ebraismo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/ebraismo/ Settimanale di informazione regionale Thu, 01 Jun 2023 14:56:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg ebraismo Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/ebraismo/ 32 32 La lettura ebraica della Bibbia necessaria per conoscere Gesù – Giuseppina Bruscolotti https://www.lavoce.it/relazione-bruscolotti/ Wed, 05 Jun 2019 16:05:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54642 Bruscolotti

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giuseppina Bruscolotti tenuto in occasione della presentazione del libro La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, (a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini, 2019, San Paolo) tenutasi a Perugia giovedì 30 maggio per iniziativa della Libreria Paoline di Perugia e del Meic. 

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=sy2sPRhhI30[/embed]   Il volume La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini è scaturito da un progetto che si fonda su due principi quali l’amore per la Sacra Scrittura e l’amicizia ebraico-cristiana. “Il volume è un prezioso lavoro che mette in luce il miracolo della diversità” (Etienne Vetò, Direttore Centro Cardinal Bea, Roma 18.03.2019). Esso è costituito dalle due prefazioni di Papa Francesco e di Abraham Skorka, dalle introduzioni generali, dalle introduzioni ai singoli libri della Torah/Pentateuco e da 34 commenti a pericopi scelte effettuati per metà da autori ebrei e per metà da cattolici. Papa Francesco ritiene il presente volume come un ulteriore frutto di un cambiamento che, dopo “diciannove secoli di antigiudaismo cristiano”, il mondo cristiano dimostra di essersi apprestato a fare. Scrive pertanto: “I valori, le tradizioni, le grandi idee che identificano l’Ebraismo e il Cristianesimo devono essere messe al servizio dell’umanità senza mai dimenticare la sacralità e l’autenticità dell’amicizia”.  A partire dalla Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II i rapporti tra cristiani ed ebrei hanno cominciato a rinsaldarsi anche se c’è ancora molto da fare soprattutto in merito alla lettura ‘ebraica’ della Bibbia.  A proposito suggeriamo un consiglio pratico, ovvero lo studio consapevole del documento della Pontificia Commissione Biblica che presenta il titolo “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (2001). In esso tra i vari aspetti si focalizza l’attenzione sui rapporti di continuità tra Antico e Nuovo Testamento e su quanto è doveroso il dialogo tra ebrei e cristiani e come il comune interesse per la Sacra Scrittura può avvicinare le due religioni.  Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne (Rm 1,1-3). Da parte cristiana cattolica ci apriamo quindi allo studio dell’AT al fine di conoscere meglio Cristo e il NT. “Senza l’AT, il NT sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi” dice il Documento al n. 84. Sottrarre l’AT significherebbe sottrarre il fondamento su cui poggiano il giudaismo e il cristianesimo. Quindi è indispensabile “un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’AT” (J. Ratzinger, Introduzione al Documento). Questo può far scaturire una certa reciprocità: i cristiani possono attingere ed arricchire l’interpretazione dell’AT servendosi dell’esegesi giudaica, dal canto loro gli ebrei -se vogliono- possono usufruire degli studi in ambito cristiano.  Presentiamo alcuni dei motivi che ci inducono a studiare ‘insieme’ la Bibbia ebraica, intendendo con Bibbia ebraica (TaNaK) i 39 Libri dell’AT che condividiamo sia ebrei che cristiani (ad eccezione cioè di Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruc). 

1- Il cristianesimo nasce all'interno del popolo ebraico

Intanto è da ribadire che Gesù appartiene al popolo ebraico, così come gli apostoli e i discepoli (compresi i proseliti, cioè giudei convertiti dal paganesimo). Il cristianesimo nasce all’interno del popolo ebraico e San Paolo, nell’elencare i destinatari dell’annuncio evangelico, conferma in più occasioni la priorità del popolo ebraico: il Vangelo è “forza divina per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16). 

2- La conoscenza dell'ebraismo

Imprescindibile per la conoscenza del NT è lo studio della lingua e dei modi di dire della Bibbia ebraica (sia nella lingua ebraica che greca). Il greco con cui sono pervenuti i Testi del NT deriva dal greco della LXX. Sostantivi come ‘angelo’ (angelos), ‘legge’ (nomos), ‘nazioni’ (ethn?) e ‘alleanza’ (diath?k?) se non letti alla luce del significato che essi hanno nella LXX non verrebbero compresi. La presenza di semitismi, l’uso del verbo essere e costruzioni grammaticali che risentono del sistema della lingua ebraica vanno assolutamente tenuti conto ai fini di una migliore comprensione dei Testi. Consideriamo inoltre quante citazioni implicite (citazioni intere senza essere specificata l’indicazione del Testo) ci sono della Bibbia ebraica nel NT. Solo nel Vangelo secondo Matteo sono circa 160 e, nello stesso Vangelo, circa 38 sono le citazioni esplicite. Pensiamo al caso del libro dell’Apocalisse che non cita esplicitamente la Bibbia ebraica, ma è quasi un’intera allusione ai Testi veterotestamentari. Si menzioni ancora l’utilizzo del verbo “dire” (leg?) e a quante volte è assimilato all’‘autorità’ di chi parla: “come dice la Scrittura”, o “Mosè”, o la “Legge”, o “Davide” (a volte non sono soggetti espliciti, ma sottintesi). Lo stesso si dica del verbo “scrivere” (graf?): espresso al tempo perfetto “è stato scritto” (gegraptai) significa un’azione compiuta nel passato i cui effetti continuano nel presente. Con questa espressione “è stato scritto” si allude appunto all’autorevolezza della Sacra Scrittura e infatti Gesù nell’episodio delle ‘tentazioni’ introduce la citazione biblica proprio con le parole “è stato scritto” / “sta scritto”. La medesima espressione “sta scritto” / “perché sta scritto” solo nella lettera ai Romani ricorre 17 volte. Gesù ha affermato  che “la Scrittura non può essere abolita” (Gv 10,35). San Paolo sempre si ispira ai Testi veterotestamentari per istruire, ma anche per guidare spiritualmente i credenti: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e dell’incoraggiamento che ci vengono dalle Scritture possediamo la speranza” (Rm 15,4). Ancora: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia” (2Tm 3,16-17).       

3- Non tutto può essere scritto

Sia il cristianesimo che l’ebraismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10). Intorno alla fine del I secolo il canone della Bibbia ebraica era già completo: Legge, Profeti e Scritti. Tuttavia, il solo testo scritto “non può essere sufficiente a esprimere tutta la ricchezza di una tradizione” (9), per cui in ambito farisaico e rabbinico è sorta la produzione di una tradizione scritta costituita dalla Misnah (III secolo), dalla Tosefta (‘supplemento’), dal Talmud (Babilonese, Palestinese) e dall’attività interpretativa sempre in produzione. La Misnah, la Tosefta e il Talmud sono autorevoli, ma non tali da ‘sporcare le mani’ (cioè non sono sacri), pertanto non vengono letti solennemente nelle liturgie sinagogali. Ma per apprezzare l’importanza che riveste il concetto di ‘tradizione’ anche all’interno dell’Ebraismo citiamo la frase: “Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga” (Mishna, Aboth 1,1).  Pensiamo al percorso che è stato vissuto all’interno del cristianesimo primitivo. Alla Bibbia ebraica che già era accolta, si è cominciato ad affiancare “l’insegnamento degli Apostoli” (At 2,42) costituito dall’insieme delle parole dette da Gesù e dalle opere da Lui  compiute, nonché dal messaggio evangelico fondato sulla Risurrezione di Gesù e le conseguenti elaborazioni dottrinali proferite durante la missione evangelizzatrice compiuta dai discepoli. Così alla Bibbia ebraica si è affiancato il NT.  Lo ripetiamo. Sia il cristianesimo che il giudaismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10). Scrive l’evangelista Giovanni: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25). Del resto Gesù stesso ha detto che per una maggiore e migliore comprensione del Sua missione Egli avrebbe donato lo Spirito Santo per guidare i credenti “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). In virtù di questo la Dei Verbum afferma che la Tradizione “nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture (8). Quindi “l’una e l’altra – la Scrittura e la Tradizione – devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza” (9).  Quindi ebraismo e cristianesimo si incontrano nel comune interesse per le Scritture d’Israele anche se tuttavia non coincide la considerazione che di esse ha la rispettiva ‘tradizione’. Ad esempio, in ambito ebraico il primo posto è riservato alla Torah, mentre per il cristianesimo -soprattutto per il NT- l’attenzione è rivolta alla raccolta profetica perché in essa vi vede annunciato Cristo. E poi chiaramente, la realizzazione dei messaggi profetici relativamente all’ebraismo rimanda in prospettiva futura, mentre per il cristianesimo è già iniziata con Gesù. Di Gesù parlano le Scritture del popolo ebraico ed alla luce di Lui vanno lette, interpretate e vissute. 

4- L'influenza dei metodi esegetici dell'ebraismo sul NT

Consideriamo l’influenza che hanno esercitato nel NT i metodi esegetici rabbinici. Il più antico di essi, basato sui testi della Bibbia ebraica, riguarda una serie di sette « regole » (middoth) attribuite tradizionalmente a Rabbì Hillel (morto nel 10 d.C.) che “rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura” (12), in particolare per dedurne il messaggio teologico o le norme etiche. Un’altra testimonianza circa i metodi esegetici in uso al tempo di Gesù ci proviene da Giuseppe Flavio il quale fa riferimento all’utilizzo di sostantivi veterotestamentari per “descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato” (12). Ad esempio riferisce il fatto che il ritorno dall’esilio babilonese viene additato con espressioni che rimandano alla liberazione dalla schiavitù egiziana del tempo dell'Esodo (Is 43,16-21), e la restaurazione escatologica di Sion viene descritta come un “nuovo Eden”. Sempre relativamente al I sec, si possiede anche la testimonianza della ‘scuola’ di Qumran. Circa la forma e il metodo, il NT evidenzia importanti somiglianze con i testi di Qumran soprattutto nel modo di trarre ispirazione dalle Scritture. Per esempio anche qui il modo di introdurre la citazione di un Testo dell’AT è pressoché uguale: “così è scritto”, “come sta scritto”, “conforme a quanto è scritto”. Del resto la comunità di Qumran con quella del NT si somigliavano nell’interpretazione dei Testi profetici:  “entrambe avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il «Maestro di Giustizia» a Qumran, Gesù per i cristiani” (13). Come è avvenuto per i manoscritti di Qumran, anche “alcuni testi biblici sono utilizzati nel Nuovo Testamento nel loro senso letterale e storico, mentre altri sono applicati, più o meno forzatamente, alla situazione presente” (13). Ma c'è un'importante differenza: mentre nei testi di Qumran, il “punto di partenza è la Scrittura”, nel NT il “punto di partenza è la venuta di Cristo” (13). Quindi non si tratta di attualizzare il messaggio della Scrittura, ma di “leggere la venuta di Cristo alla luce della Scrittura” (13). La somiglianza sta perciò nell’utilizzo delle tecniche esegetiche che, come in Rm 10,5-13 e in diversi brani della lettera agli Ebrei è evidentissima. Ritorniamo al discorso che abbiamo poco fa avviato e che ora riprendiamo, ovvero in merito alle tecniche rabbiniche di argomentazione. Sia Gesù nei Suoi discorsi, che Paolo nelle sue Lettere si ispirano alle 7 middot di cui abbiamo detto. In particolare, quelle che si riscontrano con maggiore frequenza sono le prime due e cioè, il qal wa-homer (Mt 6,30; 7,11; Rm 5,15.17) e la gezerah shawah (Mt 12,1-4; Rm 4,1-12). Più o meno coincidono con l’argomento a fortiori e con l’argomento per analogia. Si riscontra inoltre somiglianza con la tecnica rabbinica del midrash, anche se nello stesso tempo ci si discosta da essa: “nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, così che si ha a che fare con una tecnica di argomentazione, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l'autorità di Gesù” (14). Anche san Paolo si serve di questi metodi soprattutto per confutare con gli avversari ebrei, sia rimasti tali o convertiti al Vangelo. Di argomentazioni alla maniera rabbinica si viene a conoscenza anche nella lettera agli Efesini e nella lettera agli Ebrei. La lettera di Giuda è quasi tutta redatta con uno stile esegetico simile ai pesharim (spiegazioni) che si leggono nei manoscritti di Qumran. Un esempio di argomentazione alla maniera rabbinica è il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,59). Il suo stile presenta molte somiglianze con quello delle omelie sinagogali del I secolo: “spiegazione di un testo del Pentateuco con l'appoggio di un testo dei profeti; ogni espressione del testo viene spiegata; vengono apportati dei leggeri aggiustamenti della forma per adattarli alla nuova interpretazione” (14). Un’altra tecnica è quella delle allusioni all’AT. Nel NT spesso si fa allusione ad episodi biblici al fine di risaltare il significato di fatti della vita di Gesù. Le narrazioni relative all’infanzia di Gesù riportate dall’evangelista Matteo “possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè” (15). Il vangelo secondo Luca invece, relativamente ai racconti dell’Infanzia, dimostra di essere più in sintonia con la letteratura extrabiblica come i “Salmi di Salomone” o gli “Inni” di Qumran (cantici di Zaccaria e di Simeone). Vari eventi della vita di Gesù (teofania al battesimo, trasfigurazione, moltiplicazione dei pani, cammino sulle acque) sono riportati con allusioni intenzionali ad episodi veterotestamentari. Lo stesso vale per i discorsi. A proposito, la parabola che Gesù insegna dei ‘vignaioli omicidi’ (Mt 21,33-43) mostra che gli uditori “erano abituati all'uso di un’immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione” (15). Non a caso abbiamo citato il brano di Matteo perché tra i vangeli è quello che evidenzia il più abbondante utilizzo dei metodi esegetici e argomentativi giudaici. Ugualmente dicasi per altri Testi neotestamentari: “l’uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell’epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia” (15).

5- Le allegorie

Un altro aspetto comune è la lettura allegorica della Sacra Scrittura nell’ebraismo e nel cristianesimo. In ambito ebraico il riferimento è a Filone (20 a. C – 45 d. C.), un giudeo residente ad Alessandria interessato alla cultura greca. È l’autore di circa 36 opere scritte in greco che sono commenti e riflessioni circa il Pentateuco e raggruppati in tre parti: 1)Questioni e soluzioni; 2)Commentario allegorico; 3)Esposizione della Legge. In particolare nel Commentario allegorico pratica appunto il ‘metodo allegorico’, metodo che aveva già avviato nell’ambiente culturale giudaico-alessandrino il filosofo esegeta Aristobulo (II sec a. C.). Ispirandosi a lui, Filone applica quanto i greci facevano (in modo particolare Crisippo di Soli, III sec a. C.) e adopera questo metodo per rendere accessibile la Legge ai letterati greci. “Dopo la spiegazione letterale, si deve anche spiegare il significato soggiacente, perché quasi tutti i testi della Legge hanno un valore allegorico” (De Josepho VI, 28). In questo modo, Filone interpreta le vicende dei personaggi biblici leggendole in modo allegorico e vedendovi il percorso dell’anima verso Dio. Es.: Abramo con le sue peregrinazioni simboleggia l’anima e il percorso che essa fa per raggiungere la condizione di santità tale per incontrare Dio. Non rifiuta l’esegesi letterale, ma la considera il primo passo per poi impostare l’interpretazione allegorica. Filone è giudeo e rimane tale, ma, grazie all’applicazione del metodo allegorico acquisito dai greci, segna un punto d’incontro tra il mondo biblico e quello greco-ellenistico. Pur avendo incontrato anche rifiuti, il metodo allegorico di Filone d’Alessandria ha avuto un grande seguito in ambito ebraico. Lo stesso dicasi per il cristianesimo perché Origene, nella formulazione del metodo interpretativo basato sul senso letterale e spirituale/allegorico, molto si rifà a Filone d’Alessandria. Scriveva a proposito: “Noi siamo disposti da parte nostra ad ammettere per quanto riguarda l’insieme della Scrittura divina che essa ha sempre un senso spirituale, ma che non sempre ha un senso letterale perché spesso il senso letterale è impossibile” (De principiis, IV,3,5). L’esigenza di Origene, come quella dei Padri della Chiesa, era quella di istruire i credenti fornendo loro un’attualizzazione del messaggio biblico che così percepivano come più diretto e applicabile al contesto quotidiano. Utilizzato così, il metodo allegorico addita il legno con cui Mosè rende dolci le acque vedendo in esso il legno della Croce, o il cordoncino di filo scarlatto della meretrice Raab, alludendo con esso al sangue di Cristo. “In ogni pagina dell’AT si trovavano una moltitudine di allusioni dirette e specifiche a Cristo e alla vita cristiana, ma si correva il rischio di staccare ogni dettaglio dal suo contesto e di ridurre a nulla i rapporti tra il testo biblico e la realtà concreta della storia della salvezza” (20). Allora si è tornati a considerare la lettura letterale che, secondo Tommaso d’Aquino, è il primo passo da compiere per poi arrivare ad argomentare in modo allegorico. Scrive infatti: “L’accezione ovvia dei termini, corrisponde al primo senso che è il senso storico o letterale. Usare invece le cose stesse espresse dalle parole per significare altre cose si chiama senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone” (Summa I q. 1, a. 10).  Nel corso della storia del cristianesimo si è andati via via approfondendo il criterio secondo il quale proporre un’adeguata lettura della Bibbia ebraica. Il rischio è stato l’accentuazione dell’una o dell’altra lettura, letterale o allegorica. Si è anche corsi il rischio di veder rinnegato “insieme agli eccessi del metodo allegorico, tutta l’esegesi patristica e l’idea stessa di una lettura cristiana e cristologica dei testi dell’AT” (20). Inaccettabile! Da qui quindi l’esigenza di riformulare un’interpretazione cristiana ‘equilibrata’  che tenga conto degli studi di chi ci ha preceduto e che sia “rispettosa del senso originale”. Da questo punto di vista la lettura giudaica dell’AT si prefigge come indispensabile perché avvia ad un adeguato percorso di comprensione in quanto “il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo” (21).  Ritornando alla presentazione del libro da cui siamo partiti, libro definito “un grande dono all’umanità” (S. E. Spreafico, Presidente Commissione episcopale del Dialogo religioso, 18.03.2019), esso si propone anche come uno tra gli strumenti privilegiati per recuperare la lettura giudaica dell’Antico Testamento e ... l’amicizia con i “fratelli maggiori” (Papa Giovanni Paolo II). Tra 50/100 anni i curatori dell’opera La Bibbia dell’amicizia, prof. Giulio Michelini e prof. Marco Cassuto Morselli, saranno studiati come figure note per aver segnato una svolta negli sviluppi del dialogo interreligioso. “Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la sacra Scrittura” (85).  

 Giuseppina Bruscolotti

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Bruscolotti

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giuseppina Bruscolotti tenuto in occasione della presentazione del libro La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, (a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini, 2019, San Paolo) tenutasi a Perugia giovedì 30 maggio per iniziativa della Libreria Paoline di Perugia e del Meic. 

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=sy2sPRhhI30[/embed]   Il volume La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini è scaturito da un progetto che si fonda su due principi quali l’amore per la Sacra Scrittura e l’amicizia ebraico-cristiana. “Il volume è un prezioso lavoro che mette in luce il miracolo della diversità” (Etienne Vetò, Direttore Centro Cardinal Bea, Roma 18.03.2019). Esso è costituito dalle due prefazioni di Papa Francesco e di Abraham Skorka, dalle introduzioni generali, dalle introduzioni ai singoli libri della Torah/Pentateuco e da 34 commenti a pericopi scelte effettuati per metà da autori ebrei e per metà da cattolici. Papa Francesco ritiene il presente volume come un ulteriore frutto di un cambiamento che, dopo “diciannove secoli di antigiudaismo cristiano”, il mondo cristiano dimostra di essersi apprestato a fare. Scrive pertanto: “I valori, le tradizioni, le grandi idee che identificano l’Ebraismo e il Cristianesimo devono essere messe al servizio dell’umanità senza mai dimenticare la sacralità e l’autenticità dell’amicizia”.  A partire dalla Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II i rapporti tra cristiani ed ebrei hanno cominciato a rinsaldarsi anche se c’è ancora molto da fare soprattutto in merito alla lettura ‘ebraica’ della Bibbia.  A proposito suggeriamo un consiglio pratico, ovvero lo studio consapevole del documento della Pontificia Commissione Biblica che presenta il titolo “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (2001). In esso tra i vari aspetti si focalizza l’attenzione sui rapporti di continuità tra Antico e Nuovo Testamento e su quanto è doveroso il dialogo tra ebrei e cristiani e come il comune interesse per la Sacra Scrittura può avvicinare le due religioni.  Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne (Rm 1,1-3). Da parte cristiana cattolica ci apriamo quindi allo studio dell’AT al fine di conoscere meglio Cristo e il NT. “Senza l’AT, il NT sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi” dice il Documento al n. 84. Sottrarre l’AT significherebbe sottrarre il fondamento su cui poggiano il giudaismo e il cristianesimo. Quindi è indispensabile “un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’AT” (J. Ratzinger, Introduzione al Documento). Questo può far scaturire una certa reciprocità: i cristiani possono attingere ed arricchire l’interpretazione dell’AT servendosi dell’esegesi giudaica, dal canto loro gli ebrei -se vogliono- possono usufruire degli studi in ambito cristiano.  Presentiamo alcuni dei motivi che ci inducono a studiare ‘insieme’ la Bibbia ebraica, intendendo con Bibbia ebraica (TaNaK) i 39 Libri dell’AT che condividiamo sia ebrei che cristiani (ad eccezione cioè di Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruc). 

1- Il cristianesimo nasce all'interno del popolo ebraico

Intanto è da ribadire che Gesù appartiene al popolo ebraico, così come gli apostoli e i discepoli (compresi i proseliti, cioè giudei convertiti dal paganesimo). Il cristianesimo nasce all’interno del popolo ebraico e San Paolo, nell’elencare i destinatari dell’annuncio evangelico, conferma in più occasioni la priorità del popolo ebraico: il Vangelo è “forza divina per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16). 

2- La conoscenza dell'ebraismo

Imprescindibile per la conoscenza del NT è lo studio della lingua e dei modi di dire della Bibbia ebraica (sia nella lingua ebraica che greca). Il greco con cui sono pervenuti i Testi del NT deriva dal greco della LXX. Sostantivi come ‘angelo’ (angelos), ‘legge’ (nomos), ‘nazioni’ (ethn?) e ‘alleanza’ (diath?k?) se non letti alla luce del significato che essi hanno nella LXX non verrebbero compresi. La presenza di semitismi, l’uso del verbo essere e costruzioni grammaticali che risentono del sistema della lingua ebraica vanno assolutamente tenuti conto ai fini di una migliore comprensione dei Testi. Consideriamo inoltre quante citazioni implicite (citazioni intere senza essere specificata l’indicazione del Testo) ci sono della Bibbia ebraica nel NT. Solo nel Vangelo secondo Matteo sono circa 160 e, nello stesso Vangelo, circa 38 sono le citazioni esplicite. Pensiamo al caso del libro dell’Apocalisse che non cita esplicitamente la Bibbia ebraica, ma è quasi un’intera allusione ai Testi veterotestamentari. Si menzioni ancora l’utilizzo del verbo “dire” (leg?) e a quante volte è assimilato all’‘autorità’ di chi parla: “come dice la Scrittura”, o “Mosè”, o la “Legge”, o “Davide” (a volte non sono soggetti espliciti, ma sottintesi). Lo stesso si dica del verbo “scrivere” (graf?): espresso al tempo perfetto “è stato scritto” (gegraptai) significa un’azione compiuta nel passato i cui effetti continuano nel presente. Con questa espressione “è stato scritto” si allude appunto all’autorevolezza della Sacra Scrittura e infatti Gesù nell’episodio delle ‘tentazioni’ introduce la citazione biblica proprio con le parole “è stato scritto” / “sta scritto”. La medesima espressione “sta scritto” / “perché sta scritto” solo nella lettera ai Romani ricorre 17 volte. Gesù ha affermato  che “la Scrittura non può essere abolita” (Gv 10,35). San Paolo sempre si ispira ai Testi veterotestamentari per istruire, ma anche per guidare spiritualmente i credenti: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e dell’incoraggiamento che ci vengono dalle Scritture possediamo la speranza” (Rm 15,4). Ancora: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia” (2Tm 3,16-17).       

3- Non tutto può essere scritto

Sia il cristianesimo che l’ebraismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10). Intorno alla fine del I secolo il canone della Bibbia ebraica era già completo: Legge, Profeti e Scritti. Tuttavia, il solo testo scritto “non può essere sufficiente a esprimere tutta la ricchezza di una tradizione” (9), per cui in ambito farisaico e rabbinico è sorta la produzione di una tradizione scritta costituita dalla Misnah (III secolo), dalla Tosefta (‘supplemento’), dal Talmud (Babilonese, Palestinese) e dall’attività interpretativa sempre in produzione. La Misnah, la Tosefta e il Talmud sono autorevoli, ma non tali da ‘sporcare le mani’ (cioè non sono sacri), pertanto non vengono letti solennemente nelle liturgie sinagogali. Ma per apprezzare l’importanza che riveste il concetto di ‘tradizione’ anche all’interno dell’Ebraismo citiamo la frase: “Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga” (Mishna, Aboth 1,1).  Pensiamo al percorso che è stato vissuto all’interno del cristianesimo primitivo. Alla Bibbia ebraica che già era accolta, si è cominciato ad affiancare “l’insegnamento degli Apostoli” (At 2,42) costituito dall’insieme delle parole dette da Gesù e dalle opere da Lui  compiute, nonché dal messaggio evangelico fondato sulla Risurrezione di Gesù e le conseguenti elaborazioni dottrinali proferite durante la missione evangelizzatrice compiuta dai discepoli. Così alla Bibbia ebraica si è affiancato il NT.  Lo ripetiamo. Sia il cristianesimo che il giudaismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10). Scrive l’evangelista Giovanni: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25). Del resto Gesù stesso ha detto che per una maggiore e migliore comprensione del Sua missione Egli avrebbe donato lo Spirito Santo per guidare i credenti “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). In virtù di questo la Dei Verbum afferma che la Tradizione “nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture (8). Quindi “l’una e l’altra – la Scrittura e la Tradizione – devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza” (9).  Quindi ebraismo e cristianesimo si incontrano nel comune interesse per le Scritture d’Israele anche se tuttavia non coincide la considerazione che di esse ha la rispettiva ‘tradizione’. Ad esempio, in ambito ebraico il primo posto è riservato alla Torah, mentre per il cristianesimo -soprattutto per il NT- l’attenzione è rivolta alla raccolta profetica perché in essa vi vede annunciato Cristo. E poi chiaramente, la realizzazione dei messaggi profetici relativamente all’ebraismo rimanda in prospettiva futura, mentre per il cristianesimo è già iniziata con Gesù. Di Gesù parlano le Scritture del popolo ebraico ed alla luce di Lui vanno lette, interpretate e vissute. 

4- L'influenza dei metodi esegetici dell'ebraismo sul NT

Consideriamo l’influenza che hanno esercitato nel NT i metodi esegetici rabbinici. Il più antico di essi, basato sui testi della Bibbia ebraica, riguarda una serie di sette « regole » (middoth) attribuite tradizionalmente a Rabbì Hillel (morto nel 10 d.C.) che “rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura” (12), in particolare per dedurne il messaggio teologico o le norme etiche. Un’altra testimonianza circa i metodi esegetici in uso al tempo di Gesù ci proviene da Giuseppe Flavio il quale fa riferimento all’utilizzo di sostantivi veterotestamentari per “descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato” (12). Ad esempio riferisce il fatto che il ritorno dall’esilio babilonese viene additato con espressioni che rimandano alla liberazione dalla schiavitù egiziana del tempo dell'Esodo (Is 43,16-21), e la restaurazione escatologica di Sion viene descritta come un “nuovo Eden”. Sempre relativamente al I sec, si possiede anche la testimonianza della ‘scuola’ di Qumran. Circa la forma e il metodo, il NT evidenzia importanti somiglianze con i testi di Qumran soprattutto nel modo di trarre ispirazione dalle Scritture. Per esempio anche qui il modo di introdurre la citazione di un Testo dell’AT è pressoché uguale: “così è scritto”, “come sta scritto”, “conforme a quanto è scritto”. Del resto la comunità di Qumran con quella del NT si somigliavano nell’interpretazione dei Testi profetici:  “entrambe avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il «Maestro di Giustizia» a Qumran, Gesù per i cristiani” (13). Come è avvenuto per i manoscritti di Qumran, anche “alcuni testi biblici sono utilizzati nel Nuovo Testamento nel loro senso letterale e storico, mentre altri sono applicati, più o meno forzatamente, alla situazione presente” (13). Ma c'è un'importante differenza: mentre nei testi di Qumran, il “punto di partenza è la Scrittura”, nel NT il “punto di partenza è la venuta di Cristo” (13). Quindi non si tratta di attualizzare il messaggio della Scrittura, ma di “leggere la venuta di Cristo alla luce della Scrittura” (13). La somiglianza sta perciò nell’utilizzo delle tecniche esegetiche che, come in Rm 10,5-13 e in diversi brani della lettera agli Ebrei è evidentissima. Ritorniamo al discorso che abbiamo poco fa avviato e che ora riprendiamo, ovvero in merito alle tecniche rabbiniche di argomentazione. Sia Gesù nei Suoi discorsi, che Paolo nelle sue Lettere si ispirano alle 7 middot di cui abbiamo detto. In particolare, quelle che si riscontrano con maggiore frequenza sono le prime due e cioè, il qal wa-homer (Mt 6,30; 7,11; Rm 5,15.17) e la gezerah shawah (Mt 12,1-4; Rm 4,1-12). Più o meno coincidono con l’argomento a fortiori e con l’argomento per analogia. Si riscontra inoltre somiglianza con la tecnica rabbinica del midrash, anche se nello stesso tempo ci si discosta da essa: “nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, così che si ha a che fare con una tecnica di argomentazione, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l'autorità di Gesù” (14). Anche san Paolo si serve di questi metodi soprattutto per confutare con gli avversari ebrei, sia rimasti tali o convertiti al Vangelo. Di argomentazioni alla maniera rabbinica si viene a conoscenza anche nella lettera agli Efesini e nella lettera agli Ebrei. La lettera di Giuda è quasi tutta redatta con uno stile esegetico simile ai pesharim (spiegazioni) che si leggono nei manoscritti di Qumran. Un esempio di argomentazione alla maniera rabbinica è il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,59). Il suo stile presenta molte somiglianze con quello delle omelie sinagogali del I secolo: “spiegazione di un testo del Pentateuco con l'appoggio di un testo dei profeti; ogni espressione del testo viene spiegata; vengono apportati dei leggeri aggiustamenti della forma per adattarli alla nuova interpretazione” (14). Un’altra tecnica è quella delle allusioni all’AT. Nel NT spesso si fa allusione ad episodi biblici al fine di risaltare il significato di fatti della vita di Gesù. Le narrazioni relative all’infanzia di Gesù riportate dall’evangelista Matteo “possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè” (15). Il vangelo secondo Luca invece, relativamente ai racconti dell’Infanzia, dimostra di essere più in sintonia con la letteratura extrabiblica come i “Salmi di Salomone” o gli “Inni” di Qumran (cantici di Zaccaria e di Simeone). Vari eventi della vita di Gesù (teofania al battesimo, trasfigurazione, moltiplicazione dei pani, cammino sulle acque) sono riportati con allusioni intenzionali ad episodi veterotestamentari. Lo stesso vale per i discorsi. A proposito, la parabola che Gesù insegna dei ‘vignaioli omicidi’ (Mt 21,33-43) mostra che gli uditori “erano abituati all'uso di un’immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione” (15). Non a caso abbiamo citato il brano di Matteo perché tra i vangeli è quello che evidenzia il più abbondante utilizzo dei metodi esegetici e argomentativi giudaici. Ugualmente dicasi per altri Testi neotestamentari: “l’uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell’epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia” (15).

5- Le allegorie

Un altro aspetto comune è la lettura allegorica della Sacra Scrittura nell’ebraismo e nel cristianesimo. In ambito ebraico il riferimento è a Filone (20 a. C – 45 d. C.), un giudeo residente ad Alessandria interessato alla cultura greca. È l’autore di circa 36 opere scritte in greco che sono commenti e riflessioni circa il Pentateuco e raggruppati in tre parti: 1)Questioni e soluzioni; 2)Commentario allegorico; 3)Esposizione della Legge. In particolare nel Commentario allegorico pratica appunto il ‘metodo allegorico’, metodo che aveva già avviato nell’ambiente culturale giudaico-alessandrino il filosofo esegeta Aristobulo (II sec a. C.). Ispirandosi a lui, Filone applica quanto i greci facevano (in modo particolare Crisippo di Soli, III sec a. C.) e adopera questo metodo per rendere accessibile la Legge ai letterati greci. “Dopo la spiegazione letterale, si deve anche spiegare il significato soggiacente, perché quasi tutti i testi della Legge hanno un valore allegorico” (De Josepho VI, 28). In questo modo, Filone interpreta le vicende dei personaggi biblici leggendole in modo allegorico e vedendovi il percorso dell’anima verso Dio. Es.: Abramo con le sue peregrinazioni simboleggia l’anima e il percorso che essa fa per raggiungere la condizione di santità tale per incontrare Dio. Non rifiuta l’esegesi letterale, ma la considera il primo passo per poi impostare l’interpretazione allegorica. Filone è giudeo e rimane tale, ma, grazie all’applicazione del metodo allegorico acquisito dai greci, segna un punto d’incontro tra il mondo biblico e quello greco-ellenistico. Pur avendo incontrato anche rifiuti, il metodo allegorico di Filone d’Alessandria ha avuto un grande seguito in ambito ebraico. Lo stesso dicasi per il cristianesimo perché Origene, nella formulazione del metodo interpretativo basato sul senso letterale e spirituale/allegorico, molto si rifà a Filone d’Alessandria. Scriveva a proposito: “Noi siamo disposti da parte nostra ad ammettere per quanto riguarda l’insieme della Scrittura divina che essa ha sempre un senso spirituale, ma che non sempre ha un senso letterale perché spesso il senso letterale è impossibile” (De principiis, IV,3,5). L’esigenza di Origene, come quella dei Padri della Chiesa, era quella di istruire i credenti fornendo loro un’attualizzazione del messaggio biblico che così percepivano come più diretto e applicabile al contesto quotidiano. Utilizzato così, il metodo allegorico addita il legno con cui Mosè rende dolci le acque vedendo in esso il legno della Croce, o il cordoncino di filo scarlatto della meretrice Raab, alludendo con esso al sangue di Cristo. “In ogni pagina dell’AT si trovavano una moltitudine di allusioni dirette e specifiche a Cristo e alla vita cristiana, ma si correva il rischio di staccare ogni dettaglio dal suo contesto e di ridurre a nulla i rapporti tra il testo biblico e la realtà concreta della storia della salvezza” (20). Allora si è tornati a considerare la lettura letterale che, secondo Tommaso d’Aquino, è il primo passo da compiere per poi arrivare ad argomentare in modo allegorico. Scrive infatti: “L’accezione ovvia dei termini, corrisponde al primo senso che è il senso storico o letterale. Usare invece le cose stesse espresse dalle parole per significare altre cose si chiama senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone” (Summa I q. 1, a. 10).  Nel corso della storia del cristianesimo si è andati via via approfondendo il criterio secondo il quale proporre un’adeguata lettura della Bibbia ebraica. Il rischio è stato l’accentuazione dell’una o dell’altra lettura, letterale o allegorica. Si è anche corsi il rischio di veder rinnegato “insieme agli eccessi del metodo allegorico, tutta l’esegesi patristica e l’idea stessa di una lettura cristiana e cristologica dei testi dell’AT” (20). Inaccettabile! Da qui quindi l’esigenza di riformulare un’interpretazione cristiana ‘equilibrata’  che tenga conto degli studi di chi ci ha preceduto e che sia “rispettosa del senso originale”. Da questo punto di vista la lettura giudaica dell’AT si prefigge come indispensabile perché avvia ad un adeguato percorso di comprensione in quanto “il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo” (21).  Ritornando alla presentazione del libro da cui siamo partiti, libro definito “un grande dono all’umanità” (S. E. Spreafico, Presidente Commissione episcopale del Dialogo religioso, 18.03.2019), esso si propone anche come uno tra gli strumenti privilegiati per recuperare la lettura giudaica dell’Antico Testamento e ... l’amicizia con i “fratelli maggiori” (Papa Giovanni Paolo II). Tra 50/100 anni i curatori dell’opera La Bibbia dell’amicizia, prof. Giulio Michelini e prof. Marco Cassuto Morselli, saranno studiati come figure note per aver segnato una svolta negli sviluppi del dialogo interreligioso. “Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la sacra Scrittura” (85).  

 Giuseppina Bruscolotti

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Fraternità e dialogo: a confronto religioni, filosofia e economia https://www.lavoce.it/fraternita-e-dialogo-a-confronto-religioni-filosfia-e-economia/ Sat, 09 May 2015 00:20:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=32965 DSC_51701532325959
foto A.Coli

Quasi 500 persone hanno partecipato in questi giorni al Laboratorio di studio promosso a Perugia dal 7 al 9 maggio, in preparazione al convegno ecclesiale di Firenze 2015.

(Guarda le foto dell’evento)

 

Al centro congressi della Figc sede dei lavori, giovedì pomeriggio il cardinale Gualtiero Bassetti ha aperto i lavori con una riflessione sul valore dell’accoglienza declinato sulle tematiche perno del laboratorio, ovvero solidarietà, fraternità, identità, estraneità e relazioni, con il fine di portare un contributo ad un’umanesimo definito nuovo perché propositivo.

“Dobbiamo evitare di abbrutirci, puntando sempre alla ricerca dell’Assoluto”, è stata la frase più incisiva e ritwittata dai tanti follower del laboratorio. A moderare il dibattito don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo, che ha spiegato con queste parole l’impostazione del laboratorio: “Ci sentiamo interrogati sulla figura di Gesù e il nuovo umanesimo, intendendo il termine ‘nuovo’ come propositivo nei tempi in cui viviamo: cerchiamo di passare la visione di un umanesimo capace di dire qualcosa di buono per l’uomo di oggi, capendone le declinazioni che può assumere, dal punto di vista laico-filosofico e interreligioso, approfondendo i punti di contatto tra le tre religioni monoteistiche – cristianesimo, ebraismo e islamismo – e tra queste e le principali religioni orientali (buddismo e induismo)”.

Tutti i lavori del convegno sono stati trasmessi in streaming e i video sono disponibili on line (clicca qui per i video).
PRIMA GIORNATA

La prima giornata ha avuto un taglio di carattere filosofico e antropologico, con l’obiettivo di spiegare il significato della scelta del termine “nuovo umanesimo” (dove per nuovo s’intende capace di essere propositivo, in una dinamica di dialogo tra diversità volto ad arricchire gli interlocutori) e le sue declinazioni nel campo della ricerca filosofica (la relazione di Angelo Capecci, docente di Filosofia e prospettive di nuovo umanesimo all’ateneo di Perugia, si è incentrata sull’approfondimento del postulato “l’uomo è ciò che sceglie”, celebre nella trattazione filosofica) e dell’analisi dei fatti relativi alla storia contemporanea, grazie agli interventi degli storici Luciano Tosi, Marco Impagliazzo e Roberto Morozzo della Rocca.

L’evoluzione e l’andamento della religiosità in Europa. Marco Impagliazzo, docente di storia a Perugia e presidente della Comunità di Sant’Egidio, ha offerto una relazione ricca di dati, utili a farsi un quadro dell’andamento socio-religioso in Europa, con particolare riguardo tra differenze e analogie che si stanno verificando in Italia e nella regione balcanica: “Nell’Europa contemporanea il 10% della popolazione è composta da immigrati o da persone di origine non europea – ha detto Impagliazzo -. Questo melting pot genera una pluralità di credenze religiose che obbligano ad un dialogo interreligioso sempre più fervente e importante, che non sia materia riservata a specialisti, ma da collocare in un cammino più vasto della Chiesa italiana. Il dialogo tra le religioni deve essere un fatto di popolo, che riguardi le Chiese locali, le parrocchie e i movimenti. Sostenere la fede delle popolazioni immigrate è necessario a rafforzare i legami comunitari, e salva dal rischio di una religione senza popolo. Papa Francesco nell’ultimo Concistoro ha parlato ai nuovi cardinali di pastorale dell’integrazione, stando attenti a non respingere nessuno. Nella Evangelii Gaudium c’è un passaggio che riecheggia lo spirito di Assisi trent’anni dopo: si parla infatti di mistica del vivere insieme, appoggiandoci a vicenda in una marea un po’ caotica che può trasformarsi in un santo pellegrinaggio”.

Tante analogie tra la religiosità italiana e quella balcanica. Il dialogo sull’Europa è proseguito analizzando il contesto dell’Europa balcanica e dei Paesi ex-comunisti con Roberto Morozzo della Rocca, docente di Storia dell’Europa contemporanea e Storia dell’Europa orientale all’ateneo di Roma Tre. Morozzo ha snocciolato i dati sull’andamento della religiosità popolare nei Paesi dell’Europa orientale, caratterizzati fino al 1989 dall’egemonia comunista, i quali solleticano il ragionamento sulla situazione attuale italiana. “In Polonia stanno rinascendo movimenti laicisti organizzati da polacchi che avevano vissuto il periodo comunista immigrando nei Paesi dell’Europa occidentale – ha spiegato Morozzo -, così come in Romania e nei Paesi balcanici in generale è pressoché assente l’ateismo dichiarato ma la religiosità è sempre più fragile, anche per la crescita del benessere economico grazie ai fondi europei. In Russia viene mantenuta in molte case la tradizione del cosiddetto “angolo delle icone” come luogo di preghiera, ma la pratica cristiana è poi quasi assente. Anche in Italia viviamo un periodo simile, con la religiosità che va disgregandosi anche tra coloro che si definiscono cristiani”.

Homo economicus e nuovo umanesimo. L’ultima tavola rotonda ha avuto come tema “Società civile, fraternità e dialogo interreligioso: prospettive di nuovo umanesimo”. Carlo Vinti dell’Università di Perugia e i docenti Francesco Fischetti, Mauro Letterio e Fulvio Longato hanno ragionato sulla necessità del dialogo tra culture e religioni differenti e spesso, per vari fattori, antagoniste. Più volte è stato citato il pensiero di Amartya Sen, il filosofo indiana premio Nobel per l’economia nel 1998, ma in particolare ha suscitato l’interesse del popolo virtuale (che ha seguito i lavori del convegno trasmesso in streaming sul sito www.firenze2015.it o twittando @Firenze_2015) la frase di Jacques Maritain “senza le religioni saremmo infinitamente più poveri e malvagi”. Su tale riflessione Fistetti ha analizzato il criterio di necessità della religione come elemento equilibrante della vita umana e – conseguentemente nonostante tutto – delle relazioni tra uomini. “Nell’homo economicus la libertà è intesa come non avere debiti con nessuno, introducendo il criterio razionale della giustizia di mercato, che diventa anche giustizia politica”.

Diritto internazionale e Magistero universale. Mauro Letterio ha cominciato la sua relazione citando Papa Francesco, il quale nel corso del suo ancora breve ma denso magistero ha parlato più volte “dell’uomo come essere relazionale”. Tale frase è in continuità con l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e proseguendo in un’analisi storica del Diritto internazionale ha strutturato un parallelismo tra il crescendo del diritto e l’evoluzione del magistero ecclesiale. Infine Fulvio Longato ha esordito dicendo che “l’unità strutturale è basata su dignità, libertà, uguaglianza e fraternità, e l’implementazione dei diritti è strettamente legata alla crescita dei doveri”.

Nel video il direttore dell’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso della Cei, don Cristiano Bettega, fa il punto sulla prima giornata di lavori

 

 SECONDA GIORNATA – mattino

In apertura di giornata è stata la tavola rotonda “Dialogo: nel nome dell’Unico, per un’antropologia di pace” (introdotta dal vescovo di Città di Castello Mons. Domenico Cancian e le relazioni – introdotte da Brunetto Salvarani – del docente di teologia trinitaria Piero Coda e l’islamista Adnane Mokrani.

Il vescovo di Città di Castello Domenico Cancian

I parallelismi del dialogo interreligioso tra Cristianesimo e Islam.  “Il monoteismo può essere garante di alterità, come principio universale e sotto il profilo etico”, ha detto mons. Piero Coda, docente di Teologia trinitaria alla Ius Sophia, che ha proseguito la relazione sttolineando che “l’unicità di Dio è rappresentata dall’unità nella verità, ed è fondamentale non rimanere sul pianio teorico ma scendere nella prassi, nella cultura e nella pastorale ecclesiale.  Coda ha offerto una rilettura del “monoteismo trinitario cristiano” che “è attraversato al suo interno dal principio di alterità” e da una fraternità radicata nella Parola di Dio, che nella creazione dice “è bene che l’altro sia”.

Il teologo ha sottolineato l’esigenza di una “scuola di dialogo” in cui “imparare ad essere amici senza nascondere la propria identità, per discernere cosa è conforme alla fede nell’unico Dio e cosa è proiezione del nostro egoismo”. Questo, ha aggiunto, può essere il contributo dei credenti ad una società civile, politica, culturale “completamente sorda” su questo fronte, ancora incapace di prendere atto “della risorsa che di per sé le religioni possono costituire per la stessa società e i suoi assetti istituzionali”.

“La religione dovrebbe santificare l’uomo, ma l’uomo può santificare o falsificare la religione”. Con questa frase l’islamista Adnane Mokrani, tunisimo da oltre vent’anni in Italia, docente universitario e rappresentante del Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, ha aperto la sua relazione nella quale ha proposto una interpretazione spirituale di alcuni passi del Corano per mostrare la contraffazione che del Libro sacro viene fatta da una lettura fondamentalista e violenta, una lettura che ne altera l’ispirazione profonda. Commentando  alcuni testi  del Corano, il relatore ha fatto notare che “i falsi nomi, le bugie sono all’origine della violenza, che è tale solo per le vittime: gli altri la chiamano con altri nomi, storia, civiltà… Nessuno ha il coraggio di dire i veri nomi, che sono violenza, sfruttamento”. E così, “la violenza verbale si trasforma in violenza teologica: è una rete satanica che non manca in certi ambienti religiosi”.

Ha fatto seguito il dibattito coordinato da Marco Bontempi sul tema del “Tavolo ebraico-cristiano-islamico”, con domande provenienti dal pubblico e dai follower che hanno seguito la diretta streaming sul sito www.firenze2015.it e sull’account Twitter @Firenze_2015.

 SECONDA GIORNATA – pomeriggo

“Epifania dell’altro e disvelamento del sé”. Padre Giulio Michelini (membro della Giunta coordinatrice di Firenze 2015),  ha aperto il pomeriggio presentando il tema ed i relatori, i docenti della Pontificia Università di Rio de Janeiro Maria Clara Bingemer e Paulo Fernando de Andrade, e la partecipazione di Roberto Repole, presidente dell’Associazione Teologica Italiana.

Da citare la frase di Maria Clara Bingemer  “la giustizia è tale solo se interpellata da etica”, estrapolata dal pensiero del filosofo francese Emmanuel Lévinas. “Si tratta di un’etica – quella mistica – che non può essere marginalizzata e che deve caratterizzare la politica, affinché quest’ultima non si riduca, nella nostra era della globalizzazione, ad essere solo una mera attuazione delle richieste del mercato”.

Paulo Fernando de Andrade ha trattato il tema della “Chiesa dei poveri” che Papa Francesco ha fatto suo sin dalla scelta del nome, e parlando ai giornalisti, tre giorni dopo la sua elezione disse “come vorrei una Chiesa povera per i poveri”. Andrade, specializzato in teologia della liberazione e questioni etiche, ha ripercorso la storia del gruppo ““Gesù, la Chiesa e i poveri” che portò il tema nel Concilio Vaticano II, contando tra i suoi membri personaggi come Paul Gauthier, Helder Camara, e tra gli italiani Dossetti chiamato dal Cardinale Lercaro che seguì da vicino il lavoro del gruppo e portò nelle discussioni conciliari l’attenzione al tema.

Infine Roberto Repole ha offerta una riflessione teologica sul dialogo interreligioso: “Riflettere sulla fraternità è certamente offrire un contributo al nuovo umanesimo in Cristo. La Chiesa deve essere contrassegnata dalla fraternità, intesa in senso di apertura all’altro: un concetto di fraternità cristiana che non è filantropia, ma ospitalità affinché ciascuno trovi la sua identità, con la capacità di ospitare gli altri nella sua sconvolgente novità è la strada verso una chiesa in uscita, come intende Papa Francesco”.

Citando il teologo Ratzinger che nel 1961 scriveva che “la fraternità dei cristiani è fondata nella incorporazione in Cristo” ha sottolineato la forza dell’eucarestia il cui “fine non è solo la transustanziazione” del pane e del vino poichè “noi nello Spirito veniamo ospitati in Cristo divenendo così ospiti gli uni degli altri”. E se la fraternità si fonda sulla comune paternità di Dio “non tollera nessun gerarchismo”, scriveva Ratzinger, aggiungendo che questa “non è solo questione ecclesiologica ma teologica perchè è manifestazione del volto di Dio”. Per i cristiani la fraternità non è chiusa ma universale poiché “in Cristo non è stato creato solo il cristiano ma ogni essere umano”.

Dialogare tra popoli diversi presuppone un’etica economica. In conclusione di giornata il dibattito ha affrontato il tema “Etica ed economia: la ferita dell’altro” con Simone Poledrini (Università di Perugia), Emmanuel Gabellieri (Università Cattolica di Lione), Alain Caillè (Università Paris X) e Luigino Bruni (Università Lumsa), quest’ultimo autore di molti studi sulla relazione tra economia, civiltà e religione.

Gabellieri e Caillè hanno commentato alcuni testi di Bruni anticipando e preparando l’intervento di Bruni, molto atteso per lo spessore degli studi – anche recenti – che lo stesso economista ha svolto.

“Viviamo la cultura dell’invulnerabilità dovuta a sua volta alla cultura dell’immunità, nel senso che ci si lascia toccare dall’altro, dal diverso, dal povero. Per riflettere sulla cultura nella quale viviamo è opportuno riflettere sul significato dell’abbraccio di Francesco d’Assisi al lebbroso. Il dono è una faccenda molto seria che la nostra società ha ridotto a segni spesso ridotti e banali, quasi dei vaccini per immunizzarci dalla vera logica del dono. Domandiamoci se c’è compatibilità tra economia e logica del dono: la risposta è negativa, soprattutto negli ultimi anni. Infatti non possiamo paragonare il capitalismo italiano degli anni Ottanta con quello odierno.

Ragioniamo sul finanziamento del no-profit, che oggi è finanziato per un 50% dalle multinazionali del gioco dell’azzardo. Il dono è il cuore dell’economia occidentale, e per capirlo dobbiamo riprendere la Bibbia, per la precisione il libro di Giobbe, dove si ragiona sulla logica retributiva. Proseguendo nell’analisi storica, possiamo fare un salto in avanti arrivando al periodo della Riforma, dove la logica del dono fu uno dei motivi di scissione. Arrivando al mondo contemporaneo, la dimostrazione che la logica del dono attualmente non esiste è l’analisi dei temi neomanageriali, basati sulla grande spinta motivazionale del giovane, sottoposto a trattamenti economici talvolta imbarazzanti, e la logica dell’incentivo, dove l’impiegato nonostante sia assunto con regolare contratto necessita di un incentivo per dare il meglio di sé.

Questo denota che il lavoratore è inteso come un asino o un mulo utile a fare lavori di fatica. Oppure, nel caso degli insegnanti, l’incentivo economico sottintende pensarli come fannulloni che altrimenti non svolgerebbero appieno il proprio lavoro. Quindi, un mondo che non accoglie l’invulnerabilità è semplicemente un mondo invivibile”.

 TERZA GIORNATA

Sabato mattina si è tenuta l’ultima sessione dedicata a “Dialogo: l’uomo, tra Oriente e Occidente”, moderata da Simone Morandini, dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia, che ha introdotto gli intereventi di Massimo Raveri, dell’Università Ca’ Foscati di Venezia, Svamini Hamsananda Giri, dell’Unione Induista Italiana e di Osvaldo Santi, dell’Unione Buddista Italiana. Un confronto franco attraversato dalla domanda su come è visto l’uomo nelle tradizioni religiose orientali.

“Nella loro radicale alterità, le religioni orientali sfidano la crisi dell’Occidente”, ha esordito Raveri, che si è soffermato sul buddismo giapponese, per il quale “il mio io non ha alcuna consistenza ontologica”. Sta qui la “radicale differenza con il cristianesimo: alla fine dello svuotamento interiore, che per il cristianesimo è la kenosi, c’è la relazione con Dio, mentre nel buddismo c’è l’illuminazione del vuoto”. “È un errore considerare l’induismo politeista”. A spiegarlo, è stata Hamsananda Giri, monaca induista, che ha ricordato come l’induismo sia “una religione poliedrica, una filosofia di vita per cui nessuna verità è esclusa, ma viene accettata come tale”. Per l’induismo, cioè, “la verità è una, ma i saggi la chiamano, la invocano in molteplici nomi”. “Le religioni – ha concluso – devono essere sorelle: non si fanno concorrenza, devono sedersi intorno a un tavolo per ascoltare e arricchirsi delle reciproche differenze”. Osvaldo Santi ha sottolineato la dimensione dell’ascolto e della ricerca. “Dialogare vuol dire crescere di più nella propria spiritualità. Quando facciamo un percorso insieme, le differenze sono notevoli, ma ascoltare quanto mi viene detto mi fa crescere nella mia fede religiosa e comprenderla ancora di più”.

La sessione si è conclusa con l’esperienza di dialogo con l’Oriente vissuta accanto a don Luigi Giussani da Ambrogio Pisoni, delegato dell’Arcidiocesi di Milano per il dialogo con le religioni orientali.

LE CONCLUSIONI

Partecipare per esprimere le nostre idee per il futuro della nostra comunità, della Chiesa e della società. Questo è chiesto ai delegati nazionali al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze che sarà, lo ha anticipato Adriano Fabris concludendo a Perugia il primo dei tre Laboratori di studio in preparazione a Firenze.

Il Convegno di Firenze, ha detto Fabris, “non sarà un convegno in cui c’è solo l’ascolto ma un laboratorio di pensiero” in cui i delegati lavoreranno in piccoli gruppi e la partecipazione sarà “aperta” anche a chi non potrà essere presente grazie all’interattività sperimentata in queste giornate di Perugia trasmesse in streaming e commentate in diretta su Twitter e su Facebook.

Firenze, ha aggiunto, vuole esprimere  “idee per il futuro” percorrendo le “due vie” sperimentate a Perugia, quella del dialogo con le scienze umane quali l’economia, la sociologia, la filosofia, e quella del dialogo con le religioni.

Tutti i relatori del Laboratorioperugino sono stati invitati a confrontarsi con la parola fraternità, la cenerentola delle tre parole-manifesto della Rivoluzione francese, messa tra parentesi, dimenticata nell’Ottocento e nel Novecento. Nelle giornate di Perugia, ha detto Fabris, docente di Teologia morale all’Università di Pisa, “le scienze umane ci hanno detto che la fraternità è fondamentale per uscire dalla crisi perché la fraternità è un’esigenza dell’uomo in quanto essere umano e non in quanto essere umano religioso, e ce lo hanno detto, per esempio, con la categoria del dono”.

Nel dialogo, ha aggiunto Fabris, qui a Perugia “sia gli esponenti delle religioni monoteiste, sia quelli delle religioni orientali ci hanno testimoniato che le religioni pur nelle difficoltà di un incontro tra molte tradizioni diverse e differenze linguaggi, hanno in loro stesse una tensione verso l’elemento della fraternità”. Rimettere al centro questa parola ha portato i relatori a dire cosa è l’uomo, e è emerso chiaramente che l’essere umano non è quell’individuo isolato che si mette in relazione con gli altri se e come vuole, come lo pensa gran parte della cultura contemporanea, ma è “un essere in relazione” che cresce, si forma, si esprime in relazione con gli altri, con l’ambiente, con l’Altro. “Siamo fratelli non lo ha detto Robespierre”, ha detto Fabris a sottolineare la necessità di “riappropriarsi delle parole proprie del cattolicesimo, che gli sono state scippate o che rischiano di essere distorte da altri ambienti e altri settori”.

“Noi cristiani abbiamo il dovere di riproporre la fraternità, in un contesto sociale improntato a ben altri valori”. Lo ha detto il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, portando il saluto conclusivo ai convegnisti. “Mi ha fatto piacere – ha aggiunto – che in queste tre giornate il tema del dialogo abbia avuto il suo giusto spazio, sia come riflessione teorica, ma anche come incontro reale tra persone di diverse convinzioni, ma con la certezza che al centro deve essere sempre messo, e oggi in particolare deve tornare ad essere, l’uomo”. Il Cardinale ha detto poi di aver trovato “molto interessanti” le due proposte fatte da mons. Piero Coda della “istituzione di un gruppo di lavoro sui tre monoteismi” che possa essere “spazio di incontro reale e di apertura a un nuovo umanesimo del dialogo” e poi “l’attivazione di un’assemblea interreligiosa, per mettere al centro l’uomo e il suo desiderio di assoluto”.

Don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei Ecumenismo e dialogo, ha invitato a chiudere i lavori con “un momento di dialogo particolare: un minuto di silenzio in cui essere uniti “nella preghiera anche se non con le stesse parole”.

 

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Le religioni sanno ancora dialogare https://www.lavoce.it/le-religioni-sanno-ancora-dialogare/ Fri, 08 May 2015 11:39:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=32960 Egitto: cristiani e musulmani manifestano insieme
Egitto: cristiani e musulmani manifestano insieme

È in corso a Perugia (dal 7 al 9 maggio) il primo dei tre “Laboratori” di preparazione al Convegno ecclesiale di Firenze. Il laboratorio ha per tema “Dalla solidarietà alla fraternità: identità, estraneità e relazioni per un nuovo umanesimo”. L’evento è organizzato dall’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, dal dipartimento di Filosofia – scienze sociali – umane e della formazione dell’Università di Perugia, dalla Commissione politiche sociali e lavoro della Conferenza episcopale umbra e dall’Istituto teologico di Assisi. La sede del convegno è l’auditorium del Centro congressi della Figc (strada di Prepo 2).

Quattro le sessioni di lavoro su tre giornate, 9 tavole rotonde, più la conclusione finale di Adriano Fabris, un cardinale (Gualtiero Bassetti di Perugia) e un vescovo (Domenico Cancian di Città di Castello) tra i 29 relatori, di cui 22 sono docenti universitari impegnati soprattutto in atenei laici.

Un convegno reale e virtuale: è possibile seguire tutte le relazioni in diretta streaming collegandosi al sito www.firenze2015.it, ed è possibile rivolgere domande ai relatori (che saranno raccolte e lette in diretta prima del dibattito post-relazione) twittando @Firenze2015 o inviando email a redazione@firenze2015.it.

Diamo la parola a don Cristiano Bettega, sacerdote trentino di 48 anni, che dal settembre 2013 guida per la Cei l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.

Quanto è difficile occuparsi di ecumenismo e di dialogo interreligioso con la strage di Parigi stampata negli occhi e le minacce continue dell’Is?

“Spesso i media ci fanno credere che in varie parti del mondo e con certe culture sia impossibile il dialogo interreligioso. Leggevo su Avvenire del 6 maggio che, se da una parte sta emergendo il dramma di Aleppo in Siria, dall’altra parte un frate francescano che vive lì racconta che islamici e cristiani convivono in ottimi rapporti. La questione è spinosa, ma vorrei presentare l’immagine della rosa: ha il gambo spinoso, ma il fiore è bello, vario, profumato. Credo che la stessa cosa valga per il dialogo con l’altro, non solo inteso in ottica di cultura religiosa. Nella storia ci sono sempre stati episodi di contrasto e a volte di conflitto tra la visione che vuole distruggere l’altro e la logica che porta ad avvicinarsi all’altro, scoprendone il positivo”.

Come reagisce il mondo cattolico nei confronti del suo lavoro?

“Stiamo vivendo un periodo eccezionale perché i fatti di cronaca pongono ogni giorno il dialogo interreligioso. Parlando della ricezione di tale dialogo, a prescindere dai fatti attuali, direi che nelle Chiese locali trovo un interesse parcellizzato, ovvero ci sono persone più vicine all’approfondimento e altre che hanno reazioni più ‘contaminate’ dalle visioni mediatiche. Va sottolineato il dato che diocesi molto grandi hanno personalità preparate per occuparsi a tempo pieno di tali tematiche, mentre diocesi più piccole sono meno strutturate. Soprattutto in questi casi diventa fondamentale valorizzare il magistero di Papa Francesco, che sta dicendo le stesse cose di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma utilizzando una gestualità più capace di provocare la Chiesa. Se non ci siamo ancora lasciati provocare abbastanza dai gesti di Francesco, credo che il problema sia soltanto il tempo – ancora poco – trascorso dall’inizio del suo magistero, che è già denso di momenti forti, come la visita a Lampedusa e a Istanbul”.

Come avete impostato il percorso del laboratorio di Perugia?

“Ci siamo sentiti interrogati sulla figura di Gesù e il nuovo umanesimo, intendendo il termine ‘nuovo’ come propositivo nei tempi in cui viviamo. Abbiamo cercato di passare la visione di un umanesimo capace di dire qualcosa di buono per l’uomo di oggi, capendone le varie declinazioni che può assumere, dal punto di vista laico-filosofico e interreligioso, approfondendo i punti di contatto tra le tre religioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islam) e tra queste e le principali religioni orientali (buddismo e induismo)”.

Evento interattivo

Il Convegno ecclesiale nazionale che si terrà a Firenze nel prossimo novembre si annuncia come un convegno fortemente interattivo, seguendo il solco dell’Era digitale nella quale la Chiesa ha già trovato ampiamente la propria dimensione. “Perugia – sottolinea padre Giulio Michelini, membro della Giunta nazionale del Convegno – è fondamentale per sperimentare una modalità di coinvolgimento digitale dei fedeli che ci seguono a distanza: oltre alla diretta streaming su www.firenze2015.it, è possibile l’interazione diretta attraverso l’account twitter @Firenze2015 e l’email redazione@firenze2015.it”.

06/05/2015 – Foto Andrea Coli

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C’è chi emigra e chi va in letargo https://www.lavoce.it/ce-chi-emigra-e-chi-va-in-letargo/ Fri, 17 Apr 2015 09:50:59 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31542 Solo la primavera riesce a dare un segnale diffuso di risurrezione e di vita. Una serie di iniziative culturali e pastorali hanno rimesso in moto persone e comunità. Alle liturgie del tempo pasquale che si sono protratte a lungo – essendo state celebrate due date di Pasqua, il 5 aprile per i cattolici e il 12 per gli ortodossi – si sono aggiunti eventi in moltissimi centri. Cito per tutti il Festival di scienza e filosofia di Foligno, la Festa delle famiglie di Spoleto, il Festival del giornalismo a Perugia. Una di tali iniziative mi ha sollecitato una riflessione sull’attualità e i problemi che ci travagliano: quelli delle migrazioni. Sabato 18 aprile al Museo della migrazione di Gualdo Tadino si apre una mostra che riguarda l’emigrazione italiana all’estero, e si celebra l’XI edizione di un concorso sul tema, volto a lumeggiare gli addii, gli incontri e gli scontri degli italiani che si sono recati in un Paese straniero in cerca di una vita migliore. Un’ottima iniziativa che si arricchisce ogni anno di più di documenti e ricordi.

Questo tema, che ci riguarda per il passato e per altri aspetti anche per il presente (i giovani e i “cervelli” che vanno all’estero) ci rimanda alle tragiche vicende del Mediterraneo e alla minaccia di un’‘invasione’ che si annuncia per i prossimi mesi e che ha tutta l’aria di una catastrofe. Mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, questa mattina (mercoledì 15) nella sala dei Notari di Perugia ha detto che nel Mediterraneo in questi anni si calcola che siano morte oltre 30 mila persone. Dovrebbe essere un mare che unisce le coste, anzi “il mare di Dio” è stato chiamato – sempre secondo Mogavero – perché vi si affacciano le tre grandi religioni monoteistiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. Ha ricordato che in altri tempi, anche se non sono mancate le lotte, era possibile la convivenza, tanto che a Palermo si parlavano 4 lingue e si redigevano documenti in ebraico, in greco, in latino e in arabo.

Anche oggi sarebbe possibile tale convivenza in una situazione di flussi moderati e normali di migranti, come avviene a Mazara dove i ragazzi che vanno a scuola o all’oratorio non avvertono come ostacolo la diversa religione e non sentono come un problema le differenze culturali, che vengono mediate dalla scuola e dal vivere sociale. Tutto ciò che ha detto mons. Mogavero è positivo e incoraggiante. Ma appena usciti dalla sala, aperti i computer, tablet e cellulari vari, abbiamo saputo delle uccisioni, delle ragazze rapite, delle fosse comuni, dei cristiani uccisi come tali e perché tali; e abbiamo letto minacciose e tracotanti profezie di invasione e di strage. Per arrivare alla situazione prefigurata dal Vescovo di Mazara si dovrà risolvere il fenomeno della migrazione selvaggia e di massa, lasciata in mano a commercianti di vite umane senza scrupoli. Lo si dovrà fare con mezzi adeguati, che non sono le buone parole e neppure le condanne verbali a scopo elettorale, ma decisivi interventi proporzionati alle emergenze umanitarie e della salvaguardia della minima condizione di sopravvivenza dell’ordine sociale. Le migrazioni provocano conseguenze catastrofiche come una guerra, è stato detto in passato, quando ancora si trattava di un fenomeno molto più ristretto. Ora tutto ciò è esploso con la crisi dei Paesi a maggioranza e ‘conduzione’ musulmana, e con la deriva fondamentalista e fanatica di correnti diffuse di terrorismo pseudo-teologico. A Mazara si è resa possibile una convivenza perché vi è una Chiesa e una cultura che ha per fondamento l’accettazione dell’altro, chiunque sia, e l’accoglienza del diverso nel rispetto della sua libertà di coscienza.

Questo non sarà mai possibile in un contesto culturale in cui predomina il disprezzo degli altri, e persino di opere artistiche e archeologiche che hanno segnato la storia dell’umanità. C’è strada da fare per tutti, a cominciare da chi ha in mano le sorti dei popoli – Europa, Onu, Stati ricchi, commercianti di armi – che sembrano piombati in un profondo e cinico letargo.

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Il salutare “scandalo” della Misericordia https://www.lavoce.it/il-salutare-scandalo-della-misericordia/ Thu, 16 Apr 2015 09:51:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31501 “San Francesco di fronte al Crocifisso” (Assisi, basilica)
“San Francesco di fronte al Crocifisso” (Assisi, basilica)

Misericordiae vultus: si apre con queste parole la bolla di indizione dell’Anno santo straordinario voluto da Papa Francesco. Un Volto che, come lui stesso insegnò durante la visita all’Istituto Serafico di Assisi, non è misericordioso nel senso di “innocuo” ma è il volto del Crocifisso, scandalo per il mondo edonista e superficiale, e scandalo addirittura per la Chiesa. “Gesù Cristo – scrive Papa Bergoglio – è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, ‘ricco di misericordia’ (Ef 2,4), dopo aver rivelato il Suo nome a Mosè come ‘Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà’ (Es 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la Sua natura divina. Nella pienezza del tempo (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il Suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il Suo amore. Chi vede Lui vede il Padre (cfr Gv 14,9). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio”.

Se questo vale per Dio, di conseguenza vale anche per la Chiesa: “L’architrave – scrive il Pontefice al n. 10 – che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole”. Quindi un mea culpa, meno tragico dei mea culpa espressi da altri Papi, ma si tratta di un “male della Chiesa” la cui gravità consiste proprio nella sua diffusione a macchia d’olio: “Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa… Senza la testimonianza del perdono, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale, per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza”.

Il cammino di conversione per tornare dal Padre misericordioso, come fece il “figliol prodigo”, è per definizione il pellegrinaggio. Il quale (n. 14) “è un segno peculiare nell’Anno santo, perché è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza… Attraversando la Porta santa, ci lasceremo abbracciare dalla misericordia di Dio e ci impegneremo a essere misericordiosi con gli altri come il Padre lo è con noi”.

È lo stesso Gesù a indicare le tappe: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,37-38). “Misericordiosi come il Padre, dunque, è il ‘motto’ dell’Anno santo. Nella misericordia abbiamo la prova di come Dio ama. Egli dà tutto se stesso, per sempre, gratuitamente, e senza nulla chiedere in cambio. Viene in nostro aiuto quando lo invochiamo… Egli viene a salvarci dalla condizione di debolezza in cui viviamo. E il Suo aiuto consiste nel farci cogliere la Sua presenza e la Sua vicinanza”.

Poi, un riagganciarsi al tema-chiave che ha segnato il suo pontificato fin dai primordi (n. 15): “In questo Anno santo potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge!”.

Infine, c’è la dimensione del dialogo interreligioso. “La misericordia – spiega il Santo Padre – possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio. (…) Questo Anno Giubilare vissuto nella misericordia possa favorire l’incontro con queste religioni e con le altre nobili tradizioni religiose; ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione”.

Avrà successo, il Giubileo? Il Papa fornisce un metodo di controllo: “È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della Misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo, o no, come suoi discepoli”.

 

Calendario dell’anno santo: Date ed eventi speciali 

L’Anno santo della Misericordia si aprirà l’8 dicembre prossimo, solennità dell’Immacolata Concezione, nel 50° della conclusione del Concilio Vaticano II. Non si tratta di pura casualità: cinquant’anni fa la chiusura del Concilio segnava una nuova stagione per la Chiesa, che tornava ad aprirsi verso il mondo.

La domenica successiva, 13 dicembre, verrà aperta la Porta santa nella “cattedrale di Roma”, la basilica di San Giovanni in Laterano. Successivamente, si aprirà la Porta santa nelle altre basiliche papali. “Nella stessa domenica – prosegue Bergoglio – stabilisco che in ogni Chiesa particolare, nella cattedrale… oppure nella concattedrale o in una chiesa di speciale significato, si apra per tutto l’Anno santo una uguale porta della Misericordia”.

Il Giubileo straordinario si concluderà nella solennità di Cristo Signore dell’universo, 20 novembre 2016. Speciale rilievo avrà il periodo di Quaresima 2016, da vivere “più intensamente come momento forte per celebrare e sperimentare la misericordia di Dio”.

In particolare, il Papa ripropone l’iniziativa “24 ore per il Signore”, “da celebrarsi nel venerdì e sabato che precedono la IV domenica di Quaresima, è da incrementare nelle diocesi. Tante persone si stanno riavvicinando al sacramento della riconciliazione, e tra questi molti giovani, che in tale esperienza ritrovano spesso il cammino per ritornare al Signore, per vivere un momento di intensa preghiera e riscoprire il senso della propria vita”.

Inoltre, sempre in Quaresima “ho l’intenzione di inviare i missionari della Misericordia… Saranno sacerdoti a cui darò l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede apostolica, perché sia resa evidente l’ampiezza del loro mandato. Saranno soprattutto segno vivo di come il Padre accoglie quanti sono in ricerca del Suo perdono”.

 

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Il peso mortale delle piume https://www.lavoce.it/il-peso-mortale-delle-piume/ Fri, 16 Jan 2015 13:11:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=29844 Moscati

[caption id="attachment_29847" align="alignleft" width="299"]Il rabbino Cesare Moscati con don Elio Bromuri Il rabbino Cesare Moscati con don Elio Bromuri[/caption] Un uomo ne aveva calunniato un altro, ma poi si pentì, andò da lui e gli disse che, per farsi perdonare, avrebbe fatto tutto quello che voleva. L'altro gli chiese di trasportare un sacco pieno di piume fin su una montagna; arrivati in cima, gli ordinò di svuotare il sacco al vento. Poi gli disse: “E adesso va' a riprendere le piume una per una!”. Questo midrash è stato raccontato al Centro ecumenico di Perugia il 15 gennaio dal rav (rabbino) Cesare Moscati di Roma, invitato in occasione della 19a Giornata del dialogo ebraico-cristiano, che quest'anno aveva per tema il Comandamento “Non dire falsa testimonianza”. O meglio, come ha precisato Moscati: “Qui non mi sento affatto un ospite invitato, ma uno degli appartenenti al Centro ecumenico. In nessun altro luogo, a parte Roma, ho tenuto così tanti incontri di questo tipo nel corso degli anni”. A causa della diversa suddivisione del testo del Decalogo, come è noto, quello che per i cristiani è l'ottavo Comandamento, per gli ebrei è la nona Parola (la decima unifica i due divieti di desiderare). “Letteralmente – ha spiegato il rav – il testo ebraico andrebbe tradotto: Non rispondere al tuo amico, al tuo prossimo, come falso testimone. Anzitutto, si parla di testimone, non di testimonianza; ciò che conta di più non è il fatto ma la persona, che deve possedere i requisiti del vero testimone. Una persona può essere la più sincera del mondo e affermare qualcosa che in sé è anche vero, ma, se conosce il fatto solo per sentito dire, non direttamente, allora non può testimoniare. Si tratta infatti di un atto dalle enormi conseguenze, con effetti che durano nel tempo, come suggerisce anche l'assonanza tra i termini ebraici hed (testimone) e hod (finché...)”. Da notare che i Comandamenti sono elencati sia nel libro dell'Esodo sia in quello del Deuteronomio, con alcune sottili differenze. Nel caso del comandamento in esame, il Deuteronomio non proibisce la parola “falsa” ma quella “inutile, vana, senza motivo”. Inutile, ad esempio, è una testimonianza in cui vi sia una persona sola, dato che, per arginare il rischio di calunnie, la Bibbia esige che ci si presenti in tribunale almeno in due. “Questo – ha precisato Moscati – era l'unico metodo, millenni fa. Oggi a corroborare le testimonianze possono anche intervenire, ad esempio, le immagini delle telecamere o gli esami del Dna. Ma ancora una volta, ciò che viene ribadita è la gravità della calunnia. Se i precedenti Comandamenti affermavano semplicemente: non uccidere, ecc., qui e solo qui si aggiunge: non fare questo al tuo prossimo. Come a dire: è evidente da sé che l'omicidio o il furto procura il male al prossimo, ma attenzione che anche la parola falsa lo fa”. Non poteva mancare, negli scambi tra il relatore e il pubblico, qualche commento sulla recente tragedia di Parigi. “Tutti – ha detto il rav – adesso dicono Io sono Charlie, però pochi ricordano che a Parigi sono stati uccisi anche degli ebrei, e non perché avessero detto qualcosa di offensivo, ma semplicemente perché erano ebrei. Di fronte all'estremismo islamista, oggi ebrei e cristiani si trovano nella stessa barca. Questo dovrebbe rafforzare l'unità tra loro, ma anche con i musulmani moderati, che vengono considerati alla stregua degli infedeli dai terroristi. Sono d'accordo con quanto ha affermato Papa Francesco: nessuno può uccidere in nome di Dio! Nella tradizione ebraica, la sesta Parola (quinto Comandamento) è speculare alla prima: non uccidere, perché credere in Dio significa riconoscere la Sua immagine nell'uomo”.  ]]>
Moscati

[caption id="attachment_29847" align="alignleft" width="299"]Il rabbino Cesare Moscati con don Elio Bromuri Il rabbino Cesare Moscati con don Elio Bromuri[/caption] Un uomo ne aveva calunniato un altro, ma poi si pentì, andò da lui e gli disse che, per farsi perdonare, avrebbe fatto tutto quello che voleva. L'altro gli chiese di trasportare un sacco pieno di piume fin su una montagna; arrivati in cima, gli ordinò di svuotare il sacco al vento. Poi gli disse: “E adesso va' a riprendere le piume una per una!”. Questo midrash è stato raccontato al Centro ecumenico di Perugia il 15 gennaio dal rav (rabbino) Cesare Moscati di Roma, invitato in occasione della 19a Giornata del dialogo ebraico-cristiano, che quest'anno aveva per tema il Comandamento “Non dire falsa testimonianza”. O meglio, come ha precisato Moscati: “Qui non mi sento affatto un ospite invitato, ma uno degli appartenenti al Centro ecumenico. In nessun altro luogo, a parte Roma, ho tenuto così tanti incontri di questo tipo nel corso degli anni”. A causa della diversa suddivisione del testo del Decalogo, come è noto, quello che per i cristiani è l'ottavo Comandamento, per gli ebrei è la nona Parola (la decima unifica i due divieti di desiderare). “Letteralmente – ha spiegato il rav – il testo ebraico andrebbe tradotto: Non rispondere al tuo amico, al tuo prossimo, come falso testimone. Anzitutto, si parla di testimone, non di testimonianza; ciò che conta di più non è il fatto ma la persona, che deve possedere i requisiti del vero testimone. Una persona può essere la più sincera del mondo e affermare qualcosa che in sé è anche vero, ma, se conosce il fatto solo per sentito dire, non direttamente, allora non può testimoniare. Si tratta infatti di un atto dalle enormi conseguenze, con effetti che durano nel tempo, come suggerisce anche l'assonanza tra i termini ebraici hed (testimone) e hod (finché...)”. Da notare che i Comandamenti sono elencati sia nel libro dell'Esodo sia in quello del Deuteronomio, con alcune sottili differenze. Nel caso del comandamento in esame, il Deuteronomio non proibisce la parola “falsa” ma quella “inutile, vana, senza motivo”. Inutile, ad esempio, è una testimonianza in cui vi sia una persona sola, dato che, per arginare il rischio di calunnie, la Bibbia esige che ci si presenti in tribunale almeno in due. “Questo – ha precisato Moscati – era l'unico metodo, millenni fa. Oggi a corroborare le testimonianze possono anche intervenire, ad esempio, le immagini delle telecamere o gli esami del Dna. Ma ancora una volta, ciò che viene ribadita è la gravità della calunnia. Se i precedenti Comandamenti affermavano semplicemente: non uccidere, ecc., qui e solo qui si aggiunge: non fare questo al tuo prossimo. Come a dire: è evidente da sé che l'omicidio o il furto procura il male al prossimo, ma attenzione che anche la parola falsa lo fa”. Non poteva mancare, negli scambi tra il relatore e il pubblico, qualche commento sulla recente tragedia di Parigi. “Tutti – ha detto il rav – adesso dicono Io sono Charlie, però pochi ricordano che a Parigi sono stati uccisi anche degli ebrei, e non perché avessero detto qualcosa di offensivo, ma semplicemente perché erano ebrei. Di fronte all'estremismo islamista, oggi ebrei e cristiani si trovano nella stessa barca. Questo dovrebbe rafforzare l'unità tra loro, ma anche con i musulmani moderati, che vengono considerati alla stregua degli infedeli dai terroristi. Sono d'accordo con quanto ha affermato Papa Francesco: nessuno può uccidere in nome di Dio! Nella tradizione ebraica, la sesta Parola (quinto Comandamento) è speculare alla prima: non uccidere, perché credere in Dio significa riconoscere la Sua immagine nell'uomo”.  ]]>
Chi è davvero figlio di Abramo, e perché? https://www.lavoce.it/chi-e-davvero-figlio-di-abramo-e-perche/ Thu, 30 Oct 2014 14:06:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=28767 “Il viaggio di Abramo” di Jozsef Molnar
“Il viaggio di Abramo” di Jozsef Molnar

“La paternità di Abramo come presupposto del dialogo tra monoteismi”: con questo intervento intendiamo partire dall’espressione “figlio/figli di Abramo” per trattare della speciale paternità del Patriarca. In quale senso tale espressione e tale concetto viene usato nei testi delle Scritture ebraiche e cristiane, e cosa ne discende per la Cristologia e il dialogo con la religione ebraica?

Paternità umana

La paternità di Abramo può essere vista anzitutto sul piano dell’esperienza umana. In questo modo, si sottolineano immediatamente le caratteristiche che fanno di lui un modello di vita piena, “icona e testimone di profonda umanità”.

Abramo poi è anche il primo essere umano – nel racconto di Genesi – a dialogare con la propria moglie. Nella tradizione giudaica, si mette in rilievo proprio quell’apprezzamento di Abram a Sarài [o Sara, ndr], che ogni donna vorrebbe sentirsi dire dal proprio coniuge: “Tu sei una donna di aspetto avvenente” (Gen 12,11). Sarài, tra l’altro, secondo il racconto genesiaco, doveva avere ormai 65 anni (cfr. 17,17), eppure Abram la trova bellissima

Paternità spirituale

Abramo è il primo esempio di fede in Colui che sarà poi chiamato “il Dio di Abramo”, e infatti egli per primo nella Bibbia, è soggetto del verbo “credere”, nel senso di “affidarsi” a YHWH: “E Abramo credette YHWH” (Gen 15,6). Da Terach, un padre politeista iconoclasta – secondo l’interpretazione giudaica – nasce un figlio credente.

Ecco perché si può parlare di una speciale paternità di Abramo, che è tale proprio in rapporto alla fede. Abramo è modello, dunque “tipo” o, appunto, “padre” di ogni persona che abbia fede in Dio.

Paternità secondo la carne

Se Paolo ha particolarmente insistito sulla paternità spirituale, non si deve dimenticare che esiste un’altra dimensione della paternità di Abramo, relativa alla sua generatività fisica, ovvero, come scrive sempre Paolo “secondo la carne” (Rm 4,1).

Negli inni del Magnificat e del Benedictus, Gesù è presentato come “figlio di Abramo”. Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. Dobbiamo aggiungere quanto Gesù dice ai suoi interlocutori di Gerusalemme, nel capitolo 8 del Vangelo secondo Giovanni: “So che siete discendenza di Abramo” (v. 37).

Gesù, dunque, usa l’espressione “figlio/a/i di Abramo” come la userà a suo riguardo l’evangelista Matteo. È a questo tipo di discendenza secondo la carne che Matteo si riferisce all’inizio del suo Vangelo, quando parla di Gesù, “il Messia, figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1).

I due piani, quello della paternità secondo la carne e quello della fede, però, non devono essere confusi, e non solo nel caso di Gesù. Pur non accettando tutto il ragionamento di J. L. Ska (“Abramo nel Nuovo Testamento”, su La Civiltà cattolica 3613), riteniamo che la sua conclusione possa essere accolta: “Abramo ha una doppia paternità: anzitutto è padre per la fede – dei circoncisi e dei non circoncisi – ed è padre del popolo ebreo secondo la carne. Le due paternità non si escludono, ma la paternità secondo la fede precede quella secondo la carne, quindi è più importante”.

Naturalmente, questa è l’impostazione cristiana, ma si ritrova anche nelle parole profetiche del Battista, che relativizza l’importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8).

Implicazioni per il dialogo

Essere “figli di Abramo secondo la fede” è ciò che permette il dialogo tra le tre religioni monoteistiche. Ma essere “figli di Abramo secondo la carne” – categoria che pertiene all’ebraismo – è un punto di differenza, di distinzione, che non può essere assimilato ad altri o svalutato.

Solo l’Israele di Dio – quello da cui viene anche Gesù secondo la carne –, solo il popolo ebraico di oggi, quello che si autocomprende a partire dalle sue Scritture sacre, può legittimamente rivendicare una speciale discendenza. Non dovrà vantarsene, ma si dovrà partire sempre da questo punto per riconoscere che questo popolo – secondo le Scritture che accomunano ebrei (la Bibbia ebraica) e cristiani (Nuovo Testamento) – è il popolo che Dio ha scelto.

Su questa appartenenza secondo la carne può far leva ogni rivendicazione della cosiddetta “terza ricerca” su Gesù. Una delle più evidenti accentuazioni di tale ricerca è proprio quella riguardante la sua ebraicità, ovvero la sottolineatura di questo aspetto, l’appartenenza etnica al popolo di Israele, tramite la discendenza da Abramo.

“Nessuna generazione cristiana – afferma Paolo Sacchi – può alterare il dato irrinunciabile della sua ebraicità, e Gesù, nel suo percorso storico, non ha mai inteso superare l’ambito religioso del suo ebraismo: non ha mai postulato qualche cosa che lo portasse al di là di esso”.

Tale discendenza di Gesù da Abramo secondo la carne però deve essere ulteriormente specificata. Nel Nuovo Testamento, infatti, si trova un’ulteriore precisazione, quando Paolo distingue tra “i figli della carne” e non più semplicemente quelli a cui abbiamo accennato sopra, i figli secondo la fede, bensì “i figli della promessa” (Rm 9,8). Su questo punto dobbiamo essere precisi.

Anzitutto, sappiamo dall’esperienza umana che essere genitori o figli solo in senso naturale, secondo il diritto naturale, non è mai sufficiente. Una madre può dimenticarsi dei propri figli (cfr. Is 49,15), e addirittura Abramo può dimenticarsi del suo popolo (Is 63,16). Allo stesso modo, i figli possono dimenticare di essere tali: è quanto accade se ci si allontana dal Padre (cfr. parabola del “figlio prodigo”).

In secondo luogo, riprendendo l’opposizione di Paolo (Rm 9,7-8) tra figli “della carne” e “della promessa”, si deve dire che alcune spiegazioni di questo testo non sono convincenti. Dire ad esempio, come scrive Sandro Penna, che “non basta discendere fisicamente da Abramo per essere considerati suoi veri figli”, ripropone semplicemente una opposizione vero/falso (qual è l’opposto di “vero”? “Meno” vero?) che non sembra essere presente nel pensiero di Paolo. Quando l’Apostolo parla di figli della carne o della promessa, presume che essi siano comunque davvero figli.

Non basta nemmeno dire – sempre con Penna – che “Ismaele, l’altro figlio di Abramo (il primo!), fu escluso dall’eredità delle benedizioni spirituali”. Il bravo esegeta, giustamente, deve ritoccare in seguito questa affermazione specificando che “ciò non significa che Ismaele sia totalmente escluso da ogni benedizione divina, poiché al contrario egli è destinatario di alcune di esse (cfr. Gen 17,20; 21,13.18) tanto che anche a lui viene assegnata una discendenza di 12 tribù (Gen 25,13-16)”. A leggere bene la storia di Abramo, tra l’altro, si vede che il problema non riguarda solo Ismaele: Abramo ebbe, oltre al primogenito Ismaele da Agar, e Isacco da Sara, anche Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach dalla seconda moglie Keturà (Gen 21,1-2). In totale, dunque, otto figli, dei quali uno solo, però, secondo Genesi 18,10, è il figlio della promessa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.

Il paradosso

Quale teologia si potrà estrarre da una frase paolina o da testi simili che riguardano, come nella Lettera ai Galati 4,21-31, la contrapposizione tra i figli della donna libera, Agar, e quelli della schiava, nati, appunto, secondo la carne (il primo) e secondo la promessa (il secondo)?

Figli di Abramo lo si può essere al modo di coloro che vedono in lui un “padre dell’esperienza umana”; oppure come “figli nello spirito”, riconoscendo Abramo come padre nella fede, come lo sono i cristiani (e lo erano per Paolo i cristiani provenienti dai pagani); oppure “figli secondo la carne”, come lo è l’Israele popolo di Dio; oppure, ancora, “figli secondo la carne”, ma non nel senso della promessa, come lo sono i figli di Ismaele.

Davanti all’imperscrutabile volontà di un Dio che predilige i secondogeniti rispetto ai primogeniti e agli altri sei figli di Abramo, non si può stare che con una logica “paradossale”. Quella che porta, in ultima analisi, ad accettare che ogni figlio sia amato in modo differente, ma pur sempre amato, e che l’amore che il padre ha per l’altro fratello non possa essere rivendicato per sé, e nemmeno negato.

I figli della promessa, allora, quelli prediletti, non devono essere perseguitati perché sono tali, “prediletti” da Dio. È Paolo a dirlo, quando allude a un midrash relativo a Ismaele che, per il testo di Genesi 21,9, “scherzava” con Isacco; in realtà, nell’interpretazione rabbinica, gli lanciava frecce, o lo molestava (sessualmente). Non ci si può appropriare dell’amore che viene dato liberamente ad altri, ed è questo il presupposto di ogni dialogo tra fratelli.

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Papa Francesco in Terra Santa. Dove c’è sofferenza ha lasciato segni di pace https://www.lavoce.it/papa-francesco-in-terra-santa-dove-ce-sofferenza-ha-lasciato-segni-di-pace/ Fri, 30 May 2014 18:44:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=25188

Papa-betlemme-bnDiverse sono le ragioni che hanno reso straordinario il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa. È già di per sé un evento importante che Pietro sia di nuovo tornato nei luoghi da dove il primo degli apostoli era partito millenni fa, ed esattamente 50 anni dopo la visita di Paolo VI, primo tra i Papi a compiervi un pellegrinaggio (4-6 gennaio 1964). È importante che Francesco abbia voluto abbracciare l’attuale Patriarca ecumenico Bartolomeo I come già Paolo VI aveva scambiato un abbraccio di pace e di reciproca richiesta di perdono con Atenagora, connotando così il suo viaggio come un passo ulteriore nel dialogo ecumenico. Ed è stato ugualmente importante che Francesco abbia voluto incoraggiare i cristiani che vivono in Giordania, nei Territori dell’autonomia palestinese, e in Israele, sottolineando le prove che questi vivono e rivolgendosi con gratitudine anche a quei religiosi e sacerdoti (tra cui anzitutto i francescani della Custodia) che custodiscono i luoghi santi. Ma sono stati anche i fuori-programma che hanno reso le tre giornate di Francesco così speciali. Ne scegliamo due. Anzitutto, l’immagine dei due “muri”. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si erano recati al Muro occidentale (il “muro del pianto”), ribadendo una continuità non solo storica ma soprattutto teologica tra l’ebraismo e il cristianesimo. Ma solo di Papa Francesco rimarrà l’istantanea di una particolarissima preghiera davanti a un altro muro, quello che - anche fisicamente - divide lo Stato di Israele dalla Palestina, e segnala in modo evidentissimo il perdurare di un conflitto. Senza bisogno di pronunciare alcuna parola, Francesco ha posato la mano e il capo su quel blocco di cemento armato che, se da una parte difende gli israeliani da quegli attentati che creavano terrore in Terra Santa, dall’altra però provoca anche altro dolore e separazione. È proprio lì dove si perpetua ogni sofferenza - di qualsivoglia origine politica o ideologica - che Francesco ha voluto lasciare un segno non tanto di accusa, quanto piuttosto di partecipazione: per dire che lì, anche lì, dove un muro di separazione è l’esatto contrario di quanto significato da quell’altro tratto di muro (quello erodiano, che sosteneva l’antico tempio di Dio), proprio lì deve essere annunciato il Vangelo della mitezza, della pace, del perdono. Poi le parole e i gesti allo Yad Vashem. Anche altri Papi avevano pronunciato discorsi al museo della Memoria dello sterminio degli ebrei. Rispetto a quanto aveva detto Papa Ratzinger l’11 maggio 2009 al mausoleo della Shoah (“Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose e imperscrutabili vie”), o ancor prima al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006, centrando soprattutto la questione su Dio e la domanda sulla Sua assenza (“Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”), Papa Francesco ha aggiunto un’ulteriore prospettiva. La domanda di Papa Benedetto veniva da molto lontano, e si era fatta strada già nella seconda metà dello scorso secolo, anche grazie a ebrei come Elie Wiesel o Emil Fackenheim e Martin Buber, o cattolici come il teologo Johann Baptist Metz, i quali ritenevano che, dopo Auschwitz, la teologia dovesse cambiare, anzi era già totalmente cambiata. Ma quella domanda necessitava anche di un’ulteriore sguardo, colto questa volta da Bergoglio. Alla domanda su dove fosse Dio, deve essere affiancata quella sull’uomo. Il teologo Metz scriveva proprio così: “La questione teologica, dopo Auschwitz, non è solo: dov’era Dio ad Auschwitz? È anche: dov’era l’umanità ad Auschwitz? Questa catastrofe ha spezzato le fasce di solidarietà fra tutti coloro che hanno un volto umano”. Papa Francesco ha completato con il suo viaggio la drammatica riflessione che sta svolgendo con tutto il suo magistero a riguardo delle marginalità e le periferie dell’esistenza umana. Ha fatto risuonare a Gerusalemme anche la domanda all’uomo, la domanda originaria che Dio gli rivolge, e che non cessa di interpellare tutti nelle nostre responsabilità: “In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: ‘Adamo, dove sei?’. In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: ‘Dove sei?’, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo”. A coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto e sono stati presentati al Papa allo Yad Vashem, Francesco ha baciato le mani, imprimendo con quel gesto, per sempre, tutto quanto si poteva dire o domandare: a Dio e all’Uomo.]]>

Papa-betlemme-bnDiverse sono le ragioni che hanno reso straordinario il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa. È già di per sé un evento importante che Pietro sia di nuovo tornato nei luoghi da dove il primo degli apostoli era partito millenni fa, ed esattamente 50 anni dopo la visita di Paolo VI, primo tra i Papi a compiervi un pellegrinaggio (4-6 gennaio 1964). È importante che Francesco abbia voluto abbracciare l’attuale Patriarca ecumenico Bartolomeo I come già Paolo VI aveva scambiato un abbraccio di pace e di reciproca richiesta di perdono con Atenagora, connotando così il suo viaggio come un passo ulteriore nel dialogo ecumenico. Ed è stato ugualmente importante che Francesco abbia voluto incoraggiare i cristiani che vivono in Giordania, nei Territori dell’autonomia palestinese, e in Israele, sottolineando le prove che questi vivono e rivolgendosi con gratitudine anche a quei religiosi e sacerdoti (tra cui anzitutto i francescani della Custodia) che custodiscono i luoghi santi. Ma sono stati anche i fuori-programma che hanno reso le tre giornate di Francesco così speciali. Ne scegliamo due. Anzitutto, l’immagine dei due “muri”. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si erano recati al Muro occidentale (il “muro del pianto”), ribadendo una continuità non solo storica ma soprattutto teologica tra l’ebraismo e il cristianesimo. Ma solo di Papa Francesco rimarrà l’istantanea di una particolarissima preghiera davanti a un altro muro, quello che - anche fisicamente - divide lo Stato di Israele dalla Palestina, e segnala in modo evidentissimo il perdurare di un conflitto. Senza bisogno di pronunciare alcuna parola, Francesco ha posato la mano e il capo su quel blocco di cemento armato che, se da una parte difende gli israeliani da quegli attentati che creavano terrore in Terra Santa, dall’altra però provoca anche altro dolore e separazione. È proprio lì dove si perpetua ogni sofferenza - di qualsivoglia origine politica o ideologica - che Francesco ha voluto lasciare un segno non tanto di accusa, quanto piuttosto di partecipazione: per dire che lì, anche lì, dove un muro di separazione è l’esatto contrario di quanto significato da quell’altro tratto di muro (quello erodiano, che sosteneva l’antico tempio di Dio), proprio lì deve essere annunciato il Vangelo della mitezza, della pace, del perdono. Poi le parole e i gesti allo Yad Vashem. Anche altri Papi avevano pronunciato discorsi al museo della Memoria dello sterminio degli ebrei. Rispetto a quanto aveva detto Papa Ratzinger l’11 maggio 2009 al mausoleo della Shoah (“Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose e imperscrutabili vie”), o ancor prima al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006, centrando soprattutto la questione su Dio e la domanda sulla Sua assenza (“Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”), Papa Francesco ha aggiunto un’ulteriore prospettiva. La domanda di Papa Benedetto veniva da molto lontano, e si era fatta strada già nella seconda metà dello scorso secolo, anche grazie a ebrei come Elie Wiesel o Emil Fackenheim e Martin Buber, o cattolici come il teologo Johann Baptist Metz, i quali ritenevano che, dopo Auschwitz, la teologia dovesse cambiare, anzi era già totalmente cambiata. Ma quella domanda necessitava anche di un’ulteriore sguardo, colto questa volta da Bergoglio. Alla domanda su dove fosse Dio, deve essere affiancata quella sull’uomo. Il teologo Metz scriveva proprio così: “La questione teologica, dopo Auschwitz, non è solo: dov’era Dio ad Auschwitz? È anche: dov’era l’umanità ad Auschwitz? Questa catastrofe ha spezzato le fasce di solidarietà fra tutti coloro che hanno un volto umano”. Papa Francesco ha completato con il suo viaggio la drammatica riflessione che sta svolgendo con tutto il suo magistero a riguardo delle marginalità e le periferie dell’esistenza umana. Ha fatto risuonare a Gerusalemme anche la domanda all’uomo, la domanda originaria che Dio gli rivolge, e che non cessa di interpellare tutti nelle nostre responsabilità: “In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: ‘Adamo, dove sei?’. In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: ‘Dove sei?’, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo”. A coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto e sono stati presentati al Papa allo Yad Vashem, Francesco ha baciato le mani, imprimendo con quel gesto, per sempre, tutto quanto si poteva dire o domandare: a Dio e all’Uomo.]]>
Incontro di Sant’Egidio: dalle religioni, “no” al terrorismo https://www.lavoce.it/incontro-di-santegidio-dalle-religioni-no-al-terrorismo/ Thu, 10 Oct 2013 12:33:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=20010 Chiusura dell’incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio
Chiusura dell’incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio

Grande spazio ha avuto il tema del terrorismo religioso in questa 27a edizione dell’Incontro internazionale per la pace promosso a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio. I numeri: 250 tavole rotonde con relatori di 60 Paesi del mondo e una partecipazione di oltre 10 mila persone. Ha usato parole ferme di condanna al terrorismo e all’uso della violenza il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso: “La violenza, specialmente quella armata, è la sintesi di tutti i mali. Con la violenza, subito l’amico di ieri diventa il nemico di oggi. I riferimenti morali scompaiono e l’uomo diventa peggio di un animale. È sempre una sconfitta dell’umanità”. Ad ascoltarlo ci sono esponenti dell’ebraismo mondiale (in prima fila è seduto anche il rabbino di Buenos Aires, Abraham Skorka, amico di Papa Francesco), esponenti dell’islam e intellettuali, ma anche moltissimi studenti delle scuole romane in una sala strapiena dell’università Urbaniana. “Esistono varie forme di violenza – ha aggiunto -. Rimane senza dubbio che la forma più drammatica di violenza è il terrorismo, che ha la capacità di distruggere intere popolazioni con armi sempre più sofisticate”. La Chiesa cattolica guarda con preoccupazione e ha sempre condannato il terrorismo, soprattutto se di matrice religiosa, perché – ha detto il cardinale – “il nome di Dio è il nome della pace” e “in tutte le religioni, anche se con sfumature diverse, esiste un capitale di valori che può essere messo a servizio della giustizia, della pace, della fratellanza e della prosperità”. La scommessa per il futuro, ha quindi suggerito Tauran, si gioca tutta sui giovani, a partire dal ruolo pedagogico che possono svolgere scuole e università. Perché “la violenza si annida anche in ognuno di noi. Sia la guerra sia la pace iniziano nel cuore dell’uomo: dobbiamo lottare per evitare che la paura dell’altro e il timore del diverso abbiano il sopravvento sulla fiducia”.

Forte la testimonianza dell’intellettuale indiano Sudheendra Kulkarni, il quale ha ricordato che il Pakistan negli ultimi anni “è stato e continua a essere vittima di migliaia di morti causate dal terrorismo religioso”. Brucia ancora il ricordo dell’attentato kamikaze nella chiesa anglicana All Saints di Peshawar dove hanno perso la vita 85 uomini, donne e bambini, solo perché stavano frequentando la liturgia della domenica. “I terroristi – ha detto Kulkarni -, che commettono crimini in nome di Dio e credono che Dio sia solo dalla loro parte, generano innanzitutto divisioni nefaste all’interno dei loro stessi mondi religiosi”. Gli ha fatto eco Muhammad Khalid Masud, membro della Corte suprema del Pakistan, dicendo: “Il terrorismo religioso ha come fondamento che ciascun terrorista crede che Dio sia esclusivamente dalla sua parte. Ma i credenti si domandano innanzitutto come essere loro stessi dalla parte di Dio, che non vuole si usi violenza, piuttosto che invocare l’esclusiva presenza di Dio dalla loro parte”. Ha quindi ragione il teologo cattolico Armand Puig i Tàrrech, preside della Facoltà teologica della Catalogna (Barcellona), quando afferma: “Il terrorismo messo in atto invocando il nome di Dio è un attacco alle convinzioni di tanti uomini e donne che condividono la fede degli assassini, ma è anche un’aggressione a ogni credente”. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, ha sintetizzato la questione in conferenza stampa: “La lotta al terrorismo è una lotta religiosa. Non si tratta di accusare le religioni”. E non si tratta di andare al “grembo delle religioni” per verificare come e quando “nasce la logica del terrorismo”. Occorre piuttosto “riproporre l’immagine di dialogo, l’immagine delle religioni insieme, che vale nella lotta al terrorismo in maniera profonda… Perché le religioni? Perché l’uomo religioso, di fronte alla morte dei bambini e alla distruzione di un Paese, non si rassegna al fatto che non ci siano soluzioni. L’impossibile non esiste per l’uomo di fede. Del resto, la storia è piena di sorprese”.

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Nel cuore dell’estate https://www.lavoce.it/metti-abat-jour-4/ Thu, 29 Aug 2013 16:29:22 +0000 https://www.lavoce.it/?p=18663 DON ANGELO fanucciIl 9 e il 14, nel cuore di quel mese d’agosto nel quale la gente fa di tutto per dimenticare gli altri undici mesi, troppo spesso segnati da un lavoro non gradito o da una solitudine non voluta. Nel cuore dell’estate, quando “fratello sole” sfacciatamente ti picchia e ti obbliga a difenderti da lui, “fonte di vita per le sue creature”.

Sembrerebbe il momento meno adatto per tornare a riflettere su Auschwitz, eppure la Chiesa lo fa proprio allora, per due volte, il 9 e il 14, nell’afa rovente resa ancora più insopportabile dal frenetico desiderio di evadere. “Se c’è stato Auschwitz, allora non può esserci Dio”: no, non è questa la chiave giusta, perché ad Auschwitz, nel mese di agosto di tanti anni fa, hanno dato la loro testimonianza a Dio, uno un anno prima, l’altra l’anno dopo, Edith e Massimiliano. E quella frase, che si è sentita pronunciare troppo spesso nell’ultimo scorcio del XX secolo, ha senso solo se prima si mettono fuori gioco Edith e Massimiliano; solo in questo caso quell’epitaffio (“Se c’è stato Auschwitz, allora non può esserci Dio”), all’interno delle durissime tragedie di due guerre mondiali, nel contesto della nascita e del tramonto delle ideologie totalitarie, dopo le aberrazioni del nazismo, dopo il genocidio degli ebrei, può avere un senso.

Ma dal fondo più buio della notte un volto riemerge, una voce, un nome: quello di Edith Stein, la religiosa carmelitana morta ad Auschwitz in una camera a gas nell’agosto del 1942. Una ebrea. Una filosofa. Una monaca. Una martire. Convertitasi dall’ebraismo al cattolicesimo attraverso il filtro dell’ateismo, e passata dalla speculazione filosofica al chiostro dopo essere stata un giorno “folgorata” dalla lettura della vita di santa Teresa d’Avila.

E prima ancora, dal fondo più buio della notte emerge il volto di Massimiliano Kolbe che nel 1941, sempre ad Auschwitz, scelse di far parte del gruppo dei dieci condannati a morire di fame per rappresaglia contro la fuga di un prigioniero.

Per due settimane, Massimiliano tenne su il morale dei suoi compagni di sventura, convincendoli a cantare che forse quella non era proprio una sventura. Dopo due settimane erano vivi ancora in quattro, e cantavano ancora con l’ultimo filo di voce. Li finirono con un’iniezione di acido fenico.

Edith, davanti alla camera a gas, bacio la sorella per l’ultima volta, la prese a braccetto. Disse: “Andiamo!”.

Andiamo Edith, andiamo Massimiliano. Andiamo nella calura d’agosto che arroventa l’aria, come l’amore di Cristo ha arroventato la vostra anima. Andiamo incontro a Colui che ci ama, ché non sa far altro che amare. Incontro a Colui che ci aspetta, perché aspettare è tutto quanto può fare per noi.

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Vittorio Trancanelli. Ora la Causa passa a Roma https://www.lavoce.it/vittorio-trancanelli-ora-la-causa-passa-a-roma/ Sun, 23 Jun 2013 22:11:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=17598 OLYMPUS DIGITAL CAMERACon il sigillo dei plichi contenenti la documentazione raccolta nel Processo informativo sulle virtù e la fama di santità di Vittorio Trancanelli si è conclusa la fase diocesana della causa di beatificazione. Nella cattedrale di San Lorenzo a Perugia ha seguito il rito la famiglia di Vittorio: la moglie Lia, il figlio Diego e i figli avuti in affido. Presenti i membri della Associazione “Alle Querce di Mamre”, tanti amici e il sindaco Wladimiro Boccali in rappresentanza della città. La documentazione verrà portata martedì alla Congregazione per le cause dei santi. Gli originali dei documenti raccolti saranno conservati nell’Archivio diocesano.

È seguita la celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo mons. Gualtiero Bassetti e concelebrata dai vescovi Gualtiero Sigismondi, Mario Ceccobelli, Pietro Bottaccioli, Domenico Cancian.

 

Di seguito l’omelia tenuta da mons. Bassetti.

«Carissimi fratelli e sorelle,
la conclusione del processo informativo diocesano sulla vita, virtù e fama di santità del Servo di Dio Vittorio Trancanelli è un evento straordinario per la nostra Chiesa. E la liturgia della Parola di questa domenica ci introduce magnificamente in questo giorno di festa e di rendimento di grazie al Signore. Un rendimento di grazie che oggi rivolgiamo a Nostro Signore pensando a tutti i doni straordinari che ha fatto alla nostra comunità. Tra questi doni c’è sicuramente la persona di Vittorio Trancanelli che, con la sua meravigliosa esperienza di vita, ha testimoniato al Mondo che è possibile amare Dio, in umiltà e fervore, in ogni momento dell’esistenza: nella quotidianità, nel lavoro e nella famiglia. E che è possibile, inoltre, condurre una vita cristiana senza dover scendere a compromessi, ma mettendosi, semplicemente ed umilmente, alla sequela di Cristo, riconoscendo che Lui e solo Lui è il Signore della Storia.

Il salmo che oggi abbiamo pregato in risposta alla prima lettura riassume splendidamente l’essenza di questa testimonianza al mondo fornita da Vittorio Trancanelli. Quell’invocazione del salmista che fa gridare al cielo “O Dio tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco” è un invito continuo a centrare la nostra vita nel Signore e non sulle nostre forze, sui nostri progetti o sui nostri successi. Quell’invocazione ci viene a ricordare, incessantemente, che ogni giorno è un incontro nuovo con Gesù; che ogni giorno è un incontro stupendo e sorprendente con la magnificenza regale del Cristo; che ogni giorno è un incontro in cui tutti noi, liberamente, possiamo manifestare la nostra fedeltà nel camminare insieme a Lui, riconoscendo la Sua paternità e la nostra figliolanza.

“Shemà Israel, Ascolta o Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno”. Quante volte Vittorio avrà letto, scrutato, meditato queste parole, lui che ha dedicato molti anni della sua vita a studiare la lingua, la cultura e il mondo in cui Gesù era cresciuto, quei luoghi in cui il Figlio dell’Uomo si era manifestato al mondo. Le parole dello “Shemà Israel”, della professione di fede più importante dell’ebraismo, devono essere un sigillo nei cuori di ogni cristiano e, oggi, fanno da sfondo a tutta questa celebrazione eucaristica. Quelle parole ci ammoniscono, senza equivoci, che nessun dio straniero e nessun idolo di cartapesta potrà mai sostituire lo spirito creatore del Signore e l’amore che lo guida verso i suoi figli. Quelle parole risuonano nei nostri cuori come un invito fortissimo a mettersi alla sequela di Cristo, in libertà e senza costrizioni.

Gesù nel Vangelo di oggi parla ai suoi discepoli e gli fa una domanda importantissima: “Ma voi chi dite che io sia?” E poi gli risponde con due affermazioni che, come avrebbe detto San Paolo, sono di scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. Gesù, infatti, non gli annuncia un Messia forte e potente, non gli annuncia un liberatore vittorioso in guerra, ma dice loro due cose sorprendenti e autenticamente rivoluzionarie. Gli rivela che il figlio dell’uomo dovrà “soffrire molto” per “risorgere” poi il “terzo giorno”. E poi gli dice che “se qualcuno” vuole seguirlo deve “rinnegare se stesso”.

Questo breve dialogo ci fornisce la luce giusta per poter comprendere il significato profondo della vita di Vittorio Trancanelli. Gesù quando rivolge quella domanda non vuole certo fare un sondaggio d’opinione, non ha nessun bisogno di capire gli umori dei suoi discepoli, ma, al contrario, vuole indicare una strada. E il crocevia più importante di questa strada, la chiave che dischiude la porta alla risposta alla domanda di Gesù, è racchiusa in una piccola parola di due lettere: è racchiusa nella particella “se”. “Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso”. Quel “se” è importantissimo, perché ci ricorda che la strada tracciata da Gesù è una proposta, non è un obbligo, ma è una scelta di libertà. Una scelta di libertà che passa anche attraverso lo scandalo della croce. Lo scandalo della sofferenza.

La sofferenza è sempre stata scandalosa. Lo era ai tempi di Gesù, lo è ancor di più oggi, che si cerca in tutti i modi di cancellarla e di rimuoverla in nome di un’idolatria del piacere che cerca vanamente di riempire il vuoto interiore della nostra società con il godimento immediato e inarrestabile dei beni materiali. Invece, Gesù ha mostrato che quella sofferenza non era il prodotto di una mentalità autolesionista ma era, al contrario, l’annuncio di una speranza grandissima: “Vi accadrà tutto questo, ma il terzo giorno risorgerete”, dice Gesù.

Quella sofferenza e quell’umiliazione, impresse magistralmente nella Croce, rappresentano quella porta stretta assolutamente necessaria per entrare nella Gloria di Dio. Gesù crocifisso ha, infatti, mostrato all’umanità che la sofferenza di Cristo ha creato la redenzione del mondo. Con quel sacrificio perfetto, Cristo ci ha insegnato magnificamente il significato profondo della carità. Cristo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre.

E in questa duplice relazione c’è tutta la vita di Vittorio Trancanelli. C’è tutta la vita di un uomo che nella misura in cui ha partecipato alle sofferenze di Cristo se ne è rallegrato perché, come ci ammonisce San Paolo, “nella rivelazione della sua gloria” ha potuto “esultare” ed incontrare la pienezza dell’annuncio della buona novella.

Malato tra i malati, Trancanelli non si è nascosto e non ha nascosto la sofferenza. L’ha guardata in faccia, senza sottrarsi. Non ha scelto di fuggire e come San Francesco si è avvicinato “con affetto di compassione”. Sulle orme del poverello di Assisi, nella sofferenza, ha cercato “il sollievo dello spirito”, ovvero la preghiera, continua e incessante, mai scontata e sempre intensa.

Vittorio Trancanelli, è stato, dunque, un faro potentissimo della luce di Cristo, il cui bagliore toccava tutti, i fedeli e i lontani, e mostrava a tutti, concretamente, come si potesse vivere una vita sinceramente cristiana. Egli ha seguito Cristo per tutta la sua esistenza attraverso la prova della croce e nella carità cristiana più autentica, quella di farsi carico delle sofferenze e delle povertà degli “ultimi”, soprattutto dei più piccoli: di quei bambini in difficoltà che iniziò ad accogliere, in affido, insieme alla moglie Lia, nella propria casa.

Carissimi fratelli e sorelle, quello che stiamo vivendo, grazie alla testimonianza di vita di questo uomo che ha accolto Cristo nelle sue piaghe, è un momento storico per la nostra Chiesa. Senza alcun dubbio, possiamo far nostre le parole dell’Apostolo Paolo e affermare che Vittorio Trancanelli si è rivestito “dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del Diavolo”, si è cinto “i fianchi con la virtù” e rivestito “della corazza della giustizia” ha annunciato il “Vangelo della pace”.

† Gualtiero Bassetti
Arcivescovo Metropolita
di Perugia – Città della Pieve»

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Vittorio Trancanelli: una vita speciale vissuta nel quotidiano https://www.lavoce.it/vittorio-trancanelli-una-vita-speciale-vissuta-nel-quotidiano/ Thu, 20 Jun 2013 15:43:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=17548 Vittorio Trancanelli in una pausa dal lavoro in ospedale
Vittorio Trancanelli in una pausa dal lavoro in ospedale

La fede nella quotidianità. Un giorno, essendo vicina l’estate, i colleghi parlavano delle vacanze dicendo: “Quest’anno devo mettere una vela in più sulla barca”, “Io invece voglio cambiare località”, “Io voglio comprare un motoscafo”, Vittorio operava e ascoltava, poi dice: “Ragazzi, domani non vengo in ospedale, non mettetemi malati in lista per operarli”. “Vitto’… che devi fare?”. “Vado dal giudice”. . “Dal giudice? A fare che?” “Vado a prendere un altro bambino in affido”. In sala operatoria si fa silenzio. Vittorio alza la testa e dice “Io e mia moglie ci divertiamo così, non vi preoccupate ragazzi”. Il protagonista di questo episodio è Vittorio Trancanelli, morto a soli 54 anni il 24 giugno del 1998. Ha vissuto la sua fede nella quotidianità della vita. Nel suo lavoro, nella famiglia, nella sua passione per la Bibbia e per l’ebraismo.

La vita. Vittorio è figlio di Saverio Trancanelli e Caterina Sedeucic, rifugiati a Spello (lì nasce il 26 aprile 1944) a causa della guerra. La famiglia si trasferisce a Petrignano di Assisi, dove Vittorio vive fino al matrimonio con Lia. Si fidanza con lei a 21 anni, si laurea in medicina, si sposano il 18 ottobre 1970 e vanno a vivere a Perugia. “Quando Vittorio e io eravamo fidanzati pensavamo già ad un matrimonio cristiano, volevamo vivere con il Signore e anche fondare la nostra vita su di Lui che è la Roccia. Ci sembrava un sogno ma piano piano con la lettura e la meditazione della Parola di Dio potevamo realizzarlo”. Sono le parole di Lia. Con lei Vittorio ha condiviso ogni scelta formando una coppia veramente speciale per la sintonia spirituale e il legame affettivo.

La malattia. Nel 1976, un mese prima della nascita del loro unico figlio Diego, Vittorio si ammala gravemente. Da una colite ulcerosa trasformatasi in peritonite gravissima uscì vivo per puro miracolo di Dio che ha accolto le suppliche di una moglie in attesa e di tanta gente che pregava per lui. Da quell’operazione rimane segnato per la vita portando una ileostomia fino alla fine, sopportando disagio e dolore che confidava solo alla moglie.

La famiglia. “Dopo la nascita di Diego – continua Lia -, decidemmo di mettere in pratica il vangelo (Mt 18,5) Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me”. Arrivarono così i primi due figli in affido, cui ne seguiranno altri. La loro esperienza di coppia si allarga in un progetto condiviso: accogliere famiglie e persone, in particolare bambini, in stato di bisogno. Nasce l’associazione “Alle querce di Mamre”. Quest’opera non è rimasta individuale, ma ha coinvolto altre famiglie e si è aperta all’accoglienza dei bambini e altre persone al di là dell’affidamento vero e proprio. A mons. Ennio Antonelli nel maggio del 1995, Vittorio e altri cinque amici che condividevano il progetto, scrivevano: ”In una società in cui il modello della famiglia è crollato, ci sembra vitale riscoprire la famiglia come carisma”.

Sul lavoro. Con lo stile del quotidiano Vittorio vive anche il suo lavoro. Diventa specialista di endoscopia digestiva e gastroenterologica e consegue l’idoneità a primario di Chirurgia generale. Lavora al di là delle sue forze trascurando persino la cura del suo corpo.

Il “rabbino”. Prima di operare una paziente di religione ebraica ha recitato con lei lo Shemà Israel. Era, infatti, cultore della fede di Israele, passione che gli era nata da giovane, quando aveva intuito che per conoscere bene Gesù, la sua personalità, il suo modo di essere e di pensare, era importante ricordare che Gesù era un ebreo osservante. Al Centro ecumenico San Martino che frequentava regolarmente era diventato “il nostro rabbino”.

Al funerale. “Personalmente considero Vittorio un santo laico”. Lo dice l’arcivescovo di Perugia–Città della Pieve mons. Giuseppe Chiaretti nella sua omelia pronunciata al funerale di Vittorio celebrato in cattedrale. C’era una città a rendergli omaggio, accanto alla moglie e ai figli: il figlio naturale, Diego, e i suoi fratelli in affido. Sulla sua bara ricoperta dal Tallit, il manto di preghiera degli ebrei, c’erano la Bibbia e la Croce.

Verso la santità. Il 24 settembre 2006 l’arcivescovo mons. Giuseppe Chiaretti in cattedrale apre solennemente il Processo conoscitivo sulla eroicità delle virtù.

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PER SAPERNE DI PIù

– il sito web www.vittoriotrancanelli.it

– “Gli Amici di Vittorio”: foglio periodico diretto da Giuliano e Francesca Masciarri. Può essere richiesta a: redazione@vittoriotrancanelli.it. Allo stesso indirizzo e a quello del postulatore della causa (enrico.solinas@diocesi.perugia.it) può scrivere chiunque desideri offrire una testimonianza su Vittorio Trancanelli o segnalare grazie ricevute per la sua intercessione.

– Enrico Solinas, “Vittorio Trancanelli. L’amore di Dio in sala operatoria e nella vita”, dito dalla Velar-Elledici
(Biografia che raccogliendo la viva testimonianza di Lia, moglie di Vittorio, con corredo fotografico)

– Elio Bromuri,  “Vittorio Trancanelli – Un santo laico testimone di Cristo in sala operatoria e nella vita”, editrice La Voce, 2005,
(Biografia di Vittorio con le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto, con corredo fotografico)

 

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Un santo laico, medico, padre di famiglia https://www.lavoce.it/un-santo-laico-medico-padre-di-famiglia/ Fri, 12 Apr 2013 11:38:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=16118 Vittorio Trancanelli con Papa Giovanni Paolo II
Vittorio Trancanelli con Papa Giovanni Paolo II

Ci voleva Vittorio Trancanelli, un chirurgo appassionato degli etruschi e dell’ebraismo, innamorato della donna che scelse come compagna di vita e con la quale condivise la scelta di aprire il cuore e la famiglia a altri bambini e altre madri, per avere, la prima dopo 450 anni, una causa di canonizzazione nella diocesi di Perugia! Il candidato poi non è un chierico o un religioso ma un laico, medico e padre di famiglia che ha seguito Gesù per tutta la sua vita attraverso la prova della croce. Vittorio è morto il 24 giugno del 1998 e le prime testimonianze con una biografia e immagini su di lui sono state raccolte e pubblicate nel 2005 nel libro Vittorio Trancanelli – Un santo laico testimone di Cristo in sala operatoria e nella vita curato da mons. Elio Bromuri amico di Vittorio e Lia e pubblicato dalle edizioni “La Voce”. Ora arriva una biografia (sarà presentata il 3 maggio) che arricchisce la conoscenza di Vittorio. L’agile volume L’amore di Dio in sala operatoria e nella vita esce nella collana “Protagonisti nei segni dei tempi” delle editrici Velar e LDC. Cento pagine, 95 immagini dei vari momenti della vita di Vittorio, prefazione di mons. Domenico Cancian, vescovo di Città di Castello, per lunghi anni amico e consigliere spirituale di Vittorio, e post-fazione dei vescovi di Perugia Giuseppe Chiaretti che ha avviato la Causa di beatificazione, e Gualtiero Bassetti che ha la gioia di siglarne la conclusione ed il passaggio alla Congregazione delle cause dei santi. L’autore, Enrico Graziano Giovanni Solinas, Postulatore della Causa, ha raccolto la testimonianza della moglie, Lia Sabatini. Una sottolineatura non peregrina. Nella biografia non c’è traccia del lavoro fatto come postulatore, ovvero delle circa 33 testimonianze raccolte al Tribunale ecclesiastico regionale umbro secondo uno schema di interrogatorio definito e dettagliato, nè delle circa 40 testimonianze scritte liberamente pervenute allo stesso Tribunale. Tutto questo materiale teso a raccogliere in modo più oggettivo possibile informazioni sulla persona di cui si chiede il riconoscimento della santità, è “secretato” e verrà esaminato dalla Congregazione per le cause dei santi per valutare la “eroicità delle virtù”. Dal momento in cui è iniziato il processo diocesano sulla vita, virtù e fama di santità, avendo accertato il fumus sanctitatis, Vittorio Trancanelli è “servo di Dio”. Se la Congregazione accerterà l’eroicità delle virtù sarà “Venerabile”. I due passaggi successivi sono “Beato” se sarà accertato un miracolo e “Santo” se si verificherà un nuovo miracolo dopo la proclamazione a Beato. Il cammino è ancora lungo, ma nel cuore di chi lo ha conosciuto Vittorio è già santo. Per far conoscere la sua vita è attivo il sito a lui dedicato: www.vittoriotrancanelli.it

Concerto in cattedrale con il Coro di Roma diretto dal maestro mons. Marco Frisina in onore di Vittorio

Vittorio con la moglie Lia
Vittorio con la moglie Lia

L’arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve ha promosso una serie di eventi, in programma tra aprile e giugno, dedicati alla figura del Servo di Dio Vittorio Trancanelli (1944-1998) in occasione della conclusione del processo diocesano di beatificazione. Il primo di questi sarà un grande concerto, che si terrà sabato 13 aprile, alle ore 20.30 nella cattedrale di San Lorenzo (l’apertura avverrà alle 19.45), tenuto dal Coro della Diocesi di Roma, diretto dal maestro mons. Marco Frisina e dalle orchestre ad archi dei Solisti di Perugia e dei Fiati Fideles et Amati di Roma.

Tutti i coristi e i musicisti si esibiranno a titolo gratuito, in piena linea con la condotta di vita di Vittorio Trancanelli, il quale vedeva nella gratuità e nel servizio reso per amore a Dio la sua regola di vita. I canti sono stati scelti da Enrico Solinas, Lia Trancanelli e dal maestro Frisina. Tra questi canti verrà proposto anche Shema Israelper ricordare la passione di Vittorio per l’ebraismo.

Ai gruppi verranno regalati due piatti di Deruta con decoro raffaellesco con lo stemma dell’arcivescovo e 3 kg. di Baci Perugina. Prima del concerto verrà fatto vedere un video di 15 minuti in cui Lia Trancanelli racconterà la vita del marito Vittorio. Il concerto sarà trasmesso in diretta da Umbria Radio e in streaming sui siti www.umbriaradio.it e www.corodiocesidiroma.com.

Iniziative e celebrazioni

Appuntamenti in vista della conclusione della fase diocesana del processo di beatificazione.

– Sabato 13 aprile, alle ore 20.30, nella Cattedrale di San Lorenzo concerto del Coro della Diocesi di Roma diretto da Mons. Marco Frisina.

– Venerdì 3 maggio, presso la Cappella dell’Ospedale di Santa Maria della Misericordia in Perugia, verrà presentata la prima biografia del Servo di Dio, scritta da Enrico Solinas insieme alla vedova Lia Sabatini.

– Domenica 23 giugno, alle ore 18.00, in Cattedrale, solenne concelebrazione per la chiusura del processo di beatificazione. Nei giorni successivi tutti gli atti della causa saranno portati a Roma presso la Congregazione delle Cause dei Santi.

-  Lunedì 24 giugno, 15° anniversario della morte di Vittorio, alle ore 18, messa in suffragio presso la chiesa di Santa Maria Maddalena in Cenerente, dove dal 19 gennaio 2013 riposano le spoglie mortali del Servo di Dio.

 

TUTTI GLI ARTICOLI DI QUESTA SETTIMANA

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La ricetta cristiana per costruire la pace https://www.lavoce.it/la-ricetta-cristiana-per-costruire-la-pace/ Thu, 29 Sep 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9654 Pubblichiamo in versione quasi integrale il discorso tenuto dal card. Tauran al convegno nazionale dei presidenti di Azione cattolica, a Trevi, il 24 settembre. Prima di tutto, che cos’è la pace? Il testo fondamentale su quest’argomento lo troviamo nella Gaudium et spes, ai numeri 77-89. “La pace – vi leggiamo – non è semplice assenza di guerra… non è effetto di una dominazione dispotica, ma è opera della giustizia (Is 32,7). È il frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino fondatore, e dev’essere attuato dagli uomini che aspirano ad una giustizia sempre più perfetta… La pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente”. (…) Quindi tutti i cristiani sono chiamati a essere artefici di pace a immagine di Gesù, che per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio, che nella sua carne ha ucciso l’odio, e nella gloria della sua risurrezione ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini. Le religioni hanno, ovviamente, un ruolo particolare nella misura in cui tutte, o quasi tutte, predicano la fraternità. Tutte le religioni sono a favore della giustizia perché essa è un valore divino, poiché Dio è giusto, richiede la giustizia e chi vuoI vivere secondo la volontà di Dio deve praticare la giustizia. È questa la regola d’oro presente sotto svariate forme in quasi tutte le religioni. Questa regola d’oro l’ha insegnata anche Gesù: in ogni cosa, fate agli altri ciò che vorreste che essi facessero per voi (Mt 7,12). Ma troviamo la stessa cosa nell’ebraismo: ciò che voi temete per voi stessi, non fatelo al vostro vicino. E anche nel Corano: nessuno di voi sarà un vero credente se non desidera per gli altri ciò che desidera per se stesso. Noi cristiani abbiamo una particolare responsabilità perché dobbiamo essere testimoni di Cristo, “principe della pace”, che con la sua incarnazione si è unito ad ogni uomo. Per di più, noi cristiani sappiamo che la pace è un dono di Dio e quindi dobbiamo pregare – e lo facciamo, in particolare, ogni 1° gennaio in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la pace nel mondo, come lo faremo il mese prossimo ad Assisi, unendo alla preghiera il digiuno, come avvenne già nel 2002. E poi non si può trascurare l’educazione alla pace, che comporta l’educazione alla gratuità, alla compassione, e all’armonia. Nel mondo pluri-culturale e pluri-religioso nel quale viviamo, le nostre identità non possono basarsi su delle contrapposizioni, ma sull’apertura e sulla conoscenza dell’identità degli altri. All’odio dobbiamo rispondere con la compassione. Gli educatori e i predicatori devono aiutare giovani e adulti a costruire ponti, e non a erigere muri. Nel mondo precario e violento che ci siamo costruiti, che cosa dobbiamo dire, o piuttosto, fare? Prima di tutto, osar dire che le ingiustizie, le malattie, le guerre non sono una fatalità. Sono la conseguenza di tutti i nostri egoismi personali e collettivi, della nostra ignoranza, dei nostri errori non riconosciuti, della nostra incapacità di trarre insegnamento dalle esperienze – positive e negative – del passato. Ma noi credenti diciamo una seconda cosa a tutti i nostri contemporanei: diciamo che non crediamo alla fatalità della storia, non crediamo che l’uomo si fondamentalmente cattivo. Confidiamo nell’uomo perché sappiamo che Dio gli ha dato un’intelligenza e un cuore e col suo aiuto può, anzi dev’essere protagonista di un mondo migliore. Quindi la Chiesa ricorda a tutti noi che: 1. L’umanità è una famiglia in cui tutti sono amati allo stesso modo da Dio; abbiamo una comune origine (siamo creature) e abbiamo una comune finalità (l’incontro con Dio). 2. Mettiamo a disposizione di tutti una nostra esperienza. Cioè siamo abituati nelle nostre assemblee liturgiche o nelle nostre attività apostoliche a vivere le diversità nell’unità. Questo savoir faire può essere di aiuto per superare pregiudizi e rancori nel campo economico culturale e sociale, e scoprire la parte migliore dell’altro.3. La solidarietà: diciamo che non c’è pace senza giustizia. Un credente non può essere indifferente di fronte all’uomo che soffre o è vittima di uno che è più forte di lui. Si parla del “diritto d’ingerenza umanitaria”, cioè non abbiamo diritto all’indifferenza. Analogamente, c’è anche il dovere della salvaguardia delle risorse naturali per l’oggi e per le generazioni future. 4. L’educazione alla pace comincia nella famiglia e nella scuola (…). Questa educazione alla pace è la migliore strategia per assicurare la tranquillità e l’armonia del domani. (…)Vedete perché la pace è via alla santità nel quotidiano? Perché ci spinge ad essere cristiani coerenti nella vita di ogni giorno, ed è questa la santità. Allora, io vorrei che ci domandassimo: quando è che non costruiamo la pace? È un esercizio molto concreto. Non la costruisco: 1. Quando non apprezzo le qualità del mio fratello, della mia sorella, quando chiedo da loro l’impossibile, quando le difficoltà degli altri mi lasciano indifferente. 2. Non la costruisco quando lavoro per due, con la ragione di voler comprare il superfluo, mentre chi è accanto a me non ha né lavoro né futuro. 3. Non la costruisco quando chiudo la porta del mio cuore, quando chiudo le mie mani, la mia bocca per non avere noie. 4. Non costruisco la pace quando rispondo “non ho tempo”. 5. Non costruisco la pace quando mi piace farmi vedere in compagnia delle persone che hanno il potere, la ricchezza, la cultura e trascuro chi è piccolo e dimenticato, e il cui nome non comparirà mai sull’agenda di persone importanti. 6. Non costruisco la pace quando non aiuto chi ha peccato, quando non perdono.Ma allora mi direte: quando costruisco la pace? E vi rispondo: 1) quando invece del rancore, offro il perdono; 2) quando invece della morte offro la vita; 3) quando, invece del mio io, offro Dio. (…)Vorrei ora indicare alcuni atteggiamenti che nessuno dovrebbe avere difficoltà ad adottare: – il bambino sia accolto e rispettato appena si sveglia alla vita dal seno materno; – i giovani trovino sul loro cammino educatori che vogliano loro bene, fino al punto di proporre loro la via verso la libertà attraverso l’impegno, il dono di sé, il servizio; – l’amore dell’uomo e della donna ritrovi la sua nobiltà e la sua verità attraverso l’oblio di sé per la felicità dell’altro nella fedeltà alla parola data; – il malato non sia lasciato solo di fronte all’enigma della sofferenza; – le persone anziane non siano relegate e dimenticate, ma poste in condizione di condividere con i giovani la propria esperienza e il proprio bisogno di amare; – il lavoratore sia rispettato nella sua dignità e responsabilità; – non ci sia spazio per il razzismo; – nelle relazioni sociali la violenza e l’aggressività delle parole e dei comportamenti lascino il passo alla benevolenza e alla disponibilità; -nel dibattito sociale o politico ogni partner sappia riconoscere la parte di verità che si trova nel cuore del suo interlocutore. (…)Vogliamo davvero la pace? Vogliamo essere santi? Se rispondiamo in modo affermativo, allora dobbiamo necessariamente cambiare qualcosa nella nostra vita: compiere gesti di attenzione e riconciliazione, di solidarietà nelle nostre famiglie, nella comunità cristiana, nelle associazioni di cui facciamo parte. Spesso l’aggressività e la violenza di certe persone non sono altro che un grido: il grido di chi non è riconosciuto e si sente inutile. Impariamo una cosa molto semplice: impariamo a guardare con bontà chi ci sta intorno, ad ascoltare più che a parlare, a far crescere più che a correggere. [C’è una pergamenta] che ho sempre conservato, in cui è decorata la seguente affermazione: È con la bontà che si crea attorno a sé la felicità.

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Fiamma da tener desta https://www.lavoce.it/fiamma-da-tener-desta/ Thu, 24 Feb 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9150 Lunedì scorso, presso il Seminario regionale di Assisi si è riunita la Commissione regionale per l’ecumenismo e il dialogo, presieduta da mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, Narni e Amelia. Erano presenti i delegati delle diocesi di Perugia, Assisi, Terni, Città di Castello, Orvieto Todi, Foligno e Gubbio, alcune suore e rappresentanti del Centro ecumenico di San Martino di Perugia, del movimento dei Focolari e del Gris. Dopo un’ampia presentazione dei singoli partecipanti e delle iniziative svolte, si è focalizzato il discorso su due urgenze oggi particolarmente sentite, che riguardano l’accoglienza delle comunità ortodosse e i rapporti con i musulmani. Una questione quindi di carattere ecumenico in senso proprio e una questione di dialogo interreligioso. La presenza sempre maggiore di persone, soprattutto giovani, provenienti da vari Paesi e portatori di culture e tradizioni diverse deve spingere le diocesi e le parrocchie ad aprirsi con capacità di accoglienza, ed anche di discernimento. Mons. Paglia ha ricordato l’importanza della Parola di Dio, citando in particolare l’esortazione post-sinodale Verbum Domini ed ha invitato a tenere desta la fiammella dell’ecumenismo, anche se i tempi sono difficili. Dalla discussione è scaturita l’opportunità di prepararsi per tempo all’incontro che si avrà ad ottobre, quando il Papa si recherà ad Assisi per la giornata di preghiera nel 25° anniversario dell’incontro di preghiera delle religioni per la pace, attraverso un convegno che dovrebbe tenersi il pomeriggio del 19 giugno, e di continuare nell’esperienza di una Giornata del creato a livello regionale anche quest’anno, dopo la bella esperienza alle fonti del Clitunno dell’anno scorso. Nell’ambito della vita delle diocesi si è notato come ovunque venga celebrata la Settimana di gennaio per l’unità, la Giornata di conoscenza dell’ebraismo e anche la giornata di dialogo con l’islam. Gli ortodossi, emigrati dall’Est europeo, sono la popolazione maggiormente numerosa nell’Italia e nell’Umbria, e ciò comporta la necessità di un’accoglienza fraterna perché i cristiani di questa Chiesa possano celebrare le loro liturgie e sviluppare le attività pastorali in luoghi adatti. Tutte le diocesi hanno provveduto ad ospitare in chiese e ambienti di proprietà della diocesi ale comunità ortodosse con i loro preti. In ambito di appartenenze cristiane si notano alcune comunità che non hanno alcuna intenzione di essere messe in relazione con altre comunità di diversa denominazione. Si nota una specie di “ri-confessionalizzazione” delle Chiese e comunità cristiane, che vedono nell’esercizio del dialogo ecumenico rischi di debolezza e di fragilità, esponendosi alla perdita di incidenza ed efficacia missionaria. Rimane anche il fenomeno delle sètte, che risulta tanto più pericoloso per le allettanti offerte che mostrano sui siti internet, facendo anche leva sulla solitudine in cui si trovano molte persone. Nei confronti di questo problema è stato fatto un approfondimento che dovrebbe continuare nelle nostre comunità. Per quanto riguarda i rapporti con l’islam, non si nota più il dialogo ingenuo e sprovveduto, essendo in crescita la conoscenza del Corano e del pensiero musulmano che si palesa attraverso i mass media e il contatto personale con fedeli musulmani praticanti. In questo particolare periodo si sta diffondendo un sentimento di preoccupazione che può diventare paura e produrre fenomeni popolari di rigetto. A questo proposito viene in aiuto come un criterio di comportamento l’annunciato incontro delle religioni per la pace di Assisi a ricordo del 25° anniversario della famosa giornata del 27 ottobre 1986. Ai presenti è stata offerta la rivista Una città per il dialogo n. 87.

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Una famiglia, una nazione https://www.lavoce.it/una-famiglia-una-nazione/ Thu, 24 Feb 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9160 Ad Allerona, alla presenza di un pubblico folto ed interessato, è stato presentato il 12 febbraio il volume I Cahen, storia di una famiglia di Alessio Mancini. Agli interventi introduttivi dell’assessore Gilibini e del sindaco Rocchigiani è seguita l’esposizione, da parte di Luciana Brunelli, cultrice di Storia contemporanea presso l’Università di Perugia. Il testo tratta la storia di questa ricca famiglia di banchieri ebrei di origine belga che si intreccia alla storia del Risorgimento, dal processo di unificazione alla speculazione edilizia in Roma capitale, dalla denuncia del fenomeno del brigantaggio alla partecipazione euforica al primo conflitto mondiale, fino all’avvento del fascismo con la sua politica razzista e il suo epilogo nella Seconda guerra mondiale con la difficile eredità di un’identità nazionale da ricostruire. In ognuno di questi momenti cruciali, che possono rappresentare i capitoli di un libro sulla storia dei primi cento anni della nostra nazione, i Cahen, nelle persone di Joseph Mayer, Edoardo, Teofilo Rodolfo ed Ugo, hanno svolto un preciso ruolo, certo non sempre in grado di condizionare le sorti nazionali, ma che incarna, nel complesso della meteora familiare, molte (se non tutte) le tappe del processo di creazione identitaria del popolo italiano. La monografia si apre con un rapido quadro generale del contesto socio-economico di metà Ottocento, e prosegue con il passaggio del testimone da Joseph Mayer Cahen d’Anvers al primogenito Edoardo con il quale si assiste, nell’ultimo quarto del XIX secolo, alla nascita del ramo italiano della famiglia. Dalla speculazione edilizia di Roma neo capitale, vero e proprio trampolino socio-economico per Edoardo Cahen, l’analisi prosegue indagando la sua parabola sociale, dalla breve apparizione nel mondo politico romano al conseguimento del titolo di marchese di Torre Alfina, alla nascita della seconda generazione dei Cahen italiani con Teofilo Rodolfo e Ugo. La seconda parte del lavoro, dopo la morte di Edoardo, si concentra sui diversi destini delle proprietà della famiglia Cahen e sulle separate sorti che condurranno sia Ugo che Teofilo Rodolfo a lasciare definitivamente l’Italia. Il primo, dopo aver risieduto per vent’anni nell’incantata villa “La Selva” ed aver ricoperto un ruolo di spicco nella piccola comunità di Allerona fino a divenirne sindaco, decide improvvisamente di abbandonare l’Italia nel 1920. Ad allontanare definitivamente i Cahen dall’Italia, nella persona di Teofilo Rodolfo, già diplomatico dell’ambasciata del Regno a Parigi, sarà l’avvento delle leggi razziali nel 1938. Proprio il tema dell’ebraismo e più in generale dell’appartenenza religiosa e culturale dei Cahen nel corso della loro storia hanno nel corso della ricerca acquisito un peso via via crescente. La pubblicazione di questo volume si propone l’intento di restituire la storia dei Cahen, caduti nell’oblio generale o nella paludosa realtà della memoria locale, al suo giusto ambito storiografico.

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“Onora tuo padre e tua madre” https://www.lavoce.it/onora-tuo-padre-e-tua-madre/ Thu, 20 Jan 2011 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=9050 Cono sicuro che molti diranno che un giornale dovrebbe raccontare cose nuove e, come si dice, stare sulla notizia e non ripetere cose vecchie di secoli o millenni come quella riportata nel titolo. Eppure c’è sempre qualcosa di nuovo da dire. Ad esempio, non tutti sanno che questo precetto che per i cattolici è detto il quarto comandamento, per gli ebrei è “la quinta parola”, delle “dieci parole” che conosciamo come i dieci comandamenti o decalogo. Non cambia molto. Eppure un nostro conoscente, di altra confessione cristiana, ci ha rimproverato perché nel formulare un invito abbiamo scritto “quarto comandamento”, come nel catechismo cattolico e ciò gli è suonato come una prevaricazione cattolica. Quando si dice dei fondamentalismi! Non facciamo polemiche. L’importanza dei comandamenti è data dalla loro osservanza e non dalla numerazione che è assicurata: sono sempre dieci, per ebrei, protestanti, cattolici e ortodossi. Una diversità, invero, c’è riguardo all’osservanza del sabato che i cristiani hanno sostituito con la domenica, giorno del Signore e della sua risurrezione formulando la dicitura: “ricordati di santificare le feste”. Qui il discorso si farebbe lungo, ma non sarebbe inopportuno, perché i comandamenti sono la legge fondamentale dell’umanità che da sola potrebbe consentire l’ordine e la pace nel mondo.Per ora ritorniamo alla “quinta parola”, scelta quest’anno per la “Giornata dell’Ebraismo”, dedicata dalla Chiesa italiana alla riflessione sulla religione e la cultura ebraica. Pochi, al di fuori della comunità cattolica, conoscono l’iniziativa della Chiesa italiana iniziata fin dal 1990. Il tema si è scelto di comune accordo e segue il criterio di affrontare ogni anno come oggetto di riflessione un comandamento, presentato alle comunità cattoliche e ebraiche con un commento sottoscritto dal rabbino presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, Rav Elia Richetti e dal presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo mons. Mansueto Bianchi. Questa giornata è stata fissata al giorno 17 gennaio, vigilia dell’inizio della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, prospettando con questa scelta la connessione dell’impegno sacro per ebrei e cristiani di costruire un mondo unito e pacifico nel rispetto della suprema legge di Dio.Il prossimo 27 gennaio si celebra la “Giornata della memoria”, scaturita da una legge dello Stato italiano, la 211/ 2000. La diversità tra questa Giornata della memoria, che ha risonanze anche politiche, e quella del 17 gennaio esclusivamente religiosa è evidente. L’una non esclude l’altra. Sarebbe però bene non emarginare – cosa che avviene nelle scuole – né le altre vittime del nazismo, quale la strage dei Rom ricordata da Impagliazzo all’Università per stranieri di Perugia (vedi art. p.12), né la forte carica etica dei comandamenti da noi ereditati dagli ebrei, che, anche per questo, Benedetto XVI ha detto di non chiamare più “Fratelli maggiori”, ma “Padri nella fede”.Penso che in questo strano momento dell’Italia impazzita e umiliata, non ci sia cosa migliore da fare che riprendere in mano i comandamenti di Dio.

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Quel sogno non è invecchiato https://www.lavoce.it/quel-sogno-non-e-invecchiato/ Thu, 22 Jul 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8623 Sul tema “Sognare la comunione, costruire il dialogo. Cento anni di speranza ecumenica”, dal 25 al 31 luglio il Segretariato attività ecumeniche (Sae) promuove a Chianciano Terme la sua 47a Sessione di formazione ecumenica. Al presidente del Sae, Meo Gnocchi, abbiamo chiesto di presentarci l’iniziativa.Perché questo tema? “Ci è sembrato che il riflettere su questi cento anni di movimento ecumenico a partire dalla Conferernza di Edimburgo (1910) fosse importante per recuperare le ragioni e le ispirazioni fondamentali che hanno mosso il movimento, per riportare l’attenzione al nostro presente, per guardare al futuro sulla base di questa memoria. Abbiamo voluto mettere accanto due aspetti: uno è il sogno profetico cioè la visione di un possibile futuro, l’altro la pazienza della costruzione del dialogo. Lo stesso cammino ecumenico in fondo si è mosso secondo queste due spinte: sin da Edimburgo si è parlato di visione che veniva da un’ispirazione del Signore, ma poi ci si è accorti subito che la visione andava perseguita con la pazienza dei passi quotidiani, degli incontri, dei confronti, del dialogo”. Lo sguardo al passato cosa insegna? “Intanto insegna a non disperare, perché noi adesso vediamo il passato nella luce pacificata della memoria, ma se poi poniamo attenzione a quello che è avvenuto ci accorgiamo di tutte le difficoltà, gli intoppi, gli ostacoli difficilmente sormontabili che ci sono stati… eppure quel movimento è proseguito ed è arrivato fino a noi. Il secondo motivo di riflessione è ripensare alle grandi linee di forza, ai temi, alle spinte ideali che hanno ispirato, condotto, sostenuto il cammino ecumenico”. Quali saranno i temi affrontati nella Sessione? “La prima giornata è dedicata alla rievocazione di momenti fondamentali, da Edimburgo alla fondazione del Consiglio ecumenico delle Chiese, dal Concilio Vaticano II a tutto l’impegno ecumenico della Chiesa cattolica, dai primi pronunciamenti ecumenici del Patriarcato di Costantinopoli all’opera di Atenagora e all’impegno ortodosso. Nei giorni seguenti abbiamo voluto cogliere alcuni dei temi fondamentali che si sono sviluppati lungo questi cento anni. Ad esempio, il filone teologico, che nel movimento ecumenico è stato rappresentato soprattutto dal gruppo Fede e Costituzione. Il secondo filone è quello etico: l’impegno per la pace, la giustizia, i diritti umani, per il pacifico confronto tra i popoli. Terzo grande motivo, che ci riporta proprio alle origini, è che il movimento ecumenico si è mosso su una fondamentale spinta missionaria. Alla Conferenza di Edimburgo, cento anni fa, è apparsa evidente la contraddizione tra evangelizzazione e divisione tra i cristiani”. La Sessione, però, non si limita al dialogo ecumenico. “C’è un altro aspetto che la sessione ha voluto tener presente: oltre all’orizzonte ecumenico in senso stretto, cioè intra-cristiano, ci sarà la dimensione interreligiosa, prendendo in considerazione i rapporti tra i tre monoteismi, ebraismo, cristianesimo e islam, perché ci sembra che soprattutto su questo piano il confronto si imponga. In particolare, l’ebraismo è un argomento che ci sta a cuore e che non può essere omologato alla dimensione interreligiosa, perché il rapporto tra cristiani ed ebrei tocca le profondità della vita cristiana e delle realtà della Chiesa”. In definitiva, quanto siamo lontani ancora dalla realizzazione del sogno ecumenico? “A livello dei dialoghi ufficiali si registrano da una parte positive volontà di proseguire, e dall’altra oggettive difficoltà; ad esempio sono rimasti insoluti alcuni nodi riguardanti i temi ecclesiologici. A livello di base, del popolo di Dio, il tema ecumenico è avvertito e partecipato, magari non con un approfondimento di tipo teologico da parte di tutti, ma come ispirazione di fondo. In questo senso il richiamo all’importanza dell’ecumenismo spirituale mi sembra da accogliere favorevolmente. A patto che con l’ecumenismo spirituale si intenda fecondare la spiritualità non solo individuale ma anche comunitaria delle Chiese, che si aprano nella loro coscienza di fede e nella loro esperienza di vita ecclesiale a quella dimensione ecumenica in cui tutto, dalla teologia alla liturgia, dalla vita comunitaria agli impegni di tipo etico, deve iscriversi. Questa mi sembra la situazione attuale, che non induce a ottimismi superficiali, ma a un ottimismo più profondo, che è il non cedere mai di fronte alle difficoltà, il mantenere viva la forza di reagire e di sognare”.

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Non spegnere lo Spirito https://www.lavoce.it/non-spegnere-lo-spirito/ Thu, 06 May 2010 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8431 Lo Spirito santo di Dio, cioè l’Amore innato che lega tra loro Padre e Figlio (mistero trinitario), è il dono che Gesù risorto fa alla sua Chiesa perché la guidi nelle vie non facili del discernimento, innanzitutto, e quindi dell’imitazione di Cristo e del discepolato. È stato necessario coinvolgere lo Spirito sin dalle origini in una decisione di fondamentale importanza per lo sviluppo della Chiesa nel mondo pagano: continuare nella tradizione ebraica della circoncisione dei bimbi maschi, che era non solo una consacrazione all’Eterno, ma una iniziativa identitaria dell’ebraismo? O interromperla e sostituirla con il battesimo, che è segno dell’evento pasquale del Signore, e quindi di morte al peccato seppellendolo nell’acqua, ed insieme segno di risurrezione e di rinascita dall’acqua a vita nuova, la vita dei figli di Dio, fratelli di Cristo, membri della grande famiglia che è la Chiesa? Gli apostoli, ritrovatisi insieme per una riunione a Gerusalemme, che a buon diritto può essere considerata il primo Concilio della Chiesa, decisero, “lo Spirito santo e noi”, la linea pastorale da seguire, cercando di comporre le differenze in un unico criterio operativo: cosa che avvenne con la formula di composizione adottata.

Dall’esperienza fatta Paolo trasse motivo, scrivendo alla comunità cristiana di Tessalonica, per chiedere di “non spegnere lo Spirito” (1 Tes 5,19), invitandola anzi a “non disprezzare le profezie”, e cioè le valutazioni del presente fatte da persone carismatiche, ed anzi a “vagliare ogni cosa e a tenere ciò che è buono”. Paolo quindi non teme tanto l’innovazione, quanto la divisione, lo scisma, la rottura. Ogni manifestazione dello Spirito va innanzitutto vagliata con il metro della carità e va accolta con simpatia. Un comportamento del genere vale moltissimo anche oggi, tempo di innovazioni nella Chiesa (penso alle esigenze di una nuova evangelizzazione, ai ministeri laicali, alle unità e zone pastorali, ai movimenti ecclesiali che continuano ad essere censurati, alle nuove forme di volontariato caritativo ecc). La Chiesa non è una mummia del I secolo d.C., ma un organismo vivo che si evolve e si sviluppa. Anzi nella sua pienezza escatologica, di cui parla la lettura dell’Apocalisse, si rivela come un dono “che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio che la illumina”; e Cristo, l’agnello pasquale immolato e risorto, è la sua unica lampada.

Una realtà, quindi, che nasce come ricerca di fede e si sviluppa e si rivela come dono: la famiglia di Dio, la Sposa di Cristo, la vera Nomadelfia, la Nomosadelphòs dove l’unica legge è l’amore. (Incidentalmente ricordo la fondazione omonima d’un grande prete: don Zeno Saltini). Parlare della società dell’amore, e quindi della “civiltà dell’amore” come diceva Paolo VI, non è un romanticismo di maniera, ma è la descrizione della intima natura della Chiesa e del suo fine ultimo. È di questa civiltà che il mondo ha bisogno. Questa nostra terra, dono anch’essa di Dio, ha conosciuto tante civiltà e tante culture, ma anche tante vergogne ignominiose: basti pensare ai genocidi del secolo scorso, il cosidetto secolo breve, ricco di scoperte scientifiche e di tecnologie strabilianti, eppure con una carestia d’amore che stride orribilmente con il “progresso” vantato.

È veramente tempo d’una Nomadelfia diffusa, quella che i credenti in Cristo sono chiamati a realizzare in tutta la filiera delle sue varie sfaccettature. Una Nomadelfia che inizia già nell’esperienza terrena: “Se uno mi ama e osserverà la mia parola, il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ogni credente sarà, già su questa terra, città di Dio, come dicevano i Padri della Chiesa: “Ego, Ecclesia…” (Io, Chiesa). E nella Chiesa, quindi in ogni cristiano, si incontra Cristo: lo si vede nel comportamento, nella capacità di amare, di sorridere, di commuoversi, nella testimonianza serena della sua fede, nella pulizia morale della sua vita. E per loro c’è la pace, che non è quella del mondo fatta per lo più di vita godereccia e spensierata, ma quella che raggiunge il cuore e lo fa mite e umile come quella di Gesù. Per questo, “non abbiate paura!”. È con questo saluto che ci ha lasciato Giovanni Paolo II cinque anni or sono, quando ha concluso il suo calvario ed è asceso al Padre.

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Cristiani e musulmani imparino dall’Africa https://www.lavoce.it/cristiani-e-musulmani-imparino-dallafrica/ Thu, 26 Nov 2009 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=8031 Per i missionari in Africa, la sfida della convivenza fra cristiani e musulmani è pane quotidiano. Per questo il mio vivo interesse a partecipare alla serata presso la sala comunale di Città di Castello sul tema “Il dialogo interreligioso fra cristiani e musulmani come dovere civico”. L’occasione era la celebrazione dell’ottava Giornata nazionale del dialogo cristiano-islamico, che cronologicamente cadeva il 27 ottobre. Non era la solita conferenza, ma un incontro e una condivisione fra due comunità: quella cristiana, soprattutto cattolica, e quella musulmana, prevalentemente magrebina. I cattolici avrebbero usufruito della presenza e contributo del vescovo Domenico Cancian, la seconda di Omar Camilletti del Centro culturale islamico situato presso la grande moschea dell’Acqua Acetosa in Roma. La Caritas diocesana, l’organizzazione ecclesiale più coinvolta nelle iniziative concrete di solidarietà fra le due comunità, con il suo direttore don Paolino Trani, ha moderato la serata. È bello vedere il Comune, la Chiesa, la comunità islamica incontrarsi per riflettere su come migliorare la convivenza e la collaborazione in una società civile sempre più pluralistica e diversificata. Con umiltà! Perché, di fronte al nuovo evento della crescente presenza dei magrebini di religione musulmana nell’Alta Valle Tevere, nessuno ha risposte prefabbricate. La sala era piena zeppa, con chiara maggioranza di magrebini, giustamente interessati a configurare sempre meglio la loro presenza e azione. Quindi anche una grande dimensione politica, sociale e giuridica, con problemi urgenti come il voto per chi ha una presenza più che quinquennale corroborata da una valido lavoro. La cittadinanza implica doveri da parte di chi arriva ma anche diritti perché l’integrazione possa diventare effettiva e appetibile. È per questo che il terzo sponsor della serata era il Comune di Città di Castello, rappresentato dall’assessore ai problemi sociali, che ha messo a disposizione dell’incontro la bellissima sala comunale. La convivenza pone sfide, sia a chi arriva sia a chi riceve. Ovviamente questi ultimi sono in posizione di forza, mentre chi arriva di debolezza. Sarebbe un peccato se i cittadini valtiberini pensassero che la sfida è solo per chi arriva. Un cambiamento vero a livello di conoscenza, di liberazione dai pregiudizi, di adeguata organizzazione sociale e giuridica si impone per tutti. La fine dell’esclusivismo religiosoRicordo quando al tempo di mons. Pagani negli anni ‘80 i primi magrebini arrivarono in zona. Ci fu grande attenzione e compassione! Prevaleva la logica del “poverini”; si sfiorava il paternalismo. Non mi piaceva proprio! Proposi al Vescovo di organizzare un incontro con chi avesse esperienza per gestire il fatto nuovo con rispetto, ma anche con competenza e fermezza per non passare, come di fatto è avvenuto, dal paternalismo al rifiuto. Le difficoltà furono sottovalutate; ci furono esperienze negative su come, per esempio, gestire le case e gli appartamenti della diocesi in uso ai magrebini. Quelle incertezze iniziali lasciarono la bocca amara in non pochi, che restano ancora diffidenti, per non dire ostili. Eppure, come ha affermato il vescovo Cancian nel suo intervento, il Concilio Vaticano II dette un chiaro mandato 40 anni fa al popolo cristiano di assumere l’iniziativa di configurare nuovi rapporti con le grandi religioni mondiali come islam, ebraismo, induismo, eccetera. Superando e correggendo l’ostilità che caratterizzarono il secondo millennio che si aprì nel secolo XII con le crociate. I sette martiri monaci trappisti uccisi in Algeria il 21 maggio 1996 dagli integralisti islamici, lungamente citati dal Vescovo, sono il simbolo di un’epoca nuova. L’Algeria ha vissuto un colonialismo molto violento, molto più che altrove, e non di rado capitanato da integralisti cattolici. Allora i musulmani furono le vittime. Con i trappisti anche i cristiani sono diventati vittime, come Gesù sulla croce. Dopo 13 anni possiamo affermare che attraverso quel martirio la piccola comunità cristiana algerina ha acquistato una credibilità nuova. Il monastero di Tibihirine è ora luogo sacro, meta di pellegrinaggio non solo per i cristiani ma anche per i musulmani, quella grande maggioranza che non si riconosce nel fondamentalismo. Pellegrinaggi organizzati assieme, cosa mai prima avvenuta. Quella morte violenta subita, non inflitta, ha aperto una nuova èra caratterizzata dal pluralismo, che vede cristiani e musulmani più vicini e complementari; più disposti alla convivenza superando il pericolo dell’aut-aut. È un fatto nuovo, fragile come tutti gli inizi, ma che si sta affermando con decisione. Uno stile nuovo a cui anche in Italia e in Europa ci si deve educare. I Vescovi e le nazioni confinanti come Mali, Bourkina Faso, Senegal, al recente Sinodo sull’Africa hanno sottolineato il crescente clima di collaborazione e solidarietà nelle rispettive nazioni. Francesco Pierli

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