valori, comunque importanti e decisivi per la vita delle persone e dell’intera società, non può prescindere dal quadro generale in cui quei valori andranno vissuti e che, anzi, ne renderanno possibile l’attuazione come scelta libera e responsabile, e non ‘costretta’ in maniera diretta o indiretta. Se come cristiani, e non semplicemente in nome della fede ma anche di convinzioni umanistiche più generali, dobbiamo chiedere il rispetto della vita fin dallo stato iniziale a quello terminale, tanto più dobbiamo chiedere che si creino le condizioni sociali, economiche, culturali, a che la vita sia adeguatamente accolta, curata, protetta, promossa, offrendo servizi efficienti e diffusi, che permettano di svilupparne le potenzialità. Il rispetto della vita, in ogni sua fase, alla base di una convivenza veramente umana e giusta, non può essere disgiunto dalla promozione della persona in tutti gli stadi di crescita e in tutte le sue espressioni. Tra queste ultime, soprattutto la centralità del lavoro, nel quale la persona non solo acquisisce risorse economiche per sé e la famiglia, ma esprime la propria creatività e originalità. Nel lavoro la persona trova lo spazio del suo reale sviluppo; la mancanza (disoccupazione), come l’aleatorietà (precariato), oltre al danno sociale, costituiscono innanzitutto un vero e proprio “spreco antropologico”, una perdita di libertà e dignità della persona. Impegnarsi per la vita, inoltre, significa opporsi a tutto ciò che crea cultura di morte, riposta in modelli di comportamento ispirati al più sfrenato individualismo e disprezzo degli altri; significa. impegnarsi per una cultura della solidarietà che, senza disattendere il corrispettivo della sussidiarietà, eviti forme di chiusura particolaristica. Sul piano civile, forte è avvertita l’esigenza di ridare nobiltà, rispettabilità al confronto politico e all’esercizio rigoroso e convinto della democrazia rifiutando la logica ostile dell’amico-nemico, coltivando la cultura dell’“amicizia civile” che, pur a partire da posizioni differenziate, si fa carico del bene comune. Condizioni essenziali di un confronto civile, non rissoso e volgare, è il rispetto della onorabilità delle persone, e del pari la correttezza, l’onestà pubblica e privata nei comportamenti. Nell’ambito ecclesiale, il pluralismo delle scelte politiche non può, non deve trasformarsi in rottura ed esclusione dalla comunione ecclesiale, il cui criterio non è dato dallo schieramento politico, quanto piuttosto (anche se non solo) dall’impegno per la messa in opera effettiva dei valori, dei princìpi, degli orientamenti che nella dottrina sociale della Chiesa hanno il loro riferimento ideale e nella prassi la verifica reale. Su un piano più generale è necessario uno sguardo ampio della politica, una visione più larga ed etica, che rifugga da ogni caduta nazionalistica e deriva verso interessi immediati e parziali, aprendosi a una progettualità inclusiva, con una visione allargata al mondo intero, non ripiegata solo sul ‘cortile’ del proprio territorio che, comunque, non è immune dalle scosse telluriche anche a notevole distanza.]]>

di Fausto Sciurpa Al momento dell’impegno e della scelta politica, in un quadro pluralistico di prospettive spesso parziali e antitetiche, non facilmente componibili, la coscienza cristiana, spesso lacerata da valori in conflitto, mentre si orienta per l’una o l’altra scelta, ne dovrà saper valutare responsabilmente e criticamente l’opportunità (etica della responsabilità) e la coerenza (etica della convinzione). Al tempo stesso, quale che sia la scelta, dovrà adoperarsi per creare le condizioni generali (il bene comune) favorevoli alla crescita e all’esercizio dei valori in cui crede. La difesa di “singoli” valori, comunque importanti e decisivi per la vita delle persone e dell’intera società, non può prescindere dal quadro generale in cui quei valori andranno vissuti e che, anzi, ne renderanno possibile l’attuazione come scelta libera e responsabile, e non ‘costretta’ in maniera diretta o indiretta. Se come cristiani, e non semplicemente in nome della fede ma anche di convinzioni umanistiche più generali, dobbiamo chiedere il rispetto della vita fin dallo stato iniziale a quello terminale, tanto più dobbiamo chiedere che si creino le condizioni sociali, economiche, culturali, a che la vita sia adeguatamente accolta, curata, protetta, promossa, offrendo servizi efficienti e diffusi, che permettano di svilupparne le potenzialità. Il rispetto della vita, in ogni sua fase, alla base di una convivenza veramente umana e giusta, non può essere disgiunto dalla promozione della persona in tutti gli stadi di crescita e in tutte le sue espressioni. Tra queste ultime, soprattutto la centralità del lavoro, nel quale la persona non solo acquisisce risorse economiche per sé e la famiglia, ma esprime la propria creatività e originalità. Nel lavoro la persona trova lo spazio del suo reale sviluppo; la mancanza (disoccupazione), come l’aleatorietà (precariato), oltre al danno sociale, costituiscono innanzitutto un vero e proprio “spreco antropologico”, una perdita di libertà e dignità della persona. Impegnarsi per la vita, inoltre, significa opporsi a tutto ciò che crea cultura di morte, riposta in modelli di comportamento ispirati al più sfrenato individualismo e disprezzo degli altri; significa. impegnarsi per una cultura della solidarietà che, senza disattendere il corrispettivo della sussidiarietà, eviti forme di chiusura particolaristica. Sul piano civile, forte è avvertita l’esigenza di ridare nobiltà, rispettabilità al confronto politico e all’esercizio rigoroso e convinto della democrazia rifiutando la logica ostile dell’amico-nemico, coltivando la cultura dell’“amicizia civile” che, pur a partire da posizioni differenziate, si fa carico del bene comune. Condizioni essenziali di un confronto civile, non rissoso e volgare, è il rispetto della onorabilità delle persone, e del pari la correttezza, l’onestà pubblica e privata nei comportamenti. Nell’ambito ecclesiale, il pluralismo delle scelte politiche non può, non deve trasformarsi in rottura ed esclusione dalla comunione ecclesiale, il cui criterio non è dato dallo schieramento politico, quanto piuttosto (anche se non solo) dall’impegno per la messa in opera effettiva dei valori, dei princìpi, degli orientamenti che nella dottrina sociale della Chiesa hanno il loro riferimento ideale e nella prassi la verifica reale. Su un piano più generale è necessario uno sguardo ampio della politica, una visione più larga ed etica, che rifugga da ogni caduta nazionalistica e deriva verso interessi immediati e parziali, aprendosi a una progettualità inclusiva, con una visione allargata al mondo intero, non ripiegata solo sul ‘cortile’ del proprio territorio che, comunque, non è immune dalle scosse telluriche anche a notevole distanza.]]>
Elezioni 2018. Il rancore corre sui “social” https://www.lavoce.it/elezioni-2018-rancore-corre-sui-social/ Thu, 22 Feb 2018 17:36:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51258

di Daris Giancarlini Il voto di marzo all’epoca del rancore: può essere un titolo per una ricerca storica da fare nei prossimi decenni. Si va alle urne con il ’bollo’ del Censis su un periodo storico e sociale della realtà italiana in cui le macerie prodotte dalla crisi economica più lunga del dopoguerra si sommano alle difficoltà di far ripartire la macchina produttiva e un ciclo economico virtuoso. Il tutto, complicato da un quadro politico confuso e incerto, dove la schema tripolare sembra quasi escludere la possibilità che dalla politica possano arrivare risposte alle domande dei cittadini. In questo contesto di confusa decifrazione, un ruolo rilevante di valvola di sfogo rispetto alle incertezze sul futuro lo svolgono i social media, da molti (politici compresi) ritenuti terreno prevalente di formazione dell’opinione pubblica, e quindi anche di ‘cattura’ di eventuali consensi elettorali.

Chi sono i candidati umbri? Qui la presentazione dei volti noti e meno noti e il lavoro di quelli che sono già stati parlamentari.

Quegli stessi storici che vorranno in futuro vorranno analizzare il voto di marzo dovranno dunque tenere conto di una campagna elettorale che, abbandonati quasi del tutto manifesti e comizi in piazza, si sta giocando soprattutto in Rete, e nella sempiterna televisione (dove continuano a informarsi prioritariamente 60 italiani su cento, stando a stime recenti). Ma i meccanismi del successo dei social media non sono così aleatori come superficialmente si potrebbe pensare (la famosa ‘Libertà della Rete’...): a fare le fortune di questi moderni mezzi di comunicazione sono i click dell’utente e il numero di visualizzazioni su tutto quanto appare sul Web. Occorre dunque stimolare nell’utente curiosità immediate e - si potrebbe dire - primordiali, basate su sentimenti e reazioni di pancia più che di cervello. Per la politica, dunque, la ricerca del consenso in Rete spesso si riduce nel solleticare quel sentimento di rancore e rabbia sociale di cui parlavamo all’inizio. Ha fatto centinaia di migliaia di visualizzazioni, il video in internet di un ragazzo di colore trovato - è stata raccontata così, in un primo tempo - senza biglietto su un autobus. È stato insultato dagli utenti dei social senza alcun ritegno. Salvo poi scoprire che lui il biglietto ce l’aveva, ma aveva semplicemente sbagliato autobus. Se il 4 marzo questo meccanismo avrà dato i suoi frutti elettorali, lo si vedrà probabilmente anche dalla percentuale di affluenza alle urne: perché non è detto che le schiere dei cosiddetti ‘leoni da tastiera’ abbiano poi tutto questo senso civico da decidere di alzarsi dalle loro postazioni per tracciare una croce su un simbolo. Non è automatico che il consenso da virtuale diventi reale.]]>

di Daris Giancarlini Il voto di marzo all’epoca del rancore: può essere un titolo per una ricerca storica da fare nei prossimi decenni. Si va alle urne con il ’bollo’ del Censis su un periodo storico e sociale della realtà italiana in cui le macerie prodotte dalla crisi economica più lunga del dopoguerra si sommano alle difficoltà di far ripartire la macchina produttiva e un ciclo economico virtuoso. Il tutto, complicato da un quadro politico confuso e incerto, dove la schema tripolare sembra quasi escludere la possibilità che dalla politica possano arrivare risposte alle domande dei cittadini. In questo contesto di confusa decifrazione, un ruolo rilevante di valvola di sfogo rispetto alle incertezze sul futuro lo svolgono i social media, da molti (politici compresi) ritenuti terreno prevalente di formazione dell’opinione pubblica, e quindi anche di ‘cattura’ di eventuali consensi elettorali.

Chi sono i candidati umbri? Qui la presentazione dei volti noti e meno noti e il lavoro di quelli che sono già stati parlamentari.

Quegli stessi storici che vorranno in futuro vorranno analizzare il voto di marzo dovranno dunque tenere conto di una campagna elettorale che, abbandonati quasi del tutto manifesti e comizi in piazza, si sta giocando soprattutto in Rete, e nella sempiterna televisione (dove continuano a informarsi prioritariamente 60 italiani su cento, stando a stime recenti). Ma i meccanismi del successo dei social media non sono così aleatori come superficialmente si potrebbe pensare (la famosa ‘Libertà della Rete’...): a fare le fortune di questi moderni mezzi di comunicazione sono i click dell’utente e il numero di visualizzazioni su tutto quanto appare sul Web. Occorre dunque stimolare nell’utente curiosità immediate e - si potrebbe dire - primordiali, basate su sentimenti e reazioni di pancia più che di cervello. Per la politica, dunque, la ricerca del consenso in Rete spesso si riduce nel solleticare quel sentimento di rancore e rabbia sociale di cui parlavamo all’inizio. Ha fatto centinaia di migliaia di visualizzazioni, il video in internet di un ragazzo di colore trovato - è stata raccontata così, in un primo tempo - senza biglietto su un autobus. È stato insultato dagli utenti dei social senza alcun ritegno. Salvo poi scoprire che lui il biglietto ce l’aveva, ma aveva semplicemente sbagliato autobus. Se il 4 marzo questo meccanismo avrà dato i suoi frutti elettorali, lo si vedrà probabilmente anche dalla percentuale di affluenza alle urne: perché non è detto che le schiere dei cosiddetti ‘leoni da tastiera’ abbiano poi tutto questo senso civico da decidere di alzarsi dalle loro postazioni per tracciare una croce su un simbolo. Non è automatico che il consenso da virtuale diventi reale.]]>
Elezioni 2018. Chi sono i candidati umbri e come si vota https://www.lavoce.it/elezioni-2018-candidati-umbri-si-vota/ Thu, 15 Feb 2018 15:30:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51219

Il prossimo 4 marzo si voterà per rinnovare i rappresentanti al Parlamento italiano. Gli elettori con almeno 25 anni d’età riceveranno due schede, identiche nel modello, ma di colore diverso: gialla per il Senato e rosa per la Camera. Gli elettori con meno di 25 anni invece riceveranno soltanto la scheda per la Camera. Gli elettori del Lazio e della Lombardia riceveranno anche la scheda per le elezioni regionali. Per quanto riguarda la regione Umbria, riportiamo qui e qui l’elenco dei candidati nella circoscrizione umbra alla Camera e al Senato. I candidati sono in totale 22 al Senato per l’uninominale e 66 per il plurinominale. Sono 39 i candidati totali alla Camera nel collegio uninominale, e 71 nel plurinominale. Le liste sono in totale 18 e nel collegio plurinominale ognuna di esse presenta il proprio elenco di candidati. Nell’uninominale invece alcune liste si presentano in coalizione e sostengono perciò un candidato comune. È il caso del gruppo formato da Civica popolare Lorenzin, +Europa, Italia Europa insieme, Partito democratico, e del gruppo di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega, Noi con l’Italia. Lo spoglio delle schede inizierà subito dopo la chiusura dei seggi. Saranno scrutinate prima le schede del Senato e poi quelle della Camera.

DA SAPERE

Quando saranno aperti i seggi? Si voterà nella sola giornata di domenica 4 marzo, dalle 7 alle 23. Perché la schede avranno il “tagliando anti-frode”? Per evitare che all’interno della cabina elettorale la scheda originale venga sostituita con un’altra scheda falsificata. L’elettore dovrà semplicemente restituire la scheda su cui ha espresso il voto, debitamente piegata, al presidente del seggio. Saranno gli operatori del seggio a staccare il tagliando, che sarà conservato, e a verificare che il suo codice progressivo sia lo stesso annotato prima della consegna della scheda all’elettore. Dopo questo controllo il presidente del seggio inserirà la scheda nell’urna. Come si presenta la scheda elettorale? Sulla scheda compaiono i nomi dei candidati nel collegio uninominale e subito sotto il simbolo o i simboli dei partiti ad essi collegati. A fianco di ciascun simbolo è riportata una minilista con i candidati che corrono per i seggi assegnati con il metodo proporzionale. Simbolo e lista sono contenuti in un riquadro. Così, sotto il riquadro del candidato uninominale, gli elettori troveranno tanti riquadri quanti sono i partiti che sostengono quel candidato. Come si esprime materialmente il voto? a) L’elettore può tracciare un segno sul riquadro del partito scelto. Il voto così espresso vale per quella lista e automaticamente anche per il candidato nel collegio uninominale ad essa collegato. b) In alternativa l’elettore può segnare il riquadro del candidato uninominale e il suo voto vale automaticamente anche per la lista collegata. Nel caso ci siano più liste collegate, il voto viene ripartito tra di esse in proporzione dei voti ottenuti da ciascuna lista in quel collegio. c) Il voto è valido anche se l’elettore appone due segni sulla scheda, indicando sia il candidato uninominale che una delle liste che lo sostengono. È possibile votare un candidato uninominale e allo stesso tempo una lista che ne sostiene un altro? No. La legge in vigore non ammette il cosiddetto “voto disgiunto”. È possibile esprimere la preferenza per uno dei candidati presenti nelle liste a fianco dei simboli dei partiti? No. Gli eventuali seggi conquistati saranno assegnati nell’ordine in cui i nomi compaiono nella lista. Leggi di più a proposito dei parlamentari uscenti umbri che si sono ricandidati alle prossime elezioni.]]>

Il prossimo 4 marzo si voterà per rinnovare i rappresentanti al Parlamento italiano. Gli elettori con almeno 25 anni d’età riceveranno due schede, identiche nel modello, ma di colore diverso: gialla per il Senato e rosa per la Camera. Gli elettori con meno di 25 anni invece riceveranno soltanto la scheda per la Camera. Gli elettori del Lazio e della Lombardia riceveranno anche la scheda per le elezioni regionali. Per quanto riguarda la regione Umbria, riportiamo qui e qui l’elenco dei candidati nella circoscrizione umbra alla Camera e al Senato. I candidati sono in totale 22 al Senato per l’uninominale e 66 per il plurinominale. Sono 39 i candidati totali alla Camera nel collegio uninominale, e 71 nel plurinominale. Le liste sono in totale 18 e nel collegio plurinominale ognuna di esse presenta il proprio elenco di candidati. Nell’uninominale invece alcune liste si presentano in coalizione e sostengono perciò un candidato comune. È il caso del gruppo formato da Civica popolare Lorenzin, +Europa, Italia Europa insieme, Partito democratico, e del gruppo di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega, Noi con l’Italia. Lo spoglio delle schede inizierà subito dopo la chiusura dei seggi. Saranno scrutinate prima le schede del Senato e poi quelle della Camera.

DA SAPERE

Quando saranno aperti i seggi? Si voterà nella sola giornata di domenica 4 marzo, dalle 7 alle 23. Perché la schede avranno il “tagliando anti-frode”? Per evitare che all’interno della cabina elettorale la scheda originale venga sostituita con un’altra scheda falsificata. L’elettore dovrà semplicemente restituire la scheda su cui ha espresso il voto, debitamente piegata, al presidente del seggio. Saranno gli operatori del seggio a staccare il tagliando, che sarà conservato, e a verificare che il suo codice progressivo sia lo stesso annotato prima della consegna della scheda all’elettore. Dopo questo controllo il presidente del seggio inserirà la scheda nell’urna. Come si presenta la scheda elettorale? Sulla scheda compaiono i nomi dei candidati nel collegio uninominale e subito sotto il simbolo o i simboli dei partiti ad essi collegati. A fianco di ciascun simbolo è riportata una minilista con i candidati che corrono per i seggi assegnati con il metodo proporzionale. Simbolo e lista sono contenuti in un riquadro. Così, sotto il riquadro del candidato uninominale, gli elettori troveranno tanti riquadri quanti sono i partiti che sostengono quel candidato. Come si esprime materialmente il voto? a) L’elettore può tracciare un segno sul riquadro del partito scelto. Il voto così espresso vale per quella lista e automaticamente anche per il candidato nel collegio uninominale ad essa collegato. b) In alternativa l’elettore può segnare il riquadro del candidato uninominale e il suo voto vale automaticamente anche per la lista collegata. Nel caso ci siano più liste collegate, il voto viene ripartito tra di esse in proporzione dei voti ottenuti da ciascuna lista in quel collegio. c) Il voto è valido anche se l’elettore appone due segni sulla scheda, indicando sia il candidato uninominale che una delle liste che lo sostengono. È possibile votare un candidato uninominale e allo stesso tempo una lista che ne sostiene un altro? No. La legge in vigore non ammette il cosiddetto “voto disgiunto”. È possibile esprimere la preferenza per uno dei candidati presenti nelle liste a fianco dei simboli dei partiti? No. Gli eventuali seggi conquistati saranno assegnati nell’ordine in cui i nomi compaiono nella lista. Leggi di più a proposito dei parlamentari uscenti umbri che si sono ricandidati alle prossime elezioni.]]>
Elezioni 2018. Perché votare? Questo è il problema https://www.lavoce.it/elezioni-2018-perche-votare-problema/ Thu, 15 Feb 2018 11:07:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51216

di Daris Giancarlini “Perché voto?” ma poi anche “per chi voto?” sono due dilemmi di spessore consistente, in vista delle elezioni del 4 marzo. Il perché si voti se lo dovranno chiedere quel 60-70 per cento di italiani che continuano a credere nell’importanza di recarsi alle urne, nonostante la parabola in apparente, inarrestabile discesa del criterio della rappresentanza, in un Paese come il nostro dove è la Costituzione a sancire che “la sovranità appartiene al popolo”. Ma la domanda sulla ricerca di motivazioni per tracciare un segno sulla scheda se la dovrebbe porre anche quel 30-40 di astensionisti che da tempo hanno scelto di non esercitare questo loro diritto: perché, se si tratta di politica, nessuna scelta deve essere mai definitiva, ma sempre ponderata rispetto al contesto storico in cui si viene chiamati al voto. Le elezioni le vincono non le idealità alte e giuste, ma il senso comune, quello che fa riferimento ai problemi più intensamente percepiti e alle ricette per affrontarli. Forse è per la mancanza di queste ‘ricette’ che in così tanti non credono più nel principio della rappresentanza? Tra le motivazioni per la scelta astensionista, la principale è proprio la sfiducia verso il voto, seguono la protesta verso i partiti e l’assenza di una forza in cui riconoscersi. Motivazioni mica da poco, sulle quali l’intero panorama dei partiti in lizza dovrebbe riflettere in maniera seria e approfondita... ma non sembra che stia avvenendo. E chiamando in causa i partiti e i loro candidati, si evidenziano tutte le sfaccettature del quesito ‘per chi voto’. Sondaggi di questi ultimi giorni dimostrano come anche la strada delle promesse mirabolanti stia perdendo peso, nella conquista di qualche punto in più di consenso. Anche i più affezionati al sistema democratico e alla sua più alta espressione, quella del voto, sembrano mostrare un certo distacco nei confronti della diffusa patologia politica di spararla più grossa del proprio avversario per conquistare consensi. Forse hanno trovato condivisione gli appelli alla ‘sobrietà’ e alla ‘serietà’ arrivati in primis dai vescovi italiani, con il loro presidente, card. Gualtiero Bassetti, che non ha esitato a definire ‘immorale’ il vezzo dei partiti di “lanciare promesse che già si sa di non riuscire a mantenere”. Ecco un criterio che, approssimandosi al voto, potrebbe tornare utile: d’accordo verificare i programmi e valutare quello che si dice, per esempio, su lavoro, famiglia e giovani. Ma soppesare soprattutto se quanto viene prospettato sia serio e ispirato dal senso di responsabilità. Questo è il minimo che un cittadino elettore deve pretendere da chi chiede di rappresentarlo: proprio per ridare senso e spessore al concetto stesso di rappresentanza. E futuro alla democrazia.]]>

di Daris Giancarlini “Perché voto?” ma poi anche “per chi voto?” sono due dilemmi di spessore consistente, in vista delle elezioni del 4 marzo. Il perché si voti se lo dovranno chiedere quel 60-70 per cento di italiani che continuano a credere nell’importanza di recarsi alle urne, nonostante la parabola in apparente, inarrestabile discesa del criterio della rappresentanza, in un Paese come il nostro dove è la Costituzione a sancire che “la sovranità appartiene al popolo”. Ma la domanda sulla ricerca di motivazioni per tracciare un segno sulla scheda se la dovrebbe porre anche quel 30-40 di astensionisti che da tempo hanno scelto di non esercitare questo loro diritto: perché, se si tratta di politica, nessuna scelta deve essere mai definitiva, ma sempre ponderata rispetto al contesto storico in cui si viene chiamati al voto. Le elezioni le vincono non le idealità alte e giuste, ma il senso comune, quello che fa riferimento ai problemi più intensamente percepiti e alle ricette per affrontarli. Forse è per la mancanza di queste ‘ricette’ che in così tanti non credono più nel principio della rappresentanza? Tra le motivazioni per la scelta astensionista, la principale è proprio la sfiducia verso il voto, seguono la protesta verso i partiti e l’assenza di una forza in cui riconoscersi. Motivazioni mica da poco, sulle quali l’intero panorama dei partiti in lizza dovrebbe riflettere in maniera seria e approfondita... ma non sembra che stia avvenendo. E chiamando in causa i partiti e i loro candidati, si evidenziano tutte le sfaccettature del quesito ‘per chi voto’. Sondaggi di questi ultimi giorni dimostrano come anche la strada delle promesse mirabolanti stia perdendo peso, nella conquista di qualche punto in più di consenso. Anche i più affezionati al sistema democratico e alla sua più alta espressione, quella del voto, sembrano mostrare un certo distacco nei confronti della diffusa patologia politica di spararla più grossa del proprio avversario per conquistare consensi. Forse hanno trovato condivisione gli appelli alla ‘sobrietà’ e alla ‘serietà’ arrivati in primis dai vescovi italiani, con il loro presidente, card. Gualtiero Bassetti, che non ha esitato a definire ‘immorale’ il vezzo dei partiti di “lanciare promesse che già si sa di non riuscire a mantenere”. Ecco un criterio che, approssimandosi al voto, potrebbe tornare utile: d’accordo verificare i programmi e valutare quello che si dice, per esempio, su lavoro, famiglia e giovani. Ma soppesare soprattutto se quanto viene prospettato sia serio e ispirato dal senso di responsabilità. Questo è il minimo che un cittadino elettore deve pretendere da chi chiede di rappresentarlo: proprio per ridare senso e spessore al concetto stesso di rappresentanza. E futuro alla democrazia.]]>