Concilio Vaticano II Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/conciliovaticanoii/ Settimanale di informazione regionale Mon, 26 Aug 2024 12:32:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Concilio Vaticano II Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/conciliovaticanoii/ 32 32 Mons. Luigi Bettazzi, l’ultimo testimone del Concilio https://www.lavoce.it/mons-luigi-bettazzi-lultimo-testimone-del-concilio/ https://www.lavoce.it/mons-luigi-bettazzi-lultimo-testimone-del-concilio/#respond Wed, 26 Jul 2023 15:25:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=72644 Un primo piano di mons. Luigi Bettazzi

Mons. Luigi Bettazzi è un “padre del Concilio” che ha finito per diventarne “figlio”. In tanti lo hanno scritto e ricordato sulla stampa, e anche nel corso del rito delle esequie. Con lui – mancato il 16 luglio – se n’è andato l’ultimo testimone di quell’evento straordinario che ha generato un cambiamento radicale della Chiesa cattolica. Senza alcun dubbio, quel vento dello Spirito ha inciso in maniera determinante anche nella sua esistenza. Ciò che invece non è stato sottolineato abbastanza è la profonda spiritualità che abbiamo potuto constatare noi che abbiamo avuto l’onore di frequentarlo e di ricevere la sua amicizia.

Mons. Luigi Bettazzi folgorato dalla spiritualità di C. De Foucould

Mons. Bettazzi era stato folgorato dalla spiritualità di Charles De Foucauld, dalla centralità dell’eucaristia, dal nascondimento di Nazareth, dalla predilezione per ciò che è piccolo, dall’abbandono totale nelle braccia del Padre e dalla santità del quotidiano. E sono certo che quella tenace, perseverante e coerente testimonianza della pace che l’ha portato alla presidenza di Pax Christi, in Italia prima e al livello internazionale dopo, non ci sarebbe stata senza quelle radici profonde e autentiche.

L'adesione al "patto delle catacombe"

Anche l’adesione al “Patto delle catacombe” (l’impegno di un gruppo di vescovi durante il Concilio per vivere in semplicità e povertà con il popolo di Dio loro affidato) nasce dai petits évêques, “piccoli vescovi”, come piccoli fratelli e piccole sorelle, che nascevano dal grande albero della fraternità universale di De Foucauld.

Tutti ricordiamo la sua fedeltà all’eucarestia anche in condizioni difficili. Personalmente l’ho accompagnato in scenari di guerra e in situazioni alquanto precarie, ma immancabilmente doveva trovare lo spazio (generalmente al mattino molto presto) per la celebrazione eucaristica. Era lì che attingeva la linfa per le prese di posizione in favore della pace, nella direzione della nonviolenza evangelica, e che talvolta suscitavano opposizioni e contrasti.

La fede che lo ha animato non lasciava spazio al quieto vivere, lo spingeva piuttosto a mettersi continuamente in gioco in prima persona, sullo stile di chi obbedisce alla chiamata del Cristo di “prendere ogni giorno la propria croce” e seguirlo. Il tutto però condito da una giovialità e da un tratto umano solare e accogliente, sempre attento all’altro.

Pastore dallo stile profetico e sapiente

Insomma, un Pastore dallo stile profetico e sapiente insieme, che ha interpretato lo spirito del Concilio, il quale – secondo quel che ripeteva – era in buona parte ancora da mettere in pratica e da assumere come stile di Chiesa. Più che una lezione, ci lascia una testimonianza che indica una direzione da seguire.

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Un primo piano di mons. Luigi Bettazzi

Mons. Luigi Bettazzi è un “padre del Concilio” che ha finito per diventarne “figlio”. In tanti lo hanno scritto e ricordato sulla stampa, e anche nel corso del rito delle esequie. Con lui – mancato il 16 luglio – se n’è andato l’ultimo testimone di quell’evento straordinario che ha generato un cambiamento radicale della Chiesa cattolica. Senza alcun dubbio, quel vento dello Spirito ha inciso in maniera determinante anche nella sua esistenza. Ciò che invece non è stato sottolineato abbastanza è la profonda spiritualità che abbiamo potuto constatare noi che abbiamo avuto l’onore di frequentarlo e di ricevere la sua amicizia.

Mons. Luigi Bettazzi folgorato dalla spiritualità di C. De Foucould

Mons. Bettazzi era stato folgorato dalla spiritualità di Charles De Foucauld, dalla centralità dell’eucaristia, dal nascondimento di Nazareth, dalla predilezione per ciò che è piccolo, dall’abbandono totale nelle braccia del Padre e dalla santità del quotidiano. E sono certo che quella tenace, perseverante e coerente testimonianza della pace che l’ha portato alla presidenza di Pax Christi, in Italia prima e al livello internazionale dopo, non ci sarebbe stata senza quelle radici profonde e autentiche.

L'adesione al "patto delle catacombe"

Anche l’adesione al “Patto delle catacombe” (l’impegno di un gruppo di vescovi durante il Concilio per vivere in semplicità e povertà con il popolo di Dio loro affidato) nasce dai petits évêques, “piccoli vescovi”, come piccoli fratelli e piccole sorelle, che nascevano dal grande albero della fraternità universale di De Foucauld.

Tutti ricordiamo la sua fedeltà all’eucarestia anche in condizioni difficili. Personalmente l’ho accompagnato in scenari di guerra e in situazioni alquanto precarie, ma immancabilmente doveva trovare lo spazio (generalmente al mattino molto presto) per la celebrazione eucaristica. Era lì che attingeva la linfa per le prese di posizione in favore della pace, nella direzione della nonviolenza evangelica, e che talvolta suscitavano opposizioni e contrasti.

La fede che lo ha animato non lasciava spazio al quieto vivere, lo spingeva piuttosto a mettersi continuamente in gioco in prima persona, sullo stile di chi obbedisce alla chiamata del Cristo di “prendere ogni giorno la propria croce” e seguirlo. Il tutto però condito da una giovialità e da un tratto umano solare e accogliente, sempre attento all’altro.

Pastore dallo stile profetico e sapiente

Insomma, un Pastore dallo stile profetico e sapiente insieme, che ha interpretato lo spirito del Concilio, il quale – secondo quel che ripeteva – era in buona parte ancora da mettere in pratica e da assumere come stile di Chiesa. Più che una lezione, ci lascia una testimonianza che indica una direzione da seguire.

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La Rivelazione è evoluzione. Scienza e fede in dialogo https://www.lavoce.it/la-rivelazione-e-evoluzione-scienza-e-fede-in-dialogo/ Fri, 18 Jun 2021 10:54:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61071

Dei Verbum, n. 17: “La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente degli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza del tempo, il Verbo si fece carne ed abitò tra noi, pieno di grazia e di verità.

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e Se stesso e portò a compimento l’opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, e l’invio dello Spirito Santo. Sollevato in alto attira tutti a Sé, Lui che solo ha parole di vita eterna. Ma questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi Apostoli suoi e ai Profeti nello Spirito Santo, affinché predicassero l’Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore, e congregassero la Chiesa. Di tutto ciò, gli scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina”.

La Parola e la natura

Lo sguardo che rivolgiamo sul mondo, vede grandi miserie e sforzi immani per contrastare la deriva fatale: le emissioni nell’atmosfera, lo scempio dei mari, l’invasione della plastica... “Chi crede in Cristo ha tra le mani, anzi, nel cuore e sulle labbra una parola che, essendo di Dio, ha la stessa potenza manifestatasi al principio, quando il creatore “parlò e tutto fu fatto”; ha la medesima efficacia salvifica delle parole di grazia che uscivano dalla bocca del salvatore quando diceva “sii guarito”, e “i tuoi peccati sono perdonati” (Pietro Bovati, biblista). “Il Nuovo Testamento costituisce il vertice dei libri sacri e li illumina tutti. Questo, ovviamente, perché esso ci parla direttamente di Gesù Cristo, che è il centro e il vertice di tutta la rivelazione di Dio agli uomini: è lui, infatti, la parola di Dio dall’eternità per l’umanità. San Girolamo diceva: l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (card. Giuseppe Betori). Nei primi capitoli della Genesi, troviamo il “mito” della creazione, che ci fa intuire la sorgente dell’infinito fiume della storia. Negli ultimi capitoli dell’Apocalisse (“rivelazione”, ), è annunciata la foce misteriosa, la “nuova Gerusalemme”. Possiamo chiamare i due sguardi una profezia a parte ante, e una profezia a parte post. Questo cammino di millenni, gli scienziati lo chiamano “evoluzione”. “Il desiderio di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza, lo ha spinto a rivelarsi a Israele, così che esso lo facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti. Cristo ha compiuto e completato la rivelazione di Dio, così da attrarre a sé l’intera umanità, come aveva promesso: ‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Anzi, mediante Cristo e il suo Spirito, il Padre continua a condurre la storia verso di sé” (Franco Manzi, biblista). Teilhard De Chardin, prete, teologo, filosofo, scienziato, descrive in maniera suggestiva, poetica e scientifica, questo progredire della vita verso il Padre: dalla materia agli animali, all’uomo (il pensiero riflesso), fino a Gesù Cristo (“centro e vertice”, dice il Concilio; “Punto Omega”, dice Teilhard).

La fede e la scienza, dialogo possibile

E se invece del sospetto e del rifiuto da parte del Sant’Uffizio dell’epoca, ci fosse stato ascolto e accoglienza (come poi, grazie a Dio, ha fatto il Concilio, e il card. Casaroli, e lo stesso papa Paolo VI, e papa Benedetto), il dialogo fede-scienza avrebbe avuto un’altra storia. Peccato! Ma possiamo sempre riparare...]]>

Dei Verbum, n. 17: “La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente degli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza del tempo, il Verbo si fece carne ed abitò tra noi, pieno di grazia e di verità.

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra

Cristo stabilì il Regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e Se stesso e portò a compimento l’opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, e l’invio dello Spirito Santo. Sollevato in alto attira tutti a Sé, Lui che solo ha parole di vita eterna. Ma questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi Apostoli suoi e ai Profeti nello Spirito Santo, affinché predicassero l’Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore, e congregassero la Chiesa. Di tutto ciò, gli scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina”.

La Parola e la natura

Lo sguardo che rivolgiamo sul mondo, vede grandi miserie e sforzi immani per contrastare la deriva fatale: le emissioni nell’atmosfera, lo scempio dei mari, l’invasione della plastica... “Chi crede in Cristo ha tra le mani, anzi, nel cuore e sulle labbra una parola che, essendo di Dio, ha la stessa potenza manifestatasi al principio, quando il creatore “parlò e tutto fu fatto”; ha la medesima efficacia salvifica delle parole di grazia che uscivano dalla bocca del salvatore quando diceva “sii guarito”, e “i tuoi peccati sono perdonati” (Pietro Bovati, biblista). “Il Nuovo Testamento costituisce il vertice dei libri sacri e li illumina tutti. Questo, ovviamente, perché esso ci parla direttamente di Gesù Cristo, che è il centro e il vertice di tutta la rivelazione di Dio agli uomini: è lui, infatti, la parola di Dio dall’eternità per l’umanità. San Girolamo diceva: l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (card. Giuseppe Betori). Nei primi capitoli della Genesi, troviamo il “mito” della creazione, che ci fa intuire la sorgente dell’infinito fiume della storia. Negli ultimi capitoli dell’Apocalisse (“rivelazione”, ), è annunciata la foce misteriosa, la “nuova Gerusalemme”. Possiamo chiamare i due sguardi una profezia a parte ante, e una profezia a parte post. Questo cammino di millenni, gli scienziati lo chiamano “evoluzione”. “Il desiderio di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza, lo ha spinto a rivelarsi a Israele, così che esso lo facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti. Cristo ha compiuto e completato la rivelazione di Dio, così da attrarre a sé l’intera umanità, come aveva promesso: ‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Anzi, mediante Cristo e il suo Spirito, il Padre continua a condurre la storia verso di sé” (Franco Manzi, biblista). Teilhard De Chardin, prete, teologo, filosofo, scienziato, descrive in maniera suggestiva, poetica e scientifica, questo progredire della vita verso il Padre: dalla materia agli animali, all’uomo (il pensiero riflesso), fino a Gesù Cristo (“centro e vertice”, dice il Concilio; “Punto Omega”, dice Teilhard).

La fede e la scienza, dialogo possibile

E se invece del sospetto e del rifiuto da parte del Sant’Uffizio dell’epoca, ci fosse stato ascolto e accoglienza (come poi, grazie a Dio, ha fatto il Concilio, e il card. Casaroli, e lo stesso papa Paolo VI, e papa Benedetto), il dialogo fede-scienza avrebbe avuto un’altra storia. Peccato! Ma possiamo sempre riparare...]]>
La “traduzione” della Parola: con il dizionario dello Spirito. https://www.lavoce.it/la-traduzione-della-parola-con-il-dizionario-dello-spirito/ Fri, 21 May 2021 10:52:01 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60746

Dei Verbum, n. 13: “Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta la mirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e quanto Egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo”. È lo stesso stupore del Natale, allora: Dio si è fatto come noi - canta la liturgia - perché noi potessimo diventare come lui! Dio parla le nostre parole perché noi potessimo imparare a parlare le sue. E così, tra tutte le parole che gli uomini parlano e ascoltano - quelle quotidiane, e quelle dei “maestri” -, può trovare spazio quella che viene dal Cielo. È la risposta alla preghiera del Salmo: “mostraci il tuo volto, Signore!”. È come il passaggio di Dio nella vita del profeta Elia, quando, rifugiato nella grotta, sentì il fragore del vento e dell’uragano, e alla fine “il sussurro di una brezza leggera” (o “un sottile suono di silenzio”, come alcuni traducono in 1Re 19,9 ss). È il desiderio espresso nella poesia di Mario Luzi (1914-2005):
“Non startene nascosto nella tua onnipresenza. Mostrati, vorrebbero dirgli, ma non osano. Il roveto in fiamme lo rivela, però è anche il suo impenetrabile nascondiglio. E poi l’incarnazione si ripara dalla sua eternità sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo verso l’uomo, nell’uomo… sì, ma il figlio dell’uomo in cui deflagra lo manifesta e lo cela… così avanzano nella loro storia”.
“Questo processo di traduzione del messaggio divino in umano giunge fino al punto di far sì che le parole dette da Dio all’autore ispirato possono legittimamente arrivare all’uomo in veste di parole dell’uomo (ebraico, aramaico e greco) e proporzionatamente tramite le lingue attuali dell’uomo; quel che Dio non ha disdegnato di fare, non possiamo sottovalutarlo noi” (Paolo Martuccelli, teologo). Quando si parla di “traduzione”, sappiamo bene che non è una questione solo linguistica, di termini, ma di concetti e di messaggio. Se è vero che Gesù promette di rimanere con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi; e dona lo Spirito alla Chiesa perché le ricordi e le insegni ogni cosa, allora si può parlare di “aggiornamento” - un termine così caro a Papa Giovanni, e al Concilio, che è stato accolto in italiano così come nelle altre lingue. Un po’ come le indicazioni sugli spartiti di musica. Quanti esempi di questo procedimento! Che non è il “relativismo” da cui ci mette in guardia Papa Benedetto, come se non ci fosse più una “stella polare” nella rivelazione. È invece l’unico modo perché la Parola del Cielo si immerga nella nostra terra, nella storia concreta che ogni generazione sta vivendo. Esempio: il mito della creazione era interpretato come dominio dell’uomo sulla natura; la traduzione per il nostro oggi la offre la Laudato si’ del Papa. Le differenze delle culture (e delle religioni) sono diventate “ponti, e non muri” nell’enciclica Fratelli tutti. Parleremo “lingue nuove”! “Luce ai miei passi è la tua parola, Signore” canta il Salmo. La luce è dono suo, i passi sono la nostra stupenda fatica quotidiana: mai da soli!]]>

Dei Verbum, n. 13: “Nella sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta la mirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza, affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e quanto Egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare. Le parole di Dio infatti espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo”. È lo stesso stupore del Natale, allora: Dio si è fatto come noi - canta la liturgia - perché noi potessimo diventare come lui! Dio parla le nostre parole perché noi potessimo imparare a parlare le sue. E così, tra tutte le parole che gli uomini parlano e ascoltano - quelle quotidiane, e quelle dei “maestri” -, può trovare spazio quella che viene dal Cielo. È la risposta alla preghiera del Salmo: “mostraci il tuo volto, Signore!”. È come il passaggio di Dio nella vita del profeta Elia, quando, rifugiato nella grotta, sentì il fragore del vento e dell’uragano, e alla fine “il sussurro di una brezza leggera” (o “un sottile suono di silenzio”, come alcuni traducono in 1Re 19,9 ss). È il desiderio espresso nella poesia di Mario Luzi (1914-2005):
“Non startene nascosto nella tua onnipresenza. Mostrati, vorrebbero dirgli, ma non osano. Il roveto in fiamme lo rivela, però è anche il suo impenetrabile nascondiglio. E poi l’incarnazione si ripara dalla sua eternità sotto una gronda umana, scende nel più tenero grembo verso l’uomo, nell’uomo… sì, ma il figlio dell’uomo in cui deflagra lo manifesta e lo cela… così avanzano nella loro storia”.
“Questo processo di traduzione del messaggio divino in umano giunge fino al punto di far sì che le parole dette da Dio all’autore ispirato possono legittimamente arrivare all’uomo in veste di parole dell’uomo (ebraico, aramaico e greco) e proporzionatamente tramite le lingue attuali dell’uomo; quel che Dio non ha disdegnato di fare, non possiamo sottovalutarlo noi” (Paolo Martuccelli, teologo). Quando si parla di “traduzione”, sappiamo bene che non è una questione solo linguistica, di termini, ma di concetti e di messaggio. Se è vero che Gesù promette di rimanere con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi; e dona lo Spirito alla Chiesa perché le ricordi e le insegni ogni cosa, allora si può parlare di “aggiornamento” - un termine così caro a Papa Giovanni, e al Concilio, che è stato accolto in italiano così come nelle altre lingue. Un po’ come le indicazioni sugli spartiti di musica. Quanti esempi di questo procedimento! Che non è il “relativismo” da cui ci mette in guardia Papa Benedetto, come se non ci fosse più una “stella polare” nella rivelazione. È invece l’unico modo perché la Parola del Cielo si immerga nella nostra terra, nella storia concreta che ogni generazione sta vivendo. Esempio: il mito della creazione era interpretato come dominio dell’uomo sulla natura; la traduzione per il nostro oggi la offre la Laudato si’ del Papa. Le differenze delle culture (e delle religioni) sono diventate “ponti, e non muri” nell’enciclica Fratelli tutti. Parleremo “lingue nuove”! “Luce ai miei passi è la tua parola, Signore” canta il Salmo. La luce è dono suo, i passi sono la nostra stupenda fatica quotidiana: mai da soli!]]>
In cima alla piramide, la Parola https://www.lavoce.it/in-cima-alla-piramide-la-parola/ Fri, 23 Apr 2021 14:16:20 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60284

di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 10 : “La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa, e nell’adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori persevera assiduamente nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, concordino i Presuli e i fedeli.

L’ufficio poi d’interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata in nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve...

È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”.

Invece del mio piccolo commento, oggi ne propongo tre grandi.

Cettina Militello

Cettina Militello, una teologa, donna! “La nostalgia della comunità cristiana delle origini ci accompagna da sempre. C’è mai stato un tempo di assoluta fraternità, di sinergia profonda, di piena comunione tra i membri della comunità? Forse, pienamente, mai... eppure la nostalgia di una comunità veramente autenticamente tale ha attraversato la Chiesa di ogni tempo, ed è giunta sino a noi. La posta in gioco è quella dell’adesione alla parola di Dio, la cui intelligenza è a tutti noi affidata: non monopolio di alcuni, ma bene comune di tutti”.

Card. Carlo Maria Martini

Card. Carlo Maria Martini: “Questa perla conciliare riecheggia lo stile biblico di alcuni discorsi dei padri conciliari, tra i quali acquistò un valore esemplare quello del cardinale Lercaro sulla povertà. La figura del vescovo è qui presentata come quella di un servitore della Parola. Durante la consacrazione, gli viene messo sul capo il libro dei Vangeli. È un simbolo liturgico molto bello ed evocativo. Egli è sottoposto a esso in ogni senso; la sua parola deve far risuonare il Vangelo e ogni suo gesto deve essere una realizzazione del Vangelo”.

Hans Küng

Hans Küng: “Se questo Concilio non ci fosse stato, teologia e spiritualità della Bibbia continuerebbero nella Chiesa cattolica ad essere trascurate nella predicazione, nella teologia di scuola e nella pietà privata. Il Vaticano II ha riconosciuto l’importanza preminente della Bibbia. Il magistero non sta al di sopra della parola di Dio bensì deve porsi al suo servizio...

Se questo Concilio non ci fosse stato, la Chiesa continuerebbe a essere compresa come un impero romano soprannaturale, con al vertice il Papa, come sovrano assoluto, sotto di lui l’aristocrazia dei vescovi e dei preti, e infine, in funzione passiva, il popolo suddito dei fedeli... Il Concilio Vaticano II critica quest’immagine di Chiesa e comprende la Chiesa di nuovo non come piramide gerarchica, bensì come comunità di fede. I detentori degli uffici stanno non sopra, ma dentro il popolo di Dio; non come suoi padroni ma come i suoi servitori. Il sacerdozio universale dei fedeli va tenuto in grande considerazione. I vescovi devono riscoprire, senza pregiudizio del primato papale, una comune, collegiale responsabilità per la guida dell’intera Chiesa - per questo l’istituzione di un Sinodo dei vescovi...” (detto nel 2005).

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di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 10 : “La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa, e nell’adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori persevera assiduamente nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, concordino i Presuli e i fedeli.

L’ufficio poi d’interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata in nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio ma ad essa serve...

È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”.

Invece del mio piccolo commento, oggi ne propongo tre grandi.

Cettina Militello

Cettina Militello, una teologa, donna! “La nostalgia della comunità cristiana delle origini ci accompagna da sempre. C’è mai stato un tempo di assoluta fraternità, di sinergia profonda, di piena comunione tra i membri della comunità? Forse, pienamente, mai... eppure la nostalgia di una comunità veramente autenticamente tale ha attraversato la Chiesa di ogni tempo, ed è giunta sino a noi. La posta in gioco è quella dell’adesione alla parola di Dio, la cui intelligenza è a tutti noi affidata: non monopolio di alcuni, ma bene comune di tutti”.

Card. Carlo Maria Martini

Card. Carlo Maria Martini: “Questa perla conciliare riecheggia lo stile biblico di alcuni discorsi dei padri conciliari, tra i quali acquistò un valore esemplare quello del cardinale Lercaro sulla povertà. La figura del vescovo è qui presentata come quella di un servitore della Parola. Durante la consacrazione, gli viene messo sul capo il libro dei Vangeli. È un simbolo liturgico molto bello ed evocativo. Egli è sottoposto a esso in ogni senso; la sua parola deve far risuonare il Vangelo e ogni suo gesto deve essere una realizzazione del Vangelo”.

Hans Küng

Hans Küng: “Se questo Concilio non ci fosse stato, teologia e spiritualità della Bibbia continuerebbero nella Chiesa cattolica ad essere trascurate nella predicazione, nella teologia di scuola e nella pietà privata. Il Vaticano II ha riconosciuto l’importanza preminente della Bibbia. Il magistero non sta al di sopra della parola di Dio bensì deve porsi al suo servizio...

Se questo Concilio non ci fosse stato, la Chiesa continuerebbe a essere compresa come un impero romano soprannaturale, con al vertice il Papa, come sovrano assoluto, sotto di lui l’aristocrazia dei vescovi e dei preti, e infine, in funzione passiva, il popolo suddito dei fedeli... Il Concilio Vaticano II critica quest’immagine di Chiesa e comprende la Chiesa di nuovo non come piramide gerarchica, bensì come comunità di fede. I detentori degli uffici stanno non sopra, ma dentro il popolo di Dio; non come suoi padroni ma come i suoi servitori. Il sacerdozio universale dei fedeli va tenuto in grande considerazione. I vescovi devono riscoprire, senza pregiudizio del primato papale, una comune, collegiale responsabilità per la guida dell’intera Chiesa - per questo l’istituzione di un Sinodo dei vescovi...” (detto nel 2005).

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Gli apostoli e i loro successori https://www.lavoce.it/gli-apostoli-e-i-loro-successori/ Mon, 22 Mar 2021 14:04:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59620

di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 7/b: missionari del Vangelo. “Gli apostoli, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di maestri. Questa sacra Tradizione dunque e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento, sono come uno specchio, nel quale la Chiesa, pellegrina in terra, contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’Egli è.”

Come uno specchio

“Sono come uno specchio”. San Paolo parla di un “antico specchio”: “Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio” (1Cor 13), forse era solo un pezzo di metallo lucidato. Come potremmo pretendere di sapere tutto di Dio infinito, solo leggendo la Bibbia - che pure è preziosissima! Come potremo decifrare precisi i lineamenti del suo Volto?

Come una luce

Sono come una luce: “La tua parola, Signore, è luce ai miei passi”. La parola, però, è affidata a un suono passeggero... una voce. Già sant’Agostino affermava che la voce passa, la Parola resta (il Battista, e poi Gesù). La Scrittura poi ne raccoglie appena un’eco, non può essere una pietra fredda e immobile, una specie di lava solidificava dopo una eruzione. La luce è sempre la stessa, ma può illuminare tanti cammini differenti, tanti quanti sono gli uomini che camminano.

Come acqua

Sono come acqua: “Come la pioggia o la neve...”. L’acqua è sempre la stessa, ma fa germogliare fiori diversi.

Le diversità dei cammini dopo il Concilio

Ecco allora le diversità dei cammini anche nella Chiesa. La Chiesa di prima del Concilio Vaticano II è profondamente diversa da quella che è fiorita dopo.

Anche riguardo alla Bibbia, sappiamo tutti che prima il libro era come sigillato, e la chiave la tenevano gelosamente solo i “capi” - una specie di tesoro prezioso, ma racchiuso in una cassaforte (così dice Papa Francesco). Proprio con questo documento che stiamo leggendo, la cassaforte è stata aperta, e il tesoro è a disposizione di tutti.

E soprattutto, se il Signore fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, quanto più farà festa quando questo suo Sole illuminerà i diversi cuori degli uomini, quelli che sinceramente cercano Dio, e la giustizia, anche per strade diverse: le vie delle genti, e quelle delle religioni non cristiane. E perfino le vie misteriose della coscienza di ognuno (la coscienza, il “maestro universale”).

Ecco allora le esperienze ecumeniche, per esempio la comunità di Taizé, o quella di Bose fondata da Enzo Bianchi (in questo momento doloroso, e anche “misterioso”), ma anche consonanze tra religioni diverse.

Donne diverse leggono la Fratelli tutti: vengono dall’islam, da buddhismo, dall’induismo, dall’ ebraismo, dalla Riforma, dal cattolicesimo: un arcobaleno! Il Papa ad Abu Dhabi, e in Iraq, in dialogo con i musulmani. Mi è capitato di leggere, su Rocca, un articolo che racconta qualcosa delle esperienze di “sorella Maria” di Campello. Forse qualcuno ne ha sentito parlare. Una rete di relazioni in nome di Dio, con tante esperienze diverse, preti una volta ai margini (don Ernesto Buonaiuti, don Primo Mazzolari, don Giovanni Vannucci), e perfino con Gandhi.

Scrive: “Dobbiamo aderire alla fede di tutti. Non siamo noi soli in possesso della verità; attraverso i libri sacri dei vari popoli, può venircene un raggio”.

Un Dio che parla tutte le lingue degli uomini.

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di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 7/b: missionari del Vangelo. “Gli apostoli, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di maestri. Questa sacra Tradizione dunque e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento, sono come uno specchio, nel quale la Chiesa, pellegrina in terra, contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’Egli è.”

Come uno specchio

“Sono come uno specchio”. San Paolo parla di un “antico specchio”: “Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio” (1Cor 13), forse era solo un pezzo di metallo lucidato. Come potremmo pretendere di sapere tutto di Dio infinito, solo leggendo la Bibbia - che pure è preziosissima! Come potremo decifrare precisi i lineamenti del suo Volto?

Come una luce

Sono come una luce: “La tua parola, Signore, è luce ai miei passi”. La parola, però, è affidata a un suono passeggero... una voce. Già sant’Agostino affermava che la voce passa, la Parola resta (il Battista, e poi Gesù). La Scrittura poi ne raccoglie appena un’eco, non può essere una pietra fredda e immobile, una specie di lava solidificava dopo una eruzione. La luce è sempre la stessa, ma può illuminare tanti cammini differenti, tanti quanti sono gli uomini che camminano.

Come acqua

Sono come acqua: “Come la pioggia o la neve...”. L’acqua è sempre la stessa, ma fa germogliare fiori diversi.

Le diversità dei cammini dopo il Concilio

Ecco allora le diversità dei cammini anche nella Chiesa. La Chiesa di prima del Concilio Vaticano II è profondamente diversa da quella che è fiorita dopo.

Anche riguardo alla Bibbia, sappiamo tutti che prima il libro era come sigillato, e la chiave la tenevano gelosamente solo i “capi” - una specie di tesoro prezioso, ma racchiuso in una cassaforte (così dice Papa Francesco). Proprio con questo documento che stiamo leggendo, la cassaforte è stata aperta, e il tesoro è a disposizione di tutti.

E soprattutto, se il Signore fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, quanto più farà festa quando questo suo Sole illuminerà i diversi cuori degli uomini, quelli che sinceramente cercano Dio, e la giustizia, anche per strade diverse: le vie delle genti, e quelle delle religioni non cristiane. E perfino le vie misteriose della coscienza di ognuno (la coscienza, il “maestro universale”).

Ecco allora le esperienze ecumeniche, per esempio la comunità di Taizé, o quella di Bose fondata da Enzo Bianchi (in questo momento doloroso, e anche “misterioso”), ma anche consonanze tra religioni diverse.

Donne diverse leggono la Fratelli tutti: vengono dall’islam, da buddhismo, dall’induismo, dall’ ebraismo, dalla Riforma, dal cattolicesimo: un arcobaleno! Il Papa ad Abu Dhabi, e in Iraq, in dialogo con i musulmani. Mi è capitato di leggere, su Rocca, un articolo che racconta qualcosa delle esperienze di “sorella Maria” di Campello. Forse qualcuno ne ha sentito parlare. Una rete di relazioni in nome di Dio, con tante esperienze diverse, preti una volta ai margini (don Ernesto Buonaiuti, don Primo Mazzolari, don Giovanni Vannucci), e perfino con Gandhi.

Scrive: “Dobbiamo aderire alla fede di tutti. Non siamo noi soli in possesso della verità; attraverso i libri sacri dei vari popoli, può venircene un raggio”.

Un Dio che parla tutte le lingue degli uomini.

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Antica sorgente contro la sete https://www.lavoce.it/antica-sorgente-contro-la-sete/ Fri, 12 Mar 2021 11:35:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59508

di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, capitolo II, la trasmissione della divina rivelazione. Numero 7/a: gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo.

“Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.

Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la rivelazione del sommo Dio, ordinò agli apostoli che il Vangelo, prima trasmesso per mezzo dei profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini.

Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza”.

“Chi vede me vede il Padre” ha attestato Gesù stesso. Dio dunque parla il linguaggio dell’uomo, dialoga con noi, e ci dice, in Gesù, che è Padre, Abbà. E che noi, in Gesù, siamo chiamati a essere suoi figli e fratelli tra noi. Sta tutto qui il Vangelo di Gesù.

Il Concilio, in fin dei conti, altro non intende dire. Perché questa è la bella e buona notizia di cui la Chiesa vive e che è chiamata a testimoniare all’uomo che, oggi come sempre, “è in cerca di Dio perché Dio lo ha cercato per primo” (Pietro Coda).

“Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La parola del Signore offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.

La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale” (Efrem Siro, diacono a Edessa in Turchia; 306-373).

Ma come questa antica sorgente può dissetare la nostra sete di oggi; come ha potuto dissetare la sete di tutti quelli che hanno cercato Dio nei secoli; e come potrà dissetare le future generazioni, fino alla fine dei tempi?

“Invierò il mio Spirito - promette Gesù - che vi insegnerà ogni cosa”. Proprio la presenza di questo Spirito custodirà la purezza di questa “acqua viva” dal rischio di inquinamento - come un corso d’acqua che, lungo il cammino potrebbe raccogliere detriti di ogni genere: le eresie antiche, per esempio, ma anche le eresie moderne (il Papa le richiama, gnosticismo e pelagianesimo, anche nella vita dei cristiani di oggi).

E la tristezza di Dio Padre, quando vede noi, suoi figli, scavarci cisterne di acqua inquinata, e non accorgerci della sorgente di acqua pura. “Se tu conoscessi il dono di Dio - dice Gesù alla donna samaritana incontrata nei pressi del pozzo di Giacobbe - , chiederesti a me, e io ti darei acqua viva”. Per favore, Signore, dacci quest’acqua!

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di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, capitolo II, la trasmissione della divina rivelazione. Numero 7/a: gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo.

“Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.

Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la rivelazione del sommo Dio, ordinò agli apostoli che il Vangelo, prima trasmesso per mezzo dei profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, lo predicassero a tutti, comunicando i doni divini.

Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito santo, misero in scritto l’annunzio della salvezza”.

“Chi vede me vede il Padre” ha attestato Gesù stesso. Dio dunque parla il linguaggio dell’uomo, dialoga con noi, e ci dice, in Gesù, che è Padre, Abbà. E che noi, in Gesù, siamo chiamati a essere suoi figli e fratelli tra noi. Sta tutto qui il Vangelo di Gesù.

Il Concilio, in fin dei conti, altro non intende dire. Perché questa è la bella e buona notizia di cui la Chiesa vive e che è chiamata a testimoniare all’uomo che, oggi come sempre, “è in cerca di Dio perché Dio lo ha cercato per primo” (Pietro Coda).

“Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La parola del Signore offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.

La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale” (Efrem Siro, diacono a Edessa in Turchia; 306-373).

Ma come questa antica sorgente può dissetare la nostra sete di oggi; come ha potuto dissetare la sete di tutti quelli che hanno cercato Dio nei secoli; e come potrà dissetare le future generazioni, fino alla fine dei tempi?

“Invierò il mio Spirito - promette Gesù - che vi insegnerà ogni cosa”. Proprio la presenza di questo Spirito custodirà la purezza di questa “acqua viva” dal rischio di inquinamento - come un corso d’acqua che, lungo il cammino potrebbe raccogliere detriti di ogni genere: le eresie antiche, per esempio, ma anche le eresie moderne (il Papa le richiama, gnosticismo e pelagianesimo, anche nella vita dei cristiani di oggi).

E la tristezza di Dio Padre, quando vede noi, suoi figli, scavarci cisterne di acqua inquinata, e non accorgerci della sorgente di acqua pura. “Se tu conoscessi il dono di Dio - dice Gesù alla donna samaritana incontrata nei pressi del pozzo di Giacobbe - , chiederesti a me, e io ti darei acqua viva”. Per favore, Signore, dacci quest’acqua!

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La Verità, le verità, la relazione https://www.lavoce.it/verita-relazione/ Thu, 04 Mar 2021 10:05:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59446

di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, n. 6 - Le verità rivelate. “Con la divina rivelazione Dio volle manifestare e comunicare Se stesso e i decreti eterni della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, per renderli cioè partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana.

Il sacro Sinodo professa che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione dalle cose create; insegna inoltre che va attribuito alla rivelazione divina il fatto che, tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé impervio alla umana ragione, possa, anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti speditamente, con ferma certezza e senza mescolanza d’errore”.

Oggi invece di “parlare” io, mi piacerebbe “ascoltare”: ecco allora un teologo dei nostri giorni, e un antico Padre della Chiesa.

“Molte tradizioni religiose pongono l’uomo in relazione a colui che le nostre umane lingue designano con il nome di Dio, ma solo il cristianesimo confessa un Dio che vuole dare accesso alla propria intimità; e ciò è possibile solamente se gli uomini acconsentono a lasciarsi raggiungere nel loro spazio interiore e si dispongono a incontrare colui che, pur essendo di un’abissale profondità, si rende prossimo di ciascuno di loro, infinitamente più prossimo rispetto a quanto un essere umano possa esserlo di se stesso... Ora Dio non ha nulla da dirci rispetto ciò che l’ingegno umano potrebbe un giorno scoprire da se stesso. Egli non ha che una sola cosa da offrirci: Lui stesso, come nostro fine ultimo.”

(Christoph Theobald)

Solo quando l’uomo si fida di Dio, solo quando ha stabilito una relazione di amore con lui, solo allora può accogliere, con la ragione le cose che lui insegna, rivelando se stesso; e queste verità, sono via al cielo.

Ecco allora la nostra gratitudine, che possiamo manifestare nella vita e nella preghiera. E la preghiera più intensa per entrare in rapporto con lui, ce l’ha rivelata Gesù stesso.

San Cipriano (vescovo, martire nel 258) medita su questa preghiera del Padre nostro.

“I precetti del Vangelo sono certo insegnamenti divini, fondamenti su cui si edifica la speranza, sostegni che rafforzano la fede, alimenti che ristorano il cuore, timori che dirigono il cammino, aiuti per ottenere la salvezza. Istruiscono le menti docili dei credenti qui in terra e li conducono al regno dei cieli. Dio volle che molte cose fossero dette e ascoltate per mezzo dei profeti, i suoi servi. Ma immensamente più sublimi sono le realtà che comunica attraverso suo Figlio. Più incomparabili le cose che la parola di Dio, pur già presente nei profeti, proclama ora con la propria voce, e cioè non più comandando che gli si prepari la via, ma venendo gli stesso, aprendoci e mostrandoci il cammino da seguire. Così, mentre prima eravamo erranti, sconsiderati e ciechi nelle tenebre della morte, ora, illuminati dalla luce della grazia, possiamo battere la via della vita con la guida e l’aiuto del Signore. Egli fra gli altri salutari suoi ammonimenti e divini precetti, diede anche la norma della preghiera... Colui che ha dato la vita, ha insegnato anche a pregare”.

Le verità che sono insegnate all’umanità, e che la nostra ragione accetta, sono alla fine “via al Cielo”.

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di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, n. 6 - Le verità rivelate. “Con la divina rivelazione Dio volle manifestare e comunicare Se stesso e i decreti eterni della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, per renderli cioè partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana.

Il sacro Sinodo professa che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione dalle cose create; insegna inoltre che va attribuito alla rivelazione divina il fatto che, tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé impervio alla umana ragione, possa, anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti speditamente, con ferma certezza e senza mescolanza d’errore”.

Oggi invece di “parlare” io, mi piacerebbe “ascoltare”: ecco allora un teologo dei nostri giorni, e un antico Padre della Chiesa.

“Molte tradizioni religiose pongono l’uomo in relazione a colui che le nostre umane lingue designano con il nome di Dio, ma solo il cristianesimo confessa un Dio che vuole dare accesso alla propria intimità; e ciò è possibile solamente se gli uomini acconsentono a lasciarsi raggiungere nel loro spazio interiore e si dispongono a incontrare colui che, pur essendo di un’abissale profondità, si rende prossimo di ciascuno di loro, infinitamente più prossimo rispetto a quanto un essere umano possa esserlo di se stesso... Ora Dio non ha nulla da dirci rispetto ciò che l’ingegno umano potrebbe un giorno scoprire da se stesso. Egli non ha che una sola cosa da offrirci: Lui stesso, come nostro fine ultimo.”

(Christoph Theobald)

Solo quando l’uomo si fida di Dio, solo quando ha stabilito una relazione di amore con lui, solo allora può accogliere, con la ragione le cose che lui insegna, rivelando se stesso; e queste verità, sono via al cielo.

Ecco allora la nostra gratitudine, che possiamo manifestare nella vita e nella preghiera. E la preghiera più intensa per entrare in rapporto con lui, ce l’ha rivelata Gesù stesso.

San Cipriano (vescovo, martire nel 258) medita su questa preghiera del Padre nostro.

“I precetti del Vangelo sono certo insegnamenti divini, fondamenti su cui si edifica la speranza, sostegni che rafforzano la fede, alimenti che ristorano il cuore, timori che dirigono il cammino, aiuti per ottenere la salvezza. Istruiscono le menti docili dei credenti qui in terra e li conducono al regno dei cieli. Dio volle che molte cose fossero dette e ascoltate per mezzo dei profeti, i suoi servi. Ma immensamente più sublimi sono le realtà che comunica attraverso suo Figlio. Più incomparabili le cose che la parola di Dio, pur già presente nei profeti, proclama ora con la propria voce, e cioè non più comandando che gli si prepari la via, ma venendo gli stesso, aprendoci e mostrandoci il cammino da seguire. Così, mentre prima eravamo erranti, sconsiderati e ciechi nelle tenebre della morte, ora, illuminati dalla luce della grazia, possiamo battere la via della vita con la guida e l’aiuto del Signore. Egli fra gli altri salutari suoi ammonimenti e divini precetti, diede anche la norma della preghiera... Colui che ha dato la vita, ha insegnato anche a pregare”.

Le verità che sono insegnate all’umanità, e che la nostra ragione accetta, sono alla fine “via al Cielo”.

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Per quale porta entra la Parola? https://www.lavoce.it/per-quale-porta-entra-la-parola/ Thu, 25 Feb 2021 20:18:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59355

di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 5: accogliere la rivelazione con fede. “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente, prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui. Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni”. “Credere significa avere lo stesso pensiero, provare gli stessi sentimenti di Cristo; significa essere in dialogo d’amore con il Padre e vedere le realtà del mondo secondo la prospettiva del Figlio unigenito; significa amare i fratelli come li ama Gesù” (Ezio Luca Boris, in Perle del Concilio, pag. 26).

Quindi, il primo sentimento di chi ha la grazia e la gioia di credere - cioè di fidarsi di Dio come un figlio si fida di suo papà e della sua mamma - è lo stupore e la gratitudine.

Credere, infatti, è prima di tutto fidarsi di una persona; e solo allora potrò fidarmi anche delle cose che mi dice e degli insegnamenti che mi dona.

Si racconta di quella volta che scoppiò un incendio in un palazzo. Il figlio, da una finestra avvolta dal fumo, sa che per salvarsi deve gettarsi nel vuoto. In basso lo chiama suo papà. “Io non ti vedo!”, piange il bambino. “Ma io ti vedo: fidati!”.

Così è la fede.

Abramo. La sua fede è una storia di fiducia: “Esci dalla tua terra, e va’ verso un paese che io ti indicherò”... Dove? Lo scoprirà solo cammin facendo (“camminando s’apre cammino” dice un proverbio sudamericano).

E verrà anche la “prova” del figlio Isacco. La richiesta assurda di offrirlo in sacrificio: sappiamo che è per insegnare al suo popolo che il Dio della promessa rifiuta il crudele uso dei sacrifici umani.

Ma anche in quel racconto, Abramo si fida - si “affida”: Dio provvederà la vittima per il sacrifico, figlio mio, dice.

Charles de Foucauld contempla Gesù morente sulla croce, e percepisce come un flebile soffio, “Padre mio, io mi abbandono a te... con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre mio”. Questa è la fede! Un dono prezioso.

E chi dice di non aver ricevuto questo dono?

Sarà capitato anche a voi incontrare persone che dicono di non riuscire a fidarsi di Dio - spesso davanti al mistero del dolore, di una persona o di un popolo (la giornata della Memoria della Shoah, o la giornata del ricordo delle foibe).

Alcuni vorrebbero fidarsi, ma non non ci riescono. Indro Montanelli scriveva che avrebbe chiesto conto a Dio della sua non-fede!

Altri “cercano e non trovano”, vedi la dolorosa testimonianza di un altro giornalista, Ricciardetto.

A lui - e a tanti come lui - ha risposto, con la sua testimonianza luminosa Carlo Carretto: “Ho cercato e ho trovato”, un augurio è una speranza per tutti.

Diceva: la fede è come una traversata di un lago. Dio dona a tutti una barca, e i remi; il nostro compito è remare.

Buona traversata a tutti.

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di don Saulo Scarabattoli

Dei Verbum, 5: accogliere la rivelazione con fede. “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente, prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui. Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni”. “Credere significa avere lo stesso pensiero, provare gli stessi sentimenti di Cristo; significa essere in dialogo d’amore con il Padre e vedere le realtà del mondo secondo la prospettiva del Figlio unigenito; significa amare i fratelli come li ama Gesù” (Ezio Luca Boris, in Perle del Concilio, pag. 26).

Quindi, il primo sentimento di chi ha la grazia e la gioia di credere - cioè di fidarsi di Dio come un figlio si fida di suo papà e della sua mamma - è lo stupore e la gratitudine.

Credere, infatti, è prima di tutto fidarsi di una persona; e solo allora potrò fidarmi anche delle cose che mi dice e degli insegnamenti che mi dona.

Si racconta di quella volta che scoppiò un incendio in un palazzo. Il figlio, da una finestra avvolta dal fumo, sa che per salvarsi deve gettarsi nel vuoto. In basso lo chiama suo papà. “Io non ti vedo!”, piange il bambino. “Ma io ti vedo: fidati!”.

Così è la fede.

Abramo. La sua fede è una storia di fiducia: “Esci dalla tua terra, e va’ verso un paese che io ti indicherò”... Dove? Lo scoprirà solo cammin facendo (“camminando s’apre cammino” dice un proverbio sudamericano).

E verrà anche la “prova” del figlio Isacco. La richiesta assurda di offrirlo in sacrificio: sappiamo che è per insegnare al suo popolo che il Dio della promessa rifiuta il crudele uso dei sacrifici umani.

Ma anche in quel racconto, Abramo si fida - si “affida”: Dio provvederà la vittima per il sacrifico, figlio mio, dice.

Charles de Foucauld contempla Gesù morente sulla croce, e percepisce come un flebile soffio, “Padre mio, io mi abbandono a te... con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre mio”. Questa è la fede! Un dono prezioso.

E chi dice di non aver ricevuto questo dono?

Sarà capitato anche a voi incontrare persone che dicono di non riuscire a fidarsi di Dio - spesso davanti al mistero del dolore, di una persona o di un popolo (la giornata della Memoria della Shoah, o la giornata del ricordo delle foibe).

Alcuni vorrebbero fidarsi, ma non non ci riescono. Indro Montanelli scriveva che avrebbe chiesto conto a Dio della sua non-fede!

Altri “cercano e non trovano”, vedi la dolorosa testimonianza di un altro giornalista, Ricciardetto.

A lui - e a tanti come lui - ha risposto, con la sua testimonianza luminosa Carlo Carretto: “Ho cercato e ho trovato”, un augurio è una speranza per tutti.

Diceva: la fede è come una traversata di un lago. Dio dona a tutti una barca, e i remi; il nostro compito è remare.

Buona traversata a tutti.

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Il Figlio, volto del Padre https://www.lavoce.it/il-figlio-volto-del-padre-dei-verbum-4/ Thu, 18 Feb 2021 19:22:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59284

Dei Verbum, n. 4/b: Cristo completa la rivelazione: “Cristo, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di Sé, con le parole con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e risuscitarci per la vita eterna. L’economia cristiana dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo”. Scrive il card. Gianfranco Ravasi, ricordando la Storia di Cristo (1921) di Giovanni Papini - un convertito esuberante! -: la convinzione è costante, il “dolce fratello quotidiano” Gesù ci è assolutamente necessario perché l’intelligenza da sola, non ci salva; il progresso tecnico non significa automaticamente civiltà e umanità, un vago teismo ignora il fuoco dell’evangelo. “Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno... Quanto è grande, immisurabilmente grande il bisogno che c’è di lui!”. Lui è “l’uomo che nasconde Dio nella sua scorza di carne, il Dio che ha ravvolto la sua divinità nel fango di Adamo...”. E così tutta la vita di Gesù di Nazareth (“dall’umiltà della nascita alla carità della croce”, come prega san Francesco d’Assisi), è il desiderio urgente di rivelare agli uomini il cuore di Dio Padre.

Tutto quello che si vede, di Gesù, diventa allora segno dell’invisibile.

E perché l’uomo abbia la capacità di leggere questi suoi segni, Gesù ha promesso un altro “Consolatore”, il suo Santo spirito, per guidarci alla verità tutta intera. Tutta intera, la grande storia della Chiesa - ma anche la nostra piccola storia personale - diventa così il luogo dove si manifesta il progetto d’amore del Padre. Se la percorriamo, anche solo con uno sguardo rapido, come dall’alto, possiamo intravedere il filo d’oro della presenza dello Spirito, pur intrecciato con i fili anche poveri delle vicende umane e della fragilità degli uomini di chiesa.

I Pontefici del secolo scorso:

Papa Giovanni e il Concilio, il vento impetuoso e primaverile. Papa Paolo VI, l’entusiasmo dentro le nuove forme. Il breve sorriso di Papa Giovanni Paolo I. La lunga stagione di Giovanni Paolo II. Papa Benedetto, il teologo (con il gesto coraggioso della rinuncia). E finalmente Papa Francesco, venuto dai confini del mondo, con la sorpresa, già quella prima sera, del saluto e della benedizione chiesta alla folla di piazza San Pietro. E le sue lettere, immerse nella gioia: Evangelii gaudium, Amoris laetitia, Gaudete et exsultate, Laudato si’, Fratelli tutti, Patris corde... Si realizza così la promessa di Gesù: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera”.

Non abbiamo bisogno di altro!

Ogni tanto si sente dire di apparizioni e messaggi da parte della Madonna. Ammesso che si tratti di fatti reali, sono rivelazioni solo private, che non aggiungeranno niente alla rivelazione del cuore di Dio. Ci basta Gesù e il suo Vangelo! don Saulo Scarabattoli]]>

Dei Verbum, n. 4/b: Cristo completa la rivelazione: “Cristo, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di Sé, con le parole con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e risuscitarci per la vita eterna. L’economia cristiana dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo”. Scrive il card. Gianfranco Ravasi, ricordando la Storia di Cristo (1921) di Giovanni Papini - un convertito esuberante! -: la convinzione è costante, il “dolce fratello quotidiano” Gesù ci è assolutamente necessario perché l’intelligenza da sola, non ci salva; il progresso tecnico non significa automaticamente civiltà e umanità, un vago teismo ignora il fuoco dell’evangelo. “Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno... Quanto è grande, immisurabilmente grande il bisogno che c’è di lui!”. Lui è “l’uomo che nasconde Dio nella sua scorza di carne, il Dio che ha ravvolto la sua divinità nel fango di Adamo...”. E così tutta la vita di Gesù di Nazareth (“dall’umiltà della nascita alla carità della croce”, come prega san Francesco d’Assisi), è il desiderio urgente di rivelare agli uomini il cuore di Dio Padre.

Tutto quello che si vede, di Gesù, diventa allora segno dell’invisibile.

E perché l’uomo abbia la capacità di leggere questi suoi segni, Gesù ha promesso un altro “Consolatore”, il suo Santo spirito, per guidarci alla verità tutta intera. Tutta intera, la grande storia della Chiesa - ma anche la nostra piccola storia personale - diventa così il luogo dove si manifesta il progetto d’amore del Padre. Se la percorriamo, anche solo con uno sguardo rapido, come dall’alto, possiamo intravedere il filo d’oro della presenza dello Spirito, pur intrecciato con i fili anche poveri delle vicende umane e della fragilità degli uomini di chiesa.

I Pontefici del secolo scorso:

Papa Giovanni e il Concilio, il vento impetuoso e primaverile. Papa Paolo VI, l’entusiasmo dentro le nuove forme. Il breve sorriso di Papa Giovanni Paolo I. La lunga stagione di Giovanni Paolo II. Papa Benedetto, il teologo (con il gesto coraggioso della rinuncia). E finalmente Papa Francesco, venuto dai confini del mondo, con la sorpresa, già quella prima sera, del saluto e della benedizione chiesta alla folla di piazza San Pietro. E le sue lettere, immerse nella gioia: Evangelii gaudium, Amoris laetitia, Gaudete et exsultate, Laudato si’, Fratelli tutti, Patris corde... Si realizza così la promessa di Gesù: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera”.

Non abbiamo bisogno di altro!

Ogni tanto si sente dire di apparizioni e messaggi da parte della Madonna. Ammesso che si tratti di fatti reali, sono rivelazioni solo private, che non aggiungeranno niente alla rivelazione del cuore di Dio. Ci basta Gesù e il suo Vangelo! don Saulo Scarabattoli]]>
Il Risorto mantiene le promesse https://www.lavoce.it/il-risorto-mantiene-le-promesse/ Fri, 29 May 2020 17:47:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57245 logo rubrica domande sulla liturgia

Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
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Nel giorno in cui si ascolta la promessa della presenza reale costante del Risorto lungo i secoli, tale presenza è stata celebrata come popolo attraverso l’eucarestia comunitaria. Proprio nella prima domenica in cui le comunità cristiane si sono ritrovate nuovamente a celebrare insieme l’eucarestia, si è potuto ascoltare il racconto dell’Ascensione secondo il Vangelo di Matteo (28,16-20). Racconto nel quale il Risorto, oltre ad aver consegnato la missione evangelizzatrice agli apostoli, fa una promessa ai discepoli di ogni generazione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Infatti, come afferma la Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (al numero 7), “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” affinché essa possa attuare l’opera della salvezza “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, 6). Presenza che si attua - continua il numero 7 - “nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche”. Non solo, però: “È presente con la sua virtù nei sacramenti… è presente nella sua parola… è presente infine quando la Chiesa prega e loda” (SC, 7).
La Costituzione conciliare, dunque, dà concretezza alla promessa fatta dal Cristo risorto ai discepoli: il Risorto è presente nella messa, sia nella persona del ministro, sia nelle specie eucaristiche, è presente nei sacramenti, nella Parola proclamata, così come nella comunità che si ritrova a pregare e celebrare.
Pur non essendo nuove queste affermazioni, perché già l’enciclica Mediator Dei di Pio XII e il Concilio di Trento a loro volta e a loro modo lo avevano dichiarato, ci permettono di puntualizzare un tema importante: Cristo è presente realmente non solo nelle specie eucaristiche, anche se in special modo in esse. La nostra attenzione infatti si focalizza sul vedere tale presenza “reale” del Risorto nel pane e nel vino consacrati, ma tradizione vuole che il Cristo è presente nella sua Chiesa anche nelle altre modalità di cui abbiamo già detto. Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei riprende il discorso dando, come è giusto che sia, priorità al sacrificio della messa, nel pane e nel vino, senza però tralasciare la presenza che può essere sempre considerata “reale”, anche se in diversa maniera, nelle forme richiamate dal documento conciliare. Non solo, Paolo VI continua affermando che Cristo è presente nella Chiesa quando essa compie le opere di carità, quando predica il Vangelo, quando regge e governa il popolo. Dunque la promessa del Risorto si compie sì in special modo nella liturgia, e in maniera sublime nella celebrazione eucaristica, ma non esclusivamente in esse. Questa non è solo una consapevolezza da avere ma anche un atteggiamento da assumere: accogliere Cristo presente nell’eucarestia, nei sacramenti, nella Parola proclamata e annunciata, nell’assemblea orante, nel fratello bisognoso. Don Francesco Verzini]]>
Meglio la messa online che senza popolo https://www.lavoce.it/meglio-la-messa-online-che-senza-popolo/ https://www.lavoce.it/meglio-la-messa-online-che-senza-popolo/#comments Fri, 22 May 2020 14:01:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57199 Logo rubrica Il punto

In un saggio pubblicato su Il Regno, importante rivista cattolica a diffusione nazionale, la studiosa umbra Simona Segoloni ha trattato – dal punto di vista teologico – il tema delle messe celebrate senza la presenza del popolo, ma seguite in diretta grazie alla tv e alla Rete. Non voglio banalizzare il pensiero, profondo e articolato, della teologa; ma provo a sintetizzarne un passaggio. Dice che, se una messa con il popolo ma senza prete non è una messa, allo stesso modo non è una messa quella celebrata da un prete senza il popolo; e non conta che il popolo sia collegato in diretta, se non è presente fisicamente. La tesi di fondo è che la messa è un atto essenzialmente comunitario e, perché lo sia, bisogna che tutti siano riuniti. Non voglio adesso entrare in discussione sui princìpi. Faccio solo un commento a margine. Simona Segoloni, beata lei, è giovane e non ha vissuto la Chiesa e la liturgia prima del Concilio. Ma io sì: avevo 15 anni e facevo da tempo il chierichetto quando Giovanni XXIII è divenuto Papa. A quel tempo, la gente andava molto in chiesa, specie la domenica per via del precetto; ma si dava per scontato che davanti a Dio e per il bene spirituale dell’umanità il valore della messa fosse uguale, con il popolo o senza. Di più: dal punto di vista del celebrante, che il popolo ci fosse o non ci fosse non faceva differenza; non c’era nessuna partecipazione dei fedeli, neppure per la recita del Pater noster. Chi voleva pregare diceva il rosario per conto suo, o leggeva qualche libretto di devozioni. L’unico coinvolgimento dei fedeli era – solo nella messa domenicale – l’omelia dopo il Vangelo; ma c’era gente che abitualmente prima di entrare aspettava che la predica fosse finita; tanto, si diceva, la messa era ancora “buona”, cioè valida per il precetto. Proprio non capisco come ci sia ancora chi vorrebbe tornare a quel tipo di liturgia. Infinitamente meglio - in tempi di virus - la messa seguita in diretta tv, almeno ci si sente parte della comunità e ci si immedesima nel rito. Tanto più se alla diretta assiste, da casa, la famiglia riunita in preghiera. Pier Giorgio Lignani]]>
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In un saggio pubblicato su Il Regno, importante rivista cattolica a diffusione nazionale, la studiosa umbra Simona Segoloni ha trattato – dal punto di vista teologico – il tema delle messe celebrate senza la presenza del popolo, ma seguite in diretta grazie alla tv e alla Rete. Non voglio banalizzare il pensiero, profondo e articolato, della teologa; ma provo a sintetizzarne un passaggio. Dice che, se una messa con il popolo ma senza prete non è una messa, allo stesso modo non è una messa quella celebrata da un prete senza il popolo; e non conta che il popolo sia collegato in diretta, se non è presente fisicamente. La tesi di fondo è che la messa è un atto essenzialmente comunitario e, perché lo sia, bisogna che tutti siano riuniti. Non voglio adesso entrare in discussione sui princìpi. Faccio solo un commento a margine. Simona Segoloni, beata lei, è giovane e non ha vissuto la Chiesa e la liturgia prima del Concilio. Ma io sì: avevo 15 anni e facevo da tempo il chierichetto quando Giovanni XXIII è divenuto Papa. A quel tempo, la gente andava molto in chiesa, specie la domenica per via del precetto; ma si dava per scontato che davanti a Dio e per il bene spirituale dell’umanità il valore della messa fosse uguale, con il popolo o senza. Di più: dal punto di vista del celebrante, che il popolo ci fosse o non ci fosse non faceva differenza; non c’era nessuna partecipazione dei fedeli, neppure per la recita del Pater noster. Chi voleva pregare diceva il rosario per conto suo, o leggeva qualche libretto di devozioni. L’unico coinvolgimento dei fedeli era – solo nella messa domenicale – l’omelia dopo il Vangelo; ma c’era gente che abitualmente prima di entrare aspettava che la predica fosse finita; tanto, si diceva, la messa era ancora “buona”, cioè valida per il precetto. Proprio non capisco come ci sia ancora chi vorrebbe tornare a quel tipo di liturgia. Infinitamente meglio - in tempi di virus - la messa seguita in diretta tv, almeno ci si sente parte della comunità e ci si immedesima nel rito. Tanto più se alla diretta assiste, da casa, la famiglia riunita in preghiera. Pier Giorgio Lignani]]>
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La liturgia non esaurisce l’azione della Chiesa https://www.lavoce.it/la-liturgia-non-esaurisce-lazione-della-chiesa/ Sun, 17 May 2020 15:46:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57192 logo rubrica domande sulla liturgia

Continuiamo in questo numero la lettura della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla liturgia del Concilio Vaticano II, che abbiamo inaugurato la scorsa settimana, con l’intento di riflettere con semplicità sul senso e l’importanza che la liturgia ha nella vita della Chiesa e dunque di ogni cristiano. Già precedentemente abbiamo accennato a come la liturgia è l’azione con la quale la Chiesa continua ad attuare l’opera della redenzione. Questa settimana ripartiamo da qui, facendo riferimento ai primi numeri della Costituzione sulla liturgia. È chiaro per l’assise conciliare che celebrare significa attuare l’opera salvifica di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4). Opera che ha avuto il suo inizio fin dalle origini e ha trovato il suo culmine nel Cristo: Gesù Cristo infatti “porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre” (Dei Verbum, n. 4). Dal costato trafitto di Cristo è poi “scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (SC, n. 5), per questo – continua la Costituzione sulla liturgia, al numero 6 – Cristo ha inviato gli apostoli per annunciare e attuare l’opera della redenzione. Già questo basterebbe per comprendere la vitale importanza che la liturgia ha per il popolo di Dio: celebrare non è portare avanti il “si è sempre fatto così” o l’attenzione a un mero precetto da assolvere, ma partecipazione all’evento salvifico, operato una volta per tutte (Eb 9, 25-28), e attualizzato nel tempo “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, n. 6). Detto questo, ciò su cui vorrei soffermarmi sono due verbi utilizzati dal documento che formano un binomio indissolubile: annunciare e attuare. Vediamo infatti che la missione data agli apostoli, e dunque alla Chiesa tutta, è annunciare l’opera della salvezza e attuarla mediante la liturgia. Lo schema è tipicamente biblico: nell’incontro con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) il Risorto “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva di lui” (v.27) e poi insieme spezzarono il pane. Ancora: dopo la Pentecoste (At 2,1-41) c’è il discorso di Pietro, che sarà seguito dal battesimo di circa tremila persone. Un ultimo esempio: la prima comunità cristiana (At 2,42-47) era “perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nello spezzare il pane”. Potremo continuare a citare tanti altri racconti biblici nei quali l’annuncio e l’attuazione di questo annuncio - nello spezzare il pane come nel battesimo - sono due azioni strettamente connesse, che formano una sorta di circolo virtuoso.

Annunciare e attuare ciò che si annuncia

Per questo il documento conciliare cerca di tenere in equilibrio queste due dimensioni parlando della liturgia come azione sacra per eccellenza (SC, n.7) e fonte e culmine della vita cristiana (SC, n.10); ma al contempo sottolineando che essa non esaurisce l’agire della Chiesa (SC, n.9), perché quest’ultima è chiamata anche all’annuncio, alle opere di carità, all’apostolato, alla continua conversione della vita. Speriamo che, in questo tempo nel quale la celebrazione comunitaria è venuta meno, il popolo di Dio non si sia focalizzato solo sull’“assenza” e abbia anche compreso che la liturgia è vitale, sì, ma non è certo l’unica azione che si può compiere. Don Francesco Verzini]]>
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Continuiamo in questo numero la lettura della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla liturgia del Concilio Vaticano II, che abbiamo inaugurato la scorsa settimana, con l’intento di riflettere con semplicità sul senso e l’importanza che la liturgia ha nella vita della Chiesa e dunque di ogni cristiano. Già precedentemente abbiamo accennato a come la liturgia è l’azione con la quale la Chiesa continua ad attuare l’opera della redenzione. Questa settimana ripartiamo da qui, facendo riferimento ai primi numeri della Costituzione sulla liturgia. È chiaro per l’assise conciliare che celebrare significa attuare l’opera salvifica di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4). Opera che ha avuto il suo inizio fin dalle origini e ha trovato il suo culmine nel Cristo: Gesù Cristo infatti “porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre” (Dei Verbum, n. 4). Dal costato trafitto di Cristo è poi “scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (SC, n. 5), per questo – continua la Costituzione sulla liturgia, al numero 6 – Cristo ha inviato gli apostoli per annunciare e attuare l’opera della redenzione. Già questo basterebbe per comprendere la vitale importanza che la liturgia ha per il popolo di Dio: celebrare non è portare avanti il “si è sempre fatto così” o l’attenzione a un mero precetto da assolvere, ma partecipazione all’evento salvifico, operato una volta per tutte (Eb 9, 25-28), e attualizzato nel tempo “mediante il sacrificio e i sacramenti” (SC, n. 6). Detto questo, ciò su cui vorrei soffermarmi sono due verbi utilizzati dal documento che formano un binomio indissolubile: annunciare e attuare. Vediamo infatti che la missione data agli apostoli, e dunque alla Chiesa tutta, è annunciare l’opera della salvezza e attuarla mediante la liturgia. Lo schema è tipicamente biblico: nell’incontro con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) il Risorto “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva di lui” (v.27) e poi insieme spezzarono il pane. Ancora: dopo la Pentecoste (At 2,1-41) c’è il discorso di Pietro, che sarà seguito dal battesimo di circa tremila persone. Un ultimo esempio: la prima comunità cristiana (At 2,42-47) era “perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nello spezzare il pane”. Potremo continuare a citare tanti altri racconti biblici nei quali l’annuncio e l’attuazione di questo annuncio - nello spezzare il pane come nel battesimo - sono due azioni strettamente connesse, che formano una sorta di circolo virtuoso.

Annunciare e attuare ciò che si annuncia

Per questo il documento conciliare cerca di tenere in equilibrio queste due dimensioni parlando della liturgia come azione sacra per eccellenza (SC, n.7) e fonte e culmine della vita cristiana (SC, n.10); ma al contempo sottolineando che essa non esaurisce l’agire della Chiesa (SC, n.9), perché quest’ultima è chiamata anche all’annuncio, alle opere di carità, all’apostolato, alla continua conversione della vita. Speriamo che, in questo tempo nel quale la celebrazione comunitaria è venuta meno, il popolo di Dio non si sia focalizzato solo sull’“assenza” e abbia anche compreso che la liturgia è vitale, sì, ma non è certo l’unica azione che si può compiere. Don Francesco Verzini]]>
Il fine della liturgia è la conversione https://www.lavoce.it/il-fine-della-liturgia-e-la-conversione/ Fri, 08 May 2020 15:54:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57097 logo rubrica domande sulla liturgia

In tempo di pandemia, la grande assente dalla vita della Chiesa certamente è stata la liturgia, in particolare la celebrazione eucaristica. È per questo che molti sacerdoti per sopperire al vuoto celebrativo si sono prodigati nel trasmettere le proprie celebrazioni tramite social media, pur nella consapevolezza - speriamo - che questa forma supplisce ma non sostituisce. Il gran dibattito poi suscitato dall’impossibilità per i fedeli di prendere parte alle celebrazioni è stato sintomatico di come la liturgia è centrale nella vita della Chiesa, almeno fintanto che i toni non si sono trasformati e il celebrare è diventato ancora una volta il campo di battaglia su cui l’unica perdente è la celebrazione stessa: svilita nel suo senso, danneggiata nel suo significato.

Rileggiamo cosa insegna il Concilio Vaticano II

È per questo che, con semplicità, vogliamo proporre una lettura - senza pretesa di esaustività - della Costituzione conciliare sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium. Questo nella speranza che ad alcuni possa tornare utile per celebrare con maggiore consapevolezza. Fin dalle sue prima battute il documento conciliare centra il nocciolo della questione: la liturgia è quell’azione della Chiesa con la quale si attua il mistero della redenzione, mediante cui i fedeli vengono uniti a Cristo e in Cristo (SC nn. 1-2). La liturgia, e in particolare l’eucarestia (n. 2), è memoriale del Mistero pasquale attraverso il quale non solo l’umanità è stata salvata, ma continua nel tempo a essere edificata nel corpo di Cristo che è la Chiesa. La preghiera dopo la Comunione (post-communio) della XXXV domenica del Tempo ordinario è emblematica: “Guida e sostieni, Signore, con il tuo aiuto, il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti, perché la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita”. Dunque, se da una parte celebrare significa attuare l’opera della redenzione, dall’altra, proprio attraverso quest’ultima, la nostra vita è trasformata.

Dalla liturgia alla vita

Su questo punto vorrei un attimo soffermarmi. Nel sentire comune, anche in questi giorni di intenso parlare dell’eucarestia, è sembrato quasi che la celebrazione sia il fine dell’incontro con Cristo. Questo è vero, ma nella misura in cui quell’incontro - permesso anzitutto dalla mensa della Parola e dalla mensa dell’eucarestia - porti frutto nella vita cristiana. Nei Vangeli notiamo che ogni incontro con Gesù lungo le strade della Giudea, della Galilea o della Samaria, è un incontro che porta alla conversione o al rifiuto. Da qui allora possiamo dire che se la liturgia, ogni celebrazione eucaristica, è incontro reale con Cristo e in essa viviamo l’evento della salvezza, allora reale deve essere la nostra conversione, premessa per l’edificazione della Chiesa nella carità. Anche in questo momento di “digiuno” che stiamo attraversando, forse può essere utile ricordarci lo stretto legame tra liturgia e vita, al fine di vivere comunque oggi i frutti di quell’incontro che un giorno abbiamo celebrato e che torneremo presto a celebrare. Don Francesco Verzini]]>
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In tempo di pandemia, la grande assente dalla vita della Chiesa certamente è stata la liturgia, in particolare la celebrazione eucaristica. È per questo che molti sacerdoti per sopperire al vuoto celebrativo si sono prodigati nel trasmettere le proprie celebrazioni tramite social media, pur nella consapevolezza - speriamo - che questa forma supplisce ma non sostituisce. Il gran dibattito poi suscitato dall’impossibilità per i fedeli di prendere parte alle celebrazioni è stato sintomatico di come la liturgia è centrale nella vita della Chiesa, almeno fintanto che i toni non si sono trasformati e il celebrare è diventato ancora una volta il campo di battaglia su cui l’unica perdente è la celebrazione stessa: svilita nel suo senso, danneggiata nel suo significato.

Rileggiamo cosa insegna il Concilio Vaticano II

È per questo che, con semplicità, vogliamo proporre una lettura - senza pretesa di esaustività - della Costituzione conciliare sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium. Questo nella speranza che ad alcuni possa tornare utile per celebrare con maggiore consapevolezza. Fin dalle sue prima battute il documento conciliare centra il nocciolo della questione: la liturgia è quell’azione della Chiesa con la quale si attua il mistero della redenzione, mediante cui i fedeli vengono uniti a Cristo e in Cristo (SC nn. 1-2). La liturgia, e in particolare l’eucarestia (n. 2), è memoriale del Mistero pasquale attraverso il quale non solo l’umanità è stata salvata, ma continua nel tempo a essere edificata nel corpo di Cristo che è la Chiesa. La preghiera dopo la Comunione (post-communio) della XXXV domenica del Tempo ordinario è emblematica: “Guida e sostieni, Signore, con il tuo aiuto, il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti, perché la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita”. Dunque, se da una parte celebrare significa attuare l’opera della redenzione, dall’altra, proprio attraverso quest’ultima, la nostra vita è trasformata.

Dalla liturgia alla vita

Su questo punto vorrei un attimo soffermarmi. Nel sentire comune, anche in questi giorni di intenso parlare dell’eucarestia, è sembrato quasi che la celebrazione sia il fine dell’incontro con Cristo. Questo è vero, ma nella misura in cui quell’incontro - permesso anzitutto dalla mensa della Parola e dalla mensa dell’eucarestia - porti frutto nella vita cristiana. Nei Vangeli notiamo che ogni incontro con Gesù lungo le strade della Giudea, della Galilea o della Samaria, è un incontro che porta alla conversione o al rifiuto. Da qui allora possiamo dire che se la liturgia, ogni celebrazione eucaristica, è incontro reale con Cristo e in essa viviamo l’evento della salvezza, allora reale deve essere la nostra conversione, premessa per l’edificazione della Chiesa nella carità. Anche in questo momento di “digiuno” che stiamo attraversando, forse può essere utile ricordarci lo stretto legame tra liturgia e vita, al fine di vivere comunque oggi i frutti di quell’incontro che un giorno abbiamo celebrato e che torneremo presto a celebrare. Don Francesco Verzini]]>
Latinorum? No, “Englishorum” https://www.lavoce.it/latinorum-no-englishorum/ Sat, 22 Dec 2018 08:01:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53688 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Segni dei tempi. Durante i lunghi lavori del Concilio ecumenico Vaticano II tutte le discussioni si svolgevano rigorosamente in lingua latina, così come a quei tempi si parlava in latino nelle Università pontificie, e, almeno ufficialmente, nella Curia romana.

Ormai non si parla più latino neppure in Vaticano, e questo non sorprende. Mi ha sorpreso molto, invece, leggere pochi giorni fa il comunicato della sala stampa del Vaticano riguardo ai lavori del ristrettissimo Consiglio dei cardinali, quelli che “contano veramente”, presieduto personalmente dal Papa. Argomento del giorno: il bilancio del Vaticano.

Dunque, il comunicato dice che gli eminentissimi “hanno affrontato la questione relativa alla riduzione degli operating costs della Santa Sede… bisognerebbe realizzare job descriptions per rendere più efficace il lavoro… si richiede un longterm plan per ridurre i costi… è stata proposta l’elaborazione di multi-year budgets…”.

In questo testo colpisce, più che l’uso di parole inglesi, il fatto che le abbiano usate quando non c’era nessun bisogno di farlo. Non si trattava, cioè, di termini tecnici intraducibili. Si poteva perfettamente dire, invece che operating costs, costi di esercizio; invece di job descriptions, analisi delle mansioni; invece di longterm plan, piano di lungo periodo, e invece di multiyear budgets, preventivi pluriennali.

Non si trattava neppure di un modo per aiutare eventuali lettori stranieri. Se uno non capisce l’italiano, non gli serve a nulla che sia scritta in inglese solo qualche parola, a caso, qua e là; gli devi dare la traduzione integrale del testo. E infatti la Sala stampa del Vaticano fornisce anche le traduzioni in diverse lingue.

Il testo italiano è per gli italiani, e se ci metti dentro parole inglesi in ordine sparso, lo rendi meno chiaro a danno proprio di coloro ai quali è diretto. Possibile che comunicatori di professione non se ne rendano conto? “Signora mia, non ci sono più le stagioni” e anche il Vaticano non è più quello di una volta.

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di Pier Giorgio Lignani

Segni dei tempi. Durante i lunghi lavori del Concilio ecumenico Vaticano II tutte le discussioni si svolgevano rigorosamente in lingua latina, così come a quei tempi si parlava in latino nelle Università pontificie, e, almeno ufficialmente, nella Curia romana.

Ormai non si parla più latino neppure in Vaticano, e questo non sorprende. Mi ha sorpreso molto, invece, leggere pochi giorni fa il comunicato della sala stampa del Vaticano riguardo ai lavori del ristrettissimo Consiglio dei cardinali, quelli che “contano veramente”, presieduto personalmente dal Papa. Argomento del giorno: il bilancio del Vaticano.

Dunque, il comunicato dice che gli eminentissimi “hanno affrontato la questione relativa alla riduzione degli operating costs della Santa Sede… bisognerebbe realizzare job descriptions per rendere più efficace il lavoro… si richiede un longterm plan per ridurre i costi… è stata proposta l’elaborazione di multi-year budgets…”.

In questo testo colpisce, più che l’uso di parole inglesi, il fatto che le abbiano usate quando non c’era nessun bisogno di farlo. Non si trattava, cioè, di termini tecnici intraducibili. Si poteva perfettamente dire, invece che operating costs, costi di esercizio; invece di job descriptions, analisi delle mansioni; invece di longterm plan, piano di lungo periodo, e invece di multiyear budgets, preventivi pluriennali.

Non si trattava neppure di un modo per aiutare eventuali lettori stranieri. Se uno non capisce l’italiano, non gli serve a nulla che sia scritta in inglese solo qualche parola, a caso, qua e là; gli devi dare la traduzione integrale del testo. E infatti la Sala stampa del Vaticano fornisce anche le traduzioni in diverse lingue.

Il testo italiano è per gli italiani, e se ci metti dentro parole inglesi in ordine sparso, lo rendi meno chiaro a danno proprio di coloro ai quali è diretto. Possibile che comunicatori di professione non se ne rendano conto? “Signora mia, non ci sono più le stagioni” e anche il Vaticano non è più quello di una volta.

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Riformare: un alibi, a volte https://www.lavoce.it/riformare-alibi/ Tue, 11 Dec 2018 08:08:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53606 logo abat jour, rubrica settimanale

Riformare la nostra Chiesa sullo stampo del Concilio? Certo che bisogna farlo, e non lasciarlo fare agli altri, perché dentro la Chiesa siamo tutti soggetti e nessuno può ridursi a suddito. Giuliano Minelli, nella nostra abborracciata lectio divina settimanale che “Il Gibbo” tiene ininterrottamente dal 2007, lo ripete una volta sì e l’altra pure: soggetti, non sudditi! Protagonisti, non esecutori!

Giusto. Ma nel frattempo le grandi mete che giustamente additiamo alla nostra Chiesa possiamo farle concretamente nostre, nel nostro privato, anche solo in parte, anche rischiando di fare la figura degli originaloni. Possiamo promuovere il progresso della Chiesa senza dimenticarsi il nostro.

Chi ci impedisce, a noi vecchietti, di destinare una buona fetta di quel gruzzolo consistente, che la nostra pensione ci ha permesso di accantonare, a una famiglia che non arriva a fine mese? Soprattutto quando la pensione non ce la siamo meritata; come il sottoscritto che ne usufruisce dal 1984 (35 anni!), dal tempo in cui nostri Governi facevano le cicale (mentre i Governi tedeschi facevano le formiche).

Ancora fresco è il lutto per la morte del mio Giuliano Panfili, un eugubino che ha fatto fortuna a Milano e che, quando ha ristrutturato la sua casa a Gubbio, ha pensato bene, visto che aveva deciso di dotarla di un ascensore, di farlo salire, l’ascensore, fino in soffitta, che ha risistemato in vista dell’accoglienza di una famigliola in difficoltà. Quante altre soffitte, anche fatti salvi i diritti delle cianfrusaglie che ab illo tempore le hanno occupate, potrebbero cambiare destinazione?

Certo, ci pesa come uno gnocco sul gozzo il fatto della tante, tantissime case canoniche disabitate. E non solo per i troppi fratelli di colore, figli di Dio come noi, che dormono all’aperto, sotto un cartone, ma anche perché la presenza fisica del parroco nella sua parrocchia, giorno e notte, è sempre stata un pilastro della fraterna comunità cristiana. Trovarne l’utilizzo giusto non è facile.

Certo. Ma la ricerca di nuove soluzioni pratiche rischia di essere un alibi buono per mettere la sordina a quella che la tradizione cristiana ha definito “l’unica tristezza giustificata in un discepolo di Gesù, la tristezza di non essere santi”. Camminare sulla via della contestazione delle vecchie strutture e proporne delle nuove come apice del nostro progetto di vita, che invece dovrebbe concentrarsi altrove: nella crescita costante dell’amore per Dio e per il prossimo, due facce della stessa medaglia.

Farsi santi là dove si vive. Santa Teresa di Gesù Bambino, una volta entrata nel Carmelo di Lisieux sulla scia delle sue cinque sorelle maggiori che l’avevano preceduta in quella scelta, volle per se stessa una missione utopica quant’altre mai: “Io nella Chiesa voglio essere il cuore”.

Ma la figlia minore del notaio di Lisieux, che le aveva dato un’educazione finissima, dovette vivere a stretto contatto di gomito con una suora di provenienza contadina che la metteva a dura prova. E allora?

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Riformare la nostra Chiesa sullo stampo del Concilio? Certo che bisogna farlo, e non lasciarlo fare agli altri, perché dentro la Chiesa siamo tutti soggetti e nessuno può ridursi a suddito. Giuliano Minelli, nella nostra abborracciata lectio divina settimanale che “Il Gibbo” tiene ininterrottamente dal 2007, lo ripete una volta sì e l’altra pure: soggetti, non sudditi! Protagonisti, non esecutori!

Giusto. Ma nel frattempo le grandi mete che giustamente additiamo alla nostra Chiesa possiamo farle concretamente nostre, nel nostro privato, anche solo in parte, anche rischiando di fare la figura degli originaloni. Possiamo promuovere il progresso della Chiesa senza dimenticarsi il nostro.

Chi ci impedisce, a noi vecchietti, di destinare una buona fetta di quel gruzzolo consistente, che la nostra pensione ci ha permesso di accantonare, a una famiglia che non arriva a fine mese? Soprattutto quando la pensione non ce la siamo meritata; come il sottoscritto che ne usufruisce dal 1984 (35 anni!), dal tempo in cui nostri Governi facevano le cicale (mentre i Governi tedeschi facevano le formiche).

Ancora fresco è il lutto per la morte del mio Giuliano Panfili, un eugubino che ha fatto fortuna a Milano e che, quando ha ristrutturato la sua casa a Gubbio, ha pensato bene, visto che aveva deciso di dotarla di un ascensore, di farlo salire, l’ascensore, fino in soffitta, che ha risistemato in vista dell’accoglienza di una famigliola in difficoltà. Quante altre soffitte, anche fatti salvi i diritti delle cianfrusaglie che ab illo tempore le hanno occupate, potrebbero cambiare destinazione?

Certo, ci pesa come uno gnocco sul gozzo il fatto della tante, tantissime case canoniche disabitate. E non solo per i troppi fratelli di colore, figli di Dio come noi, che dormono all’aperto, sotto un cartone, ma anche perché la presenza fisica del parroco nella sua parrocchia, giorno e notte, è sempre stata un pilastro della fraterna comunità cristiana. Trovarne l’utilizzo giusto non è facile.

Certo. Ma la ricerca di nuove soluzioni pratiche rischia di essere un alibi buono per mettere la sordina a quella che la tradizione cristiana ha definito “l’unica tristezza giustificata in un discepolo di Gesù, la tristezza di non essere santi”. Camminare sulla via della contestazione delle vecchie strutture e proporne delle nuove come apice del nostro progetto di vita, che invece dovrebbe concentrarsi altrove: nella crescita costante dell’amore per Dio e per il prossimo, due facce della stessa medaglia.

Farsi santi là dove si vive. Santa Teresa di Gesù Bambino, una volta entrata nel Carmelo di Lisieux sulla scia delle sue cinque sorelle maggiori che l’avevano preceduta in quella scelta, volle per se stessa una missione utopica quant’altre mai: “Io nella Chiesa voglio essere il cuore”.

Ma la figlia minore del notaio di Lisieux, che le aveva dato un’educazione finissima, dovette vivere a stretto contatto di gomito con una suora di provenienza contadina che la metteva a dura prova. E allora?

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Quanta strada! https://www.lavoce.it/quanta-strada-quas-primas/ Tue, 07 Aug 2018 08:00:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52654 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci Dalla riflessione teologica che, maldestramente ahimé!, ho cercato di ammannire ai miei 17 lettori, e forse in parte ci sono riuscito, anche se solo con la chiarezza di un astigmatico cronico, emerge un concetto di apostolato, di pastorale, di scelte operative qualificanti per il cristiano che è davvero nuovo. Se ripenso alla pastorale che, per la prima volta nella storia della Chiesa, Pio XI impostò organicamente nel 1922, con l’enciclica Quas primas, e ne percorro la trama alla luce (fioca, certo, ma sufficiente!) delle passate abat jour, mi rendo conto del cammino che ha percorso la mia Chiesa da quando ha capito che riconoscere il primato della coscienza non equivaleva, assolutamente, ad un consegnarsi armi e bagagli al relativismo, ma aprire un discorso nuovo non sull’uomo come categoria generale, ma sull’uomo come individuo unico e irrepetibile, meglio: come persona. Un cammino lungo anni luce. La Quas primas di Papa Ratti voleva dare un fondamento teologico alla festa che istituiva, la Festa di Cristo Re. Festa insieme esaltante ed equivoca; esaltante per il dovere/diritto di sentirsi sudditi/amici di un Re di quel calibro; equivoca se dimentichiamo quello che lui, ormai ridotto ad un grumo di sangue disse a quel bellimbusto di Pilato, con un filo di voce: “Sì, sono re, ma il mio regno non è di questo mondo!”. Un filo di voce, ma ferma, chiara, autorevole. La sua corona. Vera corona. Ma non è d’oro, né d’argento. Nemmeno di peltro. È di spine. La Quas primas ha uno scopo specifico, più e più volte riaffermato: conquistare il mondo a Cristo Re. “Portare Dio nel mondo, tramite Cristo”. Ed ecco l’Azione cattolica che nasce schierata a battaglia (sicut acies ordinata), ed ecco le missioni che portano, oltre il Vangelo, anche la civiltà, ed ecco l’ecumenismo inteso sempre e solo come un “ritorno all’ovile”, ed ecco la cristianizzazione del diritto perseguita con i concordati tra la Chiesa e gli stati. “Vogliamo portare Dio al mondo tramite Cristo. “Portare?” Ma nello sterminato, placido oceano delle coscienze individuali degli uomini Dio e Cristo sono presenti da sempre, in un dialogo unico, individualizzato, sul quale è stato posto il più rigoroso dei segreti. Da quando il Concilio ci ha insegnato che il Regno di Dio non è la Chiesa, ma il mondo, chi si sente vocato all’impegno apostolico deve avere ben presente che Dio nel mondo già c’è, da sempre, e c’è da sempre il suo Cristo, lo Spirito inseparabile. C’è, impegnato a colloquiare con ogni coscienza. Aiutiamolo, quest’uomo che Dio ama follemente, offriamogli tutte le opportunità che riusciremo a offrigli per portare all’estreme conseguenze l’ineffabile colloquio, ma prima ancora ricordiamocelo bene, che là dove noi vogliamo “portare Dio”, Dio già c’è.]]>
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di Angelo M. Fanucci Dalla riflessione teologica che, maldestramente ahimé!, ho cercato di ammannire ai miei 17 lettori, e forse in parte ci sono riuscito, anche se solo con la chiarezza di un astigmatico cronico, emerge un concetto di apostolato, di pastorale, di scelte operative qualificanti per il cristiano che è davvero nuovo. Se ripenso alla pastorale che, per la prima volta nella storia della Chiesa, Pio XI impostò organicamente nel 1922, con l’enciclica Quas primas, e ne percorro la trama alla luce (fioca, certo, ma sufficiente!) delle passate abat jour, mi rendo conto del cammino che ha percorso la mia Chiesa da quando ha capito che riconoscere il primato della coscienza non equivaleva, assolutamente, ad un consegnarsi armi e bagagli al relativismo, ma aprire un discorso nuovo non sull’uomo come categoria generale, ma sull’uomo come individuo unico e irrepetibile, meglio: come persona. Un cammino lungo anni luce. La Quas primas di Papa Ratti voleva dare un fondamento teologico alla festa che istituiva, la Festa di Cristo Re. Festa insieme esaltante ed equivoca; esaltante per il dovere/diritto di sentirsi sudditi/amici di un Re di quel calibro; equivoca se dimentichiamo quello che lui, ormai ridotto ad un grumo di sangue disse a quel bellimbusto di Pilato, con un filo di voce: “Sì, sono re, ma il mio regno non è di questo mondo!”. Un filo di voce, ma ferma, chiara, autorevole. La sua corona. Vera corona. Ma non è d’oro, né d’argento. Nemmeno di peltro. È di spine. La Quas primas ha uno scopo specifico, più e più volte riaffermato: conquistare il mondo a Cristo Re. “Portare Dio nel mondo, tramite Cristo”. Ed ecco l’Azione cattolica che nasce schierata a battaglia (sicut acies ordinata), ed ecco le missioni che portano, oltre il Vangelo, anche la civiltà, ed ecco l’ecumenismo inteso sempre e solo come un “ritorno all’ovile”, ed ecco la cristianizzazione del diritto perseguita con i concordati tra la Chiesa e gli stati. “Vogliamo portare Dio al mondo tramite Cristo. “Portare?” Ma nello sterminato, placido oceano delle coscienze individuali degli uomini Dio e Cristo sono presenti da sempre, in un dialogo unico, individualizzato, sul quale è stato posto il più rigoroso dei segreti. Da quando il Concilio ci ha insegnato che il Regno di Dio non è la Chiesa, ma il mondo, chi si sente vocato all’impegno apostolico deve avere ben presente che Dio nel mondo già c’è, da sempre, e c’è da sempre il suo Cristo, lo Spirito inseparabile. C’è, impegnato a colloquiare con ogni coscienza. Aiutiamolo, quest’uomo che Dio ama follemente, offriamogli tutte le opportunità che riusciremo a offrigli per portare all’estreme conseguenze l’ineffabile colloquio, ma prima ancora ricordiamocelo bene, che là dove noi vogliamo “portare Dio”, Dio già c’è.]]>
La grazia non è un’ideologia https://www.lavoce.it/la-grazia-non-unideologia/ Tue, 31 Jul 2018 08:00:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52557 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

L’impegno che, nel rapportarci al mondo nel quale viviamo, per capirlo davvero, ci addita padre Sosa: quello di assumere il riconoscimento delle differenze come punto di partenza della rivelazione di Dio, ci dice quanto grande sia stato il passo in avanti compiuto dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II quando, per ripensarlo con le proprie categorie, ha fatto suo uno dei punti forti della cultura liberale, il primato della coscienza. Non è stata soltanto la vittoria di quell’antropocentrismo cristiano che veniva proposto fin dai tempi del primo Umanesimo fiorentino (Marsilio Ficino); non è stata solo il rilancio, su base teologicamente granitica, della suprema dignità dell’uomo, di ogni uomo (Erasmo da Rotterdam).

No, è stato molto di più. La Chiesa ha rivisitato in radice il proprio servizio al mondo, che non precede più, ma segue e accompagna il rapporto che Dio ha aperto fra sé e l’uomo quando l’ha creato, quando gli ha donato lo Spirito come caparra dell’esperienza pregressa.

La coscienza di per sé è pura possibilità di individuare qui o là la presenza della verità e del bene. La grazia di Dio entra in contatto con la coscienza dell’uomo e le avanza le sue proposte. Su questa base le scelte della coscienza umana si precisano, si affermano, si negano, si rilanciano: è il cammino della salvezza.

Il n. 4015 di La civiltà cattolica ha titolato il primo articolo a commento del viaggio di Papa Francesco in Colombia nel 2017 (il ventesimo compiuto da quest’uomo che sembra snobbare la sua età, ufficialmente vecchiaia) La grazia non è un’ideologia; e nell’articolo immediatamente successivo, quasi a riposta all’interrogativo rimasto sospeso in aria (se non è un’ideologia, che cos’è la grazia?) padre Juan Carlos Scannone titola: Discernere e accompagnare.

La grazia non è un’ideologia, ma un evento che riguarda ogni uomo; e ha la sua verità ultima nel profondo, ma affiora in continuazione nell’esperienza concreta della vita umana. È l’ultima frontiera, quella decisiva, del rapporto di Dio con l’uomo. Dio l’ha creato, gli ha messo a disposizione il proprio Figlio per aiutarlo a capire quale fosse il senso di quel mondo che non aveva fatto lui, l’ha invitato a entrare nel grande Popolo che cammina e canta anche quando la cattiveria e la morte tenterebbero di impedirglielo.

Adesso sono faccia a faccia. Dio fornisce all’uomo quanto gli serve per discernere il bene dal male, il meno bene dal meno male, il più bene dal meno bene: lo aiuta a discernere, non si sostituisce a lui; lo accompagna, non se lo carica sulle spalle. L’esito finale dell’evento lo conosceremo solo quando, come preannuncia Paolo, Dio sarà tutto in tutti - come lo è sempre stato fin dall’inizio dei tempi.

Su questa trama teologica si struttura la pastorale di Papa Francesco. Discernere e accompagnare. Aiutare ogni figlio di Dio a riconoscersi tale, anche coi nomi più diversi, per la vita nuova che sente fremere dentro di sé. Sai che festa sarebbe se Eugenio Scalfari o Alessandro Cecchi Paone si facessero battezzare nel battistero di San Giovanni in Fonte, a piazza del Laterano!

Bah! A parte l’aspetto sacramentale, sarebbe solo la cornice esterna d’un evento che è già accaduto.

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di Angelo M. Fanucci

L’impegno che, nel rapportarci al mondo nel quale viviamo, per capirlo davvero, ci addita padre Sosa: quello di assumere il riconoscimento delle differenze come punto di partenza della rivelazione di Dio, ci dice quanto grande sia stato il passo in avanti compiuto dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II quando, per ripensarlo con le proprie categorie, ha fatto suo uno dei punti forti della cultura liberale, il primato della coscienza. Non è stata soltanto la vittoria di quell’antropocentrismo cristiano che veniva proposto fin dai tempi del primo Umanesimo fiorentino (Marsilio Ficino); non è stata solo il rilancio, su base teologicamente granitica, della suprema dignità dell’uomo, di ogni uomo (Erasmo da Rotterdam).

No, è stato molto di più. La Chiesa ha rivisitato in radice il proprio servizio al mondo, che non precede più, ma segue e accompagna il rapporto che Dio ha aperto fra sé e l’uomo quando l’ha creato, quando gli ha donato lo Spirito come caparra dell’esperienza pregressa.

La coscienza di per sé è pura possibilità di individuare qui o là la presenza della verità e del bene. La grazia di Dio entra in contatto con la coscienza dell’uomo e le avanza le sue proposte. Su questa base le scelte della coscienza umana si precisano, si affermano, si negano, si rilanciano: è il cammino della salvezza.

Il n. 4015 di La civiltà cattolica ha titolato il primo articolo a commento del viaggio di Papa Francesco in Colombia nel 2017 (il ventesimo compiuto da quest’uomo che sembra snobbare la sua età, ufficialmente vecchiaia) La grazia non è un’ideologia; e nell’articolo immediatamente successivo, quasi a riposta all’interrogativo rimasto sospeso in aria (se non è un’ideologia, che cos’è la grazia?) padre Juan Carlos Scannone titola: Discernere e accompagnare.

La grazia non è un’ideologia, ma un evento che riguarda ogni uomo; e ha la sua verità ultima nel profondo, ma affiora in continuazione nell’esperienza concreta della vita umana. È l’ultima frontiera, quella decisiva, del rapporto di Dio con l’uomo. Dio l’ha creato, gli ha messo a disposizione il proprio Figlio per aiutarlo a capire quale fosse il senso di quel mondo che non aveva fatto lui, l’ha invitato a entrare nel grande Popolo che cammina e canta anche quando la cattiveria e la morte tenterebbero di impedirglielo.

Adesso sono faccia a faccia. Dio fornisce all’uomo quanto gli serve per discernere il bene dal male, il meno bene dal meno male, il più bene dal meno bene: lo aiuta a discernere, non si sostituisce a lui; lo accompagna, non se lo carica sulle spalle. L’esito finale dell’evento lo conosceremo solo quando, come preannuncia Paolo, Dio sarà tutto in tutti - come lo è sempre stato fin dall’inizio dei tempi.

Su questa trama teologica si struttura la pastorale di Papa Francesco. Discernere e accompagnare. Aiutare ogni figlio di Dio a riconoscersi tale, anche coi nomi più diversi, per la vita nuova che sente fremere dentro di sé. Sai che festa sarebbe se Eugenio Scalfari o Alessandro Cecchi Paone si facessero battezzare nel battistero di San Giovanni in Fonte, a piazza del Laterano!

Bah! A parte l’aspetto sacramentale, sarebbe solo la cornice esterna d’un evento che è già accaduto.

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Il cuore e la buccia https://www.lavoce.it/cuore-la-buccia/ Sun, 22 Jul 2018 08:00:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52445 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci  Il punto di partenza è riconoscere le differenze come rivelazione di Dio, questa, secondo il preposto dei Gesuiti, è la premessa necessaria per relazionarsi con quel mondo davanti al quale Dio ci ha collocati per lavorare alla crescita del Regno. Una posizione che lascia sconcertati tutti coloro che non hanno ancora introiettato uno dei punti chiave del Concilio ecumenico Vaticano II, e ragionano ancora con gli strumenti che ci ha messo a disposizione il Concilio di Trento. Nelle lettera settimanale che la mia associazione, il Gibbo, spedisce da poco meno di dieci anni, mi sono arrabattato a seguire passo passo il cammino che le fede della Chiesa ha percorso per acquisire quel principio del primato della coscienza che, a partire dal Rinascimento, le chiedeva la cultura laica, quella schietta, quella che è davvero in ricerca, e non rifiuta di acquisire nuove verità anche se non è stata lei a farle proprie. È stato un cammino lungo e difficile, dal Sillabo di Pio IX (1864) alla Gaudium et spes del Vaticano II. Un cammino le cui luminose conclusioni teoriche, proprio perché esso è costato tanta fatica, non sono digeribili come acqua di sorgente, e tanto meno assimilabili, capaci di inserirsi tra le categorie che noi credenti medio/mediocri abitualmente utilizziamo per conoscere la verità. La differenza come rivelazione di Dio. Dio non crea rapporti standard; non fa le cose in serie; la sua misericordia si rivela come infinita, ed è letteralmente infinita. Soprattutto nel fatto che Egli, fin da quando decide di vararla “ne lo gran mar dell’essere”, con ogni sua creatura instaura un rapporto assolutamente unico, originale, irrepetibile, dotandola di una fisionomia che è sua e solo sua. E io, Chiesa del Dio di Gesù, nel momento in cui incontro questa creatura, devo essere cosciente di non trovarmi di fronte a una tabula rasa,ma a un soggetto che già vive in osmosi con Dio. Come dicevano i teologi medievali, Dio crea in quanto comunica alla sua creatura l’ unum, il verum e il bonum: la forte coesione che la tiene insieme e la spinta altrettanto forte ad aprirsi alla verità che le viene da fuori e alla donazione che la fa uscire da sé. Papa Francesco, quando incontra uno shintoista, o un confuciano, o un animista, ecc., non gli dice quello che gli direbbe sant’Agostino (“convertiti, ricevi il battesimo e salvati l’anima; e se in giro non c’è nemmeno una goccia d’acqua… mi dispiace per te”), ma coglie quello che Dio, creandolo, ha deposto in lui. Certo, così il proselitismo ha fatto un passo indietro rispetto al riconoscimento delle differenze come rivelazione di Dio. È stata una scelta sbagliata? No, era la scelta che i tempi chiedevano - i tempi di Dio, cioè la maturazione degli approcci culturali. La scelta giusta. E chissà che avrà provato Eugenio Scalfari, quando s’è reso conto che i decenni di militanza laica, con i quali pensava d’avere colpito al cuore la Chiesa, ne avevano preso a calci la buccia!]]>
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di Angelo M. Fanucci  Il punto di partenza è riconoscere le differenze come rivelazione di Dio, questa, secondo il preposto dei Gesuiti, è la premessa necessaria per relazionarsi con quel mondo davanti al quale Dio ci ha collocati per lavorare alla crescita del Regno. Una posizione che lascia sconcertati tutti coloro che non hanno ancora introiettato uno dei punti chiave del Concilio ecumenico Vaticano II, e ragionano ancora con gli strumenti che ci ha messo a disposizione il Concilio di Trento. Nelle lettera settimanale che la mia associazione, il Gibbo, spedisce da poco meno di dieci anni, mi sono arrabattato a seguire passo passo il cammino che le fede della Chiesa ha percorso per acquisire quel principio del primato della coscienza che, a partire dal Rinascimento, le chiedeva la cultura laica, quella schietta, quella che è davvero in ricerca, e non rifiuta di acquisire nuove verità anche se non è stata lei a farle proprie. È stato un cammino lungo e difficile, dal Sillabo di Pio IX (1864) alla Gaudium et spes del Vaticano II. Un cammino le cui luminose conclusioni teoriche, proprio perché esso è costato tanta fatica, non sono digeribili come acqua di sorgente, e tanto meno assimilabili, capaci di inserirsi tra le categorie che noi credenti medio/mediocri abitualmente utilizziamo per conoscere la verità. La differenza come rivelazione di Dio. Dio non crea rapporti standard; non fa le cose in serie; la sua misericordia si rivela come infinita, ed è letteralmente infinita. Soprattutto nel fatto che Egli, fin da quando decide di vararla “ne lo gran mar dell’essere”, con ogni sua creatura instaura un rapporto assolutamente unico, originale, irrepetibile, dotandola di una fisionomia che è sua e solo sua. E io, Chiesa del Dio di Gesù, nel momento in cui incontro questa creatura, devo essere cosciente di non trovarmi di fronte a una tabula rasa,ma a un soggetto che già vive in osmosi con Dio. Come dicevano i teologi medievali, Dio crea in quanto comunica alla sua creatura l’ unum, il verum e il bonum: la forte coesione che la tiene insieme e la spinta altrettanto forte ad aprirsi alla verità che le viene da fuori e alla donazione che la fa uscire da sé. Papa Francesco, quando incontra uno shintoista, o un confuciano, o un animista, ecc., non gli dice quello che gli direbbe sant’Agostino (“convertiti, ricevi il battesimo e salvati l’anima; e se in giro non c’è nemmeno una goccia d’acqua… mi dispiace per te”), ma coglie quello che Dio, creandolo, ha deposto in lui. Certo, così il proselitismo ha fatto un passo indietro rispetto al riconoscimento delle differenze come rivelazione di Dio. È stata una scelta sbagliata? No, era la scelta che i tempi chiedevano - i tempi di Dio, cioè la maturazione degli approcci culturali. La scelta giusta. E chissà che avrà provato Eugenio Scalfari, quando s’è reso conto che i decenni di militanza laica, con i quali pensava d’avere colpito al cuore la Chiesa, ne avevano preso a calci la buccia!]]>
Ho visto mons. Piastrelli https://www.lavoce.it/visto-mons-piastrelli/ Sun, 13 May 2018 08:00:31 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51865 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci Non avrei mai osato sperarlo, ma è successo: ho visto mons. Piastrelli. No, non ho avuto visioni, sono allergico a quel prodotto commerciale. L’ho visto e l’ho sentito parlare sul canale 54 di Rai 1, dedicato alla storia. Un canale che vale tutti gli altri messi insieme. Segnatevelo: Rai 1, canale 54. Tornano spesso grazie a questo canale gli splendidi servizi di Brando Giordani, di Hombert Bianchi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Andrea Barbato. È stata un’emozione che non esito a dire sconvolgente. Era il pomeriggio di lunedì 30 aprile. Sullo schermo è apparsa all’improvviso l’immagine paciosa di mons. Piastrelli, in poltrona, che diceva cose d’ordinaria amministrazione, ma io ho preso a fuoco per il puro e semplice fatto di sentirlo parlare. Perché in me è ancora vivissimo quello che ho letto nel volumetto Gli umbri e la crisi modernista, che condensa i contenuti del convegno che si tenne su quel tema nel novembre 2011 a Perugia, presso l’istituto “Conestabile della Staffa e Luigi Piastrelli”, per iniziativa del dipartimento di Filosofia, linguistica e letterature dell’Università degli studi di Perugia. Gli intellettuali impegnati in quel convegno, sotto la guida del prof. Di Pilla, dichiararono di averlo voluto per far trionfare la giustizia dove fu calpestata. Il “la” l’ha dato Gianfranco Maddoli. Già, anche in Umbria la crisi modernista ha rappresentato il punto più alto del lungo travaglio che ha portato alla nascita della Chiesa del Concilio. Ho qui davanti una foto di mons. Umberto Benigni, il fondatore del Sodalitium Pianum: un prete tozzo, un fisico da sollevamento pesi, nodoso, chiaramente pronto a picchiare. E a Perugia ha picchiato duro. Piastrelli, Fracassini, Brizio Casciola e soprattutto il grandissimo don Francesco Mari, che era di Nocera, una di quelle piccole diocesi che allora venivano considerate un po’ come lo sgabuzzino dell’archidiocesi di Perugia: è stato merito di don Dante Cesarini averne recuperata la grandezza di prete e di appassionato studioso della Bibbia. Che bello! Chiedo a Gianfranco Maddoli, amico sincero e maestro prezioso, di impegnare il suo Istituto in altre imprese del genere di quella che ci ha fatto conoscere questi autentici Padri della nostra Chiesa umbra moderna.]]>
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di Angelo M. Fanucci Non avrei mai osato sperarlo, ma è successo: ho visto mons. Piastrelli. No, non ho avuto visioni, sono allergico a quel prodotto commerciale. L’ho visto e l’ho sentito parlare sul canale 54 di Rai 1, dedicato alla storia. Un canale che vale tutti gli altri messi insieme. Segnatevelo: Rai 1, canale 54. Tornano spesso grazie a questo canale gli splendidi servizi di Brando Giordani, di Hombert Bianchi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Andrea Barbato. È stata un’emozione che non esito a dire sconvolgente. Era il pomeriggio di lunedì 30 aprile. Sullo schermo è apparsa all’improvviso l’immagine paciosa di mons. Piastrelli, in poltrona, che diceva cose d’ordinaria amministrazione, ma io ho preso a fuoco per il puro e semplice fatto di sentirlo parlare. Perché in me è ancora vivissimo quello che ho letto nel volumetto Gli umbri e la crisi modernista, che condensa i contenuti del convegno che si tenne su quel tema nel novembre 2011 a Perugia, presso l’istituto “Conestabile della Staffa e Luigi Piastrelli”, per iniziativa del dipartimento di Filosofia, linguistica e letterature dell’Università degli studi di Perugia. Gli intellettuali impegnati in quel convegno, sotto la guida del prof. Di Pilla, dichiararono di averlo voluto per far trionfare la giustizia dove fu calpestata. Il “la” l’ha dato Gianfranco Maddoli. Già, anche in Umbria la crisi modernista ha rappresentato il punto più alto del lungo travaglio che ha portato alla nascita della Chiesa del Concilio. Ho qui davanti una foto di mons. Umberto Benigni, il fondatore del Sodalitium Pianum: un prete tozzo, un fisico da sollevamento pesi, nodoso, chiaramente pronto a picchiare. E a Perugia ha picchiato duro. Piastrelli, Fracassini, Brizio Casciola e soprattutto il grandissimo don Francesco Mari, che era di Nocera, una di quelle piccole diocesi che allora venivano considerate un po’ come lo sgabuzzino dell’archidiocesi di Perugia: è stato merito di don Dante Cesarini averne recuperata la grandezza di prete e di appassionato studioso della Bibbia. Che bello! Chiedo a Gianfranco Maddoli, amico sincero e maestro prezioso, di impegnare il suo Istituto in altre imprese del genere di quella che ci ha fatto conoscere questi autentici Padri della nostra Chiesa umbra moderna.]]>
Riformare la riforma? È appena iniziata! https://www.lavoce.it/riformare-la-riforma-appena-iniziata/ Fri, 09 Mar 2018 08:16:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51380 logo rubrica domande sulla liturgia

Caro don Francesco, spesso sento parlare di “riforma della riforma” della liturgia, ma cosa significa? Si vuole cambiare la riforma liturgica del Concilio Vaticano II? R. V. Perugia Cara lettrice, sì, spesso sento e leggo anch’io questo modo di dire in campo liturgico. E troppo spesso, purtroppo, lo sento come slogan di una linea di pensiero che vorrebbe riportare il vetus ordo, la prassi pre-conciliare, come modalità ordinaria di celebrazione di nuovo oggi. Rispetto a ciò, mi pongo la domanda: “È necessaria una riforma della riforma auspicata dal Concilio Vaticano II e iniziata da Paolo VI?”. Certo che no! Mi spiego. L’espressione “riformare la riforma”, a mio giudizio, porta con sé un errore: come è possibile riformare una riforma che ancora non è chiusa? Infatti non possiamo pensare - cosa che taluni pensano - che la riforma voluta dall’ultimo Concilio si sia conclusa, perché non basta sostituire i libri liturgici o cambiare alcune prassi per dire che abbiamo attuato in toto il dettato conciliare. Si può quindi riformare qualcosa che non si è ancora concluso? Per recepire tutto ciò che il Concilio ha espresso, tutta la sua portata teologica e pastorale, non bastano di certo 50 anni, come non bastano per attuare in pieno la riforma liturgica. Questo ci viene dimostrato dal fatto che i Pontefici, da Paolo VI fino ai giorni nostri, a piccole dosi, con piccoli cambiamenti, sono intervenuti nella linea riformatrice tracciata dal Vaticano II: pensiamo alla pubblicazioni di nuove edizioni dei libri liturgici, ai motu proprio che riguardano la liturgia... e alcuni vorrebbero applicare questa riforma della riforma. Infatti sembra quasi che si voglia ibridare il novus ordo, il nuovo ordinamento celebrativo, riproponendo modalità rituali dalle quali in realtà in passato è scaturito appunto il desiderio di riforma! Sarebbe compiere un passo falso, il ritornare indietro per una strada da cui i Padri conciliari si sono voluti discostare per ragioni valide ancora oggi.  ]]>
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Caro don Francesco, spesso sento parlare di “riforma della riforma” della liturgia, ma cosa significa? Si vuole cambiare la riforma liturgica del Concilio Vaticano II? R. V. Perugia Cara lettrice, sì, spesso sento e leggo anch’io questo modo di dire in campo liturgico. E troppo spesso, purtroppo, lo sento come slogan di una linea di pensiero che vorrebbe riportare il vetus ordo, la prassi pre-conciliare, come modalità ordinaria di celebrazione di nuovo oggi. Rispetto a ciò, mi pongo la domanda: “È necessaria una riforma della riforma auspicata dal Concilio Vaticano II e iniziata da Paolo VI?”. Certo che no! Mi spiego. L’espressione “riformare la riforma”, a mio giudizio, porta con sé un errore: come è possibile riformare una riforma che ancora non è chiusa? Infatti non possiamo pensare - cosa che taluni pensano - che la riforma voluta dall’ultimo Concilio si sia conclusa, perché non basta sostituire i libri liturgici o cambiare alcune prassi per dire che abbiamo attuato in toto il dettato conciliare. Si può quindi riformare qualcosa che non si è ancora concluso? Per recepire tutto ciò che il Concilio ha espresso, tutta la sua portata teologica e pastorale, non bastano di certo 50 anni, come non bastano per attuare in pieno la riforma liturgica. Questo ci viene dimostrato dal fatto che i Pontefici, da Paolo VI fino ai giorni nostri, a piccole dosi, con piccoli cambiamenti, sono intervenuti nella linea riformatrice tracciata dal Vaticano II: pensiamo alla pubblicazioni di nuove edizioni dei libri liturgici, ai motu proprio che riguardano la liturgia... e alcuni vorrebbero applicare questa riforma della riforma. Infatti sembra quasi che si voglia ibridare il novus ordo, il nuovo ordinamento celebrativo, riproponendo modalità rituali dalle quali in realtà in passato è scaturito appunto il desiderio di riforma! Sarebbe compiere un passo falso, il ritornare indietro per una strada da cui i Padri conciliari si sono voluti discostare per ragioni valide ancora oggi.  ]]>