crisi economica Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/crisi-economica/ Settimanale di informazione regionale Sun, 28 Nov 2021 16:17:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg crisi economica Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/crisi-economica/ 32 32 Pnrr Umbria. Grasselli: occasione da non perdere per cambiare https://www.lavoce.it/pnrr-umbria-grasselli-occasione-da-non-perdere-per-cambiare/ Sun, 02 May 2021 08:29:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60391

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) umbro, riguardante cioè l’Umbria, illustrato martedì 20 aprile, contiene 45 progetti strategici, di cui alcuni rilevanti per infrastrutture, innovazione ed economia verde, con i quali la Regione intende partecipare all’attuazione del Piano di ripresa e resilienza predisposto per il nostro Paese. Con questo Piano viene proposto il contributo dell’Umbria, le cui numerose criticità sono state più volte ricordate in questo giornale, a rendere se stessa e l’Italia “più equa, solidale, sostenibile, dinamica e innovativa”.

Partecipazione.

Per costruire appropriatamente un Piano che persegue gli obiettivi indicati, può ritenersi necessaria la partecipazione dei principali attori (Istituzioni, forze sociali, rappresentanze della società civile …) operanti nel territorio. Tale partecipazione può infatti in primo luogo accrescere la conoscenza delle criticità da compensare e delle opportunità da valorizzare, e inoltre rendere chiare sia la disponibilità effettiva delle risorse richieste al riguardo, che la presenza della determinazione necessaria per portare avanti le iniziative proposte. Ci si chiede, anche alla luce di carenze e critiche apparse su questo Piano nella stampa locale, riferite a mancanze segnalate e valutazioni non corrette, se questa procedura partecipativa sia stata seguita.

Sostenibilità.

Come ha osservato Enrico Giovannini, noto studioso di crescita sostenibile e attuale Ministro per le infrastrutture nel Governo Draghi, l’Italia non è su un sentiero di sviluppo di sostenibilità integrale, economica, sociale ed ambientale. Essa risulta distante dagli obiettivi fissati, nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, per la povertà, la salute, l’energia, le disuguaglianze, le performance economiche, lo stato delle infrastrutture e delle città, la qualità dell’ambiente e delle istituzioni (E.Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, 2018, p.74). E può ritenersi impossibile per l’Italia raggiungere gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile (gli SDGs, i 17 Sustainable Development Goals stabiliti nell’Agenda 2030) in assenza di una radicale trasformazione del “sistema paese”.

Visione.

Se si deve trasformare radicalmente il sistema, occorrerà per tutte le politiche una visione molto ampia dei problemi, in grado di modificare gli assetti di fondo della vita sociale ed economica (E.Giovannini, op.cit., pp.70-71). Di questa visione non si avverte una chiara presenza nel testo del Piano.

Solidarietà.

Per rendere l’Umbria più produttiva, più equa, più sostenibile, in linea con la cosiddetta Economia di Francesco, occorre una diffusa condivisione di valori di solidarietà, di protezione e promozione della persona, con un’azione concorde di tutte le agenzie educative, e l’assunzione effettiva di impegni di responsabilità sociale da parte delle imprese, insieme a relazioni sinceramente collaborative tra queste e i sindacati dei lavoratori. Tra le aree tematiche, elencate da Giovannini, su cui fondare politiche per uno sviluppo anche socialmente sostenibile, sono incluse povertà e disuguaglianze, nonché capitale umano, salute ed educazione, che avrebbero potuto trovare nel Piano uno sviluppo più significativo di quello loro assegnato. E si potrebbero aggiungere welfare e lavoro.

Cooperazione.

Si osservi infine che, come riconosce lo stesso Piano, realizzare questi progetti, una volta che essi siano stati approvati dal Governo centrale e dall’Europa, chiede che l’Umbria disponga di un’adeguata capacità programmatica ed amministrativa, semplifichi le norme e le procedure in vigore, sappia attuare una vera cooperazione (che vuol dire condivisione di obiettivi, di risorse, e di modo di operare) tra istituzioni e operatori pubblici e privati. E si ripropone l’urgenza di quella radicale trasformazione sopra auspicata.]]>

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) umbro, riguardante cioè l’Umbria, illustrato martedì 20 aprile, contiene 45 progetti strategici, di cui alcuni rilevanti per infrastrutture, innovazione ed economia verde, con i quali la Regione intende partecipare all’attuazione del Piano di ripresa e resilienza predisposto per il nostro Paese. Con questo Piano viene proposto il contributo dell’Umbria, le cui numerose criticità sono state più volte ricordate in questo giornale, a rendere se stessa e l’Italia “più equa, solidale, sostenibile, dinamica e innovativa”.

Partecipazione.

Per costruire appropriatamente un Piano che persegue gli obiettivi indicati, può ritenersi necessaria la partecipazione dei principali attori (Istituzioni, forze sociali, rappresentanze della società civile …) operanti nel territorio. Tale partecipazione può infatti in primo luogo accrescere la conoscenza delle criticità da compensare e delle opportunità da valorizzare, e inoltre rendere chiare sia la disponibilità effettiva delle risorse richieste al riguardo, che la presenza della determinazione necessaria per portare avanti le iniziative proposte. Ci si chiede, anche alla luce di carenze e critiche apparse su questo Piano nella stampa locale, riferite a mancanze segnalate e valutazioni non corrette, se questa procedura partecipativa sia stata seguita.

Sostenibilità.

Come ha osservato Enrico Giovannini, noto studioso di crescita sostenibile e attuale Ministro per le infrastrutture nel Governo Draghi, l’Italia non è su un sentiero di sviluppo di sostenibilità integrale, economica, sociale ed ambientale. Essa risulta distante dagli obiettivi fissati, nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, per la povertà, la salute, l’energia, le disuguaglianze, le performance economiche, lo stato delle infrastrutture e delle città, la qualità dell’ambiente e delle istituzioni (E.Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, 2018, p.74). E può ritenersi impossibile per l’Italia raggiungere gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile (gli SDGs, i 17 Sustainable Development Goals stabiliti nell’Agenda 2030) in assenza di una radicale trasformazione del “sistema paese”.

Visione.

Se si deve trasformare radicalmente il sistema, occorrerà per tutte le politiche una visione molto ampia dei problemi, in grado di modificare gli assetti di fondo della vita sociale ed economica (E.Giovannini, op.cit., pp.70-71). Di questa visione non si avverte una chiara presenza nel testo del Piano.

Solidarietà.

Per rendere l’Umbria più produttiva, più equa, più sostenibile, in linea con la cosiddetta Economia di Francesco, occorre una diffusa condivisione di valori di solidarietà, di protezione e promozione della persona, con un’azione concorde di tutte le agenzie educative, e l’assunzione effettiva di impegni di responsabilità sociale da parte delle imprese, insieme a relazioni sinceramente collaborative tra queste e i sindacati dei lavoratori. Tra le aree tematiche, elencate da Giovannini, su cui fondare politiche per uno sviluppo anche socialmente sostenibile, sono incluse povertà e disuguaglianze, nonché capitale umano, salute ed educazione, che avrebbero potuto trovare nel Piano uno sviluppo più significativo di quello loro assegnato. E si potrebbero aggiungere welfare e lavoro.

Cooperazione.

Si osservi infine che, come riconosce lo stesso Piano, realizzare questi progetti, una volta che essi siano stati approvati dal Governo centrale e dall’Europa, chiede che l’Umbria disponga di un’adeguata capacità programmatica ed amministrativa, semplifichi le norme e le procedure in vigore, sappia attuare una vera cooperazione (che vuol dire condivisione di obiettivi, di risorse, e di modo di operare) tra istituzioni e operatori pubblici e privati. E si ripropone l’urgenza di quella radicale trasformazione sopra auspicata.]]>
I soldi non mancano. Il problema adesso è: chi li spenderà e come https://www.lavoce.it/i-soldi-non-mancano-il-problema-adesso-e-chi-li-spendera-e-come/ Thu, 30 Jul 2020 16:27:33 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57607

Temeva, Giuseppe Conte, di non poter essere lui a gestire e spendere l’inaspettato afflusso di risorse provenienti dall’Europa, per i giochi e i giochini politici - veri o presunti - che si stavano realizzando nel dietro le quinte di una politica italiana dalla trama debole, improvvisata e provvisoria.

“Ora i soldi muovono la politica”

Poi però sono arrivati gli applausi e la stima - anche quella, vera o presunta - per un premier che nella trattativa di Bruxelles, dove ognuno ha cercato di tirare più acqua possibile al proprio mulino (a cominciare dal rappresentante del Paese per eccellenza dei mulini, a vento), con il determinante ausilio di alcuni ministri, tutti Pd, del suo Governo, ha saputo tenere botta, riuscendo a far assegnare all’Italia tanti di quei soldi (207 miliardi di euro, 81 dei quali a fondo perduto) che ora il problema sarà come spenderli. Insomma, la politica a Bruxelles ha mosso i soldi. Ora i soldi muovono la politica. Finito di applaudire Conte, la questione è diventata chi e come debba gestire i fondi europei per far ripartire l’economia massacrata dal coronavirus. Anche perché si sa che in politica poter contare sul denaro equivale alla possibilità di creare consenso. E allargare il proprio potere. Escluso fin da subito che si possa affidare la gestione delle risorse all’ennesima commissione di super-esperti, si sta facendo strada una via intermedia, con Conte (e soprattutto il ministero dell’Economia e i suoi tecnici) a dettare e redigere progetti e obiettivi (il ‘Piano nazionale delle riforme’ da presentare in Ue dev’essere pronto per ottobre). Ma con il Parlamento, il bistrattato e ormai quasi istituzionalmente impalpabile Parlamento italiano, a dire la sua tramite due commissioni, una della Camera e una del Senato. In cui coinvolgere anche le forze di opposizione, a partire dalla ‘dialogante’ Forza Italia. Se questo schema operativo (Giuliano Amato lo ha ‘benedetto’, dicendo che alla responsabilità del Governo si deve affiancare necessariamente quella delle Camere) sarà rispondente alle direttive europee ed efficace nel direzionare dal 2021 nella maniera più incisiva tutti i fondi teoricamente a disposizione, lo sapremo in autunno.

Mattarella:si faccia “concreto ed efficace programma di interventi”

Nel frattempo, uno dei pochi, veri saggi del nostro tempo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche parole ha saputo condensare quanto successo a Bruxelles e quello che dovrà accadere nelle prossime settimane in Italia. Per Mattarella, l’esito della trattativa Ue “contribuisce alla creazione di condizioni proficue perché l’Italia possa predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi”. Un commento le cui parole chiave sono nel testo (“concreto ed efficace programma di interventi”) ma anche fuori dal testo. Perché il Capo dello Stato si è guardato bene dall’usare il termine ‘riforme’, che in Italia da decenni vuol dire tutto e niente. Inutile, dunque, elencare nuovamente i settori da cui ripartire per modernizzare il Paese (sanità, scuola, pensioni, pubblica amministrazione, lavoro): un Paese che ha bisogno, senza tanti giri di parole, di più sviluppo e maggiore equità sociale.

Dove intervenire si sa. Meno il come.

Come arrivarci, lo devono decidere le forze politiche di un panorama italiano in cui sembrano regnare non l’ancoraggio a valori e ideali definiti ma improvvisazione, opportunismo e ricorso a furbizie e stratagemmi. E in cui le differenze di approccio tra le diverse forze politiche si stanno progressivamente minimizzando, a partire dal linguaggio, con “una sorta di involontaria omologazione del ceto politico”, come ha scritto Marco Follini. Dunque, non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che la generazione politica tutta, attualmente al comando in Italia riuscirà nell’intento di usare al meglio i tanti soldi europei per evitare il baratro e rigenerare la spenta vitalità di un Paese dove è dimostrato - come ha fatto notare lo stesso Giuliano Amato - che “sappiamo spendere soprattutto per distribuire sussidi”. In questa decisiva partita, non basterà lanciare soldi dall’alto con l’elicottero. Per fare le riforme servirebbero veri e convinti riformisti. Daris Giancarlini]]>

Temeva, Giuseppe Conte, di non poter essere lui a gestire e spendere l’inaspettato afflusso di risorse provenienti dall’Europa, per i giochi e i giochini politici - veri o presunti - che si stavano realizzando nel dietro le quinte di una politica italiana dalla trama debole, improvvisata e provvisoria.

“Ora i soldi muovono la politica”

Poi però sono arrivati gli applausi e la stima - anche quella, vera o presunta - per un premier che nella trattativa di Bruxelles, dove ognuno ha cercato di tirare più acqua possibile al proprio mulino (a cominciare dal rappresentante del Paese per eccellenza dei mulini, a vento), con il determinante ausilio di alcuni ministri, tutti Pd, del suo Governo, ha saputo tenere botta, riuscendo a far assegnare all’Italia tanti di quei soldi (207 miliardi di euro, 81 dei quali a fondo perduto) che ora il problema sarà come spenderli. Insomma, la politica a Bruxelles ha mosso i soldi. Ora i soldi muovono la politica. Finito di applaudire Conte, la questione è diventata chi e come debba gestire i fondi europei per far ripartire l’economia massacrata dal coronavirus. Anche perché si sa che in politica poter contare sul denaro equivale alla possibilità di creare consenso. E allargare il proprio potere. Escluso fin da subito che si possa affidare la gestione delle risorse all’ennesima commissione di super-esperti, si sta facendo strada una via intermedia, con Conte (e soprattutto il ministero dell’Economia e i suoi tecnici) a dettare e redigere progetti e obiettivi (il ‘Piano nazionale delle riforme’ da presentare in Ue dev’essere pronto per ottobre). Ma con il Parlamento, il bistrattato e ormai quasi istituzionalmente impalpabile Parlamento italiano, a dire la sua tramite due commissioni, una della Camera e una del Senato. In cui coinvolgere anche le forze di opposizione, a partire dalla ‘dialogante’ Forza Italia. Se questo schema operativo (Giuliano Amato lo ha ‘benedetto’, dicendo che alla responsabilità del Governo si deve affiancare necessariamente quella delle Camere) sarà rispondente alle direttive europee ed efficace nel direzionare dal 2021 nella maniera più incisiva tutti i fondi teoricamente a disposizione, lo sapremo in autunno.

Mattarella:si faccia “concreto ed efficace programma di interventi”

Nel frattempo, uno dei pochi, veri saggi del nostro tempo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche parole ha saputo condensare quanto successo a Bruxelles e quello che dovrà accadere nelle prossime settimane in Italia. Per Mattarella, l’esito della trattativa Ue “contribuisce alla creazione di condizioni proficue perché l’Italia possa predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi”. Un commento le cui parole chiave sono nel testo (“concreto ed efficace programma di interventi”) ma anche fuori dal testo. Perché il Capo dello Stato si è guardato bene dall’usare il termine ‘riforme’, che in Italia da decenni vuol dire tutto e niente. Inutile, dunque, elencare nuovamente i settori da cui ripartire per modernizzare il Paese (sanità, scuola, pensioni, pubblica amministrazione, lavoro): un Paese che ha bisogno, senza tanti giri di parole, di più sviluppo e maggiore equità sociale.

Dove intervenire si sa. Meno il come.

Come arrivarci, lo devono decidere le forze politiche di un panorama italiano in cui sembrano regnare non l’ancoraggio a valori e ideali definiti ma improvvisazione, opportunismo e ricorso a furbizie e stratagemmi. E in cui le differenze di approccio tra le diverse forze politiche si stanno progressivamente minimizzando, a partire dal linguaggio, con “una sorta di involontaria omologazione del ceto politico”, come ha scritto Marco Follini. Dunque, non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che la generazione politica tutta, attualmente al comando in Italia riuscirà nell’intento di usare al meglio i tanti soldi europei per evitare il baratro e rigenerare la spenta vitalità di un Paese dove è dimostrato - come ha fatto notare lo stesso Giuliano Amato - che “sappiamo spendere soprattutto per distribuire sussidi”. In questa decisiva partita, non basterà lanciare soldi dall’alto con l’elicottero. Per fare le riforme servirebbero veri e convinti riformisti. Daris Giancarlini]]>
Dall’Europa ossigeno per il rilancio economico https://www.lavoce.it/dalleuropa-ossigeno-per-il-rilancio-economico/ Fri, 29 May 2020 14:39:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57239

Gli ultimi anni governativi, in Italia, hanno registrato un crescendo divario tra le intenzioni e la realtà, tra quello che si prospetta – magari con poderosi decreti legge più voluminosi della Divina Commedia – e quello che poi si riesce a fare. Si colma il divario rinviando: a successivi decreti che concretizzeranno le intenzioni (98, per l’ultimo decreto Rilancio, che quindi dispiegherà tutto il suo potenziale prima dell’estinzione della razza umana); a successive riforme che cambino veramente quel che si è finto di cambiare; a successivi governi che poi mettano una pezza.

Intanto si campa all’italiana: facendo più debiti. Ma qualcuno ce li deve prestare, quei soldi che poi nei decreti già stiamo stanziando e spendendo.

Fondi all’Italia a tasso zero

Ebbene, tralasciando per un attimo i 37 miliardi di prestiti europei (il “famigerato” quanto utilissimo Mes) a tasso quasi zero che i feroci oppositori italici nemmeno sanno – o sanno spiegare – perché dovremmo rinunciarvi, la novità degli ultimi giorni è la decisione franco-tedesca di mettere mano ai portafogli per dare un aiuto serio e non soffocante a quei Paesi che rischiano di morire di post-virus. Italia in primis.

Certo, c’è il cuore, la generosità, lo spirito pan-europeista; ma anche la fondata convinzione che qui rischia di saltare il banco. E se per Italia e Spagna saranno lacrime e sangue, non mancheranno i dolori nemmeno oltralpe.

Quindi una fiche da 500 miliardi di euro messa sul tavolo a favore della ripresa, un quinto dei quali finirebbe nelle nostre mani senza interessi né condizionalità particolari. Insomma ossigeno gratuito.

Nonostante il tentativo di fornire prove contrarie, gli italiani non sono cretini e hanno fatto subito gli occhi dolci, mentre alcuni che ci dovrebbero finanziare (olandesi, austriaci, danesi…) non sono affatto d’accordo: ci vedono come cicale, spendaccioni che regalano pensioni anticipate ai propri cittadini-elettori con i soldi dei virtuosi del Nord.

Vedremo come andrà a finire e cerchiamo di non dare loro ragione. L’ossigeno ci serve per tornare a galla e, possibilmente, per approdare su una spiaggia più sicura e confortevole.

Non sprechiamolo sott’acqua: dopo non ce ne sarà più. Qui ci vuole una poderosa iniezione di vitamine al sistema produttivo, e una poderosa lotta ai trigliceridi che incrostano le arterie dell’apparato pubblico, la famosa “burocrazia” italiana che non è solo costosa (molto costosa), ma purtroppo è scarsamente efficiente.

Quindi speriamo che le mancette per far titoli sui giornali (bonus vacanze, bonus monopattini cinesi) siano solo frutto della politica-comunicazione degli anni Venti. Mentre chi di dovere, invece, si stia impegnando a fondo almeno per copiare i buoni esempi di rilancio che si vedono in Germania, Gran Bretagna, Francia. Non occorre essere originali.

Copiamo pure, se alla fine quel che conta è prendere un bel voto che ci promuova. Magari copiando impariamo.

Nicola Salvagnin

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Un mondo nuovo https://www.lavoce.it/un-mondo-nuovo/ Thu, 14 May 2020 12:50:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57124

Parliamoci chiaro: ci sono delle cose, delle azioni della nostra vita, del nostro vivere quotidiano, che non potremo più fare come prima. E alcune non potremo più farle proprio. Perché se il contagio presuppone il contatto – associato alla moltitudine e all’igiene non controllata – non esiste protocollo al mondo che permetta a 200mila persone di assieparsi davanti a un palco a sentire la rockstar preferita. Tanto per dire. Ma la faccenda è molto più ampia.

Fase2, ma come?

Come si comporteranno i grandi centri commerciali che proprio sul numero di visitatori e sulla ressa campano? Come faranno quei franchising che offrono migliaia di vestiti (o mobili) a basso prezzo mescolati alla rinfusa tra calche umane e camerini super affollati? Come, semplicemente, provarsi un maglione e poi restituirlo perché non piace o perché troppo largo? E i banconi dei bar, affollati alle 8 come stazioni del metro (appunto…) per un caffè con cornetto sanificato e umanamente distanziato, e ri-sanificato all’uscita del cliente? Boh. I trasporti pubblici sono poi in croce: treni, aerei, la micidiale metropolitana ma anche bus e vagoni normalmente stipati di pendolari tanto da ricordare più Calcutta che il distanziamento sociale anti-Covid. O si quintuplicano le corse – ma bisogna avere i mezzi, e poi i costi? – o si quintuplica il prezzo dei biglietti. Allora tutti in auto, ma non assieme ad altri: la tangenziale di Milano o il Grande raccordo anulare di Roma vedranno le auto una sopra l’altra? Forse ci ispirerà l’igiene degli hotel 5 stelle, un po’ meno quella di campeggi e appartamenti affittati a uso turistico; forse non penseremo al cuoco che, al ristorante, sta maneggiando il cibo che mangeremo. Anche se in certi localini “etnici” o laddove fino a ieri cenavi con il gomito del vicino piantato sul fianco, qualche pensiero infausto sorgerà ai più. Le gite sociali in pullman? I grest? La partita allo stadio? La ressa nei musei più gettonati? Sciocchezze rispetto alla scuola, dove nemmeno il ministro dell’Istruzione sa che pesci pigliare (purtroppo). Certo, le aule con 30 studenti assiepati in 60 metri quadrati (cioè la normalità fino a ieri) dovrebbero evolversi in ben altro, se non vogliamo ritrovarci in un amen con il virus dentro la cartella. E i carabinieri? Come arresteranno i malfattori, con le manette virtuali lanciate via wi-fi? Dovranno farsi il tampone dopo ogni contatto fisico? Nasceranno nuovi mestieri e professioni (le cooperative di sanificazione ambienti e oggetti, l’esperto di norme sulla salute nei luoghi di lavoro, le fabbriche di guanti e mascherine e gel disinfettante), ma molti tramonteranno repentinamente se non definitivamente. E il più a rischio è il commercio: dai venditori di gondole in una Venezia povera di turisti cinesi a quei negozi che, se devono accogliere un cliente ogni mezz’ora, hanno già il destino segnato. Lo shop on line trionferà, ma sai che godimento provarsi le scarpe al computer. Vorremo tutti il made in Italy, ma chi vorrà il made in Italy fuori dai nostri confini?

Preoccupati per il -10%di Pil

Ecco perché desta enorme preoccupazione quel 10% circa di Pil che calerà quest’anno. Risalirà con molta lentezza, quasi sicuramente, lasciando uno strascico di chiusure e di disoccupazione. Se l’export langue e già prima i consumi interni erano freddi, c’è poco da sognare. Tanto più che, in momenti di enormi difficoltà collettive, si tende a spendere ancor di meno. Di doman non v’è certezza. Speriamo in bene, in fondo basterebbe una cura più efficace per eliminare molti problemi. Quindi, per non rovinare questo finale afflato di positività, non parliamo di banche… Nicola Salvagnin]]>

Parliamoci chiaro: ci sono delle cose, delle azioni della nostra vita, del nostro vivere quotidiano, che non potremo più fare come prima. E alcune non potremo più farle proprio. Perché se il contagio presuppone il contatto – associato alla moltitudine e all’igiene non controllata – non esiste protocollo al mondo che permetta a 200mila persone di assieparsi davanti a un palco a sentire la rockstar preferita. Tanto per dire. Ma la faccenda è molto più ampia.

Fase2, ma come?

Come si comporteranno i grandi centri commerciali che proprio sul numero di visitatori e sulla ressa campano? Come faranno quei franchising che offrono migliaia di vestiti (o mobili) a basso prezzo mescolati alla rinfusa tra calche umane e camerini super affollati? Come, semplicemente, provarsi un maglione e poi restituirlo perché non piace o perché troppo largo? E i banconi dei bar, affollati alle 8 come stazioni del metro (appunto…) per un caffè con cornetto sanificato e umanamente distanziato, e ri-sanificato all’uscita del cliente? Boh. I trasporti pubblici sono poi in croce: treni, aerei, la micidiale metropolitana ma anche bus e vagoni normalmente stipati di pendolari tanto da ricordare più Calcutta che il distanziamento sociale anti-Covid. O si quintuplicano le corse – ma bisogna avere i mezzi, e poi i costi? – o si quintuplica il prezzo dei biglietti. Allora tutti in auto, ma non assieme ad altri: la tangenziale di Milano o il Grande raccordo anulare di Roma vedranno le auto una sopra l’altra? Forse ci ispirerà l’igiene degli hotel 5 stelle, un po’ meno quella di campeggi e appartamenti affittati a uso turistico; forse non penseremo al cuoco che, al ristorante, sta maneggiando il cibo che mangeremo. Anche se in certi localini “etnici” o laddove fino a ieri cenavi con il gomito del vicino piantato sul fianco, qualche pensiero infausto sorgerà ai più. Le gite sociali in pullman? I grest? La partita allo stadio? La ressa nei musei più gettonati? Sciocchezze rispetto alla scuola, dove nemmeno il ministro dell’Istruzione sa che pesci pigliare (purtroppo). Certo, le aule con 30 studenti assiepati in 60 metri quadrati (cioè la normalità fino a ieri) dovrebbero evolversi in ben altro, se non vogliamo ritrovarci in un amen con il virus dentro la cartella. E i carabinieri? Come arresteranno i malfattori, con le manette virtuali lanciate via wi-fi? Dovranno farsi il tampone dopo ogni contatto fisico? Nasceranno nuovi mestieri e professioni (le cooperative di sanificazione ambienti e oggetti, l’esperto di norme sulla salute nei luoghi di lavoro, le fabbriche di guanti e mascherine e gel disinfettante), ma molti tramonteranno repentinamente se non definitivamente. E il più a rischio è il commercio: dai venditori di gondole in una Venezia povera di turisti cinesi a quei negozi che, se devono accogliere un cliente ogni mezz’ora, hanno già il destino segnato. Lo shop on line trionferà, ma sai che godimento provarsi le scarpe al computer. Vorremo tutti il made in Italy, ma chi vorrà il made in Italy fuori dai nostri confini?

Preoccupati per il -10%di Pil

Ecco perché desta enorme preoccupazione quel 10% circa di Pil che calerà quest’anno. Risalirà con molta lentezza, quasi sicuramente, lasciando uno strascico di chiusure e di disoccupazione. Se l’export langue e già prima i consumi interni erano freddi, c’è poco da sognare. Tanto più che, in momenti di enormi difficoltà collettive, si tende a spendere ancor di meno. Di doman non v’è certezza. Speriamo in bene, in fondo basterebbe una cura più efficace per eliminare molti problemi. Quindi, per non rovinare questo finale afflato di positività, non parliamo di banche… Nicola Salvagnin]]>
Covid19. Intanto i politici italiani sono rimasti fermi alla Fase zero https://www.lavoce.it/covid19-intanto-i-politici-italiani-sono-rimasti-fermi-alla-fase-zero/ Thu, 07 May 2020 16:56:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57090

Diceva il capo ufficio stampa dell’allora presidente americano Barack Obama che “non bisognerebbe mai sprecare una crisi”. All’alba della cosiddetta Fase 2, non sembra che la classe politica italiana stia sfruttando la pandemia per migliorarsi e rendere più produttivo ed efficace il proprio operato. Se ne deve essere accorto anche Papa Francesco, se in una delle sue ultime omelie durante la messa mattutina a Santa Marta ha volutopregare “per i governanti che hanno la responsabilità di prendersi cura dei loro popoli in questo momento di crisi”. Bergoglio li ha sollecitati a capire che, “nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo”.

A cosa pensano i politici?

Non pare che le cose della politica italiana stiano andando in questa direzione. La maggioranza di governo ribolle come ai ‘bei tempi’ in cui l’unica preoccupazione era tramare contro l’alleato di turno, o il nemico interno. I partiti dell’opposizione perseguono ognuno obiettivi differenti. In quella che sembra un’eterna, irredimibile ‘fase zero’ dalla quale non si ha né alcun mezzo ma, soprattutto, alcuna volontà di uscire. Imprigionati - i partiti tutti - in schematismi tattici e in infantilismi strategici che, di fronte all’inaspettata realtà della pandemia, sembrano strangolare sul nascere qualsiasi aspettativa di cambiamento. Ma trascinare - come sta succedendo - le logiche di uno ieri che non potrà più tornare nell’oggi del contagio getta un presagio nefasto su qualunque velleità di progettare il domani.

Allarme  “bomba sociale”

Fuori da ogni sociologismo: si sono accorti, i leader dei nostri principali partiti, delle file - che si stanno ingrossando giorno dopo giorno - di coloro che, in città grandi e piccole, vanno a chiedere un pasto e aiuti economici alla Caritas? Stride, questa immagine, con le vacue baruffe nelle aule del Parlamento, le manovre più o meno occulte per far cadere Conte, i voli pindarici su nuovi assetti di governo e nuove maggioranze. Pare abbia capito qualcosa di più di quello che sta realmente capitando in Italia il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, quando, con toni di una durezza che da tempo un capo degli industriali non utilizzava, prevede per l’autunno prossimo “l’esplosione della bomba sociale, considerato che i soldi a pioggia finiranno e il sistema produttivo, causa carenza di investimenti, non sarà ripartito”. Bonomi contesta il criterio dei soldi a pioggia perché lo considera un modo della politica di ricavarne “un dividendo elettorale”. In effetti, distribuire soldi liquidi in tasca alle persone può avere un senso nella immediatezza del blocco delle attività, anche allo scopo di sostenere i consumi dal lato della domanda. Ma non si può trasformare l’Italia intera in un Paese assistito. Alimentando passività e assistenzialismo.

Responsabilità sì, ma dei politici anzitutto

In questo snodo entra in ballo l’analisi sulla composizione della compagine governativa, dove il peso politico dei cinquestelle (coloro che il Reddito di cittadinanza hanno voluto e difeso, anche in queste ultime settimane, con immutato vigore) pare essere molto più rilevante di quello del Partito democratico. “Il convitato di pietra” - così lo definisce il politologo Piero Ignazi - della maggioranza: perché, se è vero che i cinquestelle hanno ancora la maggioranza in Parlamento, il Pd ha su di sé le stigmate del partito che, qualunque cosa succeda nei prossimi mesi, sarà ritenuto responsabile delle scelte fatte dall’attuale Governo. Ma dal Pd, dal punto di vista progettuale, non sta arrivando granché. E sotto il profilo politico, il partito di Zingaretti non sembra andare molto più in là della difesa dell’attuale Presidente del Consiglio. È logico - come ha ricordato lo stesso Pontefice - che, “se si sta in mezzo al guado di un fiume, non si deve cambiare cavallo”; ma una volta sulla sponda opposta, il cavallo deve sapere quale strada prendere. Tracciare quella strada è compito della politica. Che, se all’inizio della Fase 2 chiede ancora ai cittadini di mostrare senso di responsabilità, altrettanto dovrebbe fare guardandosi allo specchio. Daris Giancarlini]]>

Diceva il capo ufficio stampa dell’allora presidente americano Barack Obama che “non bisognerebbe mai sprecare una crisi”. All’alba della cosiddetta Fase 2, non sembra che la classe politica italiana stia sfruttando la pandemia per migliorarsi e rendere più produttivo ed efficace il proprio operato. Se ne deve essere accorto anche Papa Francesco, se in una delle sue ultime omelie durante la messa mattutina a Santa Marta ha volutopregare “per i governanti che hanno la responsabilità di prendersi cura dei loro popoli in questo momento di crisi”. Bergoglio li ha sollecitati a capire che, “nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo”.

A cosa pensano i politici?

Non pare che le cose della politica italiana stiano andando in questa direzione. La maggioranza di governo ribolle come ai ‘bei tempi’ in cui l’unica preoccupazione era tramare contro l’alleato di turno, o il nemico interno. I partiti dell’opposizione perseguono ognuno obiettivi differenti. In quella che sembra un’eterna, irredimibile ‘fase zero’ dalla quale non si ha né alcun mezzo ma, soprattutto, alcuna volontà di uscire. Imprigionati - i partiti tutti - in schematismi tattici e in infantilismi strategici che, di fronte all’inaspettata realtà della pandemia, sembrano strangolare sul nascere qualsiasi aspettativa di cambiamento. Ma trascinare - come sta succedendo - le logiche di uno ieri che non potrà più tornare nell’oggi del contagio getta un presagio nefasto su qualunque velleità di progettare il domani.

Allarme  “bomba sociale”

Fuori da ogni sociologismo: si sono accorti, i leader dei nostri principali partiti, delle file - che si stanno ingrossando giorno dopo giorno - di coloro che, in città grandi e piccole, vanno a chiedere un pasto e aiuti economici alla Caritas? Stride, questa immagine, con le vacue baruffe nelle aule del Parlamento, le manovre più o meno occulte per far cadere Conte, i voli pindarici su nuovi assetti di governo e nuove maggioranze. Pare abbia capito qualcosa di più di quello che sta realmente capitando in Italia il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, quando, con toni di una durezza che da tempo un capo degli industriali non utilizzava, prevede per l’autunno prossimo “l’esplosione della bomba sociale, considerato che i soldi a pioggia finiranno e il sistema produttivo, causa carenza di investimenti, non sarà ripartito”. Bonomi contesta il criterio dei soldi a pioggia perché lo considera un modo della politica di ricavarne “un dividendo elettorale”. In effetti, distribuire soldi liquidi in tasca alle persone può avere un senso nella immediatezza del blocco delle attività, anche allo scopo di sostenere i consumi dal lato della domanda. Ma non si può trasformare l’Italia intera in un Paese assistito. Alimentando passività e assistenzialismo.

Responsabilità sì, ma dei politici anzitutto

In questo snodo entra in ballo l’analisi sulla composizione della compagine governativa, dove il peso politico dei cinquestelle (coloro che il Reddito di cittadinanza hanno voluto e difeso, anche in queste ultime settimane, con immutato vigore) pare essere molto più rilevante di quello del Partito democratico. “Il convitato di pietra” - così lo definisce il politologo Piero Ignazi - della maggioranza: perché, se è vero che i cinquestelle hanno ancora la maggioranza in Parlamento, il Pd ha su di sé le stigmate del partito che, qualunque cosa succeda nei prossimi mesi, sarà ritenuto responsabile delle scelte fatte dall’attuale Governo. Ma dal Pd, dal punto di vista progettuale, non sta arrivando granché. E sotto il profilo politico, il partito di Zingaretti non sembra andare molto più in là della difesa dell’attuale Presidente del Consiglio. È logico - come ha ricordato lo stesso Pontefice - che, “se si sta in mezzo al guado di un fiume, non si deve cambiare cavallo”; ma una volta sulla sponda opposta, il cavallo deve sapere quale strada prendere. Tracciare quella strada è compito della politica. Che, se all’inizio della Fase 2 chiede ancora ai cittadini di mostrare senso di responsabilità, altrettanto dovrebbe fare guardandosi allo specchio. Daris Giancarlini]]>
Cercasi premier competente per la ripartenza. Mario Draghi? https://www.lavoce.it/premier-per-la-ripartenza-mario-draghi/ https://www.lavoce.it/premier-per-la-ripartenza-mario-draghi/#comments Tue, 21 Apr 2020 13:21:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56915 Mario Draghi

Mi dichiaro subito: sono un patito della competenza. Per questo mi sento di dire che per far ripartire il sistema economico italiano serve un nuovo governo. Ma soprattutto un nuovo premier. Per me, Mario Draghi. Non si tratta di scegliere tra morire di coronavirus o di fame. Si tratta di affrontare entrambe le emergenze con le 'armi' più adeguate. E con le persone maggiormente all'altezza della gravità - estrema, in entrambi i casi - della situazione e delle sue conseguenze. Draghi sul dopo-contagio dell'economia, italiana ed europea, da tempo ha chiaramente e autorevolmente detto la sua, richiamando i governi ad "agire subito, di fronte a una tragedia umana di proporzioni bibliche". La pandemia ha quasi del tutto azzerato il convincimento diffuso ad arte da alcune forze politiche che uno valesse uno. Finché va tutto bene, sono messaggi che si possono lanciare, contando sulla superficialità o sulla distrazione di chi li riceve. Quando però è in atto una tragedia, tutti - anche coloro che fino a un minuto prima consideravano competenza e preparazione come privilegi acquisiti chissà con quali sotterfugi - invocano l'esperto. Colui che ne sa di più e che può fornire ricette efficaci. Sotto il profilo sanitario, ormai da mesi gli scienziati, i ricercatori, i medici sono - ovviamente, e fortunatamente - al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica intera.

Nulla è cambiato nei e tra i partiti

Valutando il comportamento delle forze politiche - tutte - degli ultimi giorni e settimane, con il Paese in quarantena - non sembra che l'emergenza sanitaria abbia influito più di tanto sui loro atteggiamenti. Le polemiche dentro e tra gli schieramenti non si attenuano (nei Cinquestelle è in atto una spaccatura che farà presto a diventare scissione), i personalismi non si placano (cosa sono, se non questo, le critiche di Renzi a Conte?), gli stereotipi con cui si approcciano i problemi non si modificano. Tanto che viene da pensare a una reale incapacità di cambiare schemi e approcci, mediatici e progettuali, rispetto a una realtà imprevista e ad un futuro tutt'altro che roseo. Il tutto condito da approssimazione e confusione. Come si spiegano altrimenti - tanto per fare alcuni esempi - la miriade di ordinanze regionali che vanno a modificare anche in modo sostanziale molte direttive del Governo nazionale sulla gestione dell'emergenza sanitaria? O, dal punto di vista più propriamente politico, come si può valutare se non con i criteri della confusione ideologica e dell'approssimazione propagandistica, il voto - frammentato al punto da risultare autolesionistico - espresso dai partiti italiani di maggioranza e opposizione al Parlamento europeo sulla risoluzione che riguardava gli aiuti per la ripartenza? Le polemiche tra regioni del Nord e del Sud sono sterili, inconcludenti. Non risolvono mezzo problema e fanno riferimento a schematismi partitici che con la pandemia in atto risultano totalmente fuori contesto. Visto tutto ciò, e valutando il disastro economico che il contagio si porta dietro, pare da escludere che la forze politiche attualmente sulla scena riescano a compiere quel passo in più verso la coesione che servirebbe come successe dopo l'ultima guerra e negli anni del terrorismo per far ripartire il Paese. Con altri partiti. Soprattutto con altri leader. Per l'economia, come per la salute, si dovrà affrontare un'emergenza di dimensioni epocali. Alle forze politiche va chiesto un bagno di umiltà e una temporanea rinuncia alla ricerca del consenso fine a se stessa. Garantendo un comune sostegno al lavoro di un 'esperto', riconosciuto e stimato, della materia come ha dimostrato di essere Draghi.

Serve un leader per il dopo virus

D'altronde lo si fece anche nel 2011, quando lo spread era oltre 500 e il sistema economico italiano rischiava il collasso. Quello di Mario Monti fu un Governo 'tutto tecnico'. La maggioranza dei partiti diede 'obtorto collo' l'appoggio per riportare la disastrata barca italiana in galleggiamento. Con Draghi - come si ipotizza in alcuni ambienti politici - si potrebbe utilizzare il 'modello Ciampi', in base al quale il premier sceglie i ministri ed i partiti i sottosegretari. Serve un leader che, per il Paese del dopo-virus, abbia al contempo una visione chiara delle cose da fare e il carisma adeguato per attuarle. Non pochi osservatori ritengono che anche al Quirinale si stia valutando questa ipotesi. Daris Giancarlini]]>
Mario Draghi

Mi dichiaro subito: sono un patito della competenza. Per questo mi sento di dire che per far ripartire il sistema economico italiano serve un nuovo governo. Ma soprattutto un nuovo premier. Per me, Mario Draghi. Non si tratta di scegliere tra morire di coronavirus o di fame. Si tratta di affrontare entrambe le emergenze con le 'armi' più adeguate. E con le persone maggiormente all'altezza della gravità - estrema, in entrambi i casi - della situazione e delle sue conseguenze. Draghi sul dopo-contagio dell'economia, italiana ed europea, da tempo ha chiaramente e autorevolmente detto la sua, richiamando i governi ad "agire subito, di fronte a una tragedia umana di proporzioni bibliche". La pandemia ha quasi del tutto azzerato il convincimento diffuso ad arte da alcune forze politiche che uno valesse uno. Finché va tutto bene, sono messaggi che si possono lanciare, contando sulla superficialità o sulla distrazione di chi li riceve. Quando però è in atto una tragedia, tutti - anche coloro che fino a un minuto prima consideravano competenza e preparazione come privilegi acquisiti chissà con quali sotterfugi - invocano l'esperto. Colui che ne sa di più e che può fornire ricette efficaci. Sotto il profilo sanitario, ormai da mesi gli scienziati, i ricercatori, i medici sono - ovviamente, e fortunatamente - al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica intera.

Nulla è cambiato nei e tra i partiti

Valutando il comportamento delle forze politiche - tutte - degli ultimi giorni e settimane, con il Paese in quarantena - non sembra che l'emergenza sanitaria abbia influito più di tanto sui loro atteggiamenti. Le polemiche dentro e tra gli schieramenti non si attenuano (nei Cinquestelle è in atto una spaccatura che farà presto a diventare scissione), i personalismi non si placano (cosa sono, se non questo, le critiche di Renzi a Conte?), gli stereotipi con cui si approcciano i problemi non si modificano. Tanto che viene da pensare a una reale incapacità di cambiare schemi e approcci, mediatici e progettuali, rispetto a una realtà imprevista e ad un futuro tutt'altro che roseo. Il tutto condito da approssimazione e confusione. Come si spiegano altrimenti - tanto per fare alcuni esempi - la miriade di ordinanze regionali che vanno a modificare anche in modo sostanziale molte direttive del Governo nazionale sulla gestione dell'emergenza sanitaria? O, dal punto di vista più propriamente politico, come si può valutare se non con i criteri della confusione ideologica e dell'approssimazione propagandistica, il voto - frammentato al punto da risultare autolesionistico - espresso dai partiti italiani di maggioranza e opposizione al Parlamento europeo sulla risoluzione che riguardava gli aiuti per la ripartenza? Le polemiche tra regioni del Nord e del Sud sono sterili, inconcludenti. Non risolvono mezzo problema e fanno riferimento a schematismi partitici che con la pandemia in atto risultano totalmente fuori contesto. Visto tutto ciò, e valutando il disastro economico che il contagio si porta dietro, pare da escludere che la forze politiche attualmente sulla scena riescano a compiere quel passo in più verso la coesione che servirebbe come successe dopo l'ultima guerra e negli anni del terrorismo per far ripartire il Paese. Con altri partiti. Soprattutto con altri leader. Per l'economia, come per la salute, si dovrà affrontare un'emergenza di dimensioni epocali. Alle forze politiche va chiesto un bagno di umiltà e una temporanea rinuncia alla ricerca del consenso fine a se stessa. Garantendo un comune sostegno al lavoro di un 'esperto', riconosciuto e stimato, della materia come ha dimostrato di essere Draghi.

Serve un leader per il dopo virus

D'altronde lo si fece anche nel 2011, quando lo spread era oltre 500 e il sistema economico italiano rischiava il collasso. Quello di Mario Monti fu un Governo 'tutto tecnico'. La maggioranza dei partiti diede 'obtorto collo' l'appoggio per riportare la disastrata barca italiana in galleggiamento. Con Draghi - come si ipotizza in alcuni ambienti politici - si potrebbe utilizzare il 'modello Ciampi', in base al quale il premier sceglie i ministri ed i partiti i sottosegretari. Serve un leader che, per il Paese del dopo-virus, abbia al contempo una visione chiara delle cose da fare e il carisma adeguato per attuarle. Non pochi osservatori ritengono che anche al Quirinale si stia valutando questa ipotesi. Daris Giancarlini]]>
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EMERGENZA. In Italia sta salendo quella sociale https://www.lavoce.it/emergenza-sociale/ Thu, 09 Apr 2020 09:25:03 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56834 emergenza sanitaria. Monipoli gioco da tavola

Quando la curva dell’emergenza sanitaria in discesa incrocerà la curva dell’emergenza sociale in salita, a quell’incrocio potrebbe verificarsi la rottura del sistema. Lo ha messo nero su bianco il Copasir, organo del Parlamento che controlla i servizi segreti, a proposito delle conseguenze che la pandemia potrebbe avere sul tessuto sociale ed economico in Italia. C’è anche questo genere di preoccupazioni, alla base delle sollecitazioni, esterne e interne a Governo e maggioranza. Progettare una ripartenza di quel ‘sistema’ che il Copasir considera a rischio collasso.

Quando riaprire? E come?

Il dibattito su questo argomento (quando riaprire? E come?) è acceso e a tratti contraddittorio, in quanto suscettibile di spinte spesso divergenti e inconciliabili. Così come lo era stato quello su quando e quanto ‘chiudere’. La sostanza del confronto - scremato da inevitabili, quanto inopportuni e incongruenti politicismi - appare quella tra le ragioni, ineludibili, della scienza, e quelle della politica. In questo lungo ‘frattempo’ al quale ci sta sottoponendo un virus inaspettato e sconosciuto, le storiche distanze tra scienza e società appaiono notevolmente ridotte, se non azzerate. Quella scienza da sempre, in Italia, ‘cenerentola’ dal punto di vista della destinazione delle risorse necessarie a portare avanti il livello di ricerca tipico dei Paesi che si vogliano dire civili. Ora che le decisioni della politica sembrano dipendere in modo praticamente totale da quelle di virologi, microbiologici e altri scienziati e ricercatori, il rischio che si profila è che la scienza e le sue verità sul virus diventino una sorta di paravento dietro il quale i ‘decisori pubblici’ si rifugiano per coprire le loro incertezze e tentennamenti. È ovvio che per la scienza - nel caso particolare, per la medicina - la vita e la salute delle persone è il principale obiettivo da conseguire. La politica agisce su uno spettro più ampio, occupandosi della svolgersi della vita in tutti i suoi aspetti. Ricerca compresa. E tra le caratteristiche dell’agire politico, una delle più rilevanti è quella di compiere scelte. Così, quando chi gestisce le sorti del Paese pensa al dopo-pandemia, si suppone che lo faccia tenendo ben presente, prima di tutto, quell’incrocio (che potrebbe essere funesto) tra curva dell’emergenza sanitaria in discesa e curva dell’emergenza sociale in salita.

Spinte a ripartire ne arrivano da più parti.

Molte mosse da interessi particolari, di vario genere e non sempre nobili. Ma altre hanno come molla la legittima preoccupazione che si ponga il quesito, tranciante, tra scegliere se morire di virus o di fame. “Non possiamo immaginare mesi e mesi con un blocco come quello di oggi. La politica deve saper governare gli eventi, non subirli” ha detto la ministra delle Pari opportunità e della famiglia, Elena Bonetti. Sollecita dall’interno della compagine governativa uno sforzo di progettazione che, soppesando rischi e pericoli, sappia dimostrare - non soltanto con la quantità di risorse finanziarie che serve alla ripartenza - quel cambio di passo, anche psicologico, che dopo tante settimane di ‘fermo’ l’intera collettività si aspetta.

Le basi nel dopo-virus

Quello che si chiede ora alla politica è soprattutto una visione in base alla quale, riuscendo a decrittare il significato e l’essenza di quanto sta accadendo (prima di tutto con l’ineludibile supporto della scienza), si possano mettere le basi per delineare un disegno complessivo della società in Italia nel dopo-virus. Una società dove magari le leggi vengono applicate in modo efficace e immediato. Dove la burocrazia sia concepita non come un intralcio ma come un supporto alla costruzione del benessere collettivo. Dove i supporti tecnologici siano all’altezza di un Paese evoluto. E dove il lavoro abbia la dignità che merita. Molti si chiedono da dove ripartire: “da zero” mi sembra la risposta più sensata. Ci vuole coraggio, responsabilità e una visione. Altrimenti la politica, quella che negli ultimi anni ha cercato soprattutto consenso nel breve termine promettendo la luna, avrà dimostrato - pericolosamente, per una democrazia - la propria inutilità. Daris Giancarlini]]>
emergenza sanitaria. Monipoli gioco da tavola

Quando la curva dell’emergenza sanitaria in discesa incrocerà la curva dell’emergenza sociale in salita, a quell’incrocio potrebbe verificarsi la rottura del sistema. Lo ha messo nero su bianco il Copasir, organo del Parlamento che controlla i servizi segreti, a proposito delle conseguenze che la pandemia potrebbe avere sul tessuto sociale ed economico in Italia. C’è anche questo genere di preoccupazioni, alla base delle sollecitazioni, esterne e interne a Governo e maggioranza. Progettare una ripartenza di quel ‘sistema’ che il Copasir considera a rischio collasso.

Quando riaprire? E come?

Il dibattito su questo argomento (quando riaprire? E come?) è acceso e a tratti contraddittorio, in quanto suscettibile di spinte spesso divergenti e inconciliabili. Così come lo era stato quello su quando e quanto ‘chiudere’. La sostanza del confronto - scremato da inevitabili, quanto inopportuni e incongruenti politicismi - appare quella tra le ragioni, ineludibili, della scienza, e quelle della politica. In questo lungo ‘frattempo’ al quale ci sta sottoponendo un virus inaspettato e sconosciuto, le storiche distanze tra scienza e società appaiono notevolmente ridotte, se non azzerate. Quella scienza da sempre, in Italia, ‘cenerentola’ dal punto di vista della destinazione delle risorse necessarie a portare avanti il livello di ricerca tipico dei Paesi che si vogliano dire civili. Ora che le decisioni della politica sembrano dipendere in modo praticamente totale da quelle di virologi, microbiologici e altri scienziati e ricercatori, il rischio che si profila è che la scienza e le sue verità sul virus diventino una sorta di paravento dietro il quale i ‘decisori pubblici’ si rifugiano per coprire le loro incertezze e tentennamenti. È ovvio che per la scienza - nel caso particolare, per la medicina - la vita e la salute delle persone è il principale obiettivo da conseguire. La politica agisce su uno spettro più ampio, occupandosi della svolgersi della vita in tutti i suoi aspetti. Ricerca compresa. E tra le caratteristiche dell’agire politico, una delle più rilevanti è quella di compiere scelte. Così, quando chi gestisce le sorti del Paese pensa al dopo-pandemia, si suppone che lo faccia tenendo ben presente, prima di tutto, quell’incrocio (che potrebbe essere funesto) tra curva dell’emergenza sanitaria in discesa e curva dell’emergenza sociale in salita.

Spinte a ripartire ne arrivano da più parti.

Molte mosse da interessi particolari, di vario genere e non sempre nobili. Ma altre hanno come molla la legittima preoccupazione che si ponga il quesito, tranciante, tra scegliere se morire di virus o di fame. “Non possiamo immaginare mesi e mesi con un blocco come quello di oggi. La politica deve saper governare gli eventi, non subirli” ha detto la ministra delle Pari opportunità e della famiglia, Elena Bonetti. Sollecita dall’interno della compagine governativa uno sforzo di progettazione che, soppesando rischi e pericoli, sappia dimostrare - non soltanto con la quantità di risorse finanziarie che serve alla ripartenza - quel cambio di passo, anche psicologico, che dopo tante settimane di ‘fermo’ l’intera collettività si aspetta.

Le basi nel dopo-virus

Quello che si chiede ora alla politica è soprattutto una visione in base alla quale, riuscendo a decrittare il significato e l’essenza di quanto sta accadendo (prima di tutto con l’ineludibile supporto della scienza), si possano mettere le basi per delineare un disegno complessivo della società in Italia nel dopo-virus. Una società dove magari le leggi vengono applicate in modo efficace e immediato. Dove la burocrazia sia concepita non come un intralcio ma come un supporto alla costruzione del benessere collettivo. Dove i supporti tecnologici siano all’altezza di un Paese evoluto. E dove il lavoro abbia la dignità che merita. Molti si chiedono da dove ripartire: “da zero” mi sembra la risposta più sensata. Ci vuole coraggio, responsabilità e una visione. Altrimenti la politica, quella che negli ultimi anni ha cercato soprattutto consenso nel breve termine promettendo la luna, avrà dimostrato - pericolosamente, per una democrazia - la propria inutilità. Daris Giancarlini]]>
Economia. Davvero la soluzione alla crisi è stampare soldi? https://www.lavoce.it/economia-soluzione-stampare-moneta/ https://www.lavoce.it/economia-soluzione-stampare-moneta/#comments Sun, 05 Apr 2020 14:39:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56744 Logo rubrica Il punto

Di giorno in giorno il Governo è costretto a varare nuovi finanziamenti, per diecine o centinaia di miliardi di euro: per la sanità, per le imprese, per le famiglie rimaste senza reddito. In una rincorsa senza fine, se il Governo promette 100, le opposizioni chiedono 200; se il Governo promette 200, chiedono 300... tanto, mica tocca a loro trovare i soldi. Salvini, poi, ha trovato la soluzione: se i soldi mancano, stampateli! Che idea geniale, perché non ci ha pensato nessuno? In verità, perfino la Banca centrale europea lo fa già. Il famoso whatever it takes, “tutto quello che ci vuole”, di Draghi significa proprio questo: creare liquidità da girare agli Stati in difficoltà sotto forma di acquisto dei loro buoni del Tesoro (titoli di debito). Fino a che lo Stato italiano aveva il governo della propria moneta, ha stampato denaro massicciamente. Purtroppo è una pratica che va fatta con molto giudizio, perché stampare denaro (tecnicamente: mettere in circolazione nuova liquidità cui non corrisponde un incremento della ricchezza collettiva in termini reali) produce inflazione e svalutazione. E cioè, circola più denaro, ma vale di meno. In particolare si svalutano i risparmi, le pensioni e gli stipendi dei lavoratori a reddito fisso. In Italia abbiamo vissuto queste esperienze per decenni, quando la lira si svalutava del 10 per cento all’anno e anche più. E se non si sta attenti, il meccanismo sfugge di mano e va avanti a valanga, da solo. Nella storia c’è un caso famoso ma non unico: quello della Germania fra il 1919 e il 1923. Cominciarono a stampare moneta per rimborsare i titoli che avevano emesso per finanziare la guerra (perduta). Andò a finire che nel 1923, per comprare quello che nel 1919 costava un marco, ce ne volevano mille miliardi (non scherzo!). Poiché non esistevano carte di credito o altri ritrovati del genere, le persone andavano a fare la spesa con una carriola piena di banconote, e cercavano di spenderle subito, perché già il giorno dopo il loro valore sarebbe svanito. Questo succede con la politica della spesa troppo facile. In economia, i demagoghi sono una piaga. Pier Giorgio Lignani]]>
Logo rubrica Il punto

Di giorno in giorno il Governo è costretto a varare nuovi finanziamenti, per diecine o centinaia di miliardi di euro: per la sanità, per le imprese, per le famiglie rimaste senza reddito. In una rincorsa senza fine, se il Governo promette 100, le opposizioni chiedono 200; se il Governo promette 200, chiedono 300... tanto, mica tocca a loro trovare i soldi. Salvini, poi, ha trovato la soluzione: se i soldi mancano, stampateli! Che idea geniale, perché non ci ha pensato nessuno? In verità, perfino la Banca centrale europea lo fa già. Il famoso whatever it takes, “tutto quello che ci vuole”, di Draghi significa proprio questo: creare liquidità da girare agli Stati in difficoltà sotto forma di acquisto dei loro buoni del Tesoro (titoli di debito). Fino a che lo Stato italiano aveva il governo della propria moneta, ha stampato denaro massicciamente. Purtroppo è una pratica che va fatta con molto giudizio, perché stampare denaro (tecnicamente: mettere in circolazione nuova liquidità cui non corrisponde un incremento della ricchezza collettiva in termini reali) produce inflazione e svalutazione. E cioè, circola più denaro, ma vale di meno. In particolare si svalutano i risparmi, le pensioni e gli stipendi dei lavoratori a reddito fisso. In Italia abbiamo vissuto queste esperienze per decenni, quando la lira si svalutava del 10 per cento all’anno e anche più. E se non si sta attenti, il meccanismo sfugge di mano e va avanti a valanga, da solo. Nella storia c’è un caso famoso ma non unico: quello della Germania fra il 1919 e il 1923. Cominciarono a stampare moneta per rimborsare i titoli che avevano emesso per finanziare la guerra (perduta). Andò a finire che nel 1923, per comprare quello che nel 1919 costava un marco, ce ne volevano mille miliardi (non scherzo!). Poiché non esistevano carte di credito o altri ritrovati del genere, le persone andavano a fare la spesa con una carriola piena di banconote, e cercavano di spenderle subito, perché già il giorno dopo il loro valore sarebbe svanito. Questo succede con la politica della spesa troppo facile. In economia, i demagoghi sono una piaga. Pier Giorgio Lignani]]>
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Da Assisi l’impegno per una economia giusta e sostenibile https://www.lavoce.it/da-assisi-limpegno-per-una-economia-giusta-e-sostenibile/ Fri, 24 Jan 2020 14:05:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56063

“Siamo convinti che, in presenza di politiche serie e lungimiranti, sia possibile azzerare il contributo netto di emissione dei gas serra entro il 2050. Questa sfida può rinnovare la missione dell’Europa dandole forza e centralità. E può vedere un’Italia in prima fila”. È un passaggio del “Manifesto di Assisi” “contro la crisi climatica” presentato ad Assisi questa mattina con un evento nazionale al quale ha partecipato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. L’impegno dei sottoscrittori del Manifesto è costruire un’economia e una società più a misura d’uomo in grado di affrontare con coraggio la crisi climatica, grazie ad una nuova alleanza tra istituzioni, mondo economico, politica, società e cultura. “Siamo in tanti ad aver sottoscritto il Manifesto che Ermete ha ideato insieme ad alcuni esperti di economia. Oltre 2000 firme, di grande rappresentatività. E oltre 2000 saranno anche i giovani “quattro amici” che, con Papa Francesco, verranno a fine marzo con la voglia di cambiare l’economia. Li attendiamo con speranza: non possiamo e non vogliamo più tornare indietro. E sono convinto che insieme – noi tutti, i giovani e Francesco – cambieremo il mondo” ha detto il Custode del Sacro Convento, padre Mauro Gambetti, in apertura dell'incontro. Il Manifesto ha raccolto le firme di tanti cittadini ma anche e soprattutto imprenditori, a cominciare dai promotori: Confindustria, Coldiretti, Gruppo Enel, Novamont (la multinazionale umbra leader nel settore delle bioplastiche impegnata per lo sviluppo sostenibile) che con la Fondazione “Symbola” e il Sacro Convento di Assisi, hanno promosso il Manifesto. [gallery ids="56067,56066,56065,56064"]

Questo il testo del Manifesto

IL MANIFESTO DI ASSISI

Un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica

Qui sotto, il testo completo del Manifesto. Si trova pubblicato sul sito www.symbola.net, dove è anche possibile firmarlo. Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma rappresenta una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro. È una sfida di enorme portata che richiede il contributo delle migliori energie tecnologiche, istituzionali, politiche, sociali, culturali. Il contributo di tutti i mondi economici e produttivi e soprattutto la partecipazione dei cittadini. Importante è stato ed è in questa direzione il ruolo dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Siamo convinti che, in presenza di politiche serie e lungimiranti, sia possibile azzerare il contributo netto di emissione dei gas serra entro il 2050. Questa sfida può rinnovare la missione dell’Europa dandole forza e centralità. E può vedere un’Italia in prima fila. Già oggi in molti settori, dall’industria all’agricoltura, dall’artigianato ai servizi, dal design alla ricerca, siamo protagonisti nel campo dell’ economia circolare e sostenibile. Siamo, ad esempio, primi in Europa come percentuale di riciclo dei rifiuti prodotti. La nostra green economy rende più competitive le nostre imprese e produce posti di lavoro affondando le radici, spesso secolari, in un modo di produrre legato alla qualità, alla bellezza, all’efficienza, alla storia delle città, alle esperienze positive di comunità e territori. Fa della coesione sociale un fattore produttivo e coniuga empatia e tecnologia. Larga parte della nostra economia dipende da questo. I nostri problemi sono grandi e antichi: non solo il debito pubblico ma le diseguaglianze sociali e territoriali, l’illegalità e l’economia in nero, una burocrazia spesso inefficiente e soffocante, l’incertezza per il presente e il futuro che alimenta paure. Ma l’ Italia è anche in grado di mettere in campo risorse ed esperienze che spesso non siamo in grado di valorizzare. Noi siamo convinti che non c’è nulla di sbagliato in Italia che non possa essere corretto con quanto di giusto c’è in Italia. La sfida della crisi climatica può essere l’occasione per mettere in movimento il nostro Paese in nome di un futuro comune e migliore. Noi, in ogni caso, nei limiti delle nostre possibilità, lavoreremo in questa direzione, senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno. Un’Italia che fa l’Italia, a partire dalle nostre tradizioni migliori, è essenziale per questa sfida e può dare un importante contributo per provare a costruire un mondo più sicuro, civile, gentile.]]>

“Siamo convinti che, in presenza di politiche serie e lungimiranti, sia possibile azzerare il contributo netto di emissione dei gas serra entro il 2050. Questa sfida può rinnovare la missione dell’Europa dandole forza e centralità. E può vedere un’Italia in prima fila”. È un passaggio del “Manifesto di Assisi” “contro la crisi climatica” presentato ad Assisi questa mattina con un evento nazionale al quale ha partecipato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. L’impegno dei sottoscrittori del Manifesto è costruire un’economia e una società più a misura d’uomo in grado di affrontare con coraggio la crisi climatica, grazie ad una nuova alleanza tra istituzioni, mondo economico, politica, società e cultura. “Siamo in tanti ad aver sottoscritto il Manifesto che Ermete ha ideato insieme ad alcuni esperti di economia. Oltre 2000 firme, di grande rappresentatività. E oltre 2000 saranno anche i giovani “quattro amici” che, con Papa Francesco, verranno a fine marzo con la voglia di cambiare l’economia. Li attendiamo con speranza: non possiamo e non vogliamo più tornare indietro. E sono convinto che insieme – noi tutti, i giovani e Francesco – cambieremo il mondo” ha detto il Custode del Sacro Convento, padre Mauro Gambetti, in apertura dell'incontro. Il Manifesto ha raccolto le firme di tanti cittadini ma anche e soprattutto imprenditori, a cominciare dai promotori: Confindustria, Coldiretti, Gruppo Enel, Novamont (la multinazionale umbra leader nel settore delle bioplastiche impegnata per lo sviluppo sostenibile) che con la Fondazione “Symbola” e il Sacro Convento di Assisi, hanno promosso il Manifesto. [gallery ids="56067,56066,56065,56064"]

Questo il testo del Manifesto

IL MANIFESTO DI ASSISI

Un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica

Qui sotto, il testo completo del Manifesto. Si trova pubblicato sul sito www.symbola.net, dove è anche possibile firmarlo. Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma rappresenta una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro. È una sfida di enorme portata che richiede il contributo delle migliori energie tecnologiche, istituzionali, politiche, sociali, culturali. Il contributo di tutti i mondi economici e produttivi e soprattutto la partecipazione dei cittadini. Importante è stato ed è in questa direzione il ruolo dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Siamo convinti che, in presenza di politiche serie e lungimiranti, sia possibile azzerare il contributo netto di emissione dei gas serra entro il 2050. Questa sfida può rinnovare la missione dell’Europa dandole forza e centralità. E può vedere un’Italia in prima fila. Già oggi in molti settori, dall’industria all’agricoltura, dall’artigianato ai servizi, dal design alla ricerca, siamo protagonisti nel campo dell’ economia circolare e sostenibile. Siamo, ad esempio, primi in Europa come percentuale di riciclo dei rifiuti prodotti. La nostra green economy rende più competitive le nostre imprese e produce posti di lavoro affondando le radici, spesso secolari, in un modo di produrre legato alla qualità, alla bellezza, all’efficienza, alla storia delle città, alle esperienze positive di comunità e territori. Fa della coesione sociale un fattore produttivo e coniuga empatia e tecnologia. Larga parte della nostra economia dipende da questo. I nostri problemi sono grandi e antichi: non solo il debito pubblico ma le diseguaglianze sociali e territoriali, l’illegalità e l’economia in nero, una burocrazia spesso inefficiente e soffocante, l’incertezza per il presente e il futuro che alimenta paure. Ma l’ Italia è anche in grado di mettere in campo risorse ed esperienze che spesso non siamo in grado di valorizzare. Noi siamo convinti che non c’è nulla di sbagliato in Italia che non possa essere corretto con quanto di giusto c’è in Italia. La sfida della crisi climatica può essere l’occasione per mettere in movimento il nostro Paese in nome di un futuro comune e migliore. Noi, in ogni caso, nei limiti delle nostre possibilità, lavoreremo in questa direzione, senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno. Un’Italia che fa l’Italia, a partire dalle nostre tradizioni migliori, è essenziale per questa sfida e può dare un importante contributo per provare a costruire un mondo più sicuro, civile, gentile.]]>
Come si esce dalla doppia crisi, quella economica e quella istituzionale? https://www.lavoce.it/crisi-economica-istituzionale/ Tue, 18 Jun 2019 21:00:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54728 crisi

Le vicende giudiziarie che hanno travolto la Giunta regionale e il partito di maggioranza vanno evidentemente consegnate al lavoro degli organi inquirenti. Il tema che invece andrebbe sollevato è un altro: è quello del futuro, della prospettiva di questa regione.

E ancora, di come si possano e si debbano affrontare le difficoltà accumulate in questi anni. In altre parole, come si esce dalla doppia crisi, quella economica e quella istituzionale? Ciò mentre le attenzioni si concentrano sulle vicende giudiziarie e quelle elettorali, evidentemente più appetibili sul fronte del gossip e tanto apprezzato dai media. Il dibattito sui temi centrali quindi, ancora una volta, finisce fuori dai binari, lontano dalle azioni e dagli obiettivi necessari.

Tema centrale: il futuro dell'Umbria

I temi centrali della nostra regione rimangono, anzi si inaspriscono: sono quelli del lavoro e della produzione, della tenuta di un welfare di qualità e di solide relazioni sociali e umane. Il lavoro, e soprattutto la sua mancanza, è la causa del declino demografico, della fuga dei giovani, dello spopolamento del territorio: questioni aperte che pesano drammaticamente sul presente e soprattutto sul futuro dell’Umbria.

La crisi istituzionale (al saldo dei pruriti, delle vendette, del gossip) alla fine comporta il blocco delle attività politico-istituzionali e amministrative. Questo accade proprio mentre si era vicini a un accordo che, con grande fatica, avrebbe tentato di cambiare passo e di mettere al centro del dibattito le priorità per avviare una possibile svolta.

La crisi politica bloccherà le iniziative concrete

Consegnare questa opportunità alla crisi e alla propaganda elettorale significa perdere un’occasione e regalare alla crisi e ai suoi attori la possibilità di continuare a non fare nulla. La crisi politico-istituzionale, di fatto, bloccherà ogni iniziativa per dare qualche risposta alle emergenze regionali, nella costruzione di quella prospettiva che tende a un progetto di possibile cambiamento.

Se a tutto ciò sommiamo l’inasprirsi della recessione economica, mutuata dall’Europa, le condizioni non potranno che peggiorare e le conseguenze saranno ancora più pesanti di quelle attuali.

Con rammarico, non ci resta che constatare come ancora una volta si sia persa l’occasione per cercare di tentare una svolta, una discontinuità, evidenziando quanto sia difficile uscire da un sistema consolidato di gestione e di pensiero, che rende la nostra regione particolarmente refrattaria al cambiamento.

Le motivazioni di certi ostinati comportamenti troveranno sicuramente innumerevoli motivazioni e giustificazioni, ma non colmeranno la distanza dalla gente che, ancora una volta, si sentirà tradita, attendendo invano l’attenzione della politica, che prosegue “adelante ma sin juicio”, sorda ad ogni richiamo.

Così, di delusione in delusione, la politica e chi la rappresenta nelle varie istanze perde sempre di più il contatto con il popolo responsabile, per ingrossare le fila di quello deluso, rabbioso,vendicativo, finendo con l’alimentare la politica peggiore e i miasmi più profondi della nostranatura, rianimando sentimenti razzisti, violenti, intolleranti.

Tale scenario non potrà che determinare un peggioramento generalizzato delle condizioni, in particolare di quelle economiche che costringeranno politica e produzione a reagire all’inasprimento della recessione allentando i meccanismi di controllo, delle relazioni sociali e della contrattazione. Un rischio questo già abbastanza evidente nella modifica peggiorativa della legge sugli appalti, nelle ridotte risorse all’Inail, nel reddito minimo per legge, nella crescita del dumping contrattuale, nei tagli alla scuola.

In sostanza, una situazione che preannuncia uno scenario di maggiore precarietà, meno tutele e diritti, meno sicurezza sul lavoro. Il ritorno a politiche di emergenza riaprirà la questione della legalità e delle pratiche “tolleranti” con cui si affronteranno, nella quotidianità, le relazioni, le transazioni economiche e il mercato del lavoro.

Mentre il lavoro, la produzione con il welfare e relazioni sociali sono uscite dal dibattito politico, l’inasprirsi della recessione giustificherà pratiche - per affrontare quell’emergenza - che penalizzeranno lavoratori e cittadini, già fortemente provati. La doppia crisi economicosociale e politico-istituzionale rischierà di aggravare le condizioni dell’Umbria, già stabilmente collocata dall’Ocse tra le regioni del Sud.

Tutto questo mentre il divario con le persone si allarga, l’emergenza aumenta e lo scenario non offre una bella prospettiva, nonostante i mutamenti elettorali, che non potranno risolvere i problemi e i ritardi accumulati.

Che fare?

A questo punto non ci resterà che appellarci a un mondo libero e responsabile che pur esiste nel lavoro, nel sociale, nell’ambientalismo, nella produzione. Ambiti, questi, da sollecitare e mettere in positiva connessione.

Vanno dunque create le condizioni perché queste forze diventino generative e capaci di ridare speranza, progettualità e impegno a un processo che altrimenti rischierebbe di essere inarrestabile, costruendo rapidamente luoghi di confronto e contaminazione capaci di elaborare proposte concrete per affrontare il futuro a cominciare dal confronto elettorale regionale.

Si tratta di ridare un ruolo alla politica nel costruire una società inclusiva, sostenibile e solidale: un progetto di comunità aperta basata su credibilità, partecipazione, trasparenza e valori condivisi.

Così proveremo a metterci definitivamente alle spalle un triste finale di partita, che ci porta a riflettere e considerare che “ciò che non si rigenera, alla fine degenera”.

Ulderico Sbarra segretario regionale Cisl Umbria

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crisi

Le vicende giudiziarie che hanno travolto la Giunta regionale e il partito di maggioranza vanno evidentemente consegnate al lavoro degli organi inquirenti. Il tema che invece andrebbe sollevato è un altro: è quello del futuro, della prospettiva di questa regione.

E ancora, di come si possano e si debbano affrontare le difficoltà accumulate in questi anni. In altre parole, come si esce dalla doppia crisi, quella economica e quella istituzionale? Ciò mentre le attenzioni si concentrano sulle vicende giudiziarie e quelle elettorali, evidentemente più appetibili sul fronte del gossip e tanto apprezzato dai media. Il dibattito sui temi centrali quindi, ancora una volta, finisce fuori dai binari, lontano dalle azioni e dagli obiettivi necessari.

Tema centrale: il futuro dell'Umbria

I temi centrali della nostra regione rimangono, anzi si inaspriscono: sono quelli del lavoro e della produzione, della tenuta di un welfare di qualità e di solide relazioni sociali e umane. Il lavoro, e soprattutto la sua mancanza, è la causa del declino demografico, della fuga dei giovani, dello spopolamento del territorio: questioni aperte che pesano drammaticamente sul presente e soprattutto sul futuro dell’Umbria.

La crisi istituzionale (al saldo dei pruriti, delle vendette, del gossip) alla fine comporta il blocco delle attività politico-istituzionali e amministrative. Questo accade proprio mentre si era vicini a un accordo che, con grande fatica, avrebbe tentato di cambiare passo e di mettere al centro del dibattito le priorità per avviare una possibile svolta.

La crisi politica bloccherà le iniziative concrete

Consegnare questa opportunità alla crisi e alla propaganda elettorale significa perdere un’occasione e regalare alla crisi e ai suoi attori la possibilità di continuare a non fare nulla. La crisi politico-istituzionale, di fatto, bloccherà ogni iniziativa per dare qualche risposta alle emergenze regionali, nella costruzione di quella prospettiva che tende a un progetto di possibile cambiamento.

Se a tutto ciò sommiamo l’inasprirsi della recessione economica, mutuata dall’Europa, le condizioni non potranno che peggiorare e le conseguenze saranno ancora più pesanti di quelle attuali.

Con rammarico, non ci resta che constatare come ancora una volta si sia persa l’occasione per cercare di tentare una svolta, una discontinuità, evidenziando quanto sia difficile uscire da un sistema consolidato di gestione e di pensiero, che rende la nostra regione particolarmente refrattaria al cambiamento.

Le motivazioni di certi ostinati comportamenti troveranno sicuramente innumerevoli motivazioni e giustificazioni, ma non colmeranno la distanza dalla gente che, ancora una volta, si sentirà tradita, attendendo invano l’attenzione della politica, che prosegue “adelante ma sin juicio”, sorda ad ogni richiamo.

Così, di delusione in delusione, la politica e chi la rappresenta nelle varie istanze perde sempre di più il contatto con il popolo responsabile, per ingrossare le fila di quello deluso, rabbioso,vendicativo, finendo con l’alimentare la politica peggiore e i miasmi più profondi della nostranatura, rianimando sentimenti razzisti, violenti, intolleranti.

Tale scenario non potrà che determinare un peggioramento generalizzato delle condizioni, in particolare di quelle economiche che costringeranno politica e produzione a reagire all’inasprimento della recessione allentando i meccanismi di controllo, delle relazioni sociali e della contrattazione. Un rischio questo già abbastanza evidente nella modifica peggiorativa della legge sugli appalti, nelle ridotte risorse all’Inail, nel reddito minimo per legge, nella crescita del dumping contrattuale, nei tagli alla scuola.

In sostanza, una situazione che preannuncia uno scenario di maggiore precarietà, meno tutele e diritti, meno sicurezza sul lavoro. Il ritorno a politiche di emergenza riaprirà la questione della legalità e delle pratiche “tolleranti” con cui si affronteranno, nella quotidianità, le relazioni, le transazioni economiche e il mercato del lavoro.

Mentre il lavoro, la produzione con il welfare e relazioni sociali sono uscite dal dibattito politico, l’inasprirsi della recessione giustificherà pratiche - per affrontare quell’emergenza - che penalizzeranno lavoratori e cittadini, già fortemente provati. La doppia crisi economicosociale e politico-istituzionale rischierà di aggravare le condizioni dell’Umbria, già stabilmente collocata dall’Ocse tra le regioni del Sud.

Tutto questo mentre il divario con le persone si allarga, l’emergenza aumenta e lo scenario non offre una bella prospettiva, nonostante i mutamenti elettorali, che non potranno risolvere i problemi e i ritardi accumulati.

Che fare?

A questo punto non ci resterà che appellarci a un mondo libero e responsabile che pur esiste nel lavoro, nel sociale, nell’ambientalismo, nella produzione. Ambiti, questi, da sollecitare e mettere in positiva connessione.

Vanno dunque create le condizioni perché queste forze diventino generative e capaci di ridare speranza, progettualità e impegno a un processo che altrimenti rischierebbe di essere inarrestabile, costruendo rapidamente luoghi di confronto e contaminazione capaci di elaborare proposte concrete per affrontare il futuro a cominciare dal confronto elettorale regionale.

Si tratta di ridare un ruolo alla politica nel costruire una società inclusiva, sostenibile e solidale: un progetto di comunità aperta basata su credibilità, partecipazione, trasparenza e valori condivisi.

Così proveremo a metterci definitivamente alle spalle un triste finale di partita, che ci porta a riflettere e considerare che “ciò che non si rigenera, alla fine degenera”.

Ulderico Sbarra segretario regionale Cisl Umbria

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Azienda in crisi? Ci pensano i dipendenti a “salvarla” https://www.lavoce.it/azienda-crisi-dipendenti-salvarla/ Thu, 17 Jan 2019 10:24:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53802 dipendenti

Un modo creativo e cooperativo per uscire dalla crisi: i dipendenti “salvano” l’azienda in cui lavorano diventandone soci e prendendone il controllo. Il fenomeno del “workers buyout”, ovvero dei dipendenti che rilevano in forma cooperativa un’impresa, è molto diffuso negli Stati Uniti e da qualche anno sta prendendo piede anche in Italia.

Nel 2014, infatti, un decreto del Ministero dello Sviluppo economico si è affiancato alla vecchia legge Marcora (l.49/1985) e ha istituito la concessione di un finanziamento agevolato alle società cooperative, fra cui quelle costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi, al fine di favorirne la nascita e lo sviluppo.

In Umbria negli ultimi due anni ben tre aziende, tra cui anche celebri marchi dell’industria regionale, si stanno salvando così, sostenute e seguite nel percorso da Confcooperative. Nel 2017 è stato il caso della Red Colour, azienda tessile di Orvieto, e nel 2018 quello delle Officine Meccaniche Franchi di Bastia Umbra e dell’Interpan di Amelia.

La Red Colour produceva e produce abiti di sartoria per marchi dell’alta moda, ma nel 2012 a causa di un’alluvione subì gravi danni ai macchinari. Le perdite riportate causarono l’avvicendamento di vari proprietari fino alla chiusura nel 2016. Allora quattro sarte spe- cializzate nella confezione di capi di seta, presero il controllo investendo i loro risparmi e da quel momento la produzione è ripartita.

Le Officine Meccaniche Franchi sono invece una storica azienda di Bastia Umbra operante nel settore dell’industria metalmeccanica da un secolo, rilevata recentemente da una Srl che ha attraversato una improvvisa crisi lo scorso anno. Dopo mesi senza lavoro e senza stipendio, i dipendenti non si sono arresi e hanno fondato la cooperativa Carpenterie Metalliche Umbre che ora punta a rilanciare l’azienda.

Stessa sorte dell’ Interpan, ex Gruppo Novelli: i dipendenti dello stabilimento di Amelia, provati dalla crisi dell’azienda cui erano molto legati, hanno fondato la Ternipan e si sono aggiudicati il bando di gara a seguito del Concordato del Tribunale.

Storie a lieto fine il cui percorso però comporta sempre fatica e dei rischi da parte dei lavoratori che investono il TFR o l’assegno di disoccupazione pur di conservare il loro posto di lavoro. Da dove e da chi nasce l’idea di riacquistare l’azienda? (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Valentina Russo

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dipendenti

Un modo creativo e cooperativo per uscire dalla crisi: i dipendenti “salvano” l’azienda in cui lavorano diventandone soci e prendendone il controllo. Il fenomeno del “workers buyout”, ovvero dei dipendenti che rilevano in forma cooperativa un’impresa, è molto diffuso negli Stati Uniti e da qualche anno sta prendendo piede anche in Italia.

Nel 2014, infatti, un decreto del Ministero dello Sviluppo economico si è affiancato alla vecchia legge Marcora (l.49/1985) e ha istituito la concessione di un finanziamento agevolato alle società cooperative, fra cui quelle costituite da lavoratori provenienti da aziende in crisi, al fine di favorirne la nascita e lo sviluppo.

In Umbria negli ultimi due anni ben tre aziende, tra cui anche celebri marchi dell’industria regionale, si stanno salvando così, sostenute e seguite nel percorso da Confcooperative. Nel 2017 è stato il caso della Red Colour, azienda tessile di Orvieto, e nel 2018 quello delle Officine Meccaniche Franchi di Bastia Umbra e dell’Interpan di Amelia.

La Red Colour produceva e produce abiti di sartoria per marchi dell’alta moda, ma nel 2012 a causa di un’alluvione subì gravi danni ai macchinari. Le perdite riportate causarono l’avvicendamento di vari proprietari fino alla chiusura nel 2016. Allora quattro sarte spe- cializzate nella confezione di capi di seta, presero il controllo investendo i loro risparmi e da quel momento la produzione è ripartita.

Le Officine Meccaniche Franchi sono invece una storica azienda di Bastia Umbra operante nel settore dell’industria metalmeccanica da un secolo, rilevata recentemente da una Srl che ha attraversato una improvvisa crisi lo scorso anno. Dopo mesi senza lavoro e senza stipendio, i dipendenti non si sono arresi e hanno fondato la cooperativa Carpenterie Metalliche Umbre che ora punta a rilanciare l’azienda.

Stessa sorte dell’ Interpan, ex Gruppo Novelli: i dipendenti dello stabilimento di Amelia, provati dalla crisi dell’azienda cui erano molto legati, hanno fondato la Ternipan e si sono aggiudicati il bando di gara a seguito del Concordato del Tribunale.

Storie a lieto fine il cui percorso però comporta sempre fatica e dei rischi da parte dei lavoratori che investono il TFR o l’assegno di disoccupazione pur di conservare il loro posto di lavoro. Da dove e da chi nasce l’idea di riacquistare l’azienda? (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce).

Valentina Russo

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Come va l’economia umbra? Le analisi di Banca d’Italia ed Ires Cgil https://www.lavoce.it/economia-umbra-banca-italia/ Sun, 02 Dec 2018 12:00:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53519 umbra

Nello stesso giorno Banca d’Italia e Cgil, incontrando separatamente i giornalisti, hanno illustrato un loro rapporto e le loro valutazioni sulla situazione e prospettive della economia in Umbria.

Con conclusioni sostanzialemente analoghe: le nostre aziende, faticosamente, hanno superato la crisi del 2008, ricreando lavoro, anche se ci sono ancora più di 35.000 disoccupati. Con una crescita, in termini di produttività ed occupazione, percentualmente inferiore alla media italiana ed a quelle delle altre regioni del Centro e che ci vede ancora un po’ più poveri di dieci anni fa e con l’indebitamento delle famiglie che aumenta.

I numeri comunque dicono che il peggio è passato, ma per il futuro le incertezze sono tante e stanno già frenando la crescita economica. Gli imprenditori sono diventati più prudenti, si guardano intorno ed intanto hanno smesso di investire.

“Oggi - ha detto il direttore della filiale perugina della Banca d’Italia, Nicola Barbera - il panorama è soleggiato ma all’orizzonte si intravedono nubi scure. I fattori di incertezza interni ed internazionali (tensioni commerciali, la guerra dei dazi, lo spread che sale) hanno consigliato di aprire gli ombrelli e così sono calati il credito alle imprese ed i loro investimenti”.

“L’economia umbra mostra alcuni segnali positivi, ma la montagna da scalare è ancora molto alta se si considera che in 10 anni si sono persi oltre 16 punti di Pil (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Enzo Ferrini

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umbra

Nello stesso giorno Banca d’Italia e Cgil, incontrando separatamente i giornalisti, hanno illustrato un loro rapporto e le loro valutazioni sulla situazione e prospettive della economia in Umbria.

Con conclusioni sostanzialemente analoghe: le nostre aziende, faticosamente, hanno superato la crisi del 2008, ricreando lavoro, anche se ci sono ancora più di 35.000 disoccupati. Con una crescita, in termini di produttività ed occupazione, percentualmente inferiore alla media italiana ed a quelle delle altre regioni del Centro e che ci vede ancora un po’ più poveri di dieci anni fa e con l’indebitamento delle famiglie che aumenta.

I numeri comunque dicono che il peggio è passato, ma per il futuro le incertezze sono tante e stanno già frenando la crescita economica. Gli imprenditori sono diventati più prudenti, si guardano intorno ed intanto hanno smesso di investire.

“Oggi - ha detto il direttore della filiale perugina della Banca d’Italia, Nicola Barbera - il panorama è soleggiato ma all’orizzonte si intravedono nubi scure. I fattori di incertezza interni ed internazionali (tensioni commerciali, la guerra dei dazi, lo spread che sale) hanno consigliato di aprire gli ombrelli e così sono calati il credito alle imprese ed i loro investimenti”.

“L’economia umbra mostra alcuni segnali positivi, ma la montagna da scalare è ancora molto alta se si considera che in 10 anni si sono persi oltre 16 punti di Pil (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Enzo Ferrini

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Effetti politici della sfiducia dilagante https://www.lavoce.it/effetti-politici-sfiducia-dilagante/ Sun, 30 Sep 2018 12:00:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53002

C’è stato un vero punto di rottura dieci anni fa.

Quando sono crollate le Borse mondiali e il mondo della finanza ha mostrato il volto della sua debolezza, dietro il paravento spavaldo della crescita dei numeri, senza radicamento reale. Gran parte delle persone nelle società occidentali si sono svegliate bruscamente da un’illusione.

Sono trascorsi due lustri, ma le ferite sanguinano ancora e gli effetti non sono solo economici. C’è un diffuso pessimismo tra i cittadini in molti Paesi. È dovuto al deterioramento delle condizioni di vita e dalla scarsa fiducia nelle risorse del sistema sociale in cui si è vissuti. Un’indagine del Pew Research Center confronta i dati di alcuni dei maggiori Paesi europei.

Sebbene in tanti Paesi il sistema economico si sia ripreso e ormai abbia raggiunto livelli superiori di quelli della crisi, la sensazione della maggioranza della popolazione è di difficoltà nel presente: questo avviene soprattutto in Grecia, in Spagna, in Italia, dove oltre il 70% dei cittadini sostiene di vivere in un contesto peggiore rispetto al passato, ma avviene anche in Francia o Giappone, dove il giudizio negativo supera il 50%. Ancora più drammatica è la percezione verso il futuro: qui sono coinvolti tutti i Paesi.

Infatti quando si chiede se gli attuali bambini godranno di una situazione economica migliore, i dati dicono che solamente il 19% degli italiani è d’accordo, come il 37% dei tedeschi, il 33% degli statunitensi o il 15% dei francesi. I risultati mostrano una scarsa e ampia sfiducia.

Questo è dovuto a una serie di reazioni che durante la crisi hanno voluto sostenere gli agenti finanziari, mentre il ceto medio ha pagato i costi più alti. Questo ha prodotto una maggiore distanza tra ricchi e poveri. Inoltre l’indagine evidenzia che una negativa visione delle future opportunità di sviluppo economico appare indicatore del radicamento populista.

Nella ricerca, infatti, l’opinione che l’attuale situazione sia disastrosa è ad esempio radicata tra gli elettori del Front national in Francia, di “Alleanza per la Germania”, di “Svezia democratica” (di estrema destra). I Paesi dove il pessimismo verso il futuro è maggiore sono quelli in cui le forze populiste raccolgono maggiori consensi, come avviene in Italia, Ungheria, Polonia. La loro proposta per l’economia è l’isolazionismo.

Secondo una formula molto semplice: i cattivi vengono da fuori. Però individuare un capro espiatorio non sempre risolve i problemi reali, anche se è un forte catalizzatore che attrae le simpatie di quelli che sono usciti sconfitti dalla crisi economica.

Andrea Casavecchia

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C’è stato un vero punto di rottura dieci anni fa.

Quando sono crollate le Borse mondiali e il mondo della finanza ha mostrato il volto della sua debolezza, dietro il paravento spavaldo della crescita dei numeri, senza radicamento reale. Gran parte delle persone nelle società occidentali si sono svegliate bruscamente da un’illusione.

Sono trascorsi due lustri, ma le ferite sanguinano ancora e gli effetti non sono solo economici. C’è un diffuso pessimismo tra i cittadini in molti Paesi. È dovuto al deterioramento delle condizioni di vita e dalla scarsa fiducia nelle risorse del sistema sociale in cui si è vissuti. Un’indagine del Pew Research Center confronta i dati di alcuni dei maggiori Paesi europei.

Sebbene in tanti Paesi il sistema economico si sia ripreso e ormai abbia raggiunto livelli superiori di quelli della crisi, la sensazione della maggioranza della popolazione è di difficoltà nel presente: questo avviene soprattutto in Grecia, in Spagna, in Italia, dove oltre il 70% dei cittadini sostiene di vivere in un contesto peggiore rispetto al passato, ma avviene anche in Francia o Giappone, dove il giudizio negativo supera il 50%. Ancora più drammatica è la percezione verso il futuro: qui sono coinvolti tutti i Paesi.

Infatti quando si chiede se gli attuali bambini godranno di una situazione economica migliore, i dati dicono che solamente il 19% degli italiani è d’accordo, come il 37% dei tedeschi, il 33% degli statunitensi o il 15% dei francesi. I risultati mostrano una scarsa e ampia sfiducia.

Questo è dovuto a una serie di reazioni che durante la crisi hanno voluto sostenere gli agenti finanziari, mentre il ceto medio ha pagato i costi più alti. Questo ha prodotto una maggiore distanza tra ricchi e poveri. Inoltre l’indagine evidenzia che una negativa visione delle future opportunità di sviluppo economico appare indicatore del radicamento populista.

Nella ricerca, infatti, l’opinione che l’attuale situazione sia disastrosa è ad esempio radicata tra gli elettori del Front national in Francia, di “Alleanza per la Germania”, di “Svezia democratica” (di estrema destra). I Paesi dove il pessimismo verso il futuro è maggiore sono quelli in cui le forze populiste raccolgono maggiori consensi, come avviene in Italia, Ungheria, Polonia. La loro proposta per l’economia è l’isolazionismo.

Secondo una formula molto semplice: i cattivi vengono da fuori. Però individuare un capro espiatorio non sempre risolve i problemi reali, anche se è un forte catalizzatore che attrae le simpatie di quelli che sono usciti sconfitti dalla crisi economica.

Andrea Casavecchia

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E la montagna del debito? https://www.lavoce.it/la-montagna-del-debito/ Wed, 21 Feb 2018 15:23:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51256 di Nicola Salvagnin

C’è san Mario sul nostro calendario? Non ci fosse (ma c’è: 19 gennaio), bisognerebbe inserire il nome del Mario che sta da anni salvando l’Italia alla guida della banca che gestisce l’euro, la Bce. Parliamo di Draghi perché nel 2019 lascerà appunto sia la prestigiosissima poltrona, sia una strategia monetaria che ha consentito appunto a tutti i Paesi della zona euro di passare indenni attraverso la peggiore crisi economico-finanziaria che memoria umana ricordi.

Lo ha fatto con una frase in inglese (whatever it takes) e con ciò che ne è conseguito da quel giorno del luglio 2012: la Bce avrebbe acquistato titoli di Stato della zona euro appunto “finché fosse necessario”. Questo eliminava l’euro dalla giostra della speculazione monetaria, e dava fiato soprattutto agli Stati più indebitati, portando i tassi a zero e il costo del debito pubblico al minimo possibile.

Sottinteso: mentre io faccio questa colossale operazione che “o la va o la spacca” (ed è andata), voi sistemate i fondamentali della vostra economia e affrontate le montagne dei vostri debiti. Quel “voi”, a bene vedere, era un superfluo plurale. Perché il messaggio era indirizzato soprattutto al Paese che aveva e ha un debito pubblico mostruoso e ai limiti del fuori controllo: l’Italia.

È stato ritrovato e soprattutto rispettato il messaggio nella bottiglia? I numeri dicono che no, non è andata proprio così. I Governi che si sono succeduti dal 2012 ad oggi hanno tenuto la “belva” sostanzialmente sotto controllo, hanno goduto dei tanti miliardi di euro di interessi risparmiati, ma non hanno scalfito di un solo sassetto la montagna che incombe sulle nostre teste. L’Italia ha passato la nuttata senza macellerie sociali e senza eccessive lacrime e sangue; ma pure senza aver cambiato di una virgola la sua situazione debitoria.

Il messaggio è stato comunque recepito? Ad ascoltare le promesse di questa campagna elettorale, assolutamente no. Ogni partito, ogni coalizione sta inventandosi modi per spendere ciò che non ha, non preoccupandosi di valutare ciò che troverà in caso di vittoria. O in realtà è un’altra favola all’italiana: prima del voto, frizzi e lazzi; dopo il voto la solita quaresima. Ma uno scarno digiuno ogni tanto non fa diminuire i troppi chili di ciccia che l’Italia ha come una zavorra e che evita come la peste di ridurre, nonostante tutte le prescrizione dei “medici”.

Speriamo che, messi al muro (il successore di Draghi non avrà quelle attenzioni verso l’Italia, e probabilmente sarà tedesco o scelto dai tedeschi), gli italiani inizino a dare il meglio di sé.

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Economia umbra. Il 2018 avrà meno disoccupazione https://www.lavoce.it/economia-umbra-2018-avra-meno-disoccupazione/ Wed, 10 Jan 2018 16:38:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50982

L’economia si è rimessa in moto e il 2017 si è concluso, secondo l’Istat, con reddito e potere di acquisto delle famiglie italiane in crescita. È così anche in Umbria? Il nuovo anno nella nostra regione comincia con più di 150 aziende in crisi e quasi 60.000 tra disoccupati e cassintegrati. Tra i fortunati che lavorano, uno su 5 (dato Inps) ha un contratto da precario e le buste paga sono più basse della media nazionale. Lo stipendio annuale medio di un lavoratore dipendente in Umbria è infatti di 32.900 euro: 3.000 euro in meno del dato nazionale. “Nonostante una recessione che qui si è fatta sentire e come, questa regione ha agganciato la ripresa - ha dichiarato la governatrice Catiuscia Marini in un’intervista al giornale La Nazione. - Ce lo dicono i numeri e lo vediamo chiaramente in tre comparti. Nell’industria: si pensi alla meccanica e all’aerospazio. Poi nell’agricoltura e agroalimentare, e infine nel turismo, che nella parte finale dell’anno ci ha restituito con gli interessi le quote sottratte dall’effetto sisma”. Ottimista anche il presidente della Camera di commercio di Perugia, Giorgio Mencaroni, secondo il quale, in base ai dati del sistema Excelsior, nella sola provincia di Perugia le imprese contano di assumere circa 10.000 lavoratori tra dicembre 2017 e la fine di febbraio 2018. Intanto però i dati economici dell’Umbria, secondo l’Ires Cgil, per l’anno appena concluso la vedono avvicinarsi sempre di più alle realtà delle regioni del nostro Sud. Dal 2008 a oggi la crisi ha ridotto il prodotto interno lordo del 14,4%, gli occupati del 3,2% e gli investimenti addirittura del 46,8%. Hanno chiuso anche 3.000 imprese: erano oltre 83.000, rispetto alle 80.000 attuali. C’è poi il problema dei 31.000 giovani umbri scoraggiati che hanno rinunciato a cercarsi un lavoro. Sono i cosiddetti “Neet”che non vanno a scuola, non partecipano a programmi di formazione professionale, e non fanno progetti per il futuro. “Per questo il 2018 sarà un anno decisivo - ha detto il segretario generale della Cgil di Perugia, Filippo Ciavaglia. - O si inverte il trend, intervenendo a livello di sistema creando lavoro, quello buono e stabile, oppure il ritardo accumulato rischia di divenire incolmabile”. Il sindacalista ha chiesto alle istituzioni locali di “aprirsi di più alle proposte delle forze sociali e al confronto”; e alle imprese e alle loro associazioni di “cambiare atteggiamento, abbandonando la linea della competizione giocata tutta sui costi, a partire da quello del lavoro”. Il tasso di disoccupazione è più alto tra i giovani, un terzo dei quali non ha un lavoro. Eppure ci sono tante aziende che hanno difficoltà a trovare le figure professionali richieste. Lo ricorda il presidente della Camera di commercio, Mencaroni. Secondo l’indagine Excelsior, per 23 posti di lavoro su 100 è difficile trovare in provincia di Perugia il candidato con le competenze richieste. Mancano operai specializzati e conduttori di impianti nelle imprese tessili, abbigliamento, calzature; operai nelle attività metalmeccaniche; tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione. Questo delle differenza tra le nuove competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori è un problema che la società, in particolare la politica e il mondo della scuola, devono affrontare. Perché è assurdo che ci siano tanti giovani che non trovano lavoro e tante imprese che, invece, non riescono ad assumere le persone delle quali avrebbero bisogno.  ]]>

L’economia si è rimessa in moto e il 2017 si è concluso, secondo l’Istat, con reddito e potere di acquisto delle famiglie italiane in crescita. È così anche in Umbria? Il nuovo anno nella nostra regione comincia con più di 150 aziende in crisi e quasi 60.000 tra disoccupati e cassintegrati. Tra i fortunati che lavorano, uno su 5 (dato Inps) ha un contratto da precario e le buste paga sono più basse della media nazionale. Lo stipendio annuale medio di un lavoratore dipendente in Umbria è infatti di 32.900 euro: 3.000 euro in meno del dato nazionale. “Nonostante una recessione che qui si è fatta sentire e come, questa regione ha agganciato la ripresa - ha dichiarato la governatrice Catiuscia Marini in un’intervista al giornale La Nazione. - Ce lo dicono i numeri e lo vediamo chiaramente in tre comparti. Nell’industria: si pensi alla meccanica e all’aerospazio. Poi nell’agricoltura e agroalimentare, e infine nel turismo, che nella parte finale dell’anno ci ha restituito con gli interessi le quote sottratte dall’effetto sisma”. Ottimista anche il presidente della Camera di commercio di Perugia, Giorgio Mencaroni, secondo il quale, in base ai dati del sistema Excelsior, nella sola provincia di Perugia le imprese contano di assumere circa 10.000 lavoratori tra dicembre 2017 e la fine di febbraio 2018. Intanto però i dati economici dell’Umbria, secondo l’Ires Cgil, per l’anno appena concluso la vedono avvicinarsi sempre di più alle realtà delle regioni del nostro Sud. Dal 2008 a oggi la crisi ha ridotto il prodotto interno lordo del 14,4%, gli occupati del 3,2% e gli investimenti addirittura del 46,8%. Hanno chiuso anche 3.000 imprese: erano oltre 83.000, rispetto alle 80.000 attuali. C’è poi il problema dei 31.000 giovani umbri scoraggiati che hanno rinunciato a cercarsi un lavoro. Sono i cosiddetti “Neet”che non vanno a scuola, non partecipano a programmi di formazione professionale, e non fanno progetti per il futuro. “Per questo il 2018 sarà un anno decisivo - ha detto il segretario generale della Cgil di Perugia, Filippo Ciavaglia. - O si inverte il trend, intervenendo a livello di sistema creando lavoro, quello buono e stabile, oppure il ritardo accumulato rischia di divenire incolmabile”. Il sindacalista ha chiesto alle istituzioni locali di “aprirsi di più alle proposte delle forze sociali e al confronto”; e alle imprese e alle loro associazioni di “cambiare atteggiamento, abbandonando la linea della competizione giocata tutta sui costi, a partire da quello del lavoro”. Il tasso di disoccupazione è più alto tra i giovani, un terzo dei quali non ha un lavoro. Eppure ci sono tante aziende che hanno difficoltà a trovare le figure professionali richieste. Lo ricorda il presidente della Camera di commercio, Mencaroni. Secondo l’indagine Excelsior, per 23 posti di lavoro su 100 è difficile trovare in provincia di Perugia il candidato con le competenze richieste. Mancano operai specializzati e conduttori di impianti nelle imprese tessili, abbigliamento, calzature; operai nelle attività metalmeccaniche; tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione. Questo delle differenza tra le nuove competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori è un problema che la società, in particolare la politica e il mondo della scuola, devono affrontare. Perché è assurdo che ci siano tanti giovani che non trovano lavoro e tante imprese che, invece, non riescono ad assumere le persone delle quali avrebbero bisogno.  ]]>
Economia umbra. Intervista al prof.Grasselli dell’Osservatorio Caritas https://www.lavoce.it/economia-umbra-intervista-al-prof-grasselli-dellosservatorio-caritas/ Sun, 10 Dec 2017 11:44:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50813

Che l’Umbria sia una regione in grande difficoltà per la ripresa economica e di lavoro, lo hanno ben spiegato le analisi economiche condotte da diversi istituti di ricerca, non ultimo la Banca d’Italia, e ne abbiamo dato conto anche in queste pagine. Ma la domanda che le famiglie si fanno, per i loro adulti messi fuori dal mercato del lavoro o per i loro giovani che in quel mercato faticano ad entrare (tanto che c’è chi sceglie di emigrare), è se e come si possa uscire dalla crisi. Ne parliamo con l’economista Pierluigi Grasselli, direttore dell’Osservatorio delle povertà della Caritas di Perugia. L’Umbria ce la farà a cambiare marcia? “La crisi ha segnato profondamente il tessuto dell’economia e della società umbra, con una perdita netta di attività produttive. Avviare decisamente un’inversione di tendenza non dipende solo dal livello regionale, e comunque è molto impegnativo, richiedendo una diffusa e determinata volontà e capacità di cambiamento, di adattamento all’impetuosa, rapida, ininterrotta e pervasiva innovazione tecnologica. Ciò esige di impiegare buona parte delle risorse disponibili in questa direzione, per ricomporre un ordine diverso, anche profondamente, da quello precedente, seguendo una molteplicità di vie, in parte nuove, o poco battute in precedenza, che spesso non consentono di ricostituire le vecchie certezze”. Vede segnali di cambiamento, di ripartenza, nella realtà produttiva regionale? “Sono molteplici anche in Umbria le manifestazioni di un mondo in vivace trasformazione. Si pensi al brulichìo di iniziative di ‘Fa’ la cosa giusta’, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili tenutasi in ottobre a Bastia. Alla nascita presso Confindustria Umbria del primoDigital Innovation Hub per accompagnare i processi di ammodernamento industriale previsti dal piano nazionale Industria 4.0. Continua a leggere l'intervista sull'edizione digitale de La Voce.]]>

Che l’Umbria sia una regione in grande difficoltà per la ripresa economica e di lavoro, lo hanno ben spiegato le analisi economiche condotte da diversi istituti di ricerca, non ultimo la Banca d’Italia, e ne abbiamo dato conto anche in queste pagine. Ma la domanda che le famiglie si fanno, per i loro adulti messi fuori dal mercato del lavoro o per i loro giovani che in quel mercato faticano ad entrare (tanto che c’è chi sceglie di emigrare), è se e come si possa uscire dalla crisi. Ne parliamo con l’economista Pierluigi Grasselli, direttore dell’Osservatorio delle povertà della Caritas di Perugia. L’Umbria ce la farà a cambiare marcia? “La crisi ha segnato profondamente il tessuto dell’economia e della società umbra, con una perdita netta di attività produttive. Avviare decisamente un’inversione di tendenza non dipende solo dal livello regionale, e comunque è molto impegnativo, richiedendo una diffusa e determinata volontà e capacità di cambiamento, di adattamento all’impetuosa, rapida, ininterrotta e pervasiva innovazione tecnologica. Ciò esige di impiegare buona parte delle risorse disponibili in questa direzione, per ricomporre un ordine diverso, anche profondamente, da quello precedente, seguendo una molteplicità di vie, in parte nuove, o poco battute in precedenza, che spesso non consentono di ricostituire le vecchie certezze”. Vede segnali di cambiamento, di ripartenza, nella realtà produttiva regionale? “Sono molteplici anche in Umbria le manifestazioni di un mondo in vivace trasformazione. Si pensi al brulichìo di iniziative di ‘Fa’ la cosa giusta’, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili tenutasi in ottobre a Bastia. Alla nascita presso Confindustria Umbria del primoDigital Innovation Hub per accompagnare i processi di ammodernamento industriale previsti dal piano nazionale Industria 4.0. Continua a leggere l'intervista sull'edizione digitale de La Voce.]]>
Cresce il rancore sociale. Attenti a non alimentarlo https://www.lavoce.it/cresce-rancore-sociale-attenti-non-alimentarlo/ Sat, 09 Dec 2017 08:00:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50803 lente d'ingrandimento, logo rubrica De gustibus

di Daris Giancarlini

Il vocabolario dell’Enciclopedia Treccani definisce il rancore come “sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo”. Di recente il Censis, l’istituto che si occupa a scadenze fisse di ‘fotografare’ lo stato d’animo del Paese, ha reso noto che la ripresa economica, anche se stenta, in Italia è arrivata, ma che il sentimento prevalente è proprio quello del rancore. Una parola che non si legge di frequente, e neanche si sente pronunciare spesso. Quasi un termine desueto, forse più consono a descrivere un atteggiamento che riguarda rapporti fra poche persone, e non tendenze sociali. Invece la novità è proprio questa: che il rancore ormai è un tratto caratteriale della maggioranza di noi italiani . Basta avere a che fare con i cosiddetti social per rendersi conto che dietro le espressioni dilaganti di disprezzo del prossimo si può trovare soprattutto rancore; ma nei confronti di chi, o di che cosa? Il Censis una risposta la dà: si è fermato l’ascensore sociale, quel meccanismo che consentiva anche alle classi sociali meno fortunate di aspirare, e spesso di riuscire a conseguire, una posizione migliore. E quindi di guardare con fiducia al futuro. Se la foto dell’Italia scattata dal Censis è realistica, se è dunque il rancore a governare le esistenze di molti di noi, allora è perché non c’è speranza di futuro. Non c’è per i giovani che un avvenire lo devono costruire, non c’è per i 50enni espulsi dal mercato del lavoro, non c’è per chi aspira, e giustamente, a migliorare le condizioni della propria famiglia. Il vocabolario Treccani propone una frase per spiegare il significato di ‘rancore’: “Il suo sordo rancore, a lungo nascosto e frenato, esplose improvvisamente”. È a questo effetto di un tale stato d’animo generalizzato che dovrebbe pensare chi si occupa della cosa pubblica. Prima di alimentarlo, il rancore.

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di Daris Giancarlini

Il vocabolario dell’Enciclopedia Treccani definisce il rancore come “sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo”. Di recente il Censis, l’istituto che si occupa a scadenze fisse di ‘fotografare’ lo stato d’animo del Paese, ha reso noto che la ripresa economica, anche se stenta, in Italia è arrivata, ma che il sentimento prevalente è proprio quello del rancore. Una parola che non si legge di frequente, e neanche si sente pronunciare spesso. Quasi un termine desueto, forse più consono a descrivere un atteggiamento che riguarda rapporti fra poche persone, e non tendenze sociali. Invece la novità è proprio questa: che il rancore ormai è un tratto caratteriale della maggioranza di noi italiani . Basta avere a che fare con i cosiddetti social per rendersi conto che dietro le espressioni dilaganti di disprezzo del prossimo si può trovare soprattutto rancore; ma nei confronti di chi, o di che cosa? Il Censis una risposta la dà: si è fermato l’ascensore sociale, quel meccanismo che consentiva anche alle classi sociali meno fortunate di aspirare, e spesso di riuscire a conseguire, una posizione migliore. E quindi di guardare con fiducia al futuro. Se la foto dell’Italia scattata dal Censis è realistica, se è dunque il rancore a governare le esistenze di molti di noi, allora è perché non c’è speranza di futuro. Non c’è per i giovani che un avvenire lo devono costruire, non c’è per i 50enni espulsi dal mercato del lavoro, non c’è per chi aspira, e giustamente, a migliorare le condizioni della propria famiglia. Il vocabolario Treccani propone una frase per spiegare il significato di ‘rancore’: “Il suo sordo rancore, a lungo nascosto e frenato, esplose improvvisamente”. È a questo effetto di un tale stato d’animo generalizzato che dovrebbe pensare chi si occupa della cosa pubblica. Prima di alimentarlo, il rancore.

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Umbria: l’economia riparte, il lavoro invece no https://www.lavoce.it/umbria-leconomia-riparte-lavoro-invece-no/ Sat, 25 Nov 2017 17:02:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50672

La Banca d’Italia ha presentato l’ultimo aggiornamento congiunturale sull’economia dell’Umbria. Il temporale sembra passato, ci sono ampie schiarite, ma con ancora tante nubi. La nostra - ha detto il direttore della filiale di Perugia della Banca d’Italia, Nicola Barbera è una regione di “debolezze strutturali ed eccellenze straordinarie”. La crisi planetaria cominciata nel 2007 sembra passata e l’economia nei Paesi industriali e in quelli in via di sviluppo si è rimessa in marcia. Un quadro internazionale in miglioramento del quale - ha ricordato Mario Ferrara, dirigente della filiale di Perugia - sta beneficiando anche l’Italia, che però “continua a essere il grande malato europeo”. In Umbria poi gli effetti della “grande crisi” sono stati ancora più devastanti della media italiana, tanto da avvicinarla sempre di più a situazioni tipiche delle regioni del Meridione. Le analisi della Banca dicono che “nei primi nove mesi del 2017 la crescita dell’economia umbra si è rafforzata. Le esportazioni hanno ripreso vigore e la domanda interna si è consolidata. Le aspet- tative degli operatori delineano per i prossimi mesi un’evoluzione positiva”. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché non si sono creati nuovi posti di lavoro, con decine di aziende - grandi e piccole - in crisi, e con ristrutturazioni che comportano sempre tagli a salari e organico. Continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce.]]>

La Banca d’Italia ha presentato l’ultimo aggiornamento congiunturale sull’economia dell’Umbria. Il temporale sembra passato, ci sono ampie schiarite, ma con ancora tante nubi. La nostra - ha detto il direttore della filiale di Perugia della Banca d’Italia, Nicola Barbera è una regione di “debolezze strutturali ed eccellenze straordinarie”. La crisi planetaria cominciata nel 2007 sembra passata e l’economia nei Paesi industriali e in quelli in via di sviluppo si è rimessa in marcia. Un quadro internazionale in miglioramento del quale - ha ricordato Mario Ferrara, dirigente della filiale di Perugia - sta beneficiando anche l’Italia, che però “continua a essere il grande malato europeo”. In Umbria poi gli effetti della “grande crisi” sono stati ancora più devastanti della media italiana, tanto da avvicinarla sempre di più a situazioni tipiche delle regioni del Meridione. Le analisi della Banca dicono che “nei primi nove mesi del 2017 la crescita dell’economia umbra si è rafforzata. Le esportazioni hanno ripreso vigore e la domanda interna si è consolidata. Le aspet- tative degli operatori delineano per i prossimi mesi un’evoluzione positiva”. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché non si sono creati nuovi posti di lavoro, con decine di aziende - grandi e piccole - in crisi, e con ristrutturazioni che comportano sempre tagli a salari e organico. Continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce.]]>
Economia umbra in picchiata: come invertire la rotta https://www.lavoce.it/dati-della-banca-ditalia-sulleconomia-umbra/ Fri, 10 Nov 2017 14:35:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50498

L’Umbria, dal punto di vista dei risultati economici, fa ormai parte del “Sud” del Paese. Questo è quanto emerge dalla fotografia fornita dai dati sulle economie regionali della Banca d’Italia. Il reddito medio degli umbri nel 2015 (pari a 23.700 euro) è non solo il più basso di tutto il Centro-Nord (la cui media è di 31.900 euro) ma è rimasto indietro anche rispetto a quello medio nazionale (27.000 euro) e a quello di una regione considerata a tutti gli effetti del Sud come l’Abruzzo (24.200 euro). Non è una novità di oggi il ritardo dell’Umbria. Era già ben visibile molto prima della crisi. Già da tanti anni gli osservatori più attenti avevano lanciato l’allarme di una produttività pericolosamente stagnante. Ma con la crisi iniziata nel 2007-2008 il ritardo è diventato una voragine, che a questo punto non sarà facile richiudere. L’impoverimento degli umbri ha innanzitutto una spiegazione “ quantitativa” , dovuta al fatto che con la crisi si sono persi molti posti di lavoro. Ancora nel 2015 l’Umbria ha perso, in percentuale, più occupazione di tutte le altre regioni del Paese. E questa perdita ha riguardato tutti i settori. Pertanto anche il tasso di disoccupazione rimane a un livello elevato, pari quasi al 10%. Ma ha anche una spiegazione “qualitativa” , ancora più importante di quella quantitativa: la gran parte dei posti di lavoro esistenti, e anche la gran parte di quelli che le imprese hanno creato in questi ultimi anni, sono all’interno di attività a basso o medio contenuto tecnologico, quindi lontani dall’“economia della conoscenza” e dai processi che valorizzano il lavoro qualificato, che producono innovazioni e generano sviluppo. In Umbria il 63,8% dei nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese sono di livello mediobasso, una percentuale peggiore di ogni altra regione. Un profilo mediocre che l’Umbria condivide con Marche e Toscana, ma che nella nostra regione determina conseguenze particolarmente gravi. È questo deficit qualitativo la lente più utile a comprendere il declino economico dell’Umbria. Volendo indicare sinteticamente i fattori all’origine di questo stato di cose, si possono ridurre a due: un sistema economicoe imprenditoriale con tratti strutturali deboli, e un orientamento delle politiche , a partire da quelle regionali, sbagliato e dannoso. Ciò che risulta evidente a chiunque, a questo punto, è che serve un drastico cambio delle politiche pubbliche, così come una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità nuova da parte di tutti i soggetti, imprenditoriali, sindacali, culturali, che a diverso titolo concorrono alla definizione di tali politiche e sono in grado, per la loro parte, di orientare l’economia regionale o parti (settori o territori) di essa. Alcuni settori del laicato umbro, a partire dall’Azione cattolica, hanno offerto contributi di analisi e di discernimento in questa direzione. Vale la pena di ricordare, in particolare, la pubblicazione, qualche anno fa, del volume dedicato alla crescita dell’Umbria intitolato Poliarchia e bene comune (a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei per il Mulino). Tuttavia da parte della Chiesa, nelle sue varie componenti, sono mancate riflessioni e un esercizio di discernimento diffuso, è mancato un richiamo alle responsabilità proprie di chi esercita un potere nella vita politica, economica o culturale di fronte alla gravità della situazione, assecondando di fatto la deriva che ha portato l’Umbria a impoverirsi e a veder svilito il proprio potenziale di crescita. Tra le priorità da affrontare vi è la necessità di potenziare il ruolo dei poli urbani, a partire da quelli di Perugia e Terni, facendone centri attrattivi di risorse qualificate in una molteplicità di campi, da quelli della tecnologia a quelli delle attività del tempo libero, da quelli creativi a quelli della formazione, capaci di assorbire e diffondere innovazione e di migliorare la qualità dei servizi. A questo scopo è vitale far uscire la mobilità , tanto quella tra Perugia e Terni quanto quella dei due capoluoghi verso l’esterno, dalla situazione attuale, ormai “preistorica”, verso standard europei. L’ Università , da parte sua, è chiamata a riprendersi il ruolo che le compete coltivando l’ambizione di dar vita a un polo del sapere e della formazione universitaria del centro Italia di livello europeo. Lo si può fare ricercando sinergie con altri atenei delle regioni del Centro. C’è poi bisogno che la politicaindustriale si liberi finalmente della funzione impropria di ammortizzatore sociale a cui è stata sacrificata fino a oggi, per divenire leva per la crescita di attività manifatturiere e terziarie qualificate. A questo proposito, è auspicabile che le imprese approfittino delle opportunità dei programmi di “industria 4.0” per generare una forte domanda di servizi specializzati. E le politiche pubbliche hanno l’occasione per facilitare la crescita di nuclei importanti di servizi avanzati alle imprese, facendone i centri dinamici delle nuove economie urbane. Ultimo, ma non per importanza, il settore complessivo dellasanità, principale voce della spesa pubblica regionale e servizio di primaria importanza per una popolazione che invecchia, deve essere potenziato ricercando qualità ed efficienza.  ]]>

L’Umbria, dal punto di vista dei risultati economici, fa ormai parte del “Sud” del Paese. Questo è quanto emerge dalla fotografia fornita dai dati sulle economie regionali della Banca d’Italia. Il reddito medio degli umbri nel 2015 (pari a 23.700 euro) è non solo il più basso di tutto il Centro-Nord (la cui media è di 31.900 euro) ma è rimasto indietro anche rispetto a quello medio nazionale (27.000 euro) e a quello di una regione considerata a tutti gli effetti del Sud come l’Abruzzo (24.200 euro). Non è una novità di oggi il ritardo dell’Umbria. Era già ben visibile molto prima della crisi. Già da tanti anni gli osservatori più attenti avevano lanciato l’allarme di una produttività pericolosamente stagnante. Ma con la crisi iniziata nel 2007-2008 il ritardo è diventato una voragine, che a questo punto non sarà facile richiudere. L’impoverimento degli umbri ha innanzitutto una spiegazione “ quantitativa” , dovuta al fatto che con la crisi si sono persi molti posti di lavoro. Ancora nel 2015 l’Umbria ha perso, in percentuale, più occupazione di tutte le altre regioni del Paese. E questa perdita ha riguardato tutti i settori. Pertanto anche il tasso di disoccupazione rimane a un livello elevato, pari quasi al 10%. Ma ha anche una spiegazione “qualitativa” , ancora più importante di quella quantitativa: la gran parte dei posti di lavoro esistenti, e anche la gran parte di quelli che le imprese hanno creato in questi ultimi anni, sono all’interno di attività a basso o medio contenuto tecnologico, quindi lontani dall’“economia della conoscenza” e dai processi che valorizzano il lavoro qualificato, che producono innovazioni e generano sviluppo. In Umbria il 63,8% dei nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese sono di livello mediobasso, una percentuale peggiore di ogni altra regione. Un profilo mediocre che l’Umbria condivide con Marche e Toscana, ma che nella nostra regione determina conseguenze particolarmente gravi. È questo deficit qualitativo la lente più utile a comprendere il declino economico dell’Umbria. Volendo indicare sinteticamente i fattori all’origine di questo stato di cose, si possono ridurre a due: un sistema economicoe imprenditoriale con tratti strutturali deboli, e un orientamento delle politiche , a partire da quelle regionali, sbagliato e dannoso. Ciò che risulta evidente a chiunque, a questo punto, è che serve un drastico cambio delle politiche pubbliche, così come una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità nuova da parte di tutti i soggetti, imprenditoriali, sindacali, culturali, che a diverso titolo concorrono alla definizione di tali politiche e sono in grado, per la loro parte, di orientare l’economia regionale o parti (settori o territori) di essa. Alcuni settori del laicato umbro, a partire dall’Azione cattolica, hanno offerto contributi di analisi e di discernimento in questa direzione. Vale la pena di ricordare, in particolare, la pubblicazione, qualche anno fa, del volume dedicato alla crescita dell’Umbria intitolato Poliarchia e bene comune (a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei per il Mulino). Tuttavia da parte della Chiesa, nelle sue varie componenti, sono mancate riflessioni e un esercizio di discernimento diffuso, è mancato un richiamo alle responsabilità proprie di chi esercita un potere nella vita politica, economica o culturale di fronte alla gravità della situazione, assecondando di fatto la deriva che ha portato l’Umbria a impoverirsi e a veder svilito il proprio potenziale di crescita. Tra le priorità da affrontare vi è la necessità di potenziare il ruolo dei poli urbani, a partire da quelli di Perugia e Terni, facendone centri attrattivi di risorse qualificate in una molteplicità di campi, da quelli della tecnologia a quelli delle attività del tempo libero, da quelli creativi a quelli della formazione, capaci di assorbire e diffondere innovazione e di migliorare la qualità dei servizi. A questo scopo è vitale far uscire la mobilità , tanto quella tra Perugia e Terni quanto quella dei due capoluoghi verso l’esterno, dalla situazione attuale, ormai “preistorica”, verso standard europei. L’ Università , da parte sua, è chiamata a riprendersi il ruolo che le compete coltivando l’ambizione di dar vita a un polo del sapere e della formazione universitaria del centro Italia di livello europeo. Lo si può fare ricercando sinergie con altri atenei delle regioni del Centro. C’è poi bisogno che la politicaindustriale si liberi finalmente della funzione impropria di ammortizzatore sociale a cui è stata sacrificata fino a oggi, per divenire leva per la crescita di attività manifatturiere e terziarie qualificate. A questo proposito, è auspicabile che le imprese approfittino delle opportunità dei programmi di “industria 4.0” per generare una forte domanda di servizi specializzati. E le politiche pubbliche hanno l’occasione per facilitare la crescita di nuclei importanti di servizi avanzati alle imprese, facendone i centri dinamici delle nuove economie urbane. Ultimo, ma non per importanza, il settore complessivo dellasanità, principale voce della spesa pubblica regionale e servizio di primaria importanza per una popolazione che invecchia, deve essere potenziato ricercando qualità ed efficienza.  ]]>
I cattolici in Italia e il lavoro: denuncia, racconto, proposta https://www.lavoce.it/i-cattolici-in-italia-e-il-lavoro-denuncia-racconto-proposta/ Thu, 01 Dec 2016 09:00:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=47967 lavoro-CMYKE’ stata diffusa il 22 novembre la lettera-invito alla 48a Settimana sociale dei cattolici italiani (Cagliari, 26-29 ottobre 2017). Quattro i “registri comunicativi” che accompagneranno l’evento e la sua preparazione: “Denunciare le situazioni più gravi e inaccettabili”, “raccontare il lavoro nelle sue profonde trasformazioni”, “raccogliere e diffondere le tante buone pratiche” esistenti, “costruire alcune proposte” per sciogliere nodi “che ci stanno a cuore”.

Il lavoro come vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità e promotore di legalità. Sono le cinque “prospettive” verso cui sono chiamati a guardare i cattolici italiani, in vista della prossima Settimana sociale a partire dal tema “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. A declinarle è la lettera-invito, scritta dal Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali e a firma del suo presidente, il vescovo di Taranto mons. Filippo Santoro, indirizzata – per tramite dei rispettivi Vescovi diocesani – a tutti i cattolici in Italia.

“Il paradigma del lavoro come ‘impiego’ – riporta la missiva – si sta esaurendo con una progressiva perdita dei diritti lavorativi e sociali, in un contesto di perdurante crisi economica che coinvolge fasce sempre più ampie della popolazione”.

“È forte la necessità che quel modello di ‘lavoro degno’ affermato dal Magistero sociale della Chiesa e dalla Costituzione italiana trovi un’effettiva attuazione nel rispetto e nella promozione della dignità della persona umana”.

Di qui le cinque prospettive, a partire dalla vocazione al lavoro, che “va formata e coltivata attraverso un percorso di crescita ricco e articolato, capace di coinvolgere l’integralità della persona”. In secondo luogo, “il lavoro è opportunità, che nasce dall’incontro tra impegno personale e innovazione in campo istituzionale e produttivo”. “La creazione di lavoro – sottolinea il documento al riguardo – non avviene per caso né per decreto, ma è conseguenza di uno sforzo individuale e di un impegno politico serio e solidale”. Poi, il riconoscimento del lavoro come valore, “in quanto ha a che fare con la dignità della persona, è base della giustizia e della solidarietà sociale e genera la vera ricchezza”.

Ancora, “è fondamento di comunità, perché valorizza la persona all’interno di un gruppo, sostiene l’interazione tra soggetti, sviluppa il senso di un’identità aperta alla conoscenza e all’integrazione con nuove culture, generatrice di responsabilità per il bene comune”. Infine, “rispetto a un contesto in cui l’illegalità rischia di apparire come l’unica occasione di mantenimento per se stessi e la propria famiglia”, il lavoro degno deve promuovere la legalità, e quindi “diventa indispensabile creare luoghi trasparenti affinché le relazioni siano autentiche e basate sul senso di giustizia e di eguaglianza nelle opportunità”.

La prossima Settimana sociale, che si propone di “realizzare un incontro partecipativo” e rinnovare “l’impegno delle comunità cristiane” sul tema del lavoro, andrà preparata con un “percorso diocesano” per portare a Cagliari un contributo “partecipato”, seguendo “quattro registri comunicativi”. In primo luogo la denuncia. Scrive al riguardo il Comitato:

“Vogliamo assumere la responsabilità di denunciare le situazioni più gravi e inaccettabili: sfruttamento, lavoro nero, insicurezza, disuguaglianza, disoccupazione – specie al Sud e tra i giovani – e problematiche legate al mondo dei migranti”.

Poi, il racconto del lavoro “nelle sue profonde trasformazioni, dando voce ai lavoratori e alle lavoratrici, interrogandoci sul suo senso nel contesto attuale”. E, per andare oltre la denuncia, vi è pure la volontà di far emergere “le tante buone pratiche che, a livello aziendale, territoriale e istituzionale, stanno già offrendo nuove soluzioni ai problemi del lavoro e dell’occupazione”. Infine, “costruire alcune proposte che, sul piano istituzionale, aiutino a sciogliere alcuni dei nodi che ci stanno più a cuore”.

Nell’ottica della concretezza va pure l’impegno, enunciato nel documento, di proporre nel corso dell’anno “a tutte le comunità cristiane un’iniziativa di solidarietà nei confronti di chi non ha lavoro”.

 

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