comunità di Capodarco Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunita-di-capodarco/ Settimanale di informazione regionale Fri, 26 Mar 2021 14:53:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg comunità di Capodarco Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunita-di-capodarco/ 32 32 Due ragazze https://www.lavoce.it/due-ragazze/ Thu, 13 Feb 2020 15:05:09 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56280 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Sono morte quasi contemporaneamente. Parlo di due ragazze accolte nella mia Comunità di Capodarco dell’Umbria (che oggi, per la verità, è un po’ meno mia).

Cinzia

La prima delle due, Cinzia Coco, l’avevamo incontrata vent’anni fa sulla strada che da Rignano Garganico conduce a San Giovanni Rotondo: inchiodata alla sua carrozzina, ma mentalmente vivissima, e un fisico capace, al massimo, di battere i tasti di un pc. Aveva appena conseguito il diploma magistrale.

Bene, benissimo, ma purtroppo si apprestava a trascorrere a letto quasi la giornata intera, visto che, da una parte, i Servizi sociali non l’avrebbero più prelevata per portarla a scuola e, dall’altra, la sua piccola famiglia, oggettivamente, di assistenza gliene poteva garantire pochissima. “Vieni!”. Venne con noi a Perugia, Cinzia, nella Comunità di Capodarco dell’Umbria, prima a Prepo, poi a via Pennetti Pennella.

Alla facoltà di Economia si laureò con il prof. Cavazzoni, “Gianfri” per gli amici, che nell’atto di dichiararla dottore in Economia ebbe per lei e per la mia Comunità parole di oro fino. Poi Cinzia mise a frutto quello che aveva imparato e, grazie anche alle sue notevoli competenze informatiche, divenne segretaria dell’Acradu (Associazione cristiana residenze per anziani e disabili dell’Umbria), oggi presieduta dalla Di Maolo.

Poi l’ictus violentissimo, venti giorni fa. Nell’unico momento di riemersione della coscienza, ha mandato un saluto ai compagni di strada ai quali pensava di aver fatto torto.

Franca

L’altra, Franca Vagnarelli, era tornata a Gubbio da Torino quando suo padre Renato era andato in pensione dal lavoro, un lavoro fatto giorno dopo giorno obtorto collocon la ferma intenzione di farsi casa quaggiù. C’era riuscito, ma Franca a Gubbio s’era portata dentro da Torino un disagio più grande di lei, destinato a crescere dopo la morte del padre e a farsi patologico ogni giorno di più. E su di esso si sono accumulati tanti guai medici diversi, fino alla morte, sabato scorso.

Ci guardiamo in faccia, sgomenti, con le operatrici che con maggiore intensità hanno lavorato per e su Cinzia e Franca. Non è servito a niente, quel nostro impegno lungo, difficile, faticosamente rinnovato ogni giorno?

Nel tesoro del regno di Dio, gremito dei tentativi di bene approdati a niente, il Signore ha collocato tra i più preziosi ogni tentativo che chiunque abbia fatto per dare alle personalità ferite quello che loro spetta: il respiro della persona. Lode a Lui, che solo fa giustizia!

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di Angelo M. Fanucci

Sono morte quasi contemporaneamente. Parlo di due ragazze accolte nella mia Comunità di Capodarco dell’Umbria (che oggi, per la verità, è un po’ meno mia).

Cinzia

La prima delle due, Cinzia Coco, l’avevamo incontrata vent’anni fa sulla strada che da Rignano Garganico conduce a San Giovanni Rotondo: inchiodata alla sua carrozzina, ma mentalmente vivissima, e un fisico capace, al massimo, di battere i tasti di un pc. Aveva appena conseguito il diploma magistrale.

Bene, benissimo, ma purtroppo si apprestava a trascorrere a letto quasi la giornata intera, visto che, da una parte, i Servizi sociali non l’avrebbero più prelevata per portarla a scuola e, dall’altra, la sua piccola famiglia, oggettivamente, di assistenza gliene poteva garantire pochissima. “Vieni!”. Venne con noi a Perugia, Cinzia, nella Comunità di Capodarco dell’Umbria, prima a Prepo, poi a via Pennetti Pennella.

Alla facoltà di Economia si laureò con il prof. Cavazzoni, “Gianfri” per gli amici, che nell’atto di dichiararla dottore in Economia ebbe per lei e per la mia Comunità parole di oro fino. Poi Cinzia mise a frutto quello che aveva imparato e, grazie anche alle sue notevoli competenze informatiche, divenne segretaria dell’Acradu (Associazione cristiana residenze per anziani e disabili dell’Umbria), oggi presieduta dalla Di Maolo.

Poi l’ictus violentissimo, venti giorni fa. Nell’unico momento di riemersione della coscienza, ha mandato un saluto ai compagni di strada ai quali pensava di aver fatto torto.

Franca

L’altra, Franca Vagnarelli, era tornata a Gubbio da Torino quando suo padre Renato era andato in pensione dal lavoro, un lavoro fatto giorno dopo giorno obtorto collocon la ferma intenzione di farsi casa quaggiù. C’era riuscito, ma Franca a Gubbio s’era portata dentro da Torino un disagio più grande di lei, destinato a crescere dopo la morte del padre e a farsi patologico ogni giorno di più. E su di esso si sono accumulati tanti guai medici diversi, fino alla morte, sabato scorso.

Ci guardiamo in faccia, sgomenti, con le operatrici che con maggiore intensità hanno lavorato per e su Cinzia e Franca. Non è servito a niente, quel nostro impegno lungo, difficile, faticosamente rinnovato ogni giorno?

Nel tesoro del regno di Dio, gremito dei tentativi di bene approdati a niente, il Signore ha collocato tra i più preziosi ogni tentativo che chiunque abbia fatto per dare alle personalità ferite quello che loro spetta: il respiro della persona. Lode a Lui, che solo fa giustizia!

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Primo contatto con Capodarco https://www.lavoce.it/primo-contatto-capodarco/ Mon, 24 Jun 2019 11:00:28 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54760 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Sulla orme di Zincone, voglio andare vedere. 30 giugno 1970. A bordo della mia Citroen Dyane color giallo cacca di bambino, raggiungo per tempo Fermo. In piazza, alzo gli occhi e leggo “Piazza Temistocle Calzecchi Onesti”: oh, sì, il nonno della grande Rosina Calzecchi Onesti, commentatrice entusiasta del mio Ubaldo Baldassini novecento anni dopo (1985), autentica fan della Capodarco, oltre che braccio destro del card. Martini per la pastorale culturale della diocesi di Milano.

Fermo: Capodacqua è nelle vicinanze. “Sapreste indicarmi dov’è la Comunità di Capodacqua?”. “Capodacqua?! - l’omino si tormenta la barbicchia. - Ma no! Chissu cerca la Comunità de Capodarco, dove lu figghiu de lu bidellu ha r’dunato li spàstici!”. Il padre di don Franco, ’l sor Giggi, era uno dei bidelli delle famose Scuole tecniche Montani.

Scendo verso Porto San Giorgio, parcheggio a fianco all’antica villa Piccolomini, sulla cui facciata brillano le spie, quei rettangoli di vetro inseriti nella muratura: quando si spezzeranno, vorrà dire che la villa… si sarà “mossa”.

Accanto alla grande porta d’ingresso un cartellocanta: “Questa è la casa di tutti, entrate pure!”. E al suo stipite, toccandolo con la sommità della schiena e la sporgenza delle natiche, un distrofico, pancia molto in fuori per ragioni di equilibrio statico.

È Michele Rizzi, saprò che è un’autentica colonna della Comunità. Per adesso è solo un maleducato. “Mi scusi, potrebbe guidarmi in una visita alla Comunità?”. Appena uno sguardo, un ghigno di disgusto sulle labbra: “Hai piedi buoni, cammina! Se qualcosa di buono lo trovi, ne riparliamo. Altrimenti... amici come prima”. Amici o nemici, visto che non hai gradito il mio clergyman impeccabile, collarino romano incluso. “Cammina!”. Parlo con Alfredo Rasconi, genovese che vede tutto facile a onta della malattia che gli lascia libera solo la lingua. Maurizio Palazzetti dall’alto della sua carrozzina mi spiega come si sistemano nel grande letto due invalidi per volta: semplice, basta mettersi in senso inverso, e uno toglie i calzoni all’altro.

M’invitano a pranzo. Allungo il mio piatto in plastica flessibile prima a Ida che ha appena scodellato dal pentolone una colata lavica di spaghetti fumanti, poi al ragazzone che ha in mano il padellozzo con il condimento. All’ingresso della villa c’è uno scalone che sale su tutt’e quattro i lati: ogni gradino può comodamente ospitare quattro-sei mangianti, seduti, con il piatto sulle ginocchia. Che fame!

E riprendo a camminare, a chiedere, a osservare. Fino a sera. Sempre più disorientato.

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di Angelo M. Fanucci

Sulla orme di Zincone, voglio andare vedere. 30 giugno 1970. A bordo della mia Citroen Dyane color giallo cacca di bambino, raggiungo per tempo Fermo. In piazza, alzo gli occhi e leggo “Piazza Temistocle Calzecchi Onesti”: oh, sì, il nonno della grande Rosina Calzecchi Onesti, commentatrice entusiasta del mio Ubaldo Baldassini novecento anni dopo (1985), autentica fan della Capodarco, oltre che braccio destro del card. Martini per la pastorale culturale della diocesi di Milano.

Fermo: Capodacqua è nelle vicinanze. “Sapreste indicarmi dov’è la Comunità di Capodacqua?”. “Capodacqua?! - l’omino si tormenta la barbicchia. - Ma no! Chissu cerca la Comunità de Capodarco, dove lu figghiu de lu bidellu ha r’dunato li spàstici!”. Il padre di don Franco, ’l sor Giggi, era uno dei bidelli delle famose Scuole tecniche Montani.

Scendo verso Porto San Giorgio, parcheggio a fianco all’antica villa Piccolomini, sulla cui facciata brillano le spie, quei rettangoli di vetro inseriti nella muratura: quando si spezzeranno, vorrà dire che la villa… si sarà “mossa”.

Accanto alla grande porta d’ingresso un cartellocanta: “Questa è la casa di tutti, entrate pure!”. E al suo stipite, toccandolo con la sommità della schiena e la sporgenza delle natiche, un distrofico, pancia molto in fuori per ragioni di equilibrio statico.

È Michele Rizzi, saprò che è un’autentica colonna della Comunità. Per adesso è solo un maleducato. “Mi scusi, potrebbe guidarmi in una visita alla Comunità?”. Appena uno sguardo, un ghigno di disgusto sulle labbra: “Hai piedi buoni, cammina! Se qualcosa di buono lo trovi, ne riparliamo. Altrimenti... amici come prima”. Amici o nemici, visto che non hai gradito il mio clergyman impeccabile, collarino romano incluso. “Cammina!”. Parlo con Alfredo Rasconi, genovese che vede tutto facile a onta della malattia che gli lascia libera solo la lingua. Maurizio Palazzetti dall’alto della sua carrozzina mi spiega come si sistemano nel grande letto due invalidi per volta: semplice, basta mettersi in senso inverso, e uno toglie i calzoni all’altro.

M’invitano a pranzo. Allungo il mio piatto in plastica flessibile prima a Ida che ha appena scodellato dal pentolone una colata lavica di spaghetti fumanti, poi al ragazzone che ha in mano il padellozzo con il condimento. All’ingresso della villa c’è uno scalone che sale su tutt’e quattro i lati: ogni gradino può comodamente ospitare quattro-sei mangianti, seduti, con il piatto sulle ginocchia. Che fame!

E riprendo a camminare, a chiedere, a osservare. Fino a sera. Sempre più disorientato.

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Finalmente Capodarco https://www.lavoce.it/finalmente-capodarco/ Mon, 17 Jun 2019 08:46:51 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54726 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

E venne la stagione dei campi di lavoro. I miei studenti del Mse (Movimento studentesco eugubino) e io ci vergognavamo un po’ che i nostri coetanei lavoratori fruissero di un solo mese di ferie, mentre le ferie reali degli studenti e dei professori, qui a Gubbio, duravano molto a lungo: dai Ceri ai Santi, diciamo.

E allora cominciammo a inanellare, d’estate, un campo di lavoro dopo l’altro: quindici giorni qui ad aiutare certe suore che restauravano il loro convento, quindici giorni là a dare una mano agli scout che battevano il grano per una poverissima famiglia contadina… quindici giorni di grande impegno, anche fisico, a beneficio di questa o quell’iniziativa sociale.

Iniziative che spesso non costituivano una rispostaa necessità vere, e ci esponevano a pericoligratuiti. Una volta a Burano (la zona montuosa che si stende fra il nordest della provincia di Perugia e il sudovest della provincia di Pesaro Urbino), cieravamo offerti di aiutare una famiglia a falciarel’erba.

Famiglia povera, ma non imprudente. Quando il capofamiglia vide come uno dei nostri ragazzi impugnava la falce fienara (quella ad amplissima lama ricurva, in mano alla Morte scheletrica, rappresentata non come una “sorella”, ma come la giustiziera per antonomasia) per evitare spargimenti di sangue, gliela tolse di mano: “Perché ’nno state a casa, cocchi, ché fate meno danni?”.

Poi, nella primavera del 1970, al liceo Mazzatinti, durante l’intervallo delle ore 11 (insegnavo Italiano e Latino al corso B), apparve Ermanno Bei. Era il figlio di quel Giuseppe Bei Clementi, detto “Amabilino” a onta del suo reale spessore politico che lo volle più volte sindaco di Gubbio, e con onore, a parte la devozione per san Giuseppe Stalin.

Ermanno frequentava - avrebbe dovuto frequentare - l’Istituto tecnico industriale, ma molte mattinate le passava al Bar moderno, appena un passo sopra il “Mazzatinti”.

Quella mattina lo sguardo smaliziato di Ermanno cadde su un articolo del Corriere della Sera e pensò ben di farmelo conoscere: a pagina 3, la pagina culturale (N.B.!), Giuliano Zincone riferiva con entusiasmo sui quattro-cinque giorni bellissimi che aveva passato nella Comunità di Capodarco, anche se era pessimista sul suo futuro: “Mangia minga el panetùn!”, non arriva a Natale.

I contenuti dell’articolo non erano eccezionali. Zincone non aveva colto l’anima di quella comunità, e aveva intitolato il suo réportage Lavorano per sentirsi vivi, ma mi aveva ugualmente provocato. Dissi a me stesso: “Vado e vedo”.

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di Angelo M. Fanucci

E venne la stagione dei campi di lavoro. I miei studenti del Mse (Movimento studentesco eugubino) e io ci vergognavamo un po’ che i nostri coetanei lavoratori fruissero di un solo mese di ferie, mentre le ferie reali degli studenti e dei professori, qui a Gubbio, duravano molto a lungo: dai Ceri ai Santi, diciamo.

E allora cominciammo a inanellare, d’estate, un campo di lavoro dopo l’altro: quindici giorni qui ad aiutare certe suore che restauravano il loro convento, quindici giorni là a dare una mano agli scout che battevano il grano per una poverissima famiglia contadina… quindici giorni di grande impegno, anche fisico, a beneficio di questa o quell’iniziativa sociale.

Iniziative che spesso non costituivano una rispostaa necessità vere, e ci esponevano a pericoligratuiti. Una volta a Burano (la zona montuosa che si stende fra il nordest della provincia di Perugia e il sudovest della provincia di Pesaro Urbino), cieravamo offerti di aiutare una famiglia a falciarel’erba.

Famiglia povera, ma non imprudente. Quando il capofamiglia vide come uno dei nostri ragazzi impugnava la falce fienara (quella ad amplissima lama ricurva, in mano alla Morte scheletrica, rappresentata non come una “sorella”, ma come la giustiziera per antonomasia) per evitare spargimenti di sangue, gliela tolse di mano: “Perché ’nno state a casa, cocchi, ché fate meno danni?”.

Poi, nella primavera del 1970, al liceo Mazzatinti, durante l’intervallo delle ore 11 (insegnavo Italiano e Latino al corso B), apparve Ermanno Bei. Era il figlio di quel Giuseppe Bei Clementi, detto “Amabilino” a onta del suo reale spessore politico che lo volle più volte sindaco di Gubbio, e con onore, a parte la devozione per san Giuseppe Stalin.

Ermanno frequentava - avrebbe dovuto frequentare - l’Istituto tecnico industriale, ma molte mattinate le passava al Bar moderno, appena un passo sopra il “Mazzatinti”.

Quella mattina lo sguardo smaliziato di Ermanno cadde su un articolo del Corriere della Sera e pensò ben di farmelo conoscere: a pagina 3, la pagina culturale (N.B.!), Giuliano Zincone riferiva con entusiasmo sui quattro-cinque giorni bellissimi che aveva passato nella Comunità di Capodarco, anche se era pessimista sul suo futuro: “Mangia minga el panetùn!”, non arriva a Natale.

I contenuti dell’articolo non erano eccezionali. Zincone non aveva colto l’anima di quella comunità, e aveva intitolato il suo réportage Lavorano per sentirsi vivi, ma mi aveva ugualmente provocato. Dissi a me stesso: “Vado e vedo”.

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Quella sera, quella scritta https://www.lavoce.it/quella-sera-quella-scritta/ Mon, 15 Apr 2019 08:22:57 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54396 logo abat jour, rubrica settimanale

Dal giugno 1970, subito dopo i Campionati mondiali di calcio vinti dal Brasile di Pelè sull’Italia di Gigi Riva, con i ragazzi della seconda generazione del Movimento studenti eugubino (Vinicio Cacciamani, ’l Gige Lanuti, Renato Rogari, Paolo Lilli, l’infaticabile Lucio Lauri, e Leonardo, suo fratello faticabilissimo) per tutta l’estate c’immergemmo in Capodarco, campi di lavoro uno in fila all’altro. L’ultimo fu quello dell’1-4 novembre.

Ci avevano chiamato per realizzare la piattaforma in cemento sulla quale oggi sorge la grande sala del refettorio. Andammo, un pullmino. I ragazzi lavorarono sodo, la betoniera girò da mane a sera, l’impasto di cemento prese rapidamente a occupare lo spazio dovuto, ma la sera del 3 novembre ci rendemmo conto che con l’unica giornata che rimaneva non ce l’avremmo fatta a finire la gettata.

“Vuol dire che domattina cominciamo alle 4!”. Detto, fatto. Ci alzammo alle 3.30, alle 4 la betoniera riprese a girare, anche durante i pasti. Alla sera la gettata era completa. Cenammo verso le 10. Poi partimmo per Gubbio, sul pullmino che ci aveva procurato il dr. Alessandro, il padre di Alfonso e di Paolo. Dormivano tutti, tranne io e l’autista. L’autista guidava, io pensavo.

Pensavo a una vita alternativa della quale fino ad allora non avevo nemmeno sospettato l’esistenza. Sentivo crescere dentro di me il desiderio di venire a far parte di quella grande famiglia. Mi pareva che i miei primi dieci anni di sacerdozio fossero stati, se non sprecati, perlomeno sotto-utilizzati. Mi pareva che a Capodarco proprio non mancasse nulla per una vita degna di Colui che della convivenza e della condivisione con noi ha fatto il perno della sua presenza tra noi.

Come in un film, mi scorreva innanzi la parte disabile di quella famiglia: chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva a fatica sulle canadesi, chi si muoveva solo grazie al girello, chi respirava solo intubato. Ma nessuno piativa sulla propria condizione, nemmeno un po’; non parlavano di handicap, parlavano di emarginazione. Non si piangevano addosso.

Ragionavano su come avrebbero potuto cambiare il mondo, far sì che la Chiesa fosse finalmente ciò che aveva promesso che sarebbe stata. Ciò che di lei aveva detto colui al quale era intitolata la loro casa, Papa Giovanni: “La Chiesa è di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri”.

Che tu sia handicappato, perché sei nato con un cromosoma per traverso, e perché un tuffo sbagliato ti ha lesionato vertebre importanti… è successo, è un fatto, un evento, che ci vuoi fare? Ribellarsi non serve. Quello contro cui non solo puoi , ma devi ribellarti è l’emarginazione nella quale ti hanno relegato in seguito a quell’evento.

Era fatta. Mi addormentai anch’io, mentre il pullmino correva veloce. E credetti di vedere sul vetro di fondo alla vettura una scritta luminescente. Una Chiesa che, in prima fila, non si prende cura degli ultimi, è solo una congrega di buontemponi.

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Dal giugno 1970, subito dopo i Campionati mondiali di calcio vinti dal Brasile di Pelè sull’Italia di Gigi Riva, con i ragazzi della seconda generazione del Movimento studenti eugubino (Vinicio Cacciamani, ’l Gige Lanuti, Renato Rogari, Paolo Lilli, l’infaticabile Lucio Lauri, e Leonardo, suo fratello faticabilissimo) per tutta l’estate c’immergemmo in Capodarco, campi di lavoro uno in fila all’altro. L’ultimo fu quello dell’1-4 novembre.

Ci avevano chiamato per realizzare la piattaforma in cemento sulla quale oggi sorge la grande sala del refettorio. Andammo, un pullmino. I ragazzi lavorarono sodo, la betoniera girò da mane a sera, l’impasto di cemento prese rapidamente a occupare lo spazio dovuto, ma la sera del 3 novembre ci rendemmo conto che con l’unica giornata che rimaneva non ce l’avremmo fatta a finire la gettata.

“Vuol dire che domattina cominciamo alle 4!”. Detto, fatto. Ci alzammo alle 3.30, alle 4 la betoniera riprese a girare, anche durante i pasti. Alla sera la gettata era completa. Cenammo verso le 10. Poi partimmo per Gubbio, sul pullmino che ci aveva procurato il dr. Alessandro, il padre di Alfonso e di Paolo. Dormivano tutti, tranne io e l’autista. L’autista guidava, io pensavo.

Pensavo a una vita alternativa della quale fino ad allora non avevo nemmeno sospettato l’esistenza. Sentivo crescere dentro di me il desiderio di venire a far parte di quella grande famiglia. Mi pareva che i miei primi dieci anni di sacerdozio fossero stati, se non sprecati, perlomeno sotto-utilizzati. Mi pareva che a Capodarco proprio non mancasse nulla per una vita degna di Colui che della convivenza e della condivisione con noi ha fatto il perno della sua presenza tra noi.

Come in un film, mi scorreva innanzi la parte disabile di quella famiglia: chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva a fatica sulle canadesi, chi si muoveva solo grazie al girello, chi respirava solo intubato. Ma nessuno piativa sulla propria condizione, nemmeno un po’; non parlavano di handicap, parlavano di emarginazione. Non si piangevano addosso.

Ragionavano su come avrebbero potuto cambiare il mondo, far sì che la Chiesa fosse finalmente ciò che aveva promesso che sarebbe stata. Ciò che di lei aveva detto colui al quale era intitolata la loro casa, Papa Giovanni: “La Chiesa è di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri”.

Che tu sia handicappato, perché sei nato con un cromosoma per traverso, e perché un tuffo sbagliato ti ha lesionato vertebre importanti… è successo, è un fatto, un evento, che ci vuoi fare? Ribellarsi non serve. Quello contro cui non solo puoi , ma devi ribellarti è l’emarginazione nella quale ti hanno relegato in seguito a quell’evento.

Era fatta. Mi addormentai anch’io, mentre il pullmino correva veloce. E credetti di vedere sul vetro di fondo alla vettura una scritta luminescente. Una Chiesa che, in prima fila, non si prende cura degli ultimi, è solo una congrega di buontemponi.

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Senza titolo https://www.lavoce.it/senza-titolo/ Tue, 05 Mar 2019 08:00:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54131 logo abat jour, rubrica settimanale

Già: il titolo non serve, basta il logo della Comunità di Capodarco dell’Umbria, quella in cui io vivo dal 1974.

Sulla silhouette della nostra Umbria, quattro frecce. Frecce, movimento. Tre sono vuote, una sola è piena. Vuote: occorre riempirle.

Quella piena, quella che viene dall’alto, potremmo chiamarla la freccia di Gamaliele. Il vecchio rabbino, chiamato in Sinedrio (At 5, 3442) ad aggiungere la sua alla condanna contro quella setta che si ostinava a seguire Gesù, e che il Sinedrio aveva già pronunciato: “Che ne pensi? Li distruggiamo, sì o no?”. E lui: “Lasciate perdere. Se viene da Dio, non sarete voi a distruggerla; se non viene da Dio, finirà quanto prima di morte naturale”.

Freccia piena. Ma le tre vuote tocca a noi “riempirle”, a noi che per i motivi più diversi abbiamo scelto di vivere in una comunità di accoglienza. Riempirle con che cosa?

Siamo in piena araldica d’alto bordo, il latino è d’obbligo. Scrivete. Sono tre verbi, secchi e intensamente programmatici: compartiri , consociari , experiri.

Nella freccia vuota che va da sinistra verso il centro va scritto:

COMPARTIRI in corsivo, maiuscolo e neretto, perché è quella la freccia che dà sapore a tutta la baracca. Sulla freccia che sale dal basso verso l’alto: consociari .

Su quella cha da destra punta verso il centro: EXPERIRI.

Traduco, a 3 km dal più vicino liceo classico: compartiri = fare parte; consociari = mettersi insieme ad altri; experiri = tentare sempre nuove soluzioni.

Ma mettersi insieme e sperimentare sono sotto l’ombrello che dà loro significato, perché è il soggetto di tutta l’operazione, quel fare parte che permette di parlare di comunità, di vita comune, di vita condivisa. Se non è così, vuol dire che non siamo in presenza di una comunità di accoglienza, ma di qualcos’altro: un’associazione, bella, generosa, ma… ognuno a casa sua! Cornuto, il dilemma: condividere il cuore o condividere la vita?

Ma nella gerarchia dei nostri pensieri di seguaci dell’Uomo di Nazareth, al primo posto c’è chi di condivisione concreta nelle pieghe della vita di ogni giorno ha bisogno più che del pane, gente che da sola non si regge.

Se intervistassimo tutt’e 8 i miliardi di uomini che arrancano sulla faccia della Terra, ci inviterebbero tutti a “condividere il cuore” con i meno fortunati. Lui solo, quell’Uomo giovanissimo che è nato 2019 anni fa, ci direbbe che è la vita , in tutta la sua portata, che va condivisa con loro, i suoi preferiti.

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Già: il titolo non serve, basta il logo della Comunità di Capodarco dell’Umbria, quella in cui io vivo dal 1974.

Sulla silhouette della nostra Umbria, quattro frecce. Frecce, movimento. Tre sono vuote, una sola è piena. Vuote: occorre riempirle.

Quella piena, quella che viene dall’alto, potremmo chiamarla la freccia di Gamaliele. Il vecchio rabbino, chiamato in Sinedrio (At 5, 3442) ad aggiungere la sua alla condanna contro quella setta che si ostinava a seguire Gesù, e che il Sinedrio aveva già pronunciato: “Che ne pensi? Li distruggiamo, sì o no?”. E lui: “Lasciate perdere. Se viene da Dio, non sarete voi a distruggerla; se non viene da Dio, finirà quanto prima di morte naturale”.

Freccia piena. Ma le tre vuote tocca a noi “riempirle”, a noi che per i motivi più diversi abbiamo scelto di vivere in una comunità di accoglienza. Riempirle con che cosa?

Siamo in piena araldica d’alto bordo, il latino è d’obbligo. Scrivete. Sono tre verbi, secchi e intensamente programmatici: compartiri , consociari , experiri.

Nella freccia vuota che va da sinistra verso il centro va scritto:

COMPARTIRI in corsivo, maiuscolo e neretto, perché è quella la freccia che dà sapore a tutta la baracca. Sulla freccia che sale dal basso verso l’alto: consociari .

Su quella cha da destra punta verso il centro: EXPERIRI.

Traduco, a 3 km dal più vicino liceo classico: compartiri = fare parte; consociari = mettersi insieme ad altri; experiri = tentare sempre nuove soluzioni.

Ma mettersi insieme e sperimentare sono sotto l’ombrello che dà loro significato, perché è il soggetto di tutta l’operazione, quel fare parte che permette di parlare di comunità, di vita comune, di vita condivisa. Se non è così, vuol dire che non siamo in presenza di una comunità di accoglienza, ma di qualcos’altro: un’associazione, bella, generosa, ma… ognuno a casa sua! Cornuto, il dilemma: condividere il cuore o condividere la vita?

Ma nella gerarchia dei nostri pensieri di seguaci dell’Uomo di Nazareth, al primo posto c’è chi di condivisione concreta nelle pieghe della vita di ogni giorno ha bisogno più che del pane, gente che da sola non si regge.

Se intervistassimo tutt’e 8 i miliardi di uomini che arrancano sulla faccia della Terra, ci inviterebbero tutti a “condividere il cuore” con i meno fortunati. Lui solo, quell’Uomo giovanissimo che è nato 2019 anni fa, ci direbbe che è la vita , in tutta la sua portata, che va condivisa con loro, i suoi preferiti.

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Quarantacinque, cioè 55 – 10 https://www.lavoce.it/quarantacinque-55/ Tue, 22 Jan 2019 08:00:18 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53834 logo abat jour, rubrica settimanale

Il parto della mia autobiografia (Non per loro, ma con loro) si rivela laborioso più del previsto. E io continuo ad anticiparne qualche frammento, mentre un’équipe di ginecologi sta monitorando tempi e modi dell’evento.

Nel 1974, dopo tre anni di vita a Fabriano, condivisa con uno bel gruppo di disabili fisici nella comunità “La Buona Novella”, il primo manipolo di incoscienti si traferì con me a Gubbio per dare vita alla Comunità di San Girolamo (poi “Centro lavoro cultura”, infine Comunità di Capodarco dell’Umbria).

Ci siamo accampati alla bell’e meglio tra le rovine del fatiscente ex convento. Sul monte Ansciano: dei 5 monti presenti sullo stemma di Gubbio, è il primo per chi guarda - sulla destra del monte centrale, l’Ingino, il monte di sant’Ubaldo. Quasi subito da Siena una non meglio identificata assistente sociale (sig.ra Benci?) ci contattò: “Qui in ospedale abbiamo un bambino di dieci anni, tetraparetico e disartrico, ma in buona salute.

Noi possiamo offrirgli solo la pura sopravvivenza. Voi lo accogliereste nella vostra nascente comunità?”. Già. Sua madre l’ha depositato in ospedale sei anni fa, quando aveva quattro anni, ed è scomparsa. “Ha bisogno solo di una famiglia. Lo accogliereste nella vostra comunità, che nasce - ci dicono - come una famiglia?”.

Sì, certo! Andammo a trovarlo. Quinto piano dell’ospedale, gli incurabili. Si chiamava Franco M., oggi si chiama Franco Fanucci. In carrozzina. Sorridente in un reparto nel quale non c’era proprio nulla che autorizzasse un sorriso. Ma quando mi vide, mi chiamò “babbo”, e io andai in tilt. Erano gli anni dell’ideologia a briglia sciolta, che accreditavano i salti logici più spettacolari. “Mi ha chiamato ‘babbo’. Hai capito: babbo!

Vuoi mettere? A noi preti ci chiamano ‘padre’. Vuoi mettere la diversa portanza ideale fra babbo e padre. Vuoi mettere?”. Andammo a Siena in otto, a prelevarlo con un Ford Transit che cantava di gioia.

“Babbo”. Certo che ti prendiamo con noi! Dieci anni: sarai la mascotte della nostra nascente comunità. Poi scoprimmo che “babbo” era l’unica parola che Franco conosceva. Ma stavolta il salto logico, invece di spezzarmi le ossa, mi aveva procurato uno degli eventi più intensi della mia vita.

Perché quando raccontai l’accaduto a Giorgio Battistacci, giudice del Tribunale perugino per i minori, lui mi chiese, al termine di una risata che sembrava non voler finire più: “Perché non lo adotti?”. Detto, fatto. Al mezzo chilo di carte necessarie per l’adozione ci pensò lui.

Quarantacinque anni or sono. Oggi Franco ha 55 anni e ab illo tempore dorme nel letto accanto al mio, dorme di brutto. Il problema è quello di convincerlo a spegnere la tv.

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Il parto della mia autobiografia (Non per loro, ma con loro) si rivela laborioso più del previsto. E io continuo ad anticiparne qualche frammento, mentre un’équipe di ginecologi sta monitorando tempi e modi dell’evento.

Nel 1974, dopo tre anni di vita a Fabriano, condivisa con uno bel gruppo di disabili fisici nella comunità “La Buona Novella”, il primo manipolo di incoscienti si traferì con me a Gubbio per dare vita alla Comunità di San Girolamo (poi “Centro lavoro cultura”, infine Comunità di Capodarco dell’Umbria).

Ci siamo accampati alla bell’e meglio tra le rovine del fatiscente ex convento. Sul monte Ansciano: dei 5 monti presenti sullo stemma di Gubbio, è il primo per chi guarda - sulla destra del monte centrale, l’Ingino, il monte di sant’Ubaldo. Quasi subito da Siena una non meglio identificata assistente sociale (sig.ra Benci?) ci contattò: “Qui in ospedale abbiamo un bambino di dieci anni, tetraparetico e disartrico, ma in buona salute.

Noi possiamo offrirgli solo la pura sopravvivenza. Voi lo accogliereste nella vostra nascente comunità?”. Già. Sua madre l’ha depositato in ospedale sei anni fa, quando aveva quattro anni, ed è scomparsa. “Ha bisogno solo di una famiglia. Lo accogliereste nella vostra comunità, che nasce - ci dicono - come una famiglia?”.

Sì, certo! Andammo a trovarlo. Quinto piano dell’ospedale, gli incurabili. Si chiamava Franco M., oggi si chiama Franco Fanucci. In carrozzina. Sorridente in un reparto nel quale non c’era proprio nulla che autorizzasse un sorriso. Ma quando mi vide, mi chiamò “babbo”, e io andai in tilt. Erano gli anni dell’ideologia a briglia sciolta, che accreditavano i salti logici più spettacolari. “Mi ha chiamato ‘babbo’. Hai capito: babbo!

Vuoi mettere? A noi preti ci chiamano ‘padre’. Vuoi mettere la diversa portanza ideale fra babbo e padre. Vuoi mettere?”. Andammo a Siena in otto, a prelevarlo con un Ford Transit che cantava di gioia.

“Babbo”. Certo che ti prendiamo con noi! Dieci anni: sarai la mascotte della nostra nascente comunità. Poi scoprimmo che “babbo” era l’unica parola che Franco conosceva. Ma stavolta il salto logico, invece di spezzarmi le ossa, mi aveva procurato uno degli eventi più intensi della mia vita.

Perché quando raccontai l’accaduto a Giorgio Battistacci, giudice del Tribunale perugino per i minori, lui mi chiese, al termine di una risata che sembrava non voler finire più: “Perché non lo adotti?”. Detto, fatto. Al mezzo chilo di carte necessarie per l’adozione ci pensò lui.

Quarantacinque anni or sono. Oggi Franco ha 55 anni e ab illo tempore dorme nel letto accanto al mio, dorme di brutto. Il problema è quello di convincerlo a spegnere la tv.

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Fernanda https://www.lavoce.it/fernanda/ Tue, 15 Jan 2019 08:00:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53792 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Attingo di nuovo a Non per loro ma con loro, la mia autobiografia di imminente pubblicazione.

Immaginate la scena, in una delle nostre infinite assemblee comunitarie: stiamo parlando della situazione dei nostri amici in Ecuador - da quando, nel 1990, da Capodarco è partito il progetto “El pobre ayuda al pobre” (Il povero aiuta il povero), e a noi di Gubbio è stato assegnato come campo di impegno “El pays de oro y de azul” (Il Paese d’oro e d’azzurro), cioè l’Ecuador, o meglio il nord dell’Ecuador, quello verso la Colombia dei rubinetti d’oro massiccio di Pablo Escobar.

Facciamo centro sulla città di Ibarra e sul distretto che vi fa capo. Ne abbiamo portate avanti diverse, di iniziative, con buoni risultati e qualche buco nell’acqua, ma i bisogni sopravanzano sempre il nostro povero impegno. Continuiamo o rinunciamo? Di questo stiamo discutendo.

E qui che interviene Fernanda: “No! No! Una mano bisogna continuare a dargliela!”. Lo sghignazzo nero del solito beota: “Eh già, se lo dici tu…!”.

“Se lo dici tu” perché Fernanda non ha mani, né piedi, ma due tronconi di braccia e due tronconi di gambe. È focomelica. Ci è nata, grazie alla Talidomide, un analgesico proveniente dalla Germania, assunto da sua madre mentre era incinta di lei.

Appena nata (a Branca di Gubbio, nel 1961), Fernanda si trasferì con la famiglia a Torino, dove suo padre lavorava, e a 9 mesi venne ricoverata al Cottolengo, che nell’immaginario collettivo del tempo era un “ricovero per uominimostri”. Al Cottolengo Fernanda rimane fino all’età di 25 anni, quando don Benito Cattaneo mi chiese se nella mia Comunità di San Girolamo c’era posto per lei.

C’era, c’era. E Fernanda, prima a San Girolamo, oggi nella residenza di Padule Stazione e nel centro diurno “Le farfalle”, a 58 anni è diventata una colonna della comunità. A parte il fatto che, grazie ad apposite protesi, molte operazioni di vita ordinaria riesce a farle da sola, ma riesce anche a ricamare, e come! E poi cura molto il proprio aspetto fisico. È bella, e ha una parola buona per tutti. Tace, ti fissa. E tu capisci che la vita è bella.

Fernanda non si tira mai indietro. È sempre la prima a offrirsi per le incombenze che via via si presentano e che lei può assolvere. A lungo si è presa cura della prof.ssa Paola Tosti, che soffre di Sla e va seguita in quasi tutte le operazioni di vita quotidiana.

Francesca, una nostra operatrice, ha avvertito un brivido quando ha letto la letterina che Fernanda aveva scritto a Gesù Bambino. Chiedeva. Ma non per se stessa. Chiedeva una radiolina per le operatrici addette alla lavanderia: “Rischiano di rimanere sole troppo a lungo!”.

La ditta tedesca che produceva il farmaco che causò la focomelia di Fernanda ne tenne nascosta a lungo la pericolosità per le donne incinte; a lungo, fino al 1961. Almeno 17.000 i parti focomelici. Ma solo nel settembre 2012 i ‘padroni delle ferriere’ hanno porto le proprie scuse ufficiali ai danneggiati. E hanno tirato fuori buoni soldoni. Fernanda ne ha usata la prima tranche per acquistare non una macchina per sé, ma un pulmino per la Comunità.

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di Angelo M. Fanucci

Attingo di nuovo a Non per loro ma con loro, la mia autobiografia di imminente pubblicazione.

Immaginate la scena, in una delle nostre infinite assemblee comunitarie: stiamo parlando della situazione dei nostri amici in Ecuador - da quando, nel 1990, da Capodarco è partito il progetto “El pobre ayuda al pobre” (Il povero aiuta il povero), e a noi di Gubbio è stato assegnato come campo di impegno “El pays de oro y de azul” (Il Paese d’oro e d’azzurro), cioè l’Ecuador, o meglio il nord dell’Ecuador, quello verso la Colombia dei rubinetti d’oro massiccio di Pablo Escobar.

Facciamo centro sulla città di Ibarra e sul distretto che vi fa capo. Ne abbiamo portate avanti diverse, di iniziative, con buoni risultati e qualche buco nell’acqua, ma i bisogni sopravanzano sempre il nostro povero impegno. Continuiamo o rinunciamo? Di questo stiamo discutendo.

E qui che interviene Fernanda: “No! No! Una mano bisogna continuare a dargliela!”. Lo sghignazzo nero del solito beota: “Eh già, se lo dici tu…!”.

“Se lo dici tu” perché Fernanda non ha mani, né piedi, ma due tronconi di braccia e due tronconi di gambe. È focomelica. Ci è nata, grazie alla Talidomide, un analgesico proveniente dalla Germania, assunto da sua madre mentre era incinta di lei.

Appena nata (a Branca di Gubbio, nel 1961), Fernanda si trasferì con la famiglia a Torino, dove suo padre lavorava, e a 9 mesi venne ricoverata al Cottolengo, che nell’immaginario collettivo del tempo era un “ricovero per uominimostri”. Al Cottolengo Fernanda rimane fino all’età di 25 anni, quando don Benito Cattaneo mi chiese se nella mia Comunità di San Girolamo c’era posto per lei.

C’era, c’era. E Fernanda, prima a San Girolamo, oggi nella residenza di Padule Stazione e nel centro diurno “Le farfalle”, a 58 anni è diventata una colonna della comunità. A parte il fatto che, grazie ad apposite protesi, molte operazioni di vita ordinaria riesce a farle da sola, ma riesce anche a ricamare, e come! E poi cura molto il proprio aspetto fisico. È bella, e ha una parola buona per tutti. Tace, ti fissa. E tu capisci che la vita è bella.

Fernanda non si tira mai indietro. È sempre la prima a offrirsi per le incombenze che via via si presentano e che lei può assolvere. A lungo si è presa cura della prof.ssa Paola Tosti, che soffre di Sla e va seguita in quasi tutte le operazioni di vita quotidiana.

Francesca, una nostra operatrice, ha avvertito un brivido quando ha letto la letterina che Fernanda aveva scritto a Gesù Bambino. Chiedeva. Ma non per se stessa. Chiedeva una radiolina per le operatrici addette alla lavanderia: “Rischiano di rimanere sole troppo a lungo!”.

La ditta tedesca che produceva il farmaco che causò la focomelia di Fernanda ne tenne nascosta a lungo la pericolosità per le donne incinte; a lungo, fino al 1961. Almeno 17.000 i parti focomelici. Ma solo nel settembre 2012 i ‘padroni delle ferriere’ hanno porto le proprie scuse ufficiali ai danneggiati. E hanno tirato fuori buoni soldoni. Fernanda ne ha usata la prima tranche per acquistare non una macchina per sé, ma un pulmino per la Comunità.

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Quel campo di lavoro https://www.lavoce.it/quel-campo-lavoro/ Tue, 25 Dec 2018 08:00:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53706 logo abat jour, rubrica settimanale

di Angelo M. Fanucci

Quando, nel 1979, Giovanni Paolo II lo nominò arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, rettore dell’Istituto Biblico di Roma, volle prepararsi all’ufficializzazione della sua nomina non con la tradizionale settimana di esercizi spirituali, ma partecipando per una settimana a uno dei campi di lavoro con i quali tantissimi giovani, italiani, belgi, francesi… rendevano abitabile la vetusta villa Piccolomini di Capodarco di Fermo, divenuta Casa Papa Giovanni, la prima delle Comunità di Capodarco.

Forse ospite di un conventino fuori mano, dal lunedì al sabato, ogni mattina alle 8 si presentò a Casa Papa Giovanni e si mise a disposizione della Comunità. Si qualificò come “fratel Carlo”.

Dapprima, lui così fisicamente imponente, fu assegnato come manovale al muratore, Antonio, un quintale di muscoli e mezzo quintale di grasso, cinturone a mo’ di sottopanza. Che lo licenziò entro il primo quarto d’ora: “Ma che ci faccio con questo mollaccione?! Ma non vedete che c’ha le mani da pianista?!”.

Via, in cucina, a pelare patate! I campisti erano molti, più di cento, e tutti dotati di appetito robusto. E lui pelò patate per tutti, per giorni interi. Calmo, paziente, sempre con il sorriso sulle labbra. A lavorare fianco a fianco con lui in cucina c’era Rosaria Pugliese, una ragazza bruttina e cecuziente, che ogni tanto soffriva di forti morsi di epilessia. Qualche tempo dopo la poverina sarebbe deceduta, cadendo da una finestra, per uno di quei morsi.

Gomito a gomito, parlarono a lungo, Rosaria e fratel Carlo. Lui, dottissimo preside dell’Istituto Biblico. Lei, trentenne fresca di bocciatura agli esami di terza media (alla domanda: “Chi sono i nomadi?” aveva risposto: “Un complesso”. Bocciata). Ma adesso Rosaria scriveva poesie per fratel Carlo. “Poesie”: dopo avere condecentemente maltrattato la lingua italiana, andava a capo ogni tanto. E fratel Carlo le regalerà, con tanto di dedica, la prima copia di una monumentale edizione della Bibbia edita a sua cura.

La domenica fratel Carlo partecipa alla messa della Comunità. In fondo. In silenzio. All’omelia don Vinicio commenta il Vangelo e invita i presenti a dire la loro. “E… fratel Carlo non ha qualcosa da dirci?”. Lui si schermisce, Vinicio insiste.

Cercò di... volare basso, non ci riuscì. Come chiedere a Leonardo: “Mi fai uno scarabocchio, per favore?”. Finita la messa, lo strinsero all’angolo. Chi sei? E lui svelò la propria identità. Salutò. “Domani parto. Sono stato molto bene con voi”. Pochi giorni dopo uscì la sua sua nomina ad arcivescovo di Milano. Rosaria batteva le mani come una pazza.

Questo è uno dei tanti episodi che gremiscono il libro che sto per pubblicare, Non per loro ma con loro. Una vita così così, la mia. Ma il ricavato del libro va a beneficio della Finca Cjudad de Gubio, che a Lita, in Ecuador, accoglie quelli che furono vent’anni fa bambini abbandonati in strada, e oggi lavorano per il futuro proprio e di altri bambini abbandonati.

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di Angelo M. Fanucci

Quando, nel 1979, Giovanni Paolo II lo nominò arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, rettore dell’Istituto Biblico di Roma, volle prepararsi all’ufficializzazione della sua nomina non con la tradizionale settimana di esercizi spirituali, ma partecipando per una settimana a uno dei campi di lavoro con i quali tantissimi giovani, italiani, belgi, francesi… rendevano abitabile la vetusta villa Piccolomini di Capodarco di Fermo, divenuta Casa Papa Giovanni, la prima delle Comunità di Capodarco.

Forse ospite di un conventino fuori mano, dal lunedì al sabato, ogni mattina alle 8 si presentò a Casa Papa Giovanni e si mise a disposizione della Comunità. Si qualificò come “fratel Carlo”.

Dapprima, lui così fisicamente imponente, fu assegnato come manovale al muratore, Antonio, un quintale di muscoli e mezzo quintale di grasso, cinturone a mo’ di sottopanza. Che lo licenziò entro il primo quarto d’ora: “Ma che ci faccio con questo mollaccione?! Ma non vedete che c’ha le mani da pianista?!”.

Via, in cucina, a pelare patate! I campisti erano molti, più di cento, e tutti dotati di appetito robusto. E lui pelò patate per tutti, per giorni interi. Calmo, paziente, sempre con il sorriso sulle labbra. A lavorare fianco a fianco con lui in cucina c’era Rosaria Pugliese, una ragazza bruttina e cecuziente, che ogni tanto soffriva di forti morsi di epilessia. Qualche tempo dopo la poverina sarebbe deceduta, cadendo da una finestra, per uno di quei morsi.

Gomito a gomito, parlarono a lungo, Rosaria e fratel Carlo. Lui, dottissimo preside dell’Istituto Biblico. Lei, trentenne fresca di bocciatura agli esami di terza media (alla domanda: “Chi sono i nomadi?” aveva risposto: “Un complesso”. Bocciata). Ma adesso Rosaria scriveva poesie per fratel Carlo. “Poesie”: dopo avere condecentemente maltrattato la lingua italiana, andava a capo ogni tanto. E fratel Carlo le regalerà, con tanto di dedica, la prima copia di una monumentale edizione della Bibbia edita a sua cura.

La domenica fratel Carlo partecipa alla messa della Comunità. In fondo. In silenzio. All’omelia don Vinicio commenta il Vangelo e invita i presenti a dire la loro. “E… fratel Carlo non ha qualcosa da dirci?”. Lui si schermisce, Vinicio insiste.

Cercò di... volare basso, non ci riuscì. Come chiedere a Leonardo: “Mi fai uno scarabocchio, per favore?”. Finita la messa, lo strinsero all’angolo. Chi sei? E lui svelò la propria identità. Salutò. “Domani parto. Sono stato molto bene con voi”. Pochi giorni dopo uscì la sua sua nomina ad arcivescovo di Milano. Rosaria batteva le mani come una pazza.

Questo è uno dei tanti episodi che gremiscono il libro che sto per pubblicare, Non per loro ma con loro. Una vita così così, la mia. Ma il ricavato del libro va a beneficio della Finca Cjudad de Gubio, che a Lita, in Ecuador, accoglie quelli che furono vent’anni fa bambini abbandonati in strada, e oggi lavorano per il futuro proprio e di altri bambini abbandonati.

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Una nuova residenza della Comunità Capodarco a Perugia https://www.lavoce.it/nuova-residenza-capodarco-perugia/ Thu, 13 Sep 2018 10:45:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=52814 Capodarco Perugia

Stare dalla parte di chi non ha diritti, con l’impegno concreto di “accogliere, condividere e progettare il futuro” perché anche “i non tutelati e i non garantiti si formino una coscienza dei loro diritti e doveri per diventare i soggetti della propria liberazione e riscatto”. Dal 1966 la Comunità di Capodarco ha compiuto questa scelta. Erano 13 i disabili accolti dal fondatore, don Franco Monterubbianesi, in una villa abbandonata nel paesino marchigiano dal quale ha preso il nome.

Oggi, attraverso varie comunità locali, opera in diverse regioni italiane, dalla Sicilia al Veneto, e anche in Paesi come Albania, Camerun, Ecuador e Kosovo. Una di queste è la Comunità di Capodarco di Perugia onlus. È stata costituita ufficialmente nel 2000, in seguito alla divisione territoriale della Comunità di Capodarco dell’Umbria, ma operava nel capoluogo sin dal 1979, gestendo strutture di accoglienza per persone con disabilità fisica e psichica e per persone svantaggiate. Attualmente sono cinque (tre centri diurni e due strutture residenziali) e assistono complessivamente 57 persone.

Sabato 15 settembre diventeranno però sei con l’apertura della nuova residenza “Casamia” a Prepo, con otto posti letto. Nel pomeriggio, alle 16, è in programma la cerimonia di inaugurazione. Ospiterà persone con disabilità grave che non hanno familiari e parenti in grado di assisterle. È stata realizzata in un edificio dell’Opera pia Marzolini, dove già c’è un centro diurno della comunità, con lavori di ristrutturazione costati circa mezzo milione di euro.

Uno sforzo economico reso possibile - spiega Francesca Bondi, presidente della onlus perugina e vice presidente nazionale della Conunità Capodarco - dal contributo determinante della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia, ma anche dalla generosità di tanti amici. Tra questi l’associazione “Ottavo giorno”, della quale fanno parte genitori e tutori degli ospiti della comunità e altre persone che hanno scelto di impegnarsi sui problemi della emarginazione e della disabilità.

“Il rapporto con la famiglia e con la società è fondamentale - sottolinea Bondi - per sperimentare nuovi modelli relazionali e ricevere sollecitazioni verso ulteriori forme di autonomia. Nei valori della Comunità la persona è infatti al centro del suo progetto educativo, riabilitativo e terapeutico e l’assistenza viene erogata in base a programmi personalizzati”.

Gli ospiti sono impegnati anche nello svolgimento dei lavori domestici. “Sono molto importanti - continua la presidente - anche le attività di inserimento lavorativo, in collaborazione con i Servizi del territorio, per ospiti con una discreta autonomia”. Grazie anche allo strumento delle “borse lavoro per disabili”, alcuni di loro hanno trovato occupazione stabile. Francesca Bondi cita il caso di un assistito che ora lavora per McDonald. È in fase sperimentale il progetto “Coloriamo la vita” in collaborazione con l’azienda “Idea mode” di Cannara. Saranno gli ospiti della comunità a disegnare e decorare capi di abbigliamento e accessori dell’azienda.

Di questo sforzo di apertura alla società fanno parte altre esperienze, come l’accoglienza nelle proprie strutture dei giovani “messi in prova” dal Tribunale per i minori. Strutture frequentate e animate anche da tanti altri giovani impegnati nel servizio civile e in tirocini formativi. Poi ci sono i volontari, che si mettono a disposizione per tante attività, come quelle di accompagnare i disabili a uno spettacolo o altri eventi pubblici. Anche se - sottolinea con un po’ di amarezza la presidente - “negli ultimi anni i volontari sono sempre di meno, forse perché la gente prima di tutto ha bisogno di trovare un lavoro pagato”.

C’è poi il problema dei tagli alle spese per la sanità. “Non si può fare ricadere sui più deboli il peso della fragilità economica che stiamo vivendo: non è giusto, è inammissibile” afferma categorica Bondi nel commentare i tagli alle spese per la sanità pubblica. “Tagli - afferma - che hanno influenzato anche i servizi che l’Umbria aveva sempre offerto in questo settore. Le rette pro-capite pagate dal settore pubblico per l’assistenza fornita nelle nostre strutture sono insufficienti. Rette che - ha spiegato parlandone con La Voce - non sono differenziate in base ai servizi di assistenza e riabilitazione necessari per i singoli assistiti. La Presidente regionale e l’assessore alla Sanità - ha concluso - ci hanno assicurato il loro impegno. Siamo in attesa”.

Enzo Ferrini

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Capodarco Perugia

Stare dalla parte di chi non ha diritti, con l’impegno concreto di “accogliere, condividere e progettare il futuro” perché anche “i non tutelati e i non garantiti si formino una coscienza dei loro diritti e doveri per diventare i soggetti della propria liberazione e riscatto”. Dal 1966 la Comunità di Capodarco ha compiuto questa scelta. Erano 13 i disabili accolti dal fondatore, don Franco Monterubbianesi, in una villa abbandonata nel paesino marchigiano dal quale ha preso il nome.

Oggi, attraverso varie comunità locali, opera in diverse regioni italiane, dalla Sicilia al Veneto, e anche in Paesi come Albania, Camerun, Ecuador e Kosovo. Una di queste è la Comunità di Capodarco di Perugia onlus. È stata costituita ufficialmente nel 2000, in seguito alla divisione territoriale della Comunità di Capodarco dell’Umbria, ma operava nel capoluogo sin dal 1979, gestendo strutture di accoglienza per persone con disabilità fisica e psichica e per persone svantaggiate. Attualmente sono cinque (tre centri diurni e due strutture residenziali) e assistono complessivamente 57 persone.

Sabato 15 settembre diventeranno però sei con l’apertura della nuova residenza “Casamia” a Prepo, con otto posti letto. Nel pomeriggio, alle 16, è in programma la cerimonia di inaugurazione. Ospiterà persone con disabilità grave che non hanno familiari e parenti in grado di assisterle. È stata realizzata in un edificio dell’Opera pia Marzolini, dove già c’è un centro diurno della comunità, con lavori di ristrutturazione costati circa mezzo milione di euro.

Uno sforzo economico reso possibile - spiega Francesca Bondi, presidente della onlus perugina e vice presidente nazionale della Conunità Capodarco - dal contributo determinante della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia, ma anche dalla generosità di tanti amici. Tra questi l’associazione “Ottavo giorno”, della quale fanno parte genitori e tutori degli ospiti della comunità e altre persone che hanno scelto di impegnarsi sui problemi della emarginazione e della disabilità.

“Il rapporto con la famiglia e con la società è fondamentale - sottolinea Bondi - per sperimentare nuovi modelli relazionali e ricevere sollecitazioni verso ulteriori forme di autonomia. Nei valori della Comunità la persona è infatti al centro del suo progetto educativo, riabilitativo e terapeutico e l’assistenza viene erogata in base a programmi personalizzati”.

Gli ospiti sono impegnati anche nello svolgimento dei lavori domestici. “Sono molto importanti - continua la presidente - anche le attività di inserimento lavorativo, in collaborazione con i Servizi del territorio, per ospiti con una discreta autonomia”. Grazie anche allo strumento delle “borse lavoro per disabili”, alcuni di loro hanno trovato occupazione stabile. Francesca Bondi cita il caso di un assistito che ora lavora per McDonald. È in fase sperimentale il progetto “Coloriamo la vita” in collaborazione con l’azienda “Idea mode” di Cannara. Saranno gli ospiti della comunità a disegnare e decorare capi di abbigliamento e accessori dell’azienda.

Di questo sforzo di apertura alla società fanno parte altre esperienze, come l’accoglienza nelle proprie strutture dei giovani “messi in prova” dal Tribunale per i minori. Strutture frequentate e animate anche da tanti altri giovani impegnati nel servizio civile e in tirocini formativi. Poi ci sono i volontari, che si mettono a disposizione per tante attività, come quelle di accompagnare i disabili a uno spettacolo o altri eventi pubblici. Anche se - sottolinea con un po’ di amarezza la presidente - “negli ultimi anni i volontari sono sempre di meno, forse perché la gente prima di tutto ha bisogno di trovare un lavoro pagato”.

C’è poi il problema dei tagli alle spese per la sanità. “Non si può fare ricadere sui più deboli il peso della fragilità economica che stiamo vivendo: non è giusto, è inammissibile” afferma categorica Bondi nel commentare i tagli alle spese per la sanità pubblica. “Tagli - afferma - che hanno influenzato anche i servizi che l’Umbria aveva sempre offerto in questo settore. Le rette pro-capite pagate dal settore pubblico per l’assistenza fornita nelle nostre strutture sono insufficienti. Rette che - ha spiegato parlandone con La Voce - non sono differenziate in base ai servizi di assistenza e riabilitazione necessari per i singoli assistiti. La Presidente regionale e l’assessore alla Sanità - ha concluso - ci hanno assicurato il loro impegno. Siamo in attesa”.

Enzo Ferrini

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Trentatré, cioè trenta più tre https://www.lavoce.it/trentatre-cioe-trenta-piu-tre/ Sat, 25 Nov 2017 08:00:11 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50655 logo abat jour, rubrica settimanale

di don Angelo M. Fanucci Risalendo in macchina per tornare a Gubbio dopo il primo contatto con la Comunità di Capodarco, anno del Signore 1970. Giorno 30 giugno. A sera. Che senso ha avuto l’esperienza turbinosa che ho vissuto, quel ribollire di progetti di vita uno più futuribile dell’altro, formulati poi da gente che della propria vita fisica, ma anche mentale, ne domina solo una parte? Che senso hanno tutte queste provocazioni contro lo Stato, tutti questi imperativi categorici rivolti alla Chiesa? Che cosa c’è davvero dietro quello che ho intravisto in quei 10 anni di vita che ho vissuto concentrati nelle 7-8 ore che ho passato a Casa Papa Giovanni? È vita, è tutta vita. Ma che tipo di vita, che razza di vita è questa? “È quilla che t’ha ’nsegnato lo Prinicpale tuo!”, m’ha detto Lucio. La vita che m’ha insegnato “il mio Principale”, Gesù di Nazareth. Cioè? La riposta giusta lì per lì mi risultò incomprensibile. Poi però… Il primato dei poveri, che il Concilio ha sancito come normalità assoluta della prassi vitale della Chiesa, ha avuto tante formulazioni. Formulazioni concettualmente elaborate, sistemate dal punto di vista teologico in relazione al Deus creans, o al Deus elevans, o al Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis dell’ultimo giorno, quando tutto sarà al posto che da sempre gli competeva. Ma nel clima culturale di Casa Papa Giovanni la concettualizzazione è difficile, per ovvi motivi: quasi tutti i disabili protagonisti hanno spuntato appena la quinta elementare. Bisogna parlare utilizzando non le idee astratte, ma la storia. La storia. La vita in termini di storia, E in termini di storia - dicono loro - il mio (il nostro) “Principale” per 30 anni ha condiviso la vita degli ultimi della scala sociale e poi, per tre anni, da predicatore itinerante, ha spiegato che la condivisione è il valore fondamentale della vita. Effettivamente i nazaretani erano gli scemi d’Israele. Lo dice il motto col quale Natanaele reagì a Filippo che gli aveva parlato di un certo Gesù come possibile Messia. “Da dove viene?”. “Da Nazareth”. Risata grassoccia: “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?!”. Gli è venuta dal cuore, ma non se l’è inventata lui. È un proverbio che circola, forse da secoli. Un proverbio. Lo dicono tutti. “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?”. Trent’anni. Ha fatto il falegname, ha zappato l’orto, ha potato la vigna, ha aiutato sua madre a rigovernare. È uno di loro. E quando rivelerà di non esserlo, uno di loro, fino in fondo, tenteranno di ucciderlo. Trentatré. Tenta più tre. Riassumere poi tutto l’insegnamento di quegli ultimi tre anni nell’invito a condividere tutto è certo un’angolazione parziale, ma essenziale.]]>
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di don Angelo M. Fanucci Risalendo in macchina per tornare a Gubbio dopo il primo contatto con la Comunità di Capodarco, anno del Signore 1970. Giorno 30 giugno. A sera. Che senso ha avuto l’esperienza turbinosa che ho vissuto, quel ribollire di progetti di vita uno più futuribile dell’altro, formulati poi da gente che della propria vita fisica, ma anche mentale, ne domina solo una parte? Che senso hanno tutte queste provocazioni contro lo Stato, tutti questi imperativi categorici rivolti alla Chiesa? Che cosa c’è davvero dietro quello che ho intravisto in quei 10 anni di vita che ho vissuto concentrati nelle 7-8 ore che ho passato a Casa Papa Giovanni? È vita, è tutta vita. Ma che tipo di vita, che razza di vita è questa? “È quilla che t’ha ’nsegnato lo Prinicpale tuo!”, m’ha detto Lucio. La vita che m’ha insegnato “il mio Principale”, Gesù di Nazareth. Cioè? La riposta giusta lì per lì mi risultò incomprensibile. Poi però… Il primato dei poveri, che il Concilio ha sancito come normalità assoluta della prassi vitale della Chiesa, ha avuto tante formulazioni. Formulazioni concettualmente elaborate, sistemate dal punto di vista teologico in relazione al Deus creans, o al Deus elevans, o al Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis dell’ultimo giorno, quando tutto sarà al posto che da sempre gli competeva. Ma nel clima culturale di Casa Papa Giovanni la concettualizzazione è difficile, per ovvi motivi: quasi tutti i disabili protagonisti hanno spuntato appena la quinta elementare. Bisogna parlare utilizzando non le idee astratte, ma la storia. La storia. La vita in termini di storia, E in termini di storia - dicono loro - il mio (il nostro) “Principale” per 30 anni ha condiviso la vita degli ultimi della scala sociale e poi, per tre anni, da predicatore itinerante, ha spiegato che la condivisione è il valore fondamentale della vita. Effettivamente i nazaretani erano gli scemi d’Israele. Lo dice il motto col quale Natanaele reagì a Filippo che gli aveva parlato di un certo Gesù come possibile Messia. “Da dove viene?”. “Da Nazareth”. Risata grassoccia: “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?!”. Gli è venuta dal cuore, ma non se l’è inventata lui. È un proverbio che circola, forse da secoli. Un proverbio. Lo dicono tutti. “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?”. Trent’anni. Ha fatto il falegname, ha zappato l’orto, ha potato la vigna, ha aiutato sua madre a rigovernare. È uno di loro. E quando rivelerà di non esserlo, uno di loro, fino in fondo, tenteranno di ucciderlo. Trentatré. Tenta più tre. Riassumere poi tutto l’insegnamento di quegli ultimi tre anni nell’invito a condividere tutto è certo un’angolazione parziale, ma essenziale.]]>
Vita, quilla vita https://www.lavoce.it/vita-quilla-vita/ Sat, 18 Nov 2017 11:26:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50602 logo abat jour, rubrica settimanale

A cura di Angelo M. Fanucci “Questa è la casa di tutti: entrate pure!”. Sono a Casa Papa Giovanni, alla periferia del paesino di Capodarco, sulla strada che scende da Fermo a Porto San Giorgio. Un centinaio di handicappati, gravi e gravissimi, una ventina di volontari, e don Franco Monterubbianesi che li arroventa. “La rassegnazione non è una virtù, ma la più perfida delle tentazioni! Tutti abbiamo qualcosa da fare: cambiare noi stessi, per cambiare la Chiesa e il mondo!”. Chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva sull’unica gamba grazie al fatto che spingeva una carrozzina con sopra uno svitato peggio di lui. Ma tutti avevano qualcosa da fare. Mi colpì un ragazzo focomelico, che al posto della braccia aveva due moncherini cortissimi, e spazzava l’ingresso della vecchia villa Piccolomini in disarmo. “Mi scusi, potrebbe farmi da guida per conoscere questa vostra comunità?”. La domanda l’avevo rivolta a Michele Rizzi, a fianco della porta e di quel cartello (“Questa è la casa…”): distrofico grave, in piedi, appoggiato con la schiena allo stipite della porta, con la pancia in fuori, impossibilitato a muoversi. “Ce l’hai le gambe buone? E allora pedala! La Comunità è grande, se trovi qualcosa di buono rimani, se non trovi nulla… amici come prima!”. Brutto maleducato! Si risponde così a un giovin pretino di bell’aspetto e gentil portamento, che per l’occasione si è guarnito il collo con il candido colletto bianco d’ordinanza? Brutto maleducato! Girai, vidi, parlai con molti di loro. Camere tutte dall’arredamento rimediato. Valigie di cartone legate con lo spago, appoggiate su armadi che minacciavano di spanciarsi da un momento all’altro. Partecipai per la prima volta a una loro assemblea. La lingua italiana ne usciva massacrata, ma le cose che un po’ tutti a turno dicevano erano lapilli vulcanici. Attaccavano “lo Stato dei Signori”, attaccavano “la Chiesa dei monsignori”, che a pochi anni dalla sua morte aveva già messo da parte Papa Giovanni, mentre avrebbe dovuto trasformare in realtà le sua indicazione di vita: “La Chiesa è di tutti e soprattutto dei poveri!”. Era la prima volta che sentivo pronunciare quel motto, che in un battibaleno sarebbe diventato fondamentale anche nella mia vita. Al pranzo provvide un enorme pentolone, sorretto da un treppiedi rimediato, e sotto un fornello a gas di 40 cm di diametro. Vita. Ma che razza di vita è questa? “È quilla che t’ha ’nsegnato lo Principale tuo!” - mi pare che fosse Lucio a parlare. Lucio Marcotulli, con il corpo bloccato dalla cintola in giù, come fosse di gesso. In piedi grazie al suo girello. A un giovane scout che gli confidava di avere grandi sogni per il futuro aveva confidato: “Io sogno solo che ci sia sempre qualcuno che mi tiri su i calzoni quando mi scivolano a terra!”.La vita che m’ha insegnato il mio Principale: cioè?]]>
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A cura di Angelo M. Fanucci “Questa è la casa di tutti: entrate pure!”. Sono a Casa Papa Giovanni, alla periferia del paesino di Capodarco, sulla strada che scende da Fermo a Porto San Giorgio. Un centinaio di handicappati, gravi e gravissimi, una ventina di volontari, e don Franco Monterubbianesi che li arroventa. “La rassegnazione non è una virtù, ma la più perfida delle tentazioni! Tutti abbiamo qualcosa da fare: cambiare noi stessi, per cambiare la Chiesa e il mondo!”. Chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva sull’unica gamba grazie al fatto che spingeva una carrozzina con sopra uno svitato peggio di lui. Ma tutti avevano qualcosa da fare. Mi colpì un ragazzo focomelico, che al posto della braccia aveva due moncherini cortissimi, e spazzava l’ingresso della vecchia villa Piccolomini in disarmo. “Mi scusi, potrebbe farmi da guida per conoscere questa vostra comunità?”. La domanda l’avevo rivolta a Michele Rizzi, a fianco della porta e di quel cartello (“Questa è la casa…”): distrofico grave, in piedi, appoggiato con la schiena allo stipite della porta, con la pancia in fuori, impossibilitato a muoversi. “Ce l’hai le gambe buone? E allora pedala! La Comunità è grande, se trovi qualcosa di buono rimani, se non trovi nulla… amici come prima!”. Brutto maleducato! Si risponde così a un giovin pretino di bell’aspetto e gentil portamento, che per l’occasione si è guarnito il collo con il candido colletto bianco d’ordinanza? Brutto maleducato! Girai, vidi, parlai con molti di loro. Camere tutte dall’arredamento rimediato. Valigie di cartone legate con lo spago, appoggiate su armadi che minacciavano di spanciarsi da un momento all’altro. Partecipai per la prima volta a una loro assemblea. La lingua italiana ne usciva massacrata, ma le cose che un po’ tutti a turno dicevano erano lapilli vulcanici. Attaccavano “lo Stato dei Signori”, attaccavano “la Chiesa dei monsignori”, che a pochi anni dalla sua morte aveva già messo da parte Papa Giovanni, mentre avrebbe dovuto trasformare in realtà le sua indicazione di vita: “La Chiesa è di tutti e soprattutto dei poveri!”. Era la prima volta che sentivo pronunciare quel motto, che in un battibaleno sarebbe diventato fondamentale anche nella mia vita. Al pranzo provvide un enorme pentolone, sorretto da un treppiedi rimediato, e sotto un fornello a gas di 40 cm di diametro. Vita. Ma che razza di vita è questa? “È quilla che t’ha ’nsegnato lo Principale tuo!” - mi pare che fosse Lucio a parlare. Lucio Marcotulli, con il corpo bloccato dalla cintola in giù, come fosse di gesso. In piedi grazie al suo girello. A un giovane scout che gli confidava di avere grandi sogni per il futuro aveva confidato: “Io sogno solo che ci sia sempre qualcuno che mi tiri su i calzoni quando mi scivolano a terra!”.La vita che m’ha insegnato il mio Principale: cioè?]]>
Santuario, no. Ma nemmeno sagrestia? https://www.lavoce.it/santuario-no-nemmeno-sagrestia/ Sun, 12 Nov 2017 08:00:38 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50486

Volontariato. Il mio pessimismo ha dovuto ricredersi quando ho visto il consuntivo di una festa patronale. Mammamia, quanta gente ci lavora gratuitamente! Però, però… di mezzo c’è la tradizionale, robusta “magnata”, che i “volontari” non disdegnano: come fine o come mezzo? Poi invece quel volontariato vero, del quale lamentavo la latitanza, l’ho trovato alla periferia di Gubbio, al Coppiolo, sotto il mattatoio, nell’Aratorio familiare. Nel segno della solidarietà, con l’impegno gratuito di tanti volontari, giovani e soprattutto adulti, l’Aratorio da un grande orto (un ettaro di terra), concimato al naturale con letame e micro-organismi, terreno concesso dal Capitolo dei canonici della cattedrale, ricava primizie da vendere e regalare a chi ha bisogno. “Una missione che porta con sé, nel lavoro quotidiano, anche l’educazione dei figli, la riscoperta di certi buoni princìpi per le giovani generazioni, il ritorno alle origini dell’uomo e al valore della terra”. Bellissimo. Ma basta questo perché il vescovo Ceccobelli definisca l’Aratorio familiare “il vero santuario della carità per la diocesi di Gubbio”. E Capodarco? È solo la sagrestia del santuario? Nel 2004, la mattina dopo il suo ingresso in diocesi, il neo-vescovo Ceccobelli venne a farci visita. Poi tornò sempre puntualmente. Una volta all’anno. Ma allora non siamo nemmeno la sagrestia! Amabile lettore, permettimi di spiegarmi, nelle prossime abat jour - prima che (il 3 dicembre) don Luciano, il nuovo vescovo di Gubbio, si sia insediato in questa nostra diocesi, che sarà anche e soprattutto la sua - spiegarmi sul perché, se nascessi di nuovo, se di nuovo il Maestro mi volesse tra i suoi preti, sceglierei di vivere ancora e sempre nella Comunità di Capodarco. * * * Nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso i miei ragazzi del Movimento studenti eugubino e io eravamo in cerca di una qualche iniziativa ricca di significato alla quale dedicare una o più quindicine delle nostre vacanze. Uno di loro m’aveva procurato un numero recente del Corriere della sera dove, in quella terza pagina che allora era la pagina della cultura, un grande giornalista parlava a lungo dell’esperienza d’una settimana che aveva fatto in primavera a Capodarco di Fermo, con soggetti disabili gravi. Era Giuliano Zincone, fratello del direttore del “Corrierone” Vittorio Zincone. Di quell’esperienza Zincone era rimasto entusiasta, ne parlava in termini più spesso epici che elegiaci; ma concludeva che non sarebbe arrivata al Natale (in meneghino puro: “Mangia minga el Panatùn!”). 30 giugno 1970. Con la mia Citroen color cacca raggiungo Capodarco. M’affaccio e ricevo una mazzata da stordire un toro.]]>

Volontariato. Il mio pessimismo ha dovuto ricredersi quando ho visto il consuntivo di una festa patronale. Mammamia, quanta gente ci lavora gratuitamente! Però, però… di mezzo c’è la tradizionale, robusta “magnata”, che i “volontari” non disdegnano: come fine o come mezzo? Poi invece quel volontariato vero, del quale lamentavo la latitanza, l’ho trovato alla periferia di Gubbio, al Coppiolo, sotto il mattatoio, nell’Aratorio familiare. Nel segno della solidarietà, con l’impegno gratuito di tanti volontari, giovani e soprattutto adulti, l’Aratorio da un grande orto (un ettaro di terra), concimato al naturale con letame e micro-organismi, terreno concesso dal Capitolo dei canonici della cattedrale, ricava primizie da vendere e regalare a chi ha bisogno. “Una missione che porta con sé, nel lavoro quotidiano, anche l’educazione dei figli, la riscoperta di certi buoni princìpi per le giovani generazioni, il ritorno alle origini dell’uomo e al valore della terra”. Bellissimo. Ma basta questo perché il vescovo Ceccobelli definisca l’Aratorio familiare “il vero santuario della carità per la diocesi di Gubbio”. E Capodarco? È solo la sagrestia del santuario? Nel 2004, la mattina dopo il suo ingresso in diocesi, il neo-vescovo Ceccobelli venne a farci visita. Poi tornò sempre puntualmente. Una volta all’anno. Ma allora non siamo nemmeno la sagrestia! Amabile lettore, permettimi di spiegarmi, nelle prossime abat jour - prima che (il 3 dicembre) don Luciano, il nuovo vescovo di Gubbio, si sia insediato in questa nostra diocesi, che sarà anche e soprattutto la sua - spiegarmi sul perché, se nascessi di nuovo, se di nuovo il Maestro mi volesse tra i suoi preti, sceglierei di vivere ancora e sempre nella Comunità di Capodarco. * * * Nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso i miei ragazzi del Movimento studenti eugubino e io eravamo in cerca di una qualche iniziativa ricca di significato alla quale dedicare una o più quindicine delle nostre vacanze. Uno di loro m’aveva procurato un numero recente del Corriere della sera dove, in quella terza pagina che allora era la pagina della cultura, un grande giornalista parlava a lungo dell’esperienza d’una settimana che aveva fatto in primavera a Capodarco di Fermo, con soggetti disabili gravi. Era Giuliano Zincone, fratello del direttore del “Corrierone” Vittorio Zincone. Di quell’esperienza Zincone era rimasto entusiasta, ne parlava in termini più spesso epici che elegiaci; ma concludeva che non sarebbe arrivata al Natale (in meneghino puro: “Mangia minga el Panatùn!”). 30 giugno 1970. Con la mia Citroen color cacca raggiungo Capodarco. M’affaccio e ricevo una mazzata da stordire un toro.]]>
Nei panni di don Enzo Palombo https://www.lavoce.it/nei-panni-don-enzo-palombo/ Sun, 05 Nov 2017 08:00:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50462

Nostalgia canaglia e supercanaglia al peperoncino avvelenato, quando mi abbandono al ricordo dei 10 anni di volontariato con i quali, tra il 1974 e il 1984, a titolo di manovali al servizio di 5 muratori di lungo corso, diverse centinaia di ragazzi e ragazze (da Gubbio, dall’Umbria, da Cesate, da Padova, dal Belgio…) trasformarono le quattro ossa dell’ex convento di San Girolamo sul monte Ansciano nella sede della Comunità di Capodarco dell’Umbria.

Vedevano in me uno che aveva perso la testa per i disabili, e mi seguivano. Oggi… Ma basta con la nostalgia! Il fegato ha diritto a una tregua. Pensiamo al futuro!

Pensiamo a progettare un futuro che ci faccia uscire dall’ impasse nel quale a quella birbacciona della nostra nostalgia piace crogiolarsi. Qualche buon anno fa, da Santorpete di Genova venne a Santa Maria al Corso, per concionare nella mia chiesa, la più povera di tutte le chiese della diocesi di Gubbio, don Paolo Farinella. Venne e prese atto di un fenomeno che nella sua originalissima parrocchia (una parrocchia senza territorio!) non si registrava: la fuga dei giovani dalla Chiesa in genere e dal volontariato in particolare. Venne, si grattò un attimo il naso, poi propose di chiudere le chiese per cinque anni e, visto che al loro termine tutti se ne vanno e spariscono, di ribattezzare “scuole di ateismo” quelle che del tutto impropriamente vengono chiamate “scuole di catechismo”. Provocazioni, certo. Ma il dramma è reale: fuggono tutti, progettano la fuga già nel cuore del penultimo anno di catechismo. Bah! Come la pensava don Milani? Mi metto nei panni di don Enzo Palombo.

Il 25 marzo 1955 don Lorenzo Milani scriveva a don EnzoPalombo, di Prato, che gli aveva chiesto un consiglio su come attirare i giovani in parrocchia. Udite, udite! “Non so cosa dirti del ping-pong.

Io sono sicuro che, se lo spezzi e, se in conseguenza di ciò, non avrai più nessun ragazzo d’intorno, non morirà nessuno. Avrai più tempo per pensare, più silenzio; e in più, pian piano, andrai costruendo quella immagine di prete più vera e degna di te che con l’andare del tempo attirerà col suo valore intrinseco molto più ragazzi che il ping-pong.

L’immagine di quel vero prete che sei già e che non devimascherare da giocoliere, né abbassare per avvicinare chi è in basso. Chi è in basso (cioè chi cerca disperatamente dei sistemi per buttare via il tempo) deve vederti in alto, magari per qualche anno odiarti e disprezzarti e fuggirti, e poi, se Dio gli dà la grazia, pian piano cominciare a invidiarti, imitarti, superarti...

La gente viene a Dio solo se Dio la chiama. E se invece che Dio la chiama il prete (cioè l’uomo, il simpatico, il ping-pong), allora la gente viene all’uomo e non trova Dio”. Udite, udite! E fate silenzio per una settimana.

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Nostalgia canaglia e supercanaglia al peperoncino avvelenato, quando mi abbandono al ricordo dei 10 anni di volontariato con i quali, tra il 1974 e il 1984, a titolo di manovali al servizio di 5 muratori di lungo corso, diverse centinaia di ragazzi e ragazze (da Gubbio, dall’Umbria, da Cesate, da Padova, dal Belgio…) trasformarono le quattro ossa dell’ex convento di San Girolamo sul monte Ansciano nella sede della Comunità di Capodarco dell’Umbria.

Vedevano in me uno che aveva perso la testa per i disabili, e mi seguivano. Oggi… Ma basta con la nostalgia! Il fegato ha diritto a una tregua. Pensiamo al futuro!

Pensiamo a progettare un futuro che ci faccia uscire dall’ impasse nel quale a quella birbacciona della nostra nostalgia piace crogiolarsi. Qualche buon anno fa, da Santorpete di Genova venne a Santa Maria al Corso, per concionare nella mia chiesa, la più povera di tutte le chiese della diocesi di Gubbio, don Paolo Farinella. Venne e prese atto di un fenomeno che nella sua originalissima parrocchia (una parrocchia senza territorio!) non si registrava: la fuga dei giovani dalla Chiesa in genere e dal volontariato in particolare. Venne, si grattò un attimo il naso, poi propose di chiudere le chiese per cinque anni e, visto che al loro termine tutti se ne vanno e spariscono, di ribattezzare “scuole di ateismo” quelle che del tutto impropriamente vengono chiamate “scuole di catechismo”. Provocazioni, certo. Ma il dramma è reale: fuggono tutti, progettano la fuga già nel cuore del penultimo anno di catechismo. Bah! Come la pensava don Milani? Mi metto nei panni di don Enzo Palombo.

Il 25 marzo 1955 don Lorenzo Milani scriveva a don EnzoPalombo, di Prato, che gli aveva chiesto un consiglio su come attirare i giovani in parrocchia. Udite, udite! “Non so cosa dirti del ping-pong.

Io sono sicuro che, se lo spezzi e, se in conseguenza di ciò, non avrai più nessun ragazzo d’intorno, non morirà nessuno. Avrai più tempo per pensare, più silenzio; e in più, pian piano, andrai costruendo quella immagine di prete più vera e degna di te che con l’andare del tempo attirerà col suo valore intrinseco molto più ragazzi che il ping-pong.

L’immagine di quel vero prete che sei già e che non devimascherare da giocoliere, né abbassare per avvicinare chi è in basso. Chi è in basso (cioè chi cerca disperatamente dei sistemi per buttare via il tempo) deve vederti in alto, magari per qualche anno odiarti e disprezzarti e fuggirti, e poi, se Dio gli dà la grazia, pian piano cominciare a invidiarti, imitarti, superarti...

La gente viene a Dio solo se Dio la chiama. E se invece che Dio la chiama il prete (cioè l’uomo, il simpatico, il ping-pong), allora la gente viene all’uomo e non trova Dio”. Udite, udite! E fate silenzio per una settimana.

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A Gubbio un Corso di laurea promosso dalla Comunità di Capodarco per lavorare in un settore in espansione https://www.lavoce.it/a-gubbio-un-corso-di-laurea-promosso-dalla-comunita-di-capodarco-per-lavorare-in-un-settore-in-espansione/ Thu, 07 Sep 2000 22:00:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=992

Anche a Gubbio si può prendere una laurea. E' un Corso piuttosto originale,nato da un'esperienza di lunga data, quella della Comunità di San Girolamo,oggi comunità di Capodarco.A promuovere il Corso è stato don Angelo Fanucci, presidente della Comunitàdi Capodarco dell'Umbria, e sul numero scorso de La Voce, nella sua rubricasettimanale "Abat Jour", ha spiegato quando è nata l'idea e perché. Riprendiamo il discorso con don Angelo.Ci spiega cosa c'è dietro la sigla del"Duep", che significa Diploma universitario per educatoriprofessionali e che ha preso il via a Gubbio, nell'anno accademico 1999/2000. Dall'anno successivo, con la Riforma Zecchino, è diventato Corso di laurea diPrimo Livello. Don Angelo, quale è la peculiarità del Duep? "Il corso nasce sulla scia di uno degli auspici finali del Convegno Ecclesiale di Palermo 1995: che in ogni parrocchia, accanto agli edifici destinati al culto e alla catechesi, sorga un gruppo di accoglienza stabile al servizio dei meno fortunati. Il Corso intende formare persone che siano all'altezza di questo auspicio. Ne è nata una sinergia con la Lumsa (Libera Università Maria Santissima Assunta) di Roma, che cura il piano di studi e conferisce il titolo accademico, con l'Amministrazione comunale di Gubbio, che offre il suo determinante supporto logistico ed economico e la Comunità di Capodarco dell'Umbria che si fa carico del tirocinio e dell'organizzazione generale". Ma diocesi e parrocchie sono già impegnate nella solidarietà. "La Chiesa è un unico prisma a tre facce: annuncio, celebrazione, testimonianza della carità, ma, mentre annuncio e celebrazione sono saldamente strutturate nella pastorale parrocchiale, la testimonianza della carità non di rado si riduce alla raccolta di fondi per i poveri e ad iniziative magarilodevoli ma episodiche, non determinanti nella compagine della parrocchia". E il vostro Corso cosa c'entra con questo progetto? "Grazie al sostegno delle tre massime imprese operanti nell'Eugubino (Cementerie Barbetti, Colacem e Sirio Ecologica), abbiamo spedito alle 7.000parrocchie che in Italia superano i 3.000 abitanti tre numeri speciali de Il lato umano (la rivista della Comunità di Capodarco n.d.r.), dicendo: mandateci il meglio dei vostri ragazzi, ve li rimanderemo professionalmente preparati e motivati ad accogliere i poveri nella propria vita, prima ancora che nella propria professionalità, capaci di gestire iniziative stabili inserite nella pastorale parrocchiale senza scaricarne il peso sulla parrocchia". Si potrà lavorare solo in parrocchia? "No. Il corso di Gubbio conferisce un titolo valido a tutti glieffetti. L'alunno, una volta conseguita la laurea di primo livello (3 anni), potrà continuare per la laurea in Scienze della Formazione (5 anni) e per la specializzazione (7 anni); o potrà impiegarsi altrove: centri di pronta ospitalità, istituti per minori in difficoltà, comunità alloggio, case-famiglia, convitti, centri di igiene mentale, pensionati per anziani, centri diurni per anziani, handicappati, tossicodipendenti, case protette, comunità terapeutiche, case per ragazze madri, istituti di previdenza e pena per adulti e per minori, servizi in collaborazione con l'attività giudiziaria (tutela, affidamento familiare, libertà assistita), centri ricreativi e attivitàdi tempo libero, centri sociali, biblioteche decentrate, consultori familiari. Le prospettive occupazionali sono ottime: l'impegno nel sociale in Italia s'aggira intorno ad un 4% circa, contro l'8% della Francia o dell'Inghilterra". Si tratta comunque di lavori impegnativi, molto lontani dal modellodell'impiegato che timbrato il cartellino è libero da responsabilità. Comepensate di motivare gli alunni? "Recuperando come orizzonte vitale per la formazione degli alunni "quel sapere sull'uomo che nasce dalla fede"; valorizzando come preliminare a tutti gli altri l'insegnamento della Teologia, vista dal versante dell'antropologia teologica, dando ampio campo di espansione agli insegnamenti Lumsa, che sempre vogliono rendere gli allievi sensibili ai grandi problemi umani e agli interrogativi di senso del vivere, attenti al valore assoluto diciascuna persona, specialisti nella relazione". Questa la teoria. E in pratica? "Sul piano dell'esperienza è previsto un tirocinio fortemente impegnativo. Oltre le varie forme di sostegno ai poveri presenti nella Usl Umbria1 e in altre significative esperienze, referente essenziale è il contatto continuo e stimolante con la Comunità di Capodarco dell'Umbria, con la sua gamma di esperienze (gruppi residenziali, centri sociali, cooperative sociali, ecc.), ma soprattutto con l'alto tasso di problematicità, insito in una realtà che accoglie soggetti in difficoltà così come sono, e nel momento in cui li accoglie si ripromette di diventare insieme come tutti dovremmo essere". Tutto qui? "Questo sul piano della motivazione. Sul piano della professionalizzazione gli alunni verranno resi capaci di padroneggiare, teoricamente e praticamente, le indispensabili conoscenze di base, le opportune metodologie di intervento e gli strumenti operativi più adeguati ai settori in cui è prevedibile la loro collocazione professionale dell'educatore. Giovani capaci di analizzare i fattori del disagio sociosanitario, di individuarne leterapie, di partecipare da protagonisti alla progettazione, all'allestimento e alla gestione di "stabili iniziative di accoglienza ai menofortunati". Lei ha iniziato ricordando il Convegno di Palermo. Che rapporto c'è tra ilCorso e la Chiesa italiana? "Nel mese di giugno il Presidente card. Ruini per ben due volte harinnovato il suo caloroso consenso. La generosità della Presidenza della Cei ci ha permesso di far fronte alle ingenti spese della "partenza". Un contributo iniziale, ha scritto mons. Antonelli, "di incoraggiamento per l'encomiabile iniziativa, che si auspica trovi in futuro il consenso e il sostegno anche economico dell'intera collettività nazionale". C'è spazio per un progetto del genere nel nostro traballante Stato Sociale? "Cesare Mirabelli, presidente della Corte costituzionale, non haavuto dubbi in proposito intervenendo il 13 maggio scorso alla chiusura del primo anno di corso. Oggi lo Stato sociale intelligente chiede sinergie a quel Privato Sociale avanzato che si dimostra in grado di personalizzare gli interventi, socializzare i bisogni, entrare nelle loro pieghe, elaborare risposte sempre più articolate a forme di emarginazione sempre più sottili. La Chiesa ha da dire la sua come mai nel suo recente passato. Nel moderno Stato sociale lo spazio per tutti diventa soprattutto spazio per chi è motivato". E in Umbria quali prospettive ci sono? "Col pensiero rivolto a quanto successe al tempo della Fondazione contro l'usura, abbiamo chiesto un preciso atto politico alla Giunta regionalesu questo nostro progetto. Questo, fra l'altro, ci permetterà di accedere ai fondi dell'Unione Europea".]]>

Anche a Gubbio si può prendere una laurea. E' un Corso piuttosto originale,nato da un'esperienza di lunga data, quella della Comunità di San Girolamo,oggi comunità di Capodarco.A promuovere il Corso è stato don Angelo Fanucci, presidente della Comunitàdi Capodarco dell'Umbria, e sul numero scorso de La Voce, nella sua rubricasettimanale "Abat Jour", ha spiegato quando è nata l'idea e perché. Riprendiamo il discorso con don Angelo.Ci spiega cosa c'è dietro la sigla del"Duep", che significa Diploma universitario per educatoriprofessionali e che ha preso il via a Gubbio, nell'anno accademico 1999/2000. Dall'anno successivo, con la Riforma Zecchino, è diventato Corso di laurea diPrimo Livello. Don Angelo, quale è la peculiarità del Duep? "Il corso nasce sulla scia di uno degli auspici finali del Convegno Ecclesiale di Palermo 1995: che in ogni parrocchia, accanto agli edifici destinati al culto e alla catechesi, sorga un gruppo di accoglienza stabile al servizio dei meno fortunati. Il Corso intende formare persone che siano all'altezza di questo auspicio. Ne è nata una sinergia con la Lumsa (Libera Università Maria Santissima Assunta) di Roma, che cura il piano di studi e conferisce il titolo accademico, con l'Amministrazione comunale di Gubbio, che offre il suo determinante supporto logistico ed economico e la Comunità di Capodarco dell'Umbria che si fa carico del tirocinio e dell'organizzazione generale". Ma diocesi e parrocchie sono già impegnate nella solidarietà. "La Chiesa è un unico prisma a tre facce: annuncio, celebrazione, testimonianza della carità, ma, mentre annuncio e celebrazione sono saldamente strutturate nella pastorale parrocchiale, la testimonianza della carità non di rado si riduce alla raccolta di fondi per i poveri e ad iniziative magarilodevoli ma episodiche, non determinanti nella compagine della parrocchia". E il vostro Corso cosa c'entra con questo progetto? "Grazie al sostegno delle tre massime imprese operanti nell'Eugubino (Cementerie Barbetti, Colacem e Sirio Ecologica), abbiamo spedito alle 7.000parrocchie che in Italia superano i 3.000 abitanti tre numeri speciali de Il lato umano (la rivista della Comunità di Capodarco n.d.r.), dicendo: mandateci il meglio dei vostri ragazzi, ve li rimanderemo professionalmente preparati e motivati ad accogliere i poveri nella propria vita, prima ancora che nella propria professionalità, capaci di gestire iniziative stabili inserite nella pastorale parrocchiale senza scaricarne il peso sulla parrocchia". Si potrà lavorare solo in parrocchia? "No. Il corso di Gubbio conferisce un titolo valido a tutti glieffetti. L'alunno, una volta conseguita la laurea di primo livello (3 anni), potrà continuare per la laurea in Scienze della Formazione (5 anni) e per la specializzazione (7 anni); o potrà impiegarsi altrove: centri di pronta ospitalità, istituti per minori in difficoltà, comunità alloggio, case-famiglia, convitti, centri di igiene mentale, pensionati per anziani, centri diurni per anziani, handicappati, tossicodipendenti, case protette, comunità terapeutiche, case per ragazze madri, istituti di previdenza e pena per adulti e per minori, servizi in collaborazione con l'attività giudiziaria (tutela, affidamento familiare, libertà assistita), centri ricreativi e attivitàdi tempo libero, centri sociali, biblioteche decentrate, consultori familiari. Le prospettive occupazionali sono ottime: l'impegno nel sociale in Italia s'aggira intorno ad un 4% circa, contro l'8% della Francia o dell'Inghilterra". Si tratta comunque di lavori impegnativi, molto lontani dal modellodell'impiegato che timbrato il cartellino è libero da responsabilità. Comepensate di motivare gli alunni? "Recuperando come orizzonte vitale per la formazione degli alunni "quel sapere sull'uomo che nasce dalla fede"; valorizzando come preliminare a tutti gli altri l'insegnamento della Teologia, vista dal versante dell'antropologia teologica, dando ampio campo di espansione agli insegnamenti Lumsa, che sempre vogliono rendere gli allievi sensibili ai grandi problemi umani e agli interrogativi di senso del vivere, attenti al valore assoluto diciascuna persona, specialisti nella relazione". Questa la teoria. E in pratica? "Sul piano dell'esperienza è previsto un tirocinio fortemente impegnativo. Oltre le varie forme di sostegno ai poveri presenti nella Usl Umbria1 e in altre significative esperienze, referente essenziale è il contatto continuo e stimolante con la Comunità di Capodarco dell'Umbria, con la sua gamma di esperienze (gruppi residenziali, centri sociali, cooperative sociali, ecc.), ma soprattutto con l'alto tasso di problematicità, insito in una realtà che accoglie soggetti in difficoltà così come sono, e nel momento in cui li accoglie si ripromette di diventare insieme come tutti dovremmo essere". Tutto qui? "Questo sul piano della motivazione. Sul piano della professionalizzazione gli alunni verranno resi capaci di padroneggiare, teoricamente e praticamente, le indispensabili conoscenze di base, le opportune metodologie di intervento e gli strumenti operativi più adeguati ai settori in cui è prevedibile la loro collocazione professionale dell'educatore. Giovani capaci di analizzare i fattori del disagio sociosanitario, di individuarne leterapie, di partecipare da protagonisti alla progettazione, all'allestimento e alla gestione di "stabili iniziative di accoglienza ai menofortunati". Lei ha iniziato ricordando il Convegno di Palermo. Che rapporto c'è tra ilCorso e la Chiesa italiana? "Nel mese di giugno il Presidente card. Ruini per ben due volte harinnovato il suo caloroso consenso. La generosità della Presidenza della Cei ci ha permesso di far fronte alle ingenti spese della "partenza". Un contributo iniziale, ha scritto mons. Antonelli, "di incoraggiamento per l'encomiabile iniziativa, che si auspica trovi in futuro il consenso e il sostegno anche economico dell'intera collettività nazionale". C'è spazio per un progetto del genere nel nostro traballante Stato Sociale? "Cesare Mirabelli, presidente della Corte costituzionale, non haavuto dubbi in proposito intervenendo il 13 maggio scorso alla chiusura del primo anno di corso. Oggi lo Stato sociale intelligente chiede sinergie a quel Privato Sociale avanzato che si dimostra in grado di personalizzare gli interventi, socializzare i bisogni, entrare nelle loro pieghe, elaborare risposte sempre più articolate a forme di emarginazione sempre più sottili. La Chiesa ha da dire la sua come mai nel suo recente passato. Nel moderno Stato sociale lo spazio per tutti diventa soprattutto spazio per chi è motivato". E in Umbria quali prospettive ci sono? "Col pensiero rivolto a quanto successe al tempo della Fondazione contro l'usura, abbiamo chiesto un preciso atto politico alla Giunta regionalesu questo nostro progetto. Questo, fra l'altro, ci permetterà di accedere ai fondi dell'Unione Europea".]]>