comunità ecclesiale Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunita-ecclesiale/ Settimanale di informazione regionale Fri, 22 Apr 2022 11:39:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg comunità ecclesiale Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunita-ecclesiale/ 32 32 ‘Ricominciamo dalla comunità’: Laboratorio di idee promosso dalla Diocesi di Spoleto https://www.lavoce.it/ricominciamo-dalla-comunita-laboratorio-di-idee-promosso-dalla-diocesi-di-spoleto/ Fri, 22 Apr 2022 11:39:16 +0000 https://www.lavoce.it/?p=66348 Ricominciamo dalla comunità

Ricominciamo dalla comunità: un cammino nell’amicizia, è il laboratorio di idee promosso dall’ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, insieme alle comunità e alle Comunanze Agrarie di San Pellegrino e Frascaro di Norcia, all’Associazione per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia e alla Pro San Pellegrino ASD. Una serie di iniziative, che si inseriscono nel Cammino Sinodale delle Chiese in Italia.

Senza i legami comunitari non c’è futuro

"Abbiamo pensato a questo percorso -afferma don Marco Rufini parroco di Norcia e direttore dell’ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi- in quanto crediamo che la realtà esiste per i legami tra le particelle infinitesimali, tutti egualmente importanti. Crediamo in questi legami. Non crediamo invece, nelle logiche dei centri minori e centri maggiori, del centro e delle periferie, delle capitali e delle succursali. Vogliamo ripartire dalla comunità: come fare?

Abbiamo pensato di avviare -prosegue don Marco- un laboratorio di idee che non sia solo accademica teoria, ma apra prospettive concrete, direzioni verso cui avviare cammini. Dove farlo? Abbiamo pensato di partire dai luoghi dove la marginalizzazione è più pesante, dove una piccola comunità prova a non arrendersi malgrado la sensazione di essere ridotta ad un'isola dove nessuno desidera attraccare sia proprio forte, consapevole però di poter diventare una meta che tanti cercano e ancora non conoscono. Inizieremo da due piccole comunità dell'area del cratere nursino: intendiamo partire da lì con l'ambizione di far balenare per tutti una scintilla di speranza.

È un tentativo -conclude il parroco di Norcia- che ambisce a far capire che i legami sui quali si fonda la comunità sono la risorsa senza la quale non c'è futuro, mai".

Il programma del laboratorio Ricominciamo dalla comunità

Gli incontri si terranno a San Pellegrino di Norcia, presso il Centro di comunità. Questo il calendario di aprile e maggio.

  • Giovedì 28 aprile alle ore 21 suor Roberta Vinerba, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi, parlerà sul tema La sobrietà del Vangelo virtù del terzo millennio.
  • Venerdì 6 maggio alle 21 l’avvocato Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, parlerà sul tema O siamo fratelli o crolla tutto.
  • Domenica 8 maggio alle ore 15: camminata verso la croce di San Pellegrino con partenza di fronte alla statua del Milite Ignoto.
  • Venerdì 13 maggio alle 21: incontro e dialogo con Donatella Tesei presidente della Giunta Regionale dell’Umbria sul tema Ricominciare dalla comunità.
  • Sabato 14 maggio alle 21 preghiera animata dall’Unitalsi con la statua della Madonna di Lourdes.
  • Domenica 15 maggio alle 17.30 processione per la festa di San Pellegrino.
  • Lunedì 16 maggio alle 18.30 collocazione delle campane in una modalità alternativa presso il centro di comunità e Messa presieduta dall’arcivescovo Renato Boccardo nella festa di San Pellegrino.
  • Venerdì 20 maggio alle 21 tavola rotonda sul tema Le comunità energetiche: una risposta popolare alla crisi. Intervengono: Stefania Proietti presidente della Provincia di Perugia e sindaco di Assisi; Bernardino Sperandio sindaco di Trevi e presidente dell’Unione dei Comuni delle terre dell’olio e del sagrantino; monsignor Paolo Giulietti arcivescovo di Lucca e presidente della commissione della Conferenza episcopale italiana per la famiglia i giovani e la vita. Modera don Marco Rufini.

]]>
Ricominciamo dalla comunità

Ricominciamo dalla comunità: un cammino nell’amicizia, è il laboratorio di idee promosso dall’ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, insieme alle comunità e alle Comunanze Agrarie di San Pellegrino e Frascaro di Norcia, all’Associazione per il sentiero del silenzio da Frascaro a Norcia e alla Pro San Pellegrino ASD. Una serie di iniziative, che si inseriscono nel Cammino Sinodale delle Chiese in Italia.

Senza i legami comunitari non c’è futuro

"Abbiamo pensato a questo percorso -afferma don Marco Rufini parroco di Norcia e direttore dell’ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi- in quanto crediamo che la realtà esiste per i legami tra le particelle infinitesimali, tutti egualmente importanti. Crediamo in questi legami. Non crediamo invece, nelle logiche dei centri minori e centri maggiori, del centro e delle periferie, delle capitali e delle succursali. Vogliamo ripartire dalla comunità: come fare?

Abbiamo pensato di avviare -prosegue don Marco- un laboratorio di idee che non sia solo accademica teoria, ma apra prospettive concrete, direzioni verso cui avviare cammini. Dove farlo? Abbiamo pensato di partire dai luoghi dove la marginalizzazione è più pesante, dove una piccola comunità prova a non arrendersi malgrado la sensazione di essere ridotta ad un'isola dove nessuno desidera attraccare sia proprio forte, consapevole però di poter diventare una meta che tanti cercano e ancora non conoscono. Inizieremo da due piccole comunità dell'area del cratere nursino: intendiamo partire da lì con l'ambizione di far balenare per tutti una scintilla di speranza.

È un tentativo -conclude il parroco di Norcia- che ambisce a far capire che i legami sui quali si fonda la comunità sono la risorsa senza la quale non c'è futuro, mai".

Il programma del laboratorio Ricominciamo dalla comunità

Gli incontri si terranno a San Pellegrino di Norcia, presso il Centro di comunità. Questo il calendario di aprile e maggio.

  • Giovedì 28 aprile alle ore 21 suor Roberta Vinerba, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi, parlerà sul tema La sobrietà del Vangelo virtù del terzo millennio.
  • Venerdì 6 maggio alle 21 l’avvocato Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, parlerà sul tema O siamo fratelli o crolla tutto.
  • Domenica 8 maggio alle ore 15: camminata verso la croce di San Pellegrino con partenza di fronte alla statua del Milite Ignoto.
  • Venerdì 13 maggio alle 21: incontro e dialogo con Donatella Tesei presidente della Giunta Regionale dell’Umbria sul tema Ricominciare dalla comunità.
  • Sabato 14 maggio alle 21 preghiera animata dall’Unitalsi con la statua della Madonna di Lourdes.
  • Domenica 15 maggio alle 17.30 processione per la festa di San Pellegrino.
  • Lunedì 16 maggio alle 18.30 collocazione delle campane in una modalità alternativa presso il centro di comunità e Messa presieduta dall’arcivescovo Renato Boccardo nella festa di San Pellegrino.
  • Venerdì 20 maggio alle 21 tavola rotonda sul tema Le comunità energetiche: una risposta popolare alla crisi. Intervengono: Stefania Proietti presidente della Provincia di Perugia e sindaco di Assisi; Bernardino Sperandio sindaco di Trevi e presidente dell’Unione dei Comuni delle terre dell’olio e del sagrantino; monsignor Paolo Giulietti arcivescovo di Lucca e presidente della commissione della Conferenza episcopale italiana per la famiglia i giovani e la vita. Modera don Marco Rufini.

]]>
Si fa presto a dire “pane”. Il discorso di Gesù sul “pane dal cielo” https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/ https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/#comments Sat, 31 Jul 2021 10:06:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61591

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>
https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/feed/ 1
Pentecoste. Il Cenacolo, la nostra culla https://www.lavoce.it/pentecoste-il-cenacolo-la-nostra-culla/ Fri, 21 May 2021 10:23:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60742

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>
Non ci sono tralci senza vite https://www.lavoce.it/non-ci-sono-tralci-senza-vite/ Fri, 30 Apr 2021 10:45:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60414

Il Vangelo di questa domenica ci propone l'immagine della vite e dei tralci con la quale Gesù spiega ai discepoli il rapporto tra lui (noi) e il Padre.

L'identità del Signore

“Io sono” (Gv 15,1) è il nome di Dio. Ce lo rivela il libro dell’Esodo. Mosè chiede a Colui che si è rivelato nel roveto ardente (Es 3,1-6) la sua identità. Dio gli risponde: “Io sono” (Es 3,13-15). Il termine non indica affatto un soggettivismo e individualismo estremo. Il Signore si era rivelato a Mosè già come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) e aveva definito Israele “suo popolo” (v. 7). Nell’inviare Mosè a liberare il suo popolo, non lo lascerà solo: “Io sarò con te” (v. 11).

Il Signore, mentre definisce la sua identità, dà un’identità anche a chi rimane in Lui, e crea un legame non di possesso, ma di amore liberante: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Mentre afferma la sua identità di Pastore Bello (“Io sono il Buon Pastore”, Gv 10,11), Gesù, definisce noi come il suo gregge (v. 14-15), per il quale dà la vita. Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa (Gv 10, 11-18).

Nel Vangelo che leggiamo in questa domenica, mentre si autodefinisce, “io sono la vite”, dà il nome a ciascuno di noi: “Voi siete i tralci” (Gv 15,5). Non solo definisce la relazione con noi: gregge e tralci, ma ci lega in stretta connessione anche con il Padre, a cui dà il nome di agricoltore (Gv 15,1).

L'immagine della vigna

Dall’immagine legata alla pastorizia, Gesù passa a descrivere le relazione con il Padre e con noi attraverso le immagini contadine legate alla vigna. Essa rappresenta fin dalla tradizione profetica l’immagine del popolo di Israele. Isaia descrive questa rappresentazione nel “canto della vigna” al capitolo 5: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (5,1).

Una vigna amata di cui il Signore è il custode: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa – cantatela! – Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).

La cura della vigna e la cura del Signore per noi

La cura della vigna è una perfetta simbologia della cura che il Signore ha nei confronti del suo popolo e per ciascuno di noi. Se non rimaniamo in Lui, perdiamo la nostra vita; se ci separiamo da Lui, la linfa vitale che ci tiene in vita non ci raggiunge più. Il testo descrive questo legame nel rapporto vite/tralci: i tralci hanno vita e producono i grappoli d’uva solo se rimangono innestati nella vite.

Così i nostri frutti di bene sono possibili solo se in profonda comunione con Lui. Affinché si producano frutti abbondanti, come la vite ha bisogno della potatura, così la nostra vita redenta ha bisogno di continua cura (Gv 15,2-3).

Le prove che sperimentiamo nella nostra vita di credenti accrescono la nostra capacità di amare, amplificando le nostre opere buone.

L’opera dell’agricoltore esprime la cura per la vigna non solo con la potatura, affinché la vite porti più frutto, ma anche con il taglio netto dei rami che sono diventati secchi. Non portano più frutto perché la linfa vitale, che procede dalla vite al tralcio, ha trovato un ostacolo.

Nella vita di fede, se ci lasciamo andare, se non curiamo più il legame vitale con il Signore, siamo come i rami secchi: morti, incapaci di generare nuova vita.

La vita di Paolo frutto della "potatura" del Signore

Nella Parola di questa domenica troviamo uno dei frutti più belli della potatura del Signore: Paolo di Tarso. Si definisce fariseo quanto alla legge, persecutore dei cristiani quanto allo zelo (Fil 3,5-6), e la sua fama era rimasta anche dopo la conversione: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui” (At 9,26).

Ma l’incontro con il Cristo risorto lo rende cieco alla sua pretesa di vedere (At 9,3-9).

Paolo ha iniziato invece a vedere con occhi nuovi, e lo stesso zelo si è trasformato nella passione per il Signore e per l’annuncio del Vangelo. Il legame con Cristo, per Paolo, è divenuto inscindibile dalla sua stessa vita: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Gesù ha preso possesso della sua vita, rendendolo veramente libero. Per questo, Paolo può affermare: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Ma anche Paolo, innamorato di Cristo, tutt’uno con Cristo, ha bisogno della Chiesa per verificare la verità del suo amore per Cristo. Ha bisogno di verificare se il suo insegnamento su Cristo non sia magari sua “invenzione” (Gal 2,2).

Infatti la prima lettura ci dice che Paolo “aveva predicato con coraggio a Damasco” e nello stesso tempo “andava e veniva da Gerusalemme” per stare con gli altri apostoli (At 9,27-28).

Amore per Cristo e amore per la Chiesa

L’amore per Cristo è inscindibile dall’amore per la Chiesa: l’amore per la Chiesa è prova dell’amore per Cristo. Il rimanere in Lui è reso possibile dal rimanere con la Chiesa: solo così si è discepoli di Cristo, e quindi tralci ricolmi di grappoli maturi.

 

]]>

Il Vangelo di questa domenica ci propone l'immagine della vite e dei tralci con la quale Gesù spiega ai discepoli il rapporto tra lui (noi) e il Padre.

L'identità del Signore

“Io sono” (Gv 15,1) è il nome di Dio. Ce lo rivela il libro dell’Esodo. Mosè chiede a Colui che si è rivelato nel roveto ardente (Es 3,1-6) la sua identità. Dio gli risponde: “Io sono” (Es 3,13-15). Il termine non indica affatto un soggettivismo e individualismo estremo. Il Signore si era rivelato a Mosè già come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) e aveva definito Israele “suo popolo” (v. 7). Nell’inviare Mosè a liberare il suo popolo, non lo lascerà solo: “Io sarò con te” (v. 11).

Il Signore, mentre definisce la sua identità, dà un’identità anche a chi rimane in Lui, e crea un legame non di possesso, ma di amore liberante: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Mentre afferma la sua identità di Pastore Bello (“Io sono il Buon Pastore”, Gv 10,11), Gesù, definisce noi come il suo gregge (v. 14-15), per il quale dà la vita. Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa (Gv 10, 11-18).

Nel Vangelo che leggiamo in questa domenica, mentre si autodefinisce, “io sono la vite”, dà il nome a ciascuno di noi: “Voi siete i tralci” (Gv 15,5). Non solo definisce la relazione con noi: gregge e tralci, ma ci lega in stretta connessione anche con il Padre, a cui dà il nome di agricoltore (Gv 15,1).

L'immagine della vigna

Dall’immagine legata alla pastorizia, Gesù passa a descrivere le relazione con il Padre e con noi attraverso le immagini contadine legate alla vigna. Essa rappresenta fin dalla tradizione profetica l’immagine del popolo di Israele. Isaia descrive questa rappresentazione nel “canto della vigna” al capitolo 5: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (5,1).

Una vigna amata di cui il Signore è il custode: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa – cantatela! – Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).

La cura della vigna e la cura del Signore per noi

La cura della vigna è una perfetta simbologia della cura che il Signore ha nei confronti del suo popolo e per ciascuno di noi. Se non rimaniamo in Lui, perdiamo la nostra vita; se ci separiamo da Lui, la linfa vitale che ci tiene in vita non ci raggiunge più. Il testo descrive questo legame nel rapporto vite/tralci: i tralci hanno vita e producono i grappoli d’uva solo se rimangono innestati nella vite.

Così i nostri frutti di bene sono possibili solo se in profonda comunione con Lui. Affinché si producano frutti abbondanti, come la vite ha bisogno della potatura, così la nostra vita redenta ha bisogno di continua cura (Gv 15,2-3).

Le prove che sperimentiamo nella nostra vita di credenti accrescono la nostra capacità di amare, amplificando le nostre opere buone.

L’opera dell’agricoltore esprime la cura per la vigna non solo con la potatura, affinché la vite porti più frutto, ma anche con il taglio netto dei rami che sono diventati secchi. Non portano più frutto perché la linfa vitale, che procede dalla vite al tralcio, ha trovato un ostacolo.

Nella vita di fede, se ci lasciamo andare, se non curiamo più il legame vitale con il Signore, siamo come i rami secchi: morti, incapaci di generare nuova vita.

La vita di Paolo frutto della "potatura" del Signore

Nella Parola di questa domenica troviamo uno dei frutti più belli della potatura del Signore: Paolo di Tarso. Si definisce fariseo quanto alla legge, persecutore dei cristiani quanto allo zelo (Fil 3,5-6), e la sua fama era rimasta anche dopo la conversione: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui” (At 9,26).

Ma l’incontro con il Cristo risorto lo rende cieco alla sua pretesa di vedere (At 9,3-9).

Paolo ha iniziato invece a vedere con occhi nuovi, e lo stesso zelo si è trasformato nella passione per il Signore e per l’annuncio del Vangelo. Il legame con Cristo, per Paolo, è divenuto inscindibile dalla sua stessa vita: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Gesù ha preso possesso della sua vita, rendendolo veramente libero. Per questo, Paolo può affermare: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Ma anche Paolo, innamorato di Cristo, tutt’uno con Cristo, ha bisogno della Chiesa per verificare la verità del suo amore per Cristo. Ha bisogno di verificare se il suo insegnamento su Cristo non sia magari sua “invenzione” (Gal 2,2).

Infatti la prima lettura ci dice che Paolo “aveva predicato con coraggio a Damasco” e nello stesso tempo “andava e veniva da Gerusalemme” per stare con gli altri apostoli (At 9,27-28).

Amore per Cristo e amore per la Chiesa

L’amore per Cristo è inscindibile dall’amore per la Chiesa: l’amore per la Chiesa è prova dell’amore per Cristo. Il rimanere in Lui è reso possibile dal rimanere con la Chiesa: solo così si è discepoli di Cristo, e quindi tralci ricolmi di grappoli maturi.

 

]]>
L’amore disinnesca l’odio https://www.lavoce.it/lamore-disinnesca-lodio/ Fri, 15 May 2020 14:29:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57146 logo reubrica commento al Vangelo

Il Vangelo di Giovanni di questa domenica VI di Pasqua ci accompagna ‘speditamente’ verso le prossime solennità pasquali: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). “E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi sempre, lo Spirito della verità” (vv. 16-17). In pochi versetti è racchiusa la garanzia del permanere del Risorto in mezzo ai suoi, che nel contesto dell’Ultima Cena affrontano il dolore di un annuncio: la sua morte, che avevamo accantonato, ma che ora diventa ineludibile. Una presenza che riguarda anche la comunità cristiana di sempre, quella delle origini, descritta nelle due letture che la liturgia ci propone; e in particolare la nostra comunità. Una comunità cristiana chiamata a risplendere nel mondo per la sua capacità di farsi sale, “sciogliendosi” nelle necessità dei fratelli. Filippo opera in Samaria, compiendo le opere di Gesù (At 8,5-8). Gesù aveva iniziato il suo ministero partendo proprio dalle necessità concrete del suo popolo. Ma per compiere le opere del Risorto non si può prescindere da lui e dall’amore per lui. Allora il mondo, anche quello che odia i cristiani, non avrà più alibi, perché le nostre opere portano l’eco di una vita donata, così come è descritta nella seconda lettura: “Questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1Pt 3,16).

Dirsi cristiani e poi sbraitare contro?

Certo, coloro che si dicono cristiani e hanno gridato per l’apertura al popolo della celebrazione eucaristica e poi hanno sbraitato sui social “stracciandosi le vesti” contro Silvia Romano e la sua conversione anziché gioire con la famiglia per il suo ritorno alla vita, non hanno certo “svergognato” coloro che non amano i credenti in Cristo, come ci ricorda san Pietro nella sua lettera (1Pt 3,16). cristiaA questi cristiani san Paolo ricorda la necessità di provare a fare sul serio con il Vangelo per accostarsi all’eucarestia (1Cor 11,23-29). Forse, questo tempo di digiuno eucaristico rischia di essere passato invano. È lecito domandarsi perché, l’odio verso i cristiani. A questo domanda ha già risposto Gesù: “Perché hanno odiato me” (Gv 15,18), riconoscendo un’attenuante al mondo: perché è incapace di riconoscere l’amore (14,17). L’odio rende freddo il cuore e acceca la vista. Ma è proprio questa la “differenza” cristiana: rimanere legati a Cristo significa pensare e agire come lui, con la consapevolezza che solo l’amore è capace di disinnescare la miccia dell’odio. Fa eco a questa visione sul mondo il pensiero di Paolo VI nel suo Testamento: “Non si creda di giovargli [al mondo] assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”. La successione di atteggiamenti che Paolo VI sintetizza, sembra esplicitare quanto ci dice san Pietro nella seconda lettura, in riferimento all’amore per Cristo: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15).

La nostra fede non è filosofia ma è un incontro

La nostra fede non è una filosofia, né una serie di regole morali da osservare, ma un incontro che stabilisce una relazione permanente. Essa necessita continuamente di essere rinnovata da “gesti e parole”, che ne diventano l’alimento necessario. Non si può prescindere dalla logica dell’Incarnazione, che è la via scelta da Dio e non può non essere anche la via della Chiesa. Di conseguenza possiamo dire che è anche il criterio di discernimento per il nostro agire e il nostro credere. Questa stupenda sintesi, che tiene insieme l’essere e l’agire del credente, delinea anche il giusto rapporto tra la libertà dell’amore e dell’amare, con la necessità dell’agire secondo l’amore, espresso nei Comandamenti. L’evangelista Giovanni delinea un interessante percorso in due affermazioni: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” e “chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,15.21). Sembrano esprimere lo stesso concetto, ma in realtà indicano un percorso e una priorità: l’amore liberamente ricevuto e accolto spinge a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi, e ci impone regole e atteggiamenti che non feriscano l’altro, che non tradiscano quella relazione che ci ha cambiato la vita. Allora scegliere di agire nel rispetto di quella relazione è accogliere i comandamenti, che diventano il segno di aver accolto quell’amore che è una Persona: Gesù Cristo, presente in mezzo a noi e nei fratelli. I comandamenti, e più in genere le regole morali, non definiscono l’amore, ma ne sono la custodia. Don Andrea Rossi]]>
logo reubrica commento al Vangelo

Il Vangelo di Giovanni di questa domenica VI di Pasqua ci accompagna ‘speditamente’ verso le prossime solennità pasquali: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). “E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi sempre, lo Spirito della verità” (vv. 16-17). In pochi versetti è racchiusa la garanzia del permanere del Risorto in mezzo ai suoi, che nel contesto dell’Ultima Cena affrontano il dolore di un annuncio: la sua morte, che avevamo accantonato, ma che ora diventa ineludibile. Una presenza che riguarda anche la comunità cristiana di sempre, quella delle origini, descritta nelle due letture che la liturgia ci propone; e in particolare la nostra comunità. Una comunità cristiana chiamata a risplendere nel mondo per la sua capacità di farsi sale, “sciogliendosi” nelle necessità dei fratelli. Filippo opera in Samaria, compiendo le opere di Gesù (At 8,5-8). Gesù aveva iniziato il suo ministero partendo proprio dalle necessità concrete del suo popolo. Ma per compiere le opere del Risorto non si può prescindere da lui e dall’amore per lui. Allora il mondo, anche quello che odia i cristiani, non avrà più alibi, perché le nostre opere portano l’eco di una vita donata, così come è descritta nella seconda lettura: “Questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1Pt 3,16).

Dirsi cristiani e poi sbraitare contro?

Certo, coloro che si dicono cristiani e hanno gridato per l’apertura al popolo della celebrazione eucaristica e poi hanno sbraitato sui social “stracciandosi le vesti” contro Silvia Romano e la sua conversione anziché gioire con la famiglia per il suo ritorno alla vita, non hanno certo “svergognato” coloro che non amano i credenti in Cristo, come ci ricorda san Pietro nella sua lettera (1Pt 3,16). cristiaA questi cristiani san Paolo ricorda la necessità di provare a fare sul serio con il Vangelo per accostarsi all’eucarestia (1Cor 11,23-29). Forse, questo tempo di digiuno eucaristico rischia di essere passato invano. È lecito domandarsi perché, l’odio verso i cristiani. A questo domanda ha già risposto Gesù: “Perché hanno odiato me” (Gv 15,18), riconoscendo un’attenuante al mondo: perché è incapace di riconoscere l’amore (14,17). L’odio rende freddo il cuore e acceca la vista. Ma è proprio questa la “differenza” cristiana: rimanere legati a Cristo significa pensare e agire come lui, con la consapevolezza che solo l’amore è capace di disinnescare la miccia dell’odio. Fa eco a questa visione sul mondo il pensiero di Paolo VI nel suo Testamento: “Non si creda di giovargli [al mondo] assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”. La successione di atteggiamenti che Paolo VI sintetizza, sembra esplicitare quanto ci dice san Pietro nella seconda lettura, in riferimento all’amore per Cristo: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15).

La nostra fede non è filosofia ma è un incontro

La nostra fede non è una filosofia, né una serie di regole morali da osservare, ma un incontro che stabilisce una relazione permanente. Essa necessita continuamente di essere rinnovata da “gesti e parole”, che ne diventano l’alimento necessario. Non si può prescindere dalla logica dell’Incarnazione, che è la via scelta da Dio e non può non essere anche la via della Chiesa. Di conseguenza possiamo dire che è anche il criterio di discernimento per il nostro agire e il nostro credere. Questa stupenda sintesi, che tiene insieme l’essere e l’agire del credente, delinea anche il giusto rapporto tra la libertà dell’amore e dell’amare, con la necessità dell’agire secondo l’amore, espresso nei Comandamenti. L’evangelista Giovanni delinea un interessante percorso in due affermazioni: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” e “chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,15.21). Sembrano esprimere lo stesso concetto, ma in realtà indicano un percorso e una priorità: l’amore liberamente ricevuto e accolto spinge a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi, e ci impone regole e atteggiamenti che non feriscano l’altro, che non tradiscano quella relazione che ci ha cambiato la vita. Allora scegliere di agire nel rispetto di quella relazione è accogliere i comandamenti, che diventano il segno di aver accolto quell’amore che è una Persona: Gesù Cristo, presente in mezzo a noi e nei fratelli. I comandamenti, e più in genere le regole morali, non definiscono l’amore, ma ne sono la custodia. Don Andrea Rossi]]>