Costituzione Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/costituzione/ Settimanale di informazione regionale Thu, 21 Mar 2024 12:02:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Costituzione Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/costituzione/ 32 32 Un giorno di festa per la fine del Ramadan https://www.lavoce.it/giorno-festa-fine-ramadan/ https://www.lavoce.it/giorno-festa-fine-ramadan/#respond Thu, 21 Mar 2024 12:02:35 +0000 https://www.lavoce.it/?p=75416

Il consiglio di istituto di una scuola statale in Lombardia ha deciso che sarà giorno di vacanza il prossimo 10 aprile, per la ricorrenza della fine del Ramadan, il mese di digiuno e preghiera dei musulmani.

Circa la metà degli studenti sono di famiglia musulmana e starebbero a casa comunque; allora, ha pensato il preside, tanto vale mettere in vacanza tutti per un giorno, visto che l’autonomia scolastica lo consente. Il Ministro dell’Istruzione – che non ha il potere di impedirlo – lo ha severamente criticato.

Ma quella decisione è legittima? La risposta è sì; per le stesse ragioni per le quali una ventina di anni fa il Tar dell’Umbria rigettò il ricorso presentato contro una scuola di Corciano che su richiesta di molti studenti e delle loro famiglie aveva autorizzato la sospensione delle lezioni (per pochi minuti) per consentire lo svolgimento della benedizione pasquale.

Quella benedizione, dissero i giudici, si poteva fare perché non era offensiva per nessuno, non provocava sconquassi nella vita della scuola; e perché era stato precisato che tutti sarebbero stati liberi di scegliere se partecipare o no. I giudici aggiunsero che se in altre occasioni avessero fatto richieste simili i fedeli di altre confessioni, ovviamente la risposta sarebbe stata la stessa. Perché la Costituzione italiana riconosce non solo la libertà di religione, ma anche l’uguale diritto di praticare pubblicamente i culti, nel rispetto dei diritti altrui.

Ora si stima che in Italia ci siano circa due milioni e mezzo di musulmani, sia pure divisi fra diverse tendenze; l’Islam è la confessione più diffusa, dopo quella cattolica, e lo Stato non può negare ai suoi seguaci le libertà previste dalla costituzione, compresa quella di avere i propri luoghi pubblici di culto (molte autorità locali, per esempio in Lombardia cercano di opporsi, ma è illegale).

Ai seguaci di altre religioni (ebrei, avventisti) è concesso per legge di considerare festivi, a tutti gli effetti, i giorni previsti come tali dal loro calendario; ai musulmani questo non è ancora concesso, ma solo perché, per ragioni tecniche, non si è ancora conclusa la “intesa” prevista dall’art. 8 della Costituzione. Ma al di sopra dei sofismi legali, c’è il fatto che, piaccia o no, viviamo ora in una società multiculturale e multietnica, e dobbiamo accettarlo nel rispetto di tutti verso tutti.

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Il consiglio di istituto di una scuola statale in Lombardia ha deciso che sarà giorno di vacanza il prossimo 10 aprile, per la ricorrenza della fine del Ramadan, il mese di digiuno e preghiera dei musulmani.

Circa la metà degli studenti sono di famiglia musulmana e starebbero a casa comunque; allora, ha pensato il preside, tanto vale mettere in vacanza tutti per un giorno, visto che l’autonomia scolastica lo consente. Il Ministro dell’Istruzione – che non ha il potere di impedirlo – lo ha severamente criticato.

Ma quella decisione è legittima? La risposta è sì; per le stesse ragioni per le quali una ventina di anni fa il Tar dell’Umbria rigettò il ricorso presentato contro una scuola di Corciano che su richiesta di molti studenti e delle loro famiglie aveva autorizzato la sospensione delle lezioni (per pochi minuti) per consentire lo svolgimento della benedizione pasquale.

Quella benedizione, dissero i giudici, si poteva fare perché non era offensiva per nessuno, non provocava sconquassi nella vita della scuola; e perché era stato precisato che tutti sarebbero stati liberi di scegliere se partecipare o no. I giudici aggiunsero che se in altre occasioni avessero fatto richieste simili i fedeli di altre confessioni, ovviamente la risposta sarebbe stata la stessa. Perché la Costituzione italiana riconosce non solo la libertà di religione, ma anche l’uguale diritto di praticare pubblicamente i culti, nel rispetto dei diritti altrui.

Ora si stima che in Italia ci siano circa due milioni e mezzo di musulmani, sia pure divisi fra diverse tendenze; l’Islam è la confessione più diffusa, dopo quella cattolica, e lo Stato non può negare ai suoi seguaci le libertà previste dalla costituzione, compresa quella di avere i propri luoghi pubblici di culto (molte autorità locali, per esempio in Lombardia cercano di opporsi, ma è illegale).

Ai seguaci di altre religioni (ebrei, avventisti) è concesso per legge di considerare festivi, a tutti gli effetti, i giorni previsti come tali dal loro calendario; ai musulmani questo non è ancora concesso, ma solo perché, per ragioni tecniche, non si è ancora conclusa la “intesa” prevista dall’art. 8 della Costituzione. Ma al di sopra dei sofismi legali, c’è il fatto che, piaccia o no, viviamo ora in una società multiculturale e multietnica, e dobbiamo accettarlo nel rispetto di tutti verso tutti.

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Riforma: se i partiti non “funzionano” serve a poco https://www.lavoce.it/riforma-se-partiti-non-funzionano-serve-poco/ https://www.lavoce.it/riforma-se-partiti-non-funzionano-serve-poco/#respond Thu, 09 Nov 2023 16:51:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73934

Il Governo sta preparando una proposta di riforma costituzionale. Non è la prima volta: dal 1948 in poi ci sono state numerose modifiche alla Costituzione, approvate ed entrate in vigore. Cinque solo fra il 2020 e oggi, delle quali l’unica di una certa importanza è quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Fra le altre meno recenti merita di essere ricordata quella del 2001, che ha esteso l’autonomia delle regioni e dei comuni. Ma nessuna di queste ha cambiato veramente la fisionomia dello Stato.

Lo avrebbero fatto, se fossero entrate in vigore, quelle proposte rispettivamente da Berlusconi e da Renzi: entrambe avevano riportato l’approvazione del Parlamento (una nel 2005, l’altra nel 2016) ma dovevano passare per un referendum e furono bocciate dal voto popolare. Non si contano poi le proposte che in Parlamento sono state discusse ma non approvate. Fra le proposte andate a buon fine, come fra quelle che non ci sono andate, ve ne sono state alcune utili e opportune, altre dannose, altre irrilevanti, alcune infine addirittura bislacche.

Quella che ora è in fase di preparazione – per l’elezione popolare diretta del primo ministro – cambierebbe invece i rapporti di potere e gli equilibri fra i massimi organi dello Stato, molto più di quanto fosse previsto dalla riforma Renzi. Ma la riforma Renzi, lo ricordiamo, è stata respinta a furor di popolo al grido “la Costituzione non si tocca”; dovremmo dunque aspettarci che anche la riforma Meloni faccia la stessa fine? Io direi di no, ma è troppo presto per dirlo.

Il commento che voglio fare oggi è che per una volta di più si cade nell’illusione che per risolvere i problemi della politica italiana sia necessario, e anche sufficiente, ricorrere a quella che gli esperti chiamano “ingegneria istituzionale”: ossia cambiare qualcosa nei complesso sistema dei rapporti fra gli organi dello Stato. Che questo modo di ragionare sia illusorio, si dimostra facilmente osservando che i Paesi con i quali tendiamo a confrontarci (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna) hanno sistemi istituzionali molto diversi fra loro, ma ciascuno di loro ha un sistema politico democratico ben funzionante – se per “sistema politico” intendiamo l’insieme dei partiti, i rapporti fra loro, la loro alternanza ordinata al potere. Se i partiti non funzionano bene, cambiare le regole costituzionali serve a poco.

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Il Governo sta preparando una proposta di riforma costituzionale. Non è la prima volta: dal 1948 in poi ci sono state numerose modifiche alla Costituzione, approvate ed entrate in vigore. Cinque solo fra il 2020 e oggi, delle quali l’unica di una certa importanza è quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Fra le altre meno recenti merita di essere ricordata quella del 2001, che ha esteso l’autonomia delle regioni e dei comuni. Ma nessuna di queste ha cambiato veramente la fisionomia dello Stato.

Lo avrebbero fatto, se fossero entrate in vigore, quelle proposte rispettivamente da Berlusconi e da Renzi: entrambe avevano riportato l’approvazione del Parlamento (una nel 2005, l’altra nel 2016) ma dovevano passare per un referendum e furono bocciate dal voto popolare. Non si contano poi le proposte che in Parlamento sono state discusse ma non approvate. Fra le proposte andate a buon fine, come fra quelle che non ci sono andate, ve ne sono state alcune utili e opportune, altre dannose, altre irrilevanti, alcune infine addirittura bislacche.

Quella che ora è in fase di preparazione – per l’elezione popolare diretta del primo ministro – cambierebbe invece i rapporti di potere e gli equilibri fra i massimi organi dello Stato, molto più di quanto fosse previsto dalla riforma Renzi. Ma la riforma Renzi, lo ricordiamo, è stata respinta a furor di popolo al grido “la Costituzione non si tocca”; dovremmo dunque aspettarci che anche la riforma Meloni faccia la stessa fine? Io direi di no, ma è troppo presto per dirlo.

Il commento che voglio fare oggi è che per una volta di più si cade nell’illusione che per risolvere i problemi della politica italiana sia necessario, e anche sufficiente, ricorrere a quella che gli esperti chiamano “ingegneria istituzionale”: ossia cambiare qualcosa nei complesso sistema dei rapporti fra gli organi dello Stato. Che questo modo di ragionare sia illusorio, si dimostra facilmente osservando che i Paesi con i quali tendiamo a confrontarci (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna) hanno sistemi istituzionali molto diversi fra loro, ma ciascuno di loro ha un sistema politico democratico ben funzionante – se per “sistema politico” intendiamo l’insieme dei partiti, i rapporti fra loro, la loro alternanza ordinata al potere. Se i partiti non funzionano bene, cambiare le regole costituzionali serve a poco.

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Mattarella: sotto il fascismo si pensava al futuro dell’Italia libera. I cattolici del “Codice di Camaldoli” https://www.lavoce.it/mattarella-sotto-il-fascismo-si-pensava-al-futuro-dellitalia-libera-i-cattolici-del-codice-di-camaldoli/ https://www.lavoce.it/mattarella-sotto-il-fascismo-si-pensava-al-futuro-dellitalia-libera-i-cattolici-del-codice-di-camaldoli/#respond Thu, 20 Jul 2023 17:19:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=72366

di Sergio Mattarella Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari, quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche. Si apre, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del “dopo”, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano. Trova radice in questo l’esercizio di Camaldoli, voluto dal Movimento laureati cattolici e dall’Icas, l’Istituto cattolico attività sociali. Siamo nel pieno di una svolta: nel maggio 1943 le truppe dell’Asse in Tunisia si arrendono, ponendo fine alla campagna dell’Africa del Nord; il 10 luglio avviene lo sbarco delle truppe Usa in Sicilia. Il 19 luglio l’aviazione alleata dà avvio al primo bombardamento su Roma per colpire lo scalo ferroviario di San Lorenzo, con migliaia le vittime. Il 24 luglio sarà lo stesso Gran Consiglio del fascismo a porre termine all’avventura di Mussolini. Il convegno di Camaldoli si conclude il giorno precedente, mostrando di aver saputo avvertire il momento cruciale della svolta della storia nazionale.

Il valore di una riflessione avviata sul futuro dell'Italia

Oggi possiamo cogliere il valore della riflessione avviata sul futuro dell’Italia e lo sforzo di elaborazione proposto in quei frangenti dai circoli intellettuali e politici che non si erano arresi alla dittatura. Dal cosidetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle “idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata. A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti. Ecco allora che il testo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale”, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli. Occorreva partire, anzitutto, dal ripristino della legalità, violentata dal fascismo, riconosciuta persino nell’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio, con l’esplicita indicazione dell’esigenza del “necessario immediato ripristino di tutte le funzioni statali”, dopo una guerra che il popolo italiano non aveva sentita “sua”, con aggravata “responsabilità fascista”.

Da Camaldoli un contributo di orientamento basilari

Da Camaldoli vengono orientamenti basilari, che riscontriamo oggi nel nostro ordinamento. Anzitutto la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato - con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica - da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi. Si identifica poi, con determinazione, il principio della pace: “deve abbandonarsi il funesto principio che i rapporti internazionali siano rapporti di forza, che la forza crei il diritto…”. Occorre “la creazione di un vero e non fittizio o formale ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli Stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli”.

Orgogliosi dei padri fondatori del Codice di Camaldoli

Vi è ragione di essere ben orgogliosi, guardando ai Padri fondatori del Codice di Camaldoli, per il segno che hanno saputo imprimere al futuro della società italiana, anche sul terreno della libertà di coscienza per ogni persona, descritta, al paragrafo 15, come “esigenza da tutelare fino all’estremo limite delle compatibilità con il bene comune”.

La Lettera alla Costituzione, di Zuppi

Il Cardinale Matteo Zuppi, nella sua lettera alla Costituzione, due anni or sono, riprendendo una considerazione del costituente Giuseppe Dossetti, iniziava così: “Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare…”. Non vi sono parole migliori.]]>

di Sergio Mattarella Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari, quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche. Si apre, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del “dopo”, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano. Trova radice in questo l’esercizio di Camaldoli, voluto dal Movimento laureati cattolici e dall’Icas, l’Istituto cattolico attività sociali. Siamo nel pieno di una svolta: nel maggio 1943 le truppe dell’Asse in Tunisia si arrendono, ponendo fine alla campagna dell’Africa del Nord; il 10 luglio avviene lo sbarco delle truppe Usa in Sicilia. Il 19 luglio l’aviazione alleata dà avvio al primo bombardamento su Roma per colpire lo scalo ferroviario di San Lorenzo, con migliaia le vittime. Il 24 luglio sarà lo stesso Gran Consiglio del fascismo a porre termine all’avventura di Mussolini. Il convegno di Camaldoli si conclude il giorno precedente, mostrando di aver saputo avvertire il momento cruciale della svolta della storia nazionale.

Il valore di una riflessione avviata sul futuro dell'Italia

Oggi possiamo cogliere il valore della riflessione avviata sul futuro dell’Italia e lo sforzo di elaborazione proposto in quei frangenti dai circoli intellettuali e politici che non si erano arresi alla dittatura. Dal cosidetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle “idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata. A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti. Ecco allora che il testo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale”, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli. Occorreva partire, anzitutto, dal ripristino della legalità, violentata dal fascismo, riconosciuta persino nell’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio, con l’esplicita indicazione dell’esigenza del “necessario immediato ripristino di tutte le funzioni statali”, dopo una guerra che il popolo italiano non aveva sentita “sua”, con aggravata “responsabilità fascista”.

Da Camaldoli un contributo di orientamento basilari

Da Camaldoli vengono orientamenti basilari, che riscontriamo oggi nel nostro ordinamento. Anzitutto la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato - con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica - da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi. Si identifica poi, con determinazione, il principio della pace: “deve abbandonarsi il funesto principio che i rapporti internazionali siano rapporti di forza, che la forza crei il diritto…”. Occorre “la creazione di un vero e non fittizio o formale ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli Stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli”.

Orgogliosi dei padri fondatori del Codice di Camaldoli

Vi è ragione di essere ben orgogliosi, guardando ai Padri fondatori del Codice di Camaldoli, per il segno che hanno saputo imprimere al futuro della società italiana, anche sul terreno della libertà di coscienza per ogni persona, descritta, al paragrafo 15, come “esigenza da tutelare fino all’estremo limite delle compatibilità con il bene comune”.

La Lettera alla Costituzione, di Zuppi

Il Cardinale Matteo Zuppi, nella sua lettera alla Costituzione, due anni or sono, riprendendo una considerazione del costituente Giuseppe Dossetti, iniziava così: “Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare…”. Non vi sono parole migliori.]]>
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A 80 anni dal “Codice di Camaldoli”. Il contributo dei cattolici alla ricostruzione https://www.lavoce.it/a-80-anni-dal-codice-di-camaldoli-il-contributo-dei-cattolici-alla-ricostruzione/ https://www.lavoce.it/a-80-anni-dal-codice-di-camaldoli-il-contributo-dei-cattolici-alla-ricostruzione/#respond Thu, 20 Jul 2023 17:18:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=72376 Codice di Camaldoli convegno 2023

Il cosiddetto “Codice di Camaldoli” è un documento di grande importanza nella storia del movimento cattolico italiano del Novecento. Esso cominciò a prendere forma, attraverso un’articolata serie di enunciati, nel luglio 1943, in singolare coincidenza con le drammatiche vicende che, dal bombardamento di Roma, portarono alla destituzione di Mussolini. Proprio in quelle giornate dense di storia, nel Cenobio di Camaldoli si svolse una riunione di teologi e di intellettuali cattolici che era stata preparata a lungo nei mesi precedenti, a partire dal celebre richiamo all’azione di Pio XII nel Radiomessaggio del Natale 1942. Le considerazioni condivise a Camaldoli vennero rielaborate nei mesi successivi da un gruppo di lavoro guidato da Sergio Paronetto, nel plumbeo scenario della Roma occupata, e, pronte nella primavera del 1944, furono infine condensate nel testo Per la comunità cristiana, pubblicato nell’aprile del 1945. Cominciò allora – per così dire – un’altra storia del Codice di Camaldoli. Dall’oblio in cui fu relegato – sebbene molte delle sue riflessioni e intuizioni si ritrovino nel contributo dei cattolici all’Assemblea costituente – esso riemerse solo a partire dagli anni Ottanta, divenendo oggetto di un’attenzione crescente ma anche di riletture agiografiche e parziali, ispirate più da un nostalgico interesse politico che da autentiche ragioni storiografiche. Nel progressivo declino dell’unità politica dei cattolici, i tentativi di “ritornare” al Codice hanno cercato di rispondere all’esigenza di riprendere un discorso comune sui fondamenti morali dell’impegno politico cristiano. Oggi si può guardare alla vicenda del luglio 1943 e alla sua lunga e complessa storia successiva con maggiore rigore scientifico. Gli studi offrono infatti un ampio spettro di considerazioni sulla carica progettuale del Codice, sull’originalità di alcuni suoi contenuti, sulla sensibilità dimostrata dagli estensori verso approcci metodologici differenti, dalla sociologia alla spiritualità, all’economia, al diritto. Sono stati chiariti molti aspetti della fase di preparazione del convegno del luglio 1943 e delle successive tappe della redazione romana del testo, pubblicato nell’altrettanto singolare coincidenza della Liberazione. Si è potuto così meglio comprendere come nelle aspirazioni comuni dei redattori ci sia stata la volontà di conciliare gli ideali della dottrina sociale cristiana e le mete concrete per avviare la ricostruzione del Paese dopo l’immane catastrofe bellica. Essi si posero con molta serietà il problema della propria autonomia rispetto a impostazioni di carattere politico. Ritenevano infatti che le opzioni politiche dovessero essere effettuate dai singoli senza coinvolgere la Chiesa. Ritenevano urgente contribuire a che i singoli cristiani potessero liberamente e responsabilmente assumere una loro posizione nei confronti dei valori irrinunciabili per la coscienza cristiana. Come ha ricordato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel magistrale discorso tenuto a Cuneo il 25 aprile scorso, 78° anniversario della Liberazione, essi erano mossi dall’intento “di riflettere sul futuro, dando vita a una Carta di principi, nota come ‘Codice di Camaldoli’, che lascerà il segno nella Costituzione. Con la proposta di uno Stato che facesse propria la causa della giustizia sociale come concreta espressione del bene comune, per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo di ogni persona umana, per rendere sostanziale l’uguaglianza fra i cittadini”. Osservato attraverso la scrupolosa lente degli storici, fuori dal fuoco della controversia politica, lo stile di questa presenza laicale e di questo impegno intellettuale dei cattolici italiani nel riflettere sul futuro resta dunque ancora oggi, a ottant’anni di distanza, esemplare e affascinante. Tiziano Torresi Promotore e coordinatore del convegno che si tiene a Camaldoli il 21-23 luglio 2023 (Scarica qui il pdf del programma)]]>
Codice di Camaldoli convegno 2023

Il cosiddetto “Codice di Camaldoli” è un documento di grande importanza nella storia del movimento cattolico italiano del Novecento. Esso cominciò a prendere forma, attraverso un’articolata serie di enunciati, nel luglio 1943, in singolare coincidenza con le drammatiche vicende che, dal bombardamento di Roma, portarono alla destituzione di Mussolini. Proprio in quelle giornate dense di storia, nel Cenobio di Camaldoli si svolse una riunione di teologi e di intellettuali cattolici che era stata preparata a lungo nei mesi precedenti, a partire dal celebre richiamo all’azione di Pio XII nel Radiomessaggio del Natale 1942. Le considerazioni condivise a Camaldoli vennero rielaborate nei mesi successivi da un gruppo di lavoro guidato da Sergio Paronetto, nel plumbeo scenario della Roma occupata, e, pronte nella primavera del 1944, furono infine condensate nel testo Per la comunità cristiana, pubblicato nell’aprile del 1945. Cominciò allora – per così dire – un’altra storia del Codice di Camaldoli. Dall’oblio in cui fu relegato – sebbene molte delle sue riflessioni e intuizioni si ritrovino nel contributo dei cattolici all’Assemblea costituente – esso riemerse solo a partire dagli anni Ottanta, divenendo oggetto di un’attenzione crescente ma anche di riletture agiografiche e parziali, ispirate più da un nostalgico interesse politico che da autentiche ragioni storiografiche. Nel progressivo declino dell’unità politica dei cattolici, i tentativi di “ritornare” al Codice hanno cercato di rispondere all’esigenza di riprendere un discorso comune sui fondamenti morali dell’impegno politico cristiano. Oggi si può guardare alla vicenda del luglio 1943 e alla sua lunga e complessa storia successiva con maggiore rigore scientifico. Gli studi offrono infatti un ampio spettro di considerazioni sulla carica progettuale del Codice, sull’originalità di alcuni suoi contenuti, sulla sensibilità dimostrata dagli estensori verso approcci metodologici differenti, dalla sociologia alla spiritualità, all’economia, al diritto. Sono stati chiariti molti aspetti della fase di preparazione del convegno del luglio 1943 e delle successive tappe della redazione romana del testo, pubblicato nell’altrettanto singolare coincidenza della Liberazione. Si è potuto così meglio comprendere come nelle aspirazioni comuni dei redattori ci sia stata la volontà di conciliare gli ideali della dottrina sociale cristiana e le mete concrete per avviare la ricostruzione del Paese dopo l’immane catastrofe bellica. Essi si posero con molta serietà il problema della propria autonomia rispetto a impostazioni di carattere politico. Ritenevano infatti che le opzioni politiche dovessero essere effettuate dai singoli senza coinvolgere la Chiesa. Ritenevano urgente contribuire a che i singoli cristiani potessero liberamente e responsabilmente assumere una loro posizione nei confronti dei valori irrinunciabili per la coscienza cristiana. Come ha ricordato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel magistrale discorso tenuto a Cuneo il 25 aprile scorso, 78° anniversario della Liberazione, essi erano mossi dall’intento “di riflettere sul futuro, dando vita a una Carta di principi, nota come ‘Codice di Camaldoli’, che lascerà il segno nella Costituzione. Con la proposta di uno Stato che facesse propria la causa della giustizia sociale come concreta espressione del bene comune, per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo di ogni persona umana, per rendere sostanziale l’uguaglianza fra i cittadini”. Osservato attraverso la scrupolosa lente degli storici, fuori dal fuoco della controversia politica, lo stile di questa presenza laicale e di questo impegno intellettuale dei cattolici italiani nel riflettere sul futuro resta dunque ancora oggi, a ottant’anni di distanza, esemplare e affascinante. Tiziano Torresi Promotore e coordinatore del convegno che si tiene a Camaldoli il 21-23 luglio 2023 (Scarica qui il pdf del programma)]]>
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In “tutti” ci sono “tutte” https://www.lavoce.it/in-tutti-ci-sono-tutte/ Thu, 04 Aug 2022 09:10:16 +0000 https://www.lavoce.it/?p=67868

Negli atti ufficiali del Senato (verbali, convocazioni, ecc.) si continuerà a usare come in passato la parola plurale “senatori” (al plurale) per indicare nel loro insieme le persone che ne fanno parte. Lo ha deciso la Presidenza del Senato, respingendo la richiesta che era stata avanzata di dire e scrivere, sempre, “i senatori e le senatrici”. Per quello che conta la mia opinione, cioè nulla, sono d’accordo con questa decisione, che invece è biasimata da quelli - e quelle - che vorrebbero un linguaggio “inclusivo”. Siccome usiamo la lingua italiana, usiamola secondo le sue regole condivise.

C’è, fra l’altro, la regola che i sostantivi che indicano persone, se usati al maschile plurale, si riferiscono indifferente a persone tanto del genere maschile che di quello femminile; e anche a coloro che non si riconoscono in alcuno dei due, o si riconoscono in entrambi. Vediamo la Costituzione, che oltre a essere la legge fondamentale, è un perfetto esempio di buona lingua italiana.

L’articolo 3 dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso”; a nessuno può venire il sospetto che non valga anche per le cittadine. Così, quando l’art. 19 dice: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa”, e l’art. 21 aggiunge: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, è chiaro che la parola “tutti” vuole indicare, e indica, proprio tutti, nessuno escluso. Quindi è il termine più inclusivo che si può. Se invece si dicesse e si scrivesse “tutti e tutte”, qualcuno direbbe che non è ancora abbastanza inclusivo, e che sarebbe meglio scrivere “tutt*” con un asterisco, o un’altra grafia impronunciabile.

La diatriba dura dal 1998, quando l’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, fu autore dello Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, e lo volle chiamare così perché a nessuno venisse il dubbio che valesse solo per i ragazzi e non anche per le ragazze; che sarebbe stata una sciocchezza. Ma così si finisce col rendere incerto il senso delle più solenni - e inclusive - affermazioni della Costituzione.

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Negli atti ufficiali del Senato (verbali, convocazioni, ecc.) si continuerà a usare come in passato la parola plurale “senatori” (al plurale) per indicare nel loro insieme le persone che ne fanno parte. Lo ha deciso la Presidenza del Senato, respingendo la richiesta che era stata avanzata di dire e scrivere, sempre, “i senatori e le senatrici”. Per quello che conta la mia opinione, cioè nulla, sono d’accordo con questa decisione, che invece è biasimata da quelli - e quelle - che vorrebbero un linguaggio “inclusivo”. Siccome usiamo la lingua italiana, usiamola secondo le sue regole condivise.

C’è, fra l’altro, la regola che i sostantivi che indicano persone, se usati al maschile plurale, si riferiscono indifferente a persone tanto del genere maschile che di quello femminile; e anche a coloro che non si riconoscono in alcuno dei due, o si riconoscono in entrambi. Vediamo la Costituzione, che oltre a essere la legge fondamentale, è un perfetto esempio di buona lingua italiana.

L’articolo 3 dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso”; a nessuno può venire il sospetto che non valga anche per le cittadine. Così, quando l’art. 19 dice: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa”, e l’art. 21 aggiunge: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, è chiaro che la parola “tutti” vuole indicare, e indica, proprio tutti, nessuno escluso. Quindi è il termine più inclusivo che si può. Se invece si dicesse e si scrivesse “tutti e tutte”, qualcuno direbbe che non è ancora abbastanza inclusivo, e che sarebbe meglio scrivere “tutt*” con un asterisco, o un’altra grafia impronunciabile.

La diatriba dura dal 1998, quando l’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, fu autore dello Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, e lo volle chiamare così perché a nessuno venisse il dubbio che valesse solo per i ragazzi e non anche per le ragazze; che sarebbe stata una sciocchezza. Ma così si finisce col rendere incerto il senso delle più solenni - e inclusive - affermazioni della Costituzione.

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Basterebbe l’articolo 11 della Costituzione https://www.lavoce.it/basterebbe-larticolo-11-della-costituzione/ Thu, 24 Mar 2022 09:13:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=65728 Logo rubrica Il punto

L’articolo 11 della Costituzione dice che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Si capisce subito che i costituenti pensavano alle guerre fasciste - l’aggressione all’Etiopia del 1935, l’invasione dell’Albania nel 1939, la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, l’aggressione alla Grecia nell’ottobre dello stesso anno - ma anche alle innumerevoli altre guerre scatenate nella storia. Tuttavia il testo è chiaro nel senso che la guerra di legittima difesa è consentita. Lo confermano - se ce ne fosse bisogno - gli altri articoli della Costituzione che parlano della difesa nazionale e delle forze armate. La Costituzione non vieta che ci sia un esercito, anzi lo prevede; e non vieta neppure che lo Stato dedichi una parte delle sue risorse ad armarsi in vista di una difesa futura, nella misura in cui ciò risulti necessario.

Valutare che cosa sia ragionevolmente necessario spetta al Parlamento. Fin qui, abbiamo visto che cosa è lecito e anche doveroso, e che cosa non lo è, dal punto di vista costituzionale. Poi sono possibili altri punti di vista. Per esempio, quello dell’opportunità politica, che potrebbe portare (è solo un esempio) a provvederti di armi che non userai mai, se questo serve a scoraggiare i tuoi avversari. O all’opposto, quello dell’etica nonviolenta, che ti porta, per principio assoluto, ad astenerti non solo dalla violenza ma anche dal semplice possesso di qualunque tipo di arma. E così via. Certo, se tutti gli Stati aderissero - s’intende, non solo per finta - a un programma serio di disarmo, sarebbe meglio per tutti, e l’umanità intera sarebbe diversa. Ma se duemila anni di cristianesimo non sono bastati per arrivare a questo - anche perché gli stessi cristiani hanno mostrato grande impegno nel farsi guerre tra loro, e non sono state le meno spietate - , possiamo pensare di arrivarci ora? A questa domanda non so dare risposta. Tutto sommato, se si riuscisse a far accettare da tutto il mondo il nostro articolo 11, apparentemente così limitato, sarebbe un enorme passo in avanti.

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L’articolo 11 della Costituzione dice che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Si capisce subito che i costituenti pensavano alle guerre fasciste - l’aggressione all’Etiopia del 1935, l’invasione dell’Albania nel 1939, la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, l’aggressione alla Grecia nell’ottobre dello stesso anno - ma anche alle innumerevoli altre guerre scatenate nella storia. Tuttavia il testo è chiaro nel senso che la guerra di legittima difesa è consentita. Lo confermano - se ce ne fosse bisogno - gli altri articoli della Costituzione che parlano della difesa nazionale e delle forze armate. La Costituzione non vieta che ci sia un esercito, anzi lo prevede; e non vieta neppure che lo Stato dedichi una parte delle sue risorse ad armarsi in vista di una difesa futura, nella misura in cui ciò risulti necessario.

Valutare che cosa sia ragionevolmente necessario spetta al Parlamento. Fin qui, abbiamo visto che cosa è lecito e anche doveroso, e che cosa non lo è, dal punto di vista costituzionale. Poi sono possibili altri punti di vista. Per esempio, quello dell’opportunità politica, che potrebbe portare (è solo un esempio) a provvederti di armi che non userai mai, se questo serve a scoraggiare i tuoi avversari. O all’opposto, quello dell’etica nonviolenta, che ti porta, per principio assoluto, ad astenerti non solo dalla violenza ma anche dal semplice possesso di qualunque tipo di arma. E così via. Certo, se tutti gli Stati aderissero - s’intende, non solo per finta - a un programma serio di disarmo, sarebbe meglio per tutti, e l’umanità intera sarebbe diversa. Ma se duemila anni di cristianesimo non sono bastati per arrivare a questo - anche perché gli stessi cristiani hanno mostrato grande impegno nel farsi guerre tra loro, e non sono state le meno spietate - , possiamo pensare di arrivarci ora? A questa domanda non so dare risposta. Tutto sommato, se si riuscisse a far accettare da tutto il mondo il nostro articolo 11, apparentemente così limitato, sarebbe un enorme passo in avanti.

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Regioni: un bel pasticcio https://www.lavoce.it/regioni-un-bel-pasticcio/ Thu, 16 Dec 2021 17:30:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64132 Logo rubrica Il punto

La settimana scorsa ho dedicato queste righe a un confronto fra lo stile, e lo spirito, della vita politica italiana e di quella tedesca, a tutto favore di quest’ultima (dal dopoguerra in poi, si capisce).

Questa volta non parlo più della politica tedesca, non ne so abbastanza; parlo di quella italiana. Prendo lo spunto da un recente editoriale del Corriere della Sera, scritto dallo storico Ernesto Galli Della Loggia. Si riferiva ai danni che alla vita pubblica italiana ha portato la riforma costituzionale del 2001, la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha allargato in modo sconsiderato l’autonomia delle Regioni e degli enti locali e indebolito il Governo centrale. L’analisi dello studioso è impietosa, ma è condivisa da molti e - per quello che vale il mio pensiero - la condivido anch’io.

Voglio però fare due aggiunte relative ad aspetti non toccati dal prof. Galli. La prima è che quelle nuove norme, oltre che improvvide, sono anche scritte male tecnicamente, cosicché da allora la Corte costituzionale spreca la maggior parte del suo tempo a risolvere i conflitti di competenze fra Stato e Regioni.

La seconda è un segreto di Pulcinella: quelli che hanno proposto, scritto e sostenuto in Parlamento quella riforma costituzionale - il centrosinistra al governo fra il 1996 e il 2001 - non lo hanno fatto perché pensassero che fosse la cosa giusta per l’Italia: non lo era, e lo sapevano Il fatto è che erano terrorizzati dai successi della Lega di Bossi - che in quegli anni si batteva per il cosiddetto federalismo - e avevano studiato una furbata: scavalcare la Lega di Bossi sul suo terreno (il federalismo, appunto), per toglierle spazio politico ed elettorato. Un’altra delle “furbate” di quel periodo: c’era già stata quella di Bertinotti che, togliendogli il voto, aveva fatto cadere il primo governo Prodi. Ma la furbizia è una cattiva consigliera. Infatti il centrosinistra ha poi perso le elezioni politiche del 2001.

Quindi, se lo scopo della riforma del Titolo V era elettorale, non ha funzionato. Ma all’Italia è rimasta una riforma mal fatta, che non è il minore fra i suoi tanti problemi. Non si dovrebbero mai fare le cose per un calcolo opportunistico; ma se poi si sbagliano anche i calcoli, è una tragedia.

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La settimana scorsa ho dedicato queste righe a un confronto fra lo stile, e lo spirito, della vita politica italiana e di quella tedesca, a tutto favore di quest’ultima (dal dopoguerra in poi, si capisce).

Questa volta non parlo più della politica tedesca, non ne so abbastanza; parlo di quella italiana. Prendo lo spunto da un recente editoriale del Corriere della Sera, scritto dallo storico Ernesto Galli Della Loggia. Si riferiva ai danni che alla vita pubblica italiana ha portato la riforma costituzionale del 2001, la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha allargato in modo sconsiderato l’autonomia delle Regioni e degli enti locali e indebolito il Governo centrale. L’analisi dello studioso è impietosa, ma è condivisa da molti e - per quello che vale il mio pensiero - la condivido anch’io.

Voglio però fare due aggiunte relative ad aspetti non toccati dal prof. Galli. La prima è che quelle nuove norme, oltre che improvvide, sono anche scritte male tecnicamente, cosicché da allora la Corte costituzionale spreca la maggior parte del suo tempo a risolvere i conflitti di competenze fra Stato e Regioni.

La seconda è un segreto di Pulcinella: quelli che hanno proposto, scritto e sostenuto in Parlamento quella riforma costituzionale - il centrosinistra al governo fra il 1996 e il 2001 - non lo hanno fatto perché pensassero che fosse la cosa giusta per l’Italia: non lo era, e lo sapevano Il fatto è che erano terrorizzati dai successi della Lega di Bossi - che in quegli anni si batteva per il cosiddetto federalismo - e avevano studiato una furbata: scavalcare la Lega di Bossi sul suo terreno (il federalismo, appunto), per toglierle spazio politico ed elettorato. Un’altra delle “furbate” di quel periodo: c’era già stata quella di Bertinotti che, togliendogli il voto, aveva fatto cadere il primo governo Prodi. Ma la furbizia è una cattiva consigliera. Infatti il centrosinistra ha poi perso le elezioni politiche del 2001.

Quindi, se lo scopo della riforma del Titolo V era elettorale, non ha funzionato. Ma all’Italia è rimasta una riforma mal fatta, che non è il minore fra i suoi tanti problemi. Non si dovrebbero mai fare le cose per un calcolo opportunistico; ma se poi si sbagliano anche i calcoli, è una tragedia.

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La ‘razza’ nella Costituzione https://www.lavoce.it/la-razza-nella-costituzione/ Wed, 04 Aug 2021 14:11:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61617

È appropriato parlare di “razza” e di “razze” con riferimento agli esseri umani? Se il concetto di “razza” implica che non solo l’aspetto fisico, ma anche la personalità di un individuo è determinata dalla genetica, è ormai scientificamente accertato che le “razze” non esistono.

La proposta ... discutibile

Partendo da queste basi sta circolando la proposta - finora avanzata solo nei dibattiti fra intellettuali - di cancellare la parola “razza” dalla Costituzione. La tesi è che la presenza di quella parola convalida il pregiudizio che l’umanità si divida in razze. Ma è proprio così?

Secondo me, sicuramente no. La Costituzione dice, puramente e semplicemente, che la razza non può essere presa come motivo o pretesto per fare distinzioni tra le persone. Quindi il principio vale anche se l’esistenza delle razze è puramente immaginaria - visto che comunque c’è chi alle razze ci crede.

La scelta dei Costituenti

I Costituenti, riuniti nell’aula di Montecitorio, scrivevano quelle frasi nella seconda metà del 1946. Non erano ancora passati dieci anni da quando, in quella stessa aula (!), un simulacro di Parlamento aveva votato le leggi razziali volute da Mussolini.

Ne erano passati appena tre da quel terribile 16 ottobre nel quale gli ebrei di Roma erano stati deportati in massa verso lo sterminio.

Era passato da poco più di un anno il giorno in cui ad Auschwitz era stata fermata la macchina della morte, e i cancelli erano stati dischiusi per lasciare liberi i pochi prigionieri ancora in vita. I Costituenti potevano ancora sentire l’eco del pianto degli sventurati mandati a morire in nome della “razza”.

E non dovevano dunque scrivere - nella Costituzione della nuova Italia - che non è lecito fare distinzioni di razza?

Non c'è una umanitò divisa in "razze", ma il razzismo sì

La razza sarà anche un concetto immaginario, ma il razzismo esiste ancora.

Tre anni fa, a Macerata, un cittadino infuriato per il delitto commesso da un immigrato africano scese armato per strada e si mise a sparare contro tutti i neri che vedeva: ne ferì sei.

Non è razzismo questo?

A me, togliere dalla Costituzione il divieto delle distinzioni basate sulla razza sembra - a dir poco - un’idea bislacca.

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È appropriato parlare di “razza” e di “razze” con riferimento agli esseri umani? Se il concetto di “razza” implica che non solo l’aspetto fisico, ma anche la personalità di un individuo è determinata dalla genetica, è ormai scientificamente accertato che le “razze” non esistono.

La proposta ... discutibile

Partendo da queste basi sta circolando la proposta - finora avanzata solo nei dibattiti fra intellettuali - di cancellare la parola “razza” dalla Costituzione. La tesi è che la presenza di quella parola convalida il pregiudizio che l’umanità si divida in razze. Ma è proprio così?

Secondo me, sicuramente no. La Costituzione dice, puramente e semplicemente, che la razza non può essere presa come motivo o pretesto per fare distinzioni tra le persone. Quindi il principio vale anche se l’esistenza delle razze è puramente immaginaria - visto che comunque c’è chi alle razze ci crede.

La scelta dei Costituenti

I Costituenti, riuniti nell’aula di Montecitorio, scrivevano quelle frasi nella seconda metà del 1946. Non erano ancora passati dieci anni da quando, in quella stessa aula (!), un simulacro di Parlamento aveva votato le leggi razziali volute da Mussolini.

Ne erano passati appena tre da quel terribile 16 ottobre nel quale gli ebrei di Roma erano stati deportati in massa verso lo sterminio.

Era passato da poco più di un anno il giorno in cui ad Auschwitz era stata fermata la macchina della morte, e i cancelli erano stati dischiusi per lasciare liberi i pochi prigionieri ancora in vita. I Costituenti potevano ancora sentire l’eco del pianto degli sventurati mandati a morire in nome della “razza”.

E non dovevano dunque scrivere - nella Costituzione della nuova Italia - che non è lecito fare distinzioni di razza?

Non c'è una umanitò divisa in "razze", ma il razzismo sì

La razza sarà anche un concetto immaginario, ma il razzismo esiste ancora.

Tre anni fa, a Macerata, un cittadino infuriato per il delitto commesso da un immigrato africano scese armato per strada e si mise a sparare contro tutti i neri che vedeva: ne ferì sei.

Non è razzismo questo?

A me, togliere dalla Costituzione il divieto delle distinzioni basate sulla razza sembra - a dir poco - un’idea bislacca.

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