comunione Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunione/ Settimanale di informazione regionale Thu, 08 Sep 2022 17:36:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg comunione Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/comunione/ 32 32 Nella Pentecoste lo Spirito santo fa irruzione https://www.lavoce.it/nella-pentecoste-lo-spirito-santo-fa-irruzione/ Fri, 29 May 2020 15:03:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57243

In questa domenica di Pentecoste, nella sintesi liturgica del prefazio è espresso uno dei significati della solennità. La Chiesa prega il Padre dicendo: “Oggi hai portato a compimento il Mistero pasquale”. Un concetto che sembra indicare il raggiungimento di un obiettivo, la fine di un processo. Contrariamente al suo significato lessicale, indica invece la prospettiva verso il fine, quindi orienta, smuove dal torpore, rianima e ci mette in cammino con il “bagaglio leggero” della pienezza dei doni.

L'evento

I brani della Scrittura proposti nella liturgia presentano una concordanza geografica per l’evento della Pentecoste: a Gerusalemme, e la tradizione indica il Cenacolo come luogo dell’evento. Gli stessi testi però sono discordanti per la cronologia; il testo di Atti 2,1 parla sì, del giorno di Pentecoste, ma della festa ebraica, cinquanta giorni dopo la Pasqua, mentre il Vangelo di Giovanni presenta la Pentecoste come unico evento con la Pasqua: “La sera di quello stesso giorno” ( Gv 20,19). Il giorno di Pasqua s’intende, Gesù “irrompe” nel Cenacolo, sciogliendo la paura dei discepoli. Dopo il saluto e il mandato “soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo” ( Gv 20,21-22). La Pentecoste non è quindi una questione di data, ma un evento capace di trasformare con una dinamica creativa la realtà ( Sal 103). La seconda lettura ci mostra la multiforme potenza dello Spirito che genera diversità senza creare confusione, dando a ciascuno la sua propria identità ( 1Cor 12,4-6). Il risultato è l’uomo nuovo, in perfetta armonia, immagine del Cristo risorto vivente nella storia (v.12). La tradizione ecclesiale colloca la Vergine Maria nel Cenacolo, nel giorno di Pentecoste, quando l’irruzione dello Spirito riempie la casa. Si manifesta come un vento che si abbatte impetuoso, contestualmente ad un fragore dal cielo ( At 2,3). Potremmo parlare di una irruzione violenta, capace di distruggere, certamente molto diversa dall’esperienza che Maria sperimenta quando è visitata dall’angelo dell’Annunciazione. Da questo confronto un po’ audace possiamo però cogliere la complessità dell’azione dello Spirito, che è sempre diversa, non facilmente definibile nel suo apparire. I testi infatti, di solito, usano similitudini per indicare la venuta dello Spirito: “Apparvero loro lingue come di fuoco e si posarono su ciascuno di loro” ( At 2,3) attesta il brano degli Atti degli apostoli . Ma la simbologia è già evocativa: “lingue” perché quanti sono raggiunti da questa particolare effusione dello Spirito parlino “le lingue degli uomini” affinché ogni persona di ogni etnia e lingua possa comprendere la novità della Pasqua. Un unico evento di salvezza da tradurre in tutte le lingue perché possa essere compreso, da tradurre in ogni tempo perché sia sempre compreso nella perenne novità. Ma un evento che rimarrà sempre dono del Padre per mezzo del Figlio, mai una “strategia umana”. Fu la stessa azione divina a confondere a Babele il progetto umano di arrivare a Dio, tramite la costituzione di un solo popolo con un’unica lingua. Un progetto opposto al dono che Dio voleva regalare. In realtà, l’uomo voleva arrivare a Dio con le proprie forze, per dire che non ha bisogno di nessuno. Per evitarlo, Dio confuse il progetto degli uomini, attraverso l’incapacità a comprendersi, disseminandoli in ogni dove ( Gen 11,1-9) È la narrazione da cui proviene il significato di Babele, sinonimo di confusione e incapacità a comprendersi, che la liturgia ci fa ascoltare nella celebrazione della veglia di Pentecoste. Babele e Pentecoste indicano ancora una volta la complessa coerenza dell’azione divina, ma che spesso sconvolge i piani umani. In questo caso si può dire “benedetta confusione”, se crea le condizioni per ripartire sulla via tracciata dallo Spirito. Un cammino espresso perfettamente nel Prefazio della celebrazione, che fa memoria dell’evento della Pentecoste. Il testo descrive l’azione dello Spirito riversato sulla Chiesa nascente, la quale è inviata a rivelare a tutti i popoli il mistero nascosto da secoli. Il fine di questa azione è riunire i diversi linguaggi della famiglia umana nell’unica professione di fede. Lo Spirito, così come descritto nei testi biblici e liturgici, continua nel tempo la sua opera nella Chiesa. Anche oggi, alcune volte lo Spirito sembra devastarla con la violenza del vento, altre volte la “coccola” con la tenerezza dell’amante che continuamente la rende feconda. Alla Chiesa di ogni tempo spetta avere orecchi per ascoltare quello che lo Spirito continua a dirle. Don Andrea Rossi]]>

In questa domenica di Pentecoste, nella sintesi liturgica del prefazio è espresso uno dei significati della solennità. La Chiesa prega il Padre dicendo: “Oggi hai portato a compimento il Mistero pasquale”. Un concetto che sembra indicare il raggiungimento di un obiettivo, la fine di un processo. Contrariamente al suo significato lessicale, indica invece la prospettiva verso il fine, quindi orienta, smuove dal torpore, rianima e ci mette in cammino con il “bagaglio leggero” della pienezza dei doni.

L'evento

I brani della Scrittura proposti nella liturgia presentano una concordanza geografica per l’evento della Pentecoste: a Gerusalemme, e la tradizione indica il Cenacolo come luogo dell’evento. Gli stessi testi però sono discordanti per la cronologia; il testo di Atti 2,1 parla sì, del giorno di Pentecoste, ma della festa ebraica, cinquanta giorni dopo la Pasqua, mentre il Vangelo di Giovanni presenta la Pentecoste come unico evento con la Pasqua: “La sera di quello stesso giorno” ( Gv 20,19). Il giorno di Pasqua s’intende, Gesù “irrompe” nel Cenacolo, sciogliendo la paura dei discepoli. Dopo il saluto e il mandato “soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo” ( Gv 20,21-22). La Pentecoste non è quindi una questione di data, ma un evento capace di trasformare con una dinamica creativa la realtà ( Sal 103). La seconda lettura ci mostra la multiforme potenza dello Spirito che genera diversità senza creare confusione, dando a ciascuno la sua propria identità ( 1Cor 12,4-6). Il risultato è l’uomo nuovo, in perfetta armonia, immagine del Cristo risorto vivente nella storia (v.12). La tradizione ecclesiale colloca la Vergine Maria nel Cenacolo, nel giorno di Pentecoste, quando l’irruzione dello Spirito riempie la casa. Si manifesta come un vento che si abbatte impetuoso, contestualmente ad un fragore dal cielo ( At 2,3). Potremmo parlare di una irruzione violenta, capace di distruggere, certamente molto diversa dall’esperienza che Maria sperimenta quando è visitata dall’angelo dell’Annunciazione. Da questo confronto un po’ audace possiamo però cogliere la complessità dell’azione dello Spirito, che è sempre diversa, non facilmente definibile nel suo apparire. I testi infatti, di solito, usano similitudini per indicare la venuta dello Spirito: “Apparvero loro lingue come di fuoco e si posarono su ciascuno di loro” ( At 2,3) attesta il brano degli Atti degli apostoli . Ma la simbologia è già evocativa: “lingue” perché quanti sono raggiunti da questa particolare effusione dello Spirito parlino “le lingue degli uomini” affinché ogni persona di ogni etnia e lingua possa comprendere la novità della Pasqua. Un unico evento di salvezza da tradurre in tutte le lingue perché possa essere compreso, da tradurre in ogni tempo perché sia sempre compreso nella perenne novità. Ma un evento che rimarrà sempre dono del Padre per mezzo del Figlio, mai una “strategia umana”. Fu la stessa azione divina a confondere a Babele il progetto umano di arrivare a Dio, tramite la costituzione di un solo popolo con un’unica lingua. Un progetto opposto al dono che Dio voleva regalare. In realtà, l’uomo voleva arrivare a Dio con le proprie forze, per dire che non ha bisogno di nessuno. Per evitarlo, Dio confuse il progetto degli uomini, attraverso l’incapacità a comprendersi, disseminandoli in ogni dove ( Gen 11,1-9) È la narrazione da cui proviene il significato di Babele, sinonimo di confusione e incapacità a comprendersi, che la liturgia ci fa ascoltare nella celebrazione della veglia di Pentecoste. Babele e Pentecoste indicano ancora una volta la complessa coerenza dell’azione divina, ma che spesso sconvolge i piani umani. In questo caso si può dire “benedetta confusione”, se crea le condizioni per ripartire sulla via tracciata dallo Spirito. Un cammino espresso perfettamente nel Prefazio della celebrazione, che fa memoria dell’evento della Pentecoste. Il testo descrive l’azione dello Spirito riversato sulla Chiesa nascente, la quale è inviata a rivelare a tutti i popoli il mistero nascosto da secoli. Il fine di questa azione è riunire i diversi linguaggi della famiglia umana nell’unica professione di fede. Lo Spirito, così come descritto nei testi biblici e liturgici, continua nel tempo la sua opera nella Chiesa. Anche oggi, alcune volte lo Spirito sembra devastarla con la violenza del vento, altre volte la “coccola” con la tenerezza dell’amante che continuamente la rende feconda. Alla Chiesa di ogni tempo spetta avere orecchi per ascoltare quello che lo Spirito continua a dirle. Don Andrea Rossi]]>
L’acqua unita al vino nel calice https://www.lavoce.it/lacqua-unita-al-vino-nel-calice/ Fri, 26 Jan 2018 08:16:17 +0000 https://www.lavoce.it/?p=51092 logo rubrica domande sulla liturgia

Buongiorno don Verzini, quale è il significato del gesto con cui il sacerdote versa una piccolissima quantità di acqua nel vino durante l’offertorio?   Buongiorno a lei. Il gesto di unire l’acqua al vino nel momento della preparazione dei doni è uno di quei piccoli gesti della liturgia eucaristica poco comprensibili ma carichi di significato simbolico. Questa semplice azione rituale è di antichissima data: abbiamo più testimonianze di questa prassi, nata dall’uso comune sia nel mondo greco sia in quello semitico, di mescolare il vino con l’acqua, soprattutto se si era di fronte a vini corposi. Addirittura alcune tradizioni vogliono che lo stesso gesto sia stato compiuto da Gesù, pur non avendo noi nessuna testimonianza in merito nei racconti dell’Ultima Cena. San Cipriano di Cartagine (III sec.) associa a questo gesto la mescolanza dell’umanità con il Cristo. In una delle sue let- tere, quella indirizzata a Cecilio, afferma: “Se qualcuno offrisse solo vino, il sangue di Cristo inizierebbe a essere senza di noi. Se invece ci fosse solo acqua, allora il popolo inizierebbe a essere senza Cristo” (Epistola 63,13). Anche san Tommaso D’Aquino (XIII sec.) nella Summa theologiae difende quest’uso, dandovi quattro ragioni differenti (III, qu. 74, a. 6), non ultima quella di significare l’unione del popolo cristiano con Cristo. Ciò che ci testimonia il passato è il senso che anche oggi è contenuto in questo gesto. Infatti, pur non essendo udibile, il sacerdote o il diacono quando versano una goccia d’acqua nel vino dicono sottovoce: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Ecco allora come un gesto piccolo e poco conosciuto porta in sé un significato molto profondo: l’unione della nostra natura con la vita di Cristo, l’unione al suo sacrificio del nostro sacrificio, la nostra partecipazione a ciò che il vino sta per diventare.  ]]>
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Buongiorno don Verzini, quale è il significato del gesto con cui il sacerdote versa una piccolissima quantità di acqua nel vino durante l’offertorio?   Buongiorno a lei. Il gesto di unire l’acqua al vino nel momento della preparazione dei doni è uno di quei piccoli gesti della liturgia eucaristica poco comprensibili ma carichi di significato simbolico. Questa semplice azione rituale è di antichissima data: abbiamo più testimonianze di questa prassi, nata dall’uso comune sia nel mondo greco sia in quello semitico, di mescolare il vino con l’acqua, soprattutto se si era di fronte a vini corposi. Addirittura alcune tradizioni vogliono che lo stesso gesto sia stato compiuto da Gesù, pur non avendo noi nessuna testimonianza in merito nei racconti dell’Ultima Cena. San Cipriano di Cartagine (III sec.) associa a questo gesto la mescolanza dell’umanità con il Cristo. In una delle sue let- tere, quella indirizzata a Cecilio, afferma: “Se qualcuno offrisse solo vino, il sangue di Cristo inizierebbe a essere senza di noi. Se invece ci fosse solo acqua, allora il popolo inizierebbe a essere senza Cristo” (Epistola 63,13). Anche san Tommaso D’Aquino (XIII sec.) nella Summa theologiae difende quest’uso, dandovi quattro ragioni differenti (III, qu. 74, a. 6), non ultima quella di significare l’unione del popolo cristiano con Cristo. Ciò che ci testimonia il passato è il senso che anche oggi è contenuto in questo gesto. Infatti, pur non essendo udibile, il sacerdote o il diacono quando versano una goccia d’acqua nel vino dicono sottovoce: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Ecco allora come un gesto piccolo e poco conosciuto porta in sé un significato molto profondo: l’unione della nostra natura con la vita di Cristo, l’unione al suo sacrificio del nostro sacrificio, la nostra partecipazione a ciò che il vino sta per diventare.  ]]>
Maestro della vera santità https://www.lavoce.it/maestro-della-vera-santita/ Tue, 27 Oct 2015 17:41:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=44069 MESSALE metti piccola in commento al vangeloLe Beatitudini costituiscono il solenne esordio del Discorso della montagna. Attraverso questa parte del suo Vangelo, Matteo sembra voler mettere in guardia verso due rischi sempre in agguato: l’ortodossia sterile, ossia sentirsi “a posto” in quanto appartenenti alla Chiesa, e lo spiritualismo disincarnato, ossia tradurre la fede cristiana in un fatto solo spirituale, interiore e senza concretezza. Tuttavia non si pensi a una raccolta per riunire le linee fondamentali dell’insegnamento di Gesù, o perlomeno non solo. Matteo vuol proporre, mettendolo davanti alla comunità cristiana, l’atteggiamento che sta alla base di tutte le scelte e orienta l’agire del cristiano… perché non basta l’appartenenza alla Chiesa, l’ortodossia. Ecco l’atteggiamento con cui metterci in ascolto di queste parole: sono per noi. Oggi. Il messaggio del Vangelo si potrebbe sintetizzare tutto nell’espressione: vivere da figli di Dio, amando gli altri come noi stessi. Tuttavia è necessario tradurre le parole in azioni. Ecco allora che Gesù scende nel concreto evidenziando gli atteggiamenti da cui si possa vedere e toccare l’agire cristiano, e grazie ai quali vedere e toccare la risposta di Dio. Ma andiamo per ordine. In poche righe introduttive l’evangelista ci permette di entrare nel contesto: ci sono due gruppi di ascoltatori, la folla e i discepoli. A quale dei due gruppi apparteniamo? I discepoli, hanno lasciato tutto, stanno perennemente con Gesù, appena lui accenna a dire o fare qualcosa sono lì, in ascolto, e provano a imitarlo. Non per questo sono già santi, ma desiderano restare sempre con lui: “Signore, dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Il gruppo della folla è composto da persone che assistono a qualcosa, sentono delle parole, vedono delle cose. Potenzialmente potrebbero diventare discepoli, nella misura in cui si aprono alla Parola e si rendono conto di chi è Gesù per loro… Il monte: immagine dell’origine divina della Parola; Gesù sale per prendersi cura di quelle persone nel modo più prezioso possibile, facendo lui da tramite tra loro e Dio in persona, donando la Parola del Padre. Altre volte Gesù si pone su un monte, e lì conduce i discepoli, (Trasfigurazione, discorso di invio dopo la Resurrezione…).

Il monte è l’immagine di un luogo, o meglio di una dimensione interiore in cui Dio si rivela. Gesù si mette a sedere: sappiamo che questo gesto caratterizzava coloro che insegnavano agli altri, quindi è un segno che qualifica Gesù come Maestro e il suo discorso come un insegnamento. Ci piacerebbe però sottolineare il modo, l’atteggiamento interiore che comporta questo insegnare stando seduti. Quando un figlio chiede la nostra attenzione totale è facile sentirsi dire: “Mettiti seduto, papà, siediti vicino a me, mamma…”. Vuol dire la certezza che in quel momento noi non dobbiamo allontanarci, fare altro: semplicemente il bambino vuole essere sicuro che noi faremo quella cosa (fare i compiti, leggere una storia, montare un gioco complicato, guardare il cartone preferito…) con lui/lei, senza distrazioni, essendo tutti lì, presenti a noi stessi. Quando diciamo “insegnare” è questo che intendiamo, non il semplice trasmettere concetti o informazioni. Gesù insegna in questo modo. La mente va quasi istantaneamente all’immagine descritta nella prima lettura: alle creature, angeliche e terrestri, che sono riunite intorno a Dio seduto in trono. È vero che Dio viene presentato sul trono della sua regalità, ma non ci sembra di dire un’eresia se sottolineiamo quanto debba essere bello essere là in quella situazione dove Dio è “tutto per loro”, seduto, e loro, i santi e gli angeli, sono insieme a Lui, semplicemente godendo della sua presenza e in piena comunione reciproca… bello come solo il paradiso può essere. Del resto, noi siamo stati creati a immagine di una comunione di Persone che godono della reciproca compagnia: è nel nostro Dna. Per usare le parole di mons. Tonino Bello: “Il genere umano è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre Persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze”. Questo si traduce concretamente negli atteggiamenti presentati nelle Beatitudini. Santità: è la strada della santità a qualificare una persona come “santa”, non tanto il punto a cui è arrivata. Tante persone che abbiamo conosciuto, e ancor più persone sconosciute, hanno orientato la loro vita in questo modo e hanno ricominciato sempre, dopo ogni caduta, ogni volta che un ostacolo ha tentato di interrompere il loro cammino. Maria, nostra madre, è l’emblema di quanto sia tutta una questione di atteggiamento interiore e di opere di santità, piccole, quotidiane, di cui lei è maestra. O Maria, continua a ricordarci che la santità non è avere o fare qualcosa, ma essere in un certo modo. Conduci i tuoi figli a scommettere ogni giorno tutta la vita nel tentare concretamente di costruire relazioni solide con Dio e con il prossimo, per sperimentare la vera pace.

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SINODO. Tra i temi più trattati la questione dei divorziati risposati https://www.lavoce.it/sinodo-tra-i-temi-piu-trattati-la-questione-dei-divorziati-risposati/ Thu, 15 Oct 2015 14:45:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43939 famiglia-crisiSono stati 93 gli interventi all’ottava e alla nona Congregazione generale del Sinodo dei vescovi, nel pomeriggio del 14 ottobre e nella mattina del 15, dedicate al dibattito sulla terza e ultima parte dell’Instrumentum laboris, ha spiegato padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, aprendo il briefing di giovedì 15 ottobre. Come prevedibile, tra i temi più trattati la questione dell’accesso dei divorziati alla comunione, hanno riferito i quattro collaboratori del portavoce vaticano per i diversi gruppi linguistici.

Molti, ha raccontato p. Bernard Hagenkord, gli interventi in lingua tedesca sull’importanza della “difesa della dottrina cattolica su matrimonio e famiglia. La Chiesa, è stato detto da qualcuno, non ha né il potere né l’autorità di cambiare la Parola di Dio”; al tempo stesso, diversi padri hanno sottolineato: “Non siamo ufficiali incaricati di controllare la purezza dei cristiani”. Per molti la domanda è: “Cosa fa la Chiesa per chi vive in questa situazioni?”. Da alcuni padri è stata proposta una valutazione delle situazioni caso per caso.

La sottolineatura del legame tra dottrina e misericordia è stata molto presente negli interventi sinodali in lingua inglese, ha detto p. Thomas Rosica. Diversi padri auspicano un linguaggio in grado d’insegnare le verità della Chiesa, “comprensibile” e “mirato anche alle esigenze dei più giovani. Un insegnamento solido della dottrina, fortemente alimentato dalla Parola di Dio”.
Per molti padri servono inoltre “sistemi, anzi ‘medicine’ per curare le ferite di chi si trova in situazioni difficili” e occorre una solida formazione dei sacerdoti. Importante anche “il sorriso”. Al centro di diversi interventi le “questioni sociali che le famiglie affrontano: immigrazione, tratta delle donne, bambini profughi senza famiglia”, e l’impatto sulle famiglie del terrore seminato dall’Isis.

Per Romilda Ferrauto (lingua francese), il tema dei divorziati risposati, “tornato a valanga negli interventi”, mostra la diversità di approcci tra “chi sottolinea che il ruolo della Chiesa è restare fedele al Signore e chi pensa che è necessario accompagnare le persone nel loro fallimento senza per questo diluire la dottrina”. Molti, ha riferito, “sottolineano che l’obiettivo non è garantire l’accesso indiscriminato all’Eucaristia, ma proporre un approccio personalizzato”. Per alcuni “privare dell’Eucaristia è un fatto grave”, per altri “è peccato che si resti aggrappati troppo ai sacramenti come fossero gli unici strumenti della grazia”.
All’attenzione dei padri anche il problema dei matrimoni misti, soprattutto con i musulmani, e la necessità di “misure per proteggere la parte cattolica”, la questione delle donne costrette alla poligamia, l’accompagnamento delle coppie senza figli, le adozioni nelle coppie omosessuali, l’aborto. “Un vescovo africano ha puntato il dito contro le nuove colonizzazioni ideologiche”.

Concretezza nella pastorale sulla famiglia è la richiesta emersa da molti interventi in lingua spagnola, ha riferito p. Manuel Dorantes. Diversi padri hanno ringraziato il Papa per il Motu proprio sulle cause di riconoscimento dei casi di nullità matrimoniale. Per p. Dorantes “sono diversi i punti di vista e si sta cercando di trovare un equilibrio tra misericordia e obbedienza al magistero della Chiesa”.
In alcuni Paesi, è stato detto, “i divorziati risposati ricevono con difficoltà anche una benedizione”, alcuni padri hanno affermato che “la comunione spirituale non è sufficiente”. Il religioso ha citato l’intervento “commovente” di un vescovo che ha raccontato di aver celebrato una messa di prima comunione nella quale il figlio di una coppia di divorziati risposati ha dato ai genitori due pezzetti della propria ostia.

Ricordando che la Chiesa polacca ha sempre escluso la possibilità della comunione ai divorziati risposati, monsignor Stanisław Gadecki, presidente della Conferenza episcopale polacca, ha ribadito che non sono scomunicati e a volte chi è escluso dalla comunione ne ha un desiderio più forte di chi vi ha il diritto.
Monsignor Carlos Aguiar Retes, arcivescovo di Tlalnepantla (Messico), ha parlato del percorso penitenziale richiamato da alcuni padri, precisando che esso richiede il riconoscimento dei propri errori e il pentimento e ha chiarito che il Sinodo “non pretende di prendere decisioni”, che spettano al Papa, ma di offrirgli “riflessioni e punti di vista”. “Non c’è disaccordo – ha assicurato mons. Gadecki – sul fatto che alcuna autorità al mondo possa sciogliere un vincolo matrimoniale valido”.

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Macro-spunti per piste pastorali https://www.lavoce.it/macro-spunti-per-piste-pastorali/ Wed, 23 Sep 2015 14:12:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43434 assemblea-diocesana-orvieto-1
Un momento dell’assemblea diocesana

Una sala gremita ha partecipato senza batter ciglio all’intervento di mons. Arturo Aiello, vescovo di Teano – Calvi, nell’ambito dell’annuale Assemblea diocesana tenutasi a Collevalenza sabato 19 settembre.

In continuità e sulla scia di quanto scaturito dall’incontro diocesano dello scorso anno, si colloca il tema proposto: “In Cristo camminiamo in novità di vita”.

Con un linguaggio coinvolgente il presule ha offerto macro-spunti per piste pastorali, per la meditazione e per una vita cristiana concreta, facendo subito emergere la necessità di camminare: “Alzati e mettiti in cammino” – era il tema del 2014 – con Cristo, nella storia, verso il regno di Dio. Mons. Aiello ha incentrato il suo argomentare su alcuni punti focali: la Chiesa di Orvieto-Todi in cammino, sì, ma verso dove? – L’icona di Firenze (Mc.1, 21-34) – Uno stile di Chiesa: appunti per un cammino.

Stanchi di “non camminare” e di introversione o di referenzialità, è urgente e buono ascoltare Cristo che bussa alle porte della Chiesa… per uscire! Perché amare è sempre lasciare se stessi per andare verso gli altri. Perché la Chiesa è di per sé estroversa, in quanto ha a cuore il mondo. Perché siamo un popolo in cammino e questa “è – ha sottolineato – l’espressione più bella che il Concilio ci abbia consegnato”, avente fondamento biblico soprattutto nel libro dell’Esodo; preti, suore, consacrati e laici che camminano nella storia.

Camminare sì, ma verso dove? In merito a questo secondo punto, mons. Aiello ha affermato che non si tratta di un semplice far movimento né di girovagare sul motorino, sul telefonino o sul telecomando né semplicemente viaggiare da turisti. “Piuttosto – ha continuato – invochiamo la categoria del pellegrinaggio, che è un viaggio senza ritorno: anche se torno a casa, infatti, sono diverso”.

Siamo chiamati a camminare verso Gesù, con Gesù, che è Via (dimensione itinerante: il cammino di fede è a tappe), Verità (la via necessita di essere illuminata dalla luce della verità: “Lampada per i miei passi è la Tua parola”, come si legge nel Salmo 118) e Vita (dimensione esistenziale: sì, ma io non ce la faccio… Gesù è vita!).

Inoltre, facendo riferimento al Convegno di Firenze, mons. Aiello ha aiutato a riflettere sulle domande: Tu, Chiesa, quale uomo proponi? È possibile un umanesimo senza Dio? “Non c’è – ha detto – un aut (Dio) aut (uomo): in Gesù abbiamo la rivelazione massima di Dio e la rivelazione massima dell’uomo. Ecco l’uomo! L’uomo è Gesù, l’uomo per eccellenza e amico dell’uomo e dell’umano. Se Gesù è amico dell’uomo, può non esserlo la Chiesa? Sembra una domanda retorica, eppure se andiamo a vedere, talvolta manca la benevolenza”.

Siamo ispirati e aiutati dallo stile di Gesù, che, trascorrendo una giornata a Cafàrnao (Mc 1, 21-34), si reca nella sinagoga dove ridona dignità a un uomo indemoniato; nella casa di Simone dove guarisce sua suocera; e alle porte della città al tramonto dove guarisce molti. Siamo stati condotti a osservare tre luoghi geografici importanti, tre ambiti di vita: il luogo dove celebriamo la fede (sinagoga), il luogo delle relazioni primarie, dell’intimità (la casa), il luogo del condividere, della costruzione della città (la piazza, tra la gente). Una triangolazione geografica (sinagoga – casa – piazza) e di vita (credere – amare – condividere) che riguarda profondamente la pastorale.

La Chiesa necessita di questo stile, basato sui seguenti aspetti: la vicinanza, Gesù si è incarnato, la Parola si è sporcata le mani; l’aderenza e l’attenzione ai tempi, alle stagioni della vita, al linguaggio, al dolore; l’umile servizio alla Verità, non solo con concetti freddi; la compagnia, lo stare con chi piange, nella famiglia, sul lavoro, nelle carceri, nelle solitudini.

Mons. Aiello ha poi invitato a riflettere sul fatto che ci salveremo solo insieme; che preti e vescovo, laici e consacrati, tutti ci nutriamo dello stesso Pane e gli organi di partecipazione (Consiglio pastorale, ecc.) sono una scuola di comunione e quindi assolutamente necessari nonostante la fatica, le difficoltà e gli scontri che possono verificarsi.

Ecco, nonostante la difficile e complessa situazione in cui siamo immersi e un po’ sommersi, c’è la gioia di vivere da cristiani, di essere Chiesa in mezzo agli altri e per gli altri. Il nostro compito è quello di stare accanto – senza la presunzione di poter risolvere tutti i problemi – in questo momento. In Gesù e con Gesù. Cristo è sempre novità: è Lui che fa nuove tutte le cose. Gesù sorprende sempre: è fedelmente e sorprendentemente sempre Via, Verità e Vita.

 

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News per le parrocchie e la famiglia

 

 

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Indicazioni per la comunità https://www.lavoce.it/indicazioni-per-la-comunita/ Wed, 23 Sep 2015 10:04:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43403 MESSALE metti piccola in commento al vangeloIl brano evangelico di questa domenica riporta espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimensione comunitaria. Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni “eccessi”  – viene usato anche nella prima lettura per quanto avvenuto al popolo uscito dall’Egitto in cammino verso la Terra promessa.

Pensiamo per un momento alle nostre comunità parrocchiali o religiose, ai nostri gruppi, associazioni e movimenti: quando ci si struttura e ci si organizza, si vuole crescere, camminare lungo un itinerario di maturazione. Questo cammino, né facile né immediato, richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni persona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il “miracolo”  di riuscire ad armonizzare, con impiego notevole di energie, tutte le componenti della comunità stessa.

Il detto ripreso da Gesù: “Chi non è contro di noi è per noi” sottolinea lo spirito di apertura e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli. Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: “Chi non è con me è contro di me” (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere.

C’è infatti una enorme differenza fra il noi (Lc 9,50 usa “voi”) e il me, vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso. Inoltre l’espressione di Gesù “chi non è con me è contro di me”, va letta anche con il seguito: “Chi non raccoglie con me, disperde”, il che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio.

Senza Gesù, i discepoli non possono fare nulla, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli. L’accostamento al brano dei Numeri della prima lettura accentua questa interpretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata.

Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli. Anzi, come testimonia l’episodio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (pure narrato da Marco), non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli che abilita a “cacciare i demoni”, ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.

Quante volte, a partire dalla famiglia, si sperimenta che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso. Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà, si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati!

Le espressioni successive, accumunate dall’espressione “essere di intralcio, scandalizzare” sembrano essere state poste con intento catechetico, con formule facili da tenere a memoria. Le rinunce sono in vista di “entrare nella vita”, che nel Nuovo Testamento vuol indicare la vita in comunione con Dio. La Geenna, originariamente una valle a ovest di Gerusalemme dove si bruciavano i rifiuti, divenne in seguito simbolo di luogo di pena. “Essere gettato nella Geenna” in contrasto con “entrare nella vita” significa la rovina spirituale e forse anche la distruzione.

La precisazione “nel fuoco inestinguibile” è messa per chiarire il simbolo della Geenna ad ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; e l’aggiunta “dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” è un riferimento al profeta Isaia (66,24). Pur senza spaventarci se le forze egocentriche dell’uomo rialzano continuamente la testa, davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli. Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumento per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, “chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare”, ci risulta forse meno strana e incomprensibile.

Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento. Non c’è “opera di bene” che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – questo il senso del termine “piccoli”, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del Vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore.

Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù, ovvero dato nella gratuità rispettosa e attenta alla singola persona, diviene manifestazione del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.

 

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Dal “sì” di Cristo al “sì” di madre Ricci https://www.lavoce.it/dal-si-di-cristo-al-si-di-madre-ricci/ Wed, 09 Sep 2015 11:02:40 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43101 Le Francescane Angeline con un gruppo di giovani della pastorale giovanile
Le Francescane Angeline con un gruppo di giovani della pastorale giovanile

Il 14 ottobre 1884 a Castelspina, un piccolo paesino dell’Alessandrino, per dono di Dio e per il “sì” di suor Chiara Ricci ha avuto inizio la nostra famiglia religiosa delle suore Francescane Angeline.

Madre Chiara, al secolo Angela Caterina Maddalena Battistina Maria Albertina Ricci, donna affabile, forte, amante della vita e grande educatrice, proveniente da una famiglia benestante di Savona, s’innamora di Dio e vuole seguirlo percorrendo le orme povere e semplici di san Francesco d’Assisi.

A 29 anni decide di entrare a far parte delle Terziarie francescane di Nostra Signora del Monte di Genova, come attesta lei stessa nella sua autobiografia: “Sentivo che il Signore mi voleva nelle Terziarie del Monte, poiché amavo essere povera per amore di Dio”.

Per sentieri provvidenziali e misteriosi (a lei, ma non al Signore), mentre seguiva la gestione di scuole, educandati e orfanotrofi in alcuni paesini dell’Alessandrino, si ritrova a dovere rispondere a una nuova chiamata del Signore. Abbandonandosi fiduciosamente alla volontà di Dio Padre, risponde a questo nuovo appello e, con l’appoggio e il sostegno di padre Innocenzo Gamalero, frate minore originario di Castelspina, si ritrova a essere guida e madre di una piccola famiglia di alcune ragazze che diventeranno le sue prime “figlie”.

Aperta alla volontà di Dio, nel quale ha sempre confidato in modo illimitato, dà vita al nuovo istituto ponendolo fin dall’inizio sotto la protezione di santa Maria degli Angeli e dando, appunto, il nome di “suore Francescane Angeline”. Le sue figlie saranno chiamate a vivere il “sì” di Cristo e di Maria e a testimoniare e annunciare la pace e la riconciliazione, rese possibili dall’incarnazione del Figlio di Dio. Un carisma, un dono dello Spirito santo che si concretizzerà in tutte le opere di misericordia, per rispondere a “tutti coloro che attendono”, come scrive madre Chiara.

In breve tempo la famiglia aumenta e vengono aperte molte case. Oggi abbiamo fraternità in Italia, Bolivia, Argentina, Brasile, Ciad, Congo. Il nostro istituto, nel suo percorso, ha continuato a essere guidato dalla passione per la vita, trasmessa dalla nostra cara madre Chiara. Il suo carisma, la forza della sua fede e la freschezza della sua carità cerchiamo di testimoniarle in ogni luogo e momento, perciò siamo disponibili ovunque ci sia bisogno, sempre al servizio della vita!

Suor Paola Volpini
Suor Paola Volpini

Nel desiderio di custodire la sua eredità, continuiamo a rispondere alle varie necessità, così come siamo e possiamo. In particolare, qui in Umbria abbiamo due fraternità, una ad Assisi a san Giacomo di Murorupto, che è una casa di accoglienza per pellegrini, e una a Santa Maria degli Angeli, dove abitiamo dal 1994. In quest’ultima, che fino al 2013 è stata anche casa di noviziato, si svolge principalmente attività di pastorale giovanile. Qui cerchiamo di vivere e trasmettere alle nuove generazioni la passione per la vita, di indicare loro la strada dell’abbandono fiducioso alla volontà di Dio come percorso per fare un incontro autentico con l’Autore della vita.

Ci mettiamo al fianco dei giovani, accompagnandoli nella loro ricerca vocazionale e nella crescita umana e cristiana; degli adolescenti, proponendo loro iniziative che favoriscono uno sguardo di fiducia in se stessi e verso il futuro; delle famiglie, per sostenerle nella fatica della costruzione delle loro Chiese domestiche. Con questa porzione del popolo di Dio, nella casa di Assisi, condividiamo i percorsi cristiani nella spiritualità francescana angelina attraverso l’associazione “Amici di madre Chiara”, proponendo loro esercizi, giornate di ritiro e di fraternità.

Accogliamo e collaboriamo, inoltre, con molte parrocchie che richiedono di accompagnare i loro giovani sui passi di Francesco e Chiara sia in terra umbra, sia dove risiedono. Le attività di pastorale giovanile ci vedono impegnate anche nella collaborazione con i frati della provincia umbra nel Servizio orientamento giovani che loro stessi offrono.

Alcune sorelle della nostra fraternità, in spirito di servizio verso la Chiesa locale, sono impegnate nella catechesi parrocchiale; nel servizio agli ammalati come ministri straordinari della Comunione e, su richiesta dei Frati minori, nel servizio di accoglienza ai pellegrini presso il santuario di San Damiano.

Siamo una piccola famiglia unita dall’unico desiderio: fare la volontà di Dio, confidando nella Sua benevola provvidenza, con la certezza che “Dio sa quello che fa”, come ripete ancora oggi a ciascuna di noi la nostra fondatrice madre Chiara.

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Ci sentiamo orfani della sua parola https://www.lavoce.it/ci-sentiamo-orfani-della-sua-parola/ Thu, 03 Sep 2015 12:43:15 +0000 https://www.lavoce.it/?p=43040 Cari lettori, alla ripresa delle attività delle nostre comunità diocesane dopo la pausa estiva attendevamo, come ogni anno, i preziosi contributi e suggerimenti dell’indimenticabile don Elio Bromuri sul lavoro pastorale delle nostre Chiese. Lui stesso, all’incontro del nostro settimanale dello scorso 27 giugno, ci ha fornito un’anticipazione delle linee da seguire in un anno non poco impegnativo iniziato lo scorso primo settembre con la Giornata del creato: “Una festa – disse don Elio – che dura un mese intero”.

Soprattutto ci ha esortato a cogliere “la sfida del Giubileo prossimo venturo come una provvidenziale opportunità di rinascita spirituale e morale nella nostra Chiesa e nella società intera, che porti frutti anche in ambito economico e sociale”.

Il nostro amato Direttore è stato chiamato alla Casa del Padre. È ancora impressa nei miei occhi la moltitudine di persone che ha gremito la cattedrale di San Lorenzo il giorno delle esequie.

Non sarà facile fare a meno dei puntuali, obiettivi, sereni e determinati interventi a 360 gradi che hanno sempre caratterizzato i suoi editoriali, pubblicati anche da altri settimanali cattolici italiani. I suoi scritti erano di apertura e di dialogo con la società intera, oltre che con la Chiesa.

Ci sentiamo orfani della sua parola. Sono certo che il nostro don Elio, che speriamo partecipe della comunione dei santi, continuerà a darci preziosi consigli, e soprattutto ci sosterrà per andare avanti, perché ci ha sempre insegnato che l’uomo dinanzi a qualsiasi dolore e sofferenza non deve mai fermarsi, ma continuare – con l’aiuto di Dio – il suo cammino terreno.

Per questo, come non cogliere e fare nostro il suo appello a proseguire la lunga via già percorsa dalla nostra Voce nei suoi sessanta e più anni di pubblicazione? “Otto Chiese, una Voce” diceva spesso e con voce ferma, auspicando – con l’aiuto di amici, benefattori e mecenati vecchi e nuovi, come ebbe a dire nel suo ultimo incontro pubblico del 27 giugno scorso – di “poter dare un segnale di svolta con un’edizione, almeno una volta al mese, tutta a colori, con una redazione arricchita di volontari che possano recepire con maggiore tempo e attenzione le istanze e realizzare l’edizione digitale”.

Il nostro Direttore ci ha lasciato queste “consegne”, che, provvisoriamente e in vista di una generale riorganizzazione della comunicazione ecclesiale regionale per razionalizzare al meglio risorse e professionalità, affidiamo come Vescovi a giornalisti formati alla “scuola” de La Voce di don Elio, che operano da tempo nel settore della comunicazione istituzionale della nostra Chiesa umbra.

Riccardo Liguori, direttore responsabile ad interim, Francesco Carlini e Elisabetta Lomoro avranno il compito di arricchire e a sostenere il lavoro svolto per lunghi anni, al fianco di don Elio, da Maria Rita Valli, caporedattrice, e da tutti i membri della redazione ai quali va il mio sentito ringraziamento.

Dallo spirito di collaborazione si misura anche il grado di unità e di comunione delle Chiese umbre nell’ambito della comunicazione. A tutti auguro un fruttuoso lavoro in continuità con lo stile giornalistico di don Elio. E a tutti gli affezionati lettori auguro un buon prosieguo di lettura della nostra Voce nel ricordo del suo Direttore, consapevole che la sua assenza sarà per molto tempo motivo di rimpianto.

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Un angolo di Bose nella verde Umbria https://www.lavoce.it/un-angolo-di-bose-nella-verde-umbria/ https://www.lavoce.it/un-angolo-di-bose-nella-verde-umbria/#comments Thu, 03 Sep 2015 09:20:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=42995 Gruppo di giovani in visita alla fraternità di San Masseo ad Assisi
Gruppo di giovani in visita alla fraternità di San Masseo ad Assisi

Bose è una comunità di monaci e di monache appartenenti a Chiese cristiane diverse che cercano Dio nell’obbedienza al Vangelo, nella comunione fraterna e nel celibato.

Una vita semplice, che tende all’essenziale, fatta di preghiera e di lavoro. Non c’è infatti un’opera “propria” della comunità monastica, se non quella di credere e vivere in colui che Dio ha mandato: Gesù Cristo.

Senza un progetto particolare, per un grande dono del Signore, la comunità è composta di fratelli e sorelle appartenenti a diverse confessioni cristiane.

Attualmente conta una novantina di fratelli e sorelle che vivono l’unica vocazione monastica cenobitica a Bose (Bi) e nelle diverse fraternità di Ostuni (Br), Assisi, Cellole di San Gimignano (Si) e Civitella San Paolo (Rm).

La presenza della comunità monastica di Bose ad Assisi ha conosciuto una prima stagione con una fraternità di sorelle che ha vissuto al monastero di San Benedetto al Subasio dal 1993 fino al terremoto del 1997.

La ristrutturazione del monastero di San Masseo fondato nella seconda metà dell’XI secolo ha consentito la ripresa della vita monastica in quegli ambienti così cari alla tradizione sia benedettina che francescana. La fraternità di Assisi, ai margini della città, è un luogo di silenzio e di accoglienza per chi cerca un tempo per ritrovare se stesso e la relazione con Signore.

I fratelli, nell’ascolto della Parola, nella vita fraterna, nel lavoro, cercano di unire l’ascolto e l’accoglienza di ogni uomo e donna che bussa alla loro porta per condividere con loro gioie e speranze, tristezze e angosce. Così, con fedeltà sempre da rinnovarsi, si persegue il fine della vita monastica che, come ogni vita cristiana, è la carità, l’amore.

La presenza dei fratelli a San Masseo si caratterizza nell’equilibrio quotidiano tra preghiera e lavoro, e si focalizza attorno alla Parola di Dio, proclamata tre volte al giorno nella liturgia delle ore, pregata nella lectio divina in cella e incarnata nella vita fraterna, nel lavoro e nell’accoglienza degli ospiti, così che possa divenire parola di vita per l’oggi del credente.

Mauro Girotto
Mauro Girotto

Il lavoro quotidiano nell’uliveto, nel vigneto e nell’orto, costituisce una fonte di sostentamento per la comunità. Nel lavoro, come nei servizi comunitari e nella cucina, si cerca di svolgere il proprio compito con semplicità e cura. L’ospitalità è un ministero praticato fin dalle origini della vita monastica, perché accogliendo l’ospite si sa per fede di accogliere Cristo.

Il monaco che si vuole esercitare nell’arte della conoscenza della divina Presenza deve arrivare a saper discernere il volto di Cristo nell’ospite e a far emergere nel mistero grande dell’incontro dell’altro, il Cristo presente, in modo nascosto, in ogni uomo e in ogni donna. Questo ministero assume una connotazione particolare ad Assisi in virtù della valenza ecumenica e anche interreligiosa che la città di san Francesco ha progressivamente assunto.

La fraternità di San Masseo accoglie chiunque cerca un luogo in disparte per un momento di ritiro e riflessione, per fare spazio alla Parola di Dio, per conoscere la lode gratuita nella preghiera della comunità, per fare un’esperienza di vita comune con i fratelli. La natura ecumenica della comunità e i legami fraterni che da sempre uniscono Bose alle Chiese ortodosse e a quelle nate dalla Riforma consente ai fratelli presenti di rendere San Masseo un luogo privilegiato di incontro e di confronto.

Inoltre la posizione del monastero, un po’ defilata rispetto al grande flusso di pellegrini che anima Assisi, può consentire agli stessi membri delle numerose comunità religiose e ai fedeli assisani di avere un luogo raccolto in cui “ritirarsi in disparte e riposare un poco” (Mc 6,31) nella preghiera e nel silenzio, così da riprendere con rinnovato vigore il loro ministero e la loro vita quotidiana.

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Un cuore trafitto nel “cuore verde” https://www.lavoce.it/un-cuore-trafitto-nel-cuore-verde/ Tue, 07 Jul 2015 10:47:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=37670 Il Santuario di Santa Rita da Cascia
Il Santuario di Santa Rita da Cascia

La Provvidenza ha chiamato alla sequela di Cristo una donna nel verde cuore dell’Umbria, quel cuore che fa venire alla mente anche lo stemma dell’Ordine agostiniano.

Un cuore trafitto dalla Parola di Dio e che si infiamma perché toccato dal Suo amore.

Quell’amore che ha infiammato anche il cuore di santa Rita (1381-1457), donna che, chiamata alla sequela di Cristo, unisce in sé la vocazione familiare con quella alla vita consacrata.

Provvidenziale allora in questo Anno in cui stiamo celebrando la vita consacrata e nello stesso tempo chiamati a riflettere sulla vita di famiglia nel Sinodo del prossimo ottobre!

L’Ordine agostiniano a Cascia ha la possibilità di raccontare la propria storia attraverso la presenza ancora viva dei suoi santi, e non solo di santa Rita: non dimentichiamo infatti la beata Teresa Fasce e il beato Simone Fidati, figura rilevante proprio agli inizi della nascita dell’Ordine di sant’Agostino.

Un Ordine che nasce per essere presente nel mondo e nella Chiesa con le sue dimensioni di vita contemplativa e apostolica.

Agostino ha voluto che i monasteri, sia maschili che femminili, fossero presenti per essere delle “piccole Chiese” e per testimoniare che è possibile essere “un cuor solo e un’anima sola”, protèsi verso Dio, e che la comunione dei beni fosse una condizione e un frutto di questa comunione, perché nessuno si trovasse nel bisogno.

La presenza agostiniana in Umbria coincide con l’inizio giuridico dell’Ordine agostiniano nel XIII secolo. Nel 1300 la provincia Vallis Spoletinae comprendeva almeno 17 conventi. Lo sviluppo degli Agostiniani in Umbria, in senso numerico, continuò per tutta la prima metà del secolo XIII. Nell’ottobre 1358 il superiore generale dell’Ordine, Gregorio da Rimini, divideva in due la provincia della Valle di Spoleto, “la quale – diceva – primeggia, per dono di Dio, tra tutte le province dell’Ordine sia per la moltitudine dei conventi che per il numero e buona vita dei suoi religiosi, come sappiamo da relazione di persone degne di fede e perché lo abbiamo visto noi stessi”.

L’incidenza delle comunità agostiniane nel territorio umbro era rilevante: lo si deduce dalla mole grandiosa delle chiese e dei conventi che generalmente si impone ancora oggi nella struttura urbanistica delle città. Anche Cascia può offrire questo patrimonio attraverso una storia di presenza agostiniana che nasce nel XIII secolo con il convento di Sant’Agostino, e che dopo la soppressione si rende visibile in modo diverso attraverso il servizio al santuario di Santa Rita.

Un santuario che ha come caratteristica particolare quella di accogliere pellegrini di tutto il mondo, mossi dal desiderio di accostarsi ai sacramenti e di trovare un po’ di pace attraverso la testimonianza di santa Rita. Tale santuario è stato voluto fortemente da madre Teresa Fasce e dagli Agostiniani suoi contemporanei, i quali avevano intuito il bene che avrebbe potuto fare questo luogo alle anime, attraverso soprattutto l’accostamento ai sacramenti.

Padre Giuseppe Pagano
Padre Giuseppe Pagano

Come comunità agostiniane, offriamo momenti di fondamentale importanza. Accoglienza: offrire ai pellegrini un ambiente fraterno, per alleviare le fatiche del viaggio fisico, umano e spirituale.

Vita sacramentale: il santuario offre la possibilità di accostarsi ai sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia, riservando a essi dei luoghi appropriati.

Devozione a santa Rita: normalmente chi viene a Cascia porta nel cuore il desiderio di fermarsi un po’ di tempo di fronte alla cappella dove si trova l’urna che conserva le spoglie della Santa.

Sono momenti forti, perché in quei pochi attimi di sosta tante sono le preghiere che vengono elevate alla Santa degli impossibili!

Spiritualità agostiniana: le comunità agostiniane dei frati e delle monache da anni cercano di trasmettere la spiritualità agostiniana, stimolati dal desiderio un continuo cammino di rinnovamento, segnato dalla presenza dello Spirito santo.

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La strada è: fidarsi di Gesù https://www.lavoce.it/la-strada-e-fidarsi-di-gesu/ Wed, 01 Jul 2015 12:23:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=37081 Un momento della celebrazione
Un momento della celebrazione

La parrocchia di San Pietro a Terni ha festeggiato il patrono con solennità e in comunione con la basilica di San Pietro a Roma in virtù del “vincolo spirituale di affinità” tra le due chiese che chiama a coltivare con profondo affetto la venerazione del Principe degli apostoli e, dunque, a rafforzare la comunione con il Papa e la Chiesa universale.

A rinsaldare questo vincolo spirituale la presenza del card. Gerhard Müller, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, che ha presieduto la solenne celebrazione nella chiesa di Terni.

“Pietro – ha affermato nell’omelia – ha sperimentato che la fedeltà di Dio è più grande delle nostre infedeltà e più forte dei nostri rinnegamenti. Si rende conto che la fedeltà del Signore allontana le nostre paure e supera ogni umana immaginazione. Anche a noi, oggi, Gesù rivolge la domanda: ‘Mi ami tu?’.

Lo fa proprio perché conosce le nostre paure e le nostre fatiche. Pietro ci mostra la strada: fidarsi di Lui, che ‘conosce tutto’ di noi, confidando non sulla nostra capacità di essergli fedeli, quanto sulla Sua incrollabile fedeltà. Gesù non ci abbandona mai, perché non può rinnegare se stesso. È fedele. La fedeltà del Signore nei nostri confronti tiene sempre acceso in noi il desiderio di servirlo e di servire i fratelli nella carità.

Per mezzo della comunione di vita con Gesù, con il Signore glorificato – ha aggiunto il porporato – e della partecipazione sacramentale al corpo e al sangue di Cristo, la Chiesa diventa un solo Corpo in cui Cristo stesso è presente e opera nello Spirito come il Signore glorificato. Egli non opera solo nella sua Chiesa, ma si rende anche presente attraverso la vita comunitaria, gli atti sacramentali e i ministeri insiti nella Chiesa”.

Salutando i numerosi fedeli presenti, ha ricordato il vincolo spirituale che lega le due chiese e ringraziato per la calorosa accoglienza tutti, in particolare i parroci don Adolfo e don Francesco e il vescovo Piemontese.

Nella giornata dei santi Pietro e Paolo è stata celebrata anche la festa nella parrocchia di San Paolo dal Vescovo, che ha presieduto la solenne celebrazione esortando tutti a vivere pienamente la vita ecclesiale diocesana come Chiesa di comunione e missione: “La Chiesa si sperimenta in una Chiesa diocesana segno di un territorio in unione con il vescovo, dove si sperimenta la gioia del Signore, legati gli uni altri altri, abbracciati dal Signore Gesù e da Maria santissima”.

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Gesù per le nostre strade https://www.lavoce.it/gesu-per-le-nostre-strade/ Wed, 10 Jun 2015 12:57:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=35177 La processione del Corpus Domini a Orvieto
La processione del Corpus Domini a Orvieto

“Dio non lascia solo nessuno, non lo lascia cadere. È con il Suo popolo, sempre disposto a perdonare. L’eucaristia è il sacramento dell’immensa misericordia di Dio che non finisce mai, ma ci accompagna nel cammino della vita. Mangiando la carne di Cristo e bevendo il suo sangue, diveniamo a poco a poco trasformati”.

Queste le parole del card. Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, a Orvieto domenica 7 giugno per presiedere la celebrazione eucaristica e la solenne processione del Corpus Domini accanto al nostro vescovo mons. Benedetto Tuzia.

“L’Eucaristia – ha detto il Cardinale in duomo – è il sacramento della conoscenza di un Amore che chiede di essere ricambiato con l’amore, con gratitudine e riconoscenza.

Dio condivide con noi, e noi siamo chiamati a condividere nella comunità della famiglia. Oggi porteremo il Sacramento in processione in questa antica e bellissima città, come segno che Gesù vuole essere presente nelle nostre case e nelle nostre famiglie: nessuno è escluso dal suo amore.

Non possiamo condividere il pane eucaristico senza condividere anche il pane quotidiano, con i nostri gesti. Per il bene degli altri. Con noi celebra tutto il mondo, l’intera Chiesa”.

In marcia, sotto il sole di giugno per rendere onore al Corporale, sono tornate a sfilare anche le principali autorità civili e militari, le tante rappresentanze dell’associazionismo e del volontariato cittadino e poi la confraternita del Ss. Sacramento, i custodi della santa Pietra di Bolsena, la confraternita di S. Ansano, la fraternità di S. Pancrazio, la delegazione della staffetta Praga-Bolsena-Orvieto. E ancora: i Cavalieri di S. Ermete, la confraternita di S. Rocco, le confraternite della Misericordia della diocesi, laici, gruppi di preghiera, suore, presbiterio diocesano ed estero.

Il corteo storico, creato da Lea Pacini, che dal 1951 impreziosisce la giornata del Corpus Domini, ha visto quest’anno alcune piccole ma importanti novità nell’articolazione della parata tri-partita tra Corteo del podestà, Corteo del capitano del popolo e Corteo della città.

A determinare l’ordine di uscita delle rappresentanze dei quartieri è stato quello di arrivo della staffetta (corsa nell’anno del 50°, eccezionalmente, nel pomeriggio della vigilia) ovvero: Olmo, Corsica, Serancia e Santa Maria della Stella. Per il secondo anno, in piazza della Repubblica è stato proposto l’omaggio del capitano del popolo al podestà, con le bandiere delle terre “assoggettate” schierate sul balcone del municipio, con un suggestivo colpo d’occhio.

Non ha tradito l’attesa nemmeno la sfilata della sesta quadriglia dalle Picche ferrate (con costumi che non uscivano dagli anni ’80, opportunamente rimessi in sesto con nuove borchie) e l’ottavo cavaliere Monaldeschi della Vipera, con un mantello mai uscito. E poi l’ app realizzata per l’occasione da Vetrya con l’innovativa funzione radar in grado di riconoscere in tempo reale la posizione e la storia dei principali personaggi attraverso la “tecnologia di prossimità”.

Messa del 4 giugno

Il 4 giugno in cattedrale a Orvieto si è svolta la celebrazione del Corpus Domini nella versione più “familiare”, nel senso che vi hanno partecipato solamente i fedeli della Chiesa locale. La messa presieduta dal vescovo Tuzia è stata molto coinvolgente e partecipata. Il rito si è stato solenne e nello stesso tempo semplice, con servizio svolto da giovani ministranti ben preparati.

Al temine dell’omelia il Vescovo ha istituito nel ministero dell’accolitato il seminarista Eugenio Campini, ulteriore tappa che lo conduce verso il sacerdozio. Numerosi erano i bambini della prima comunione e i ragazzi e della cresima, con la presenza gioiosa dei fanciulli che frequentano la scuola materna “Maria Bambina”.

La processione è uscita dal duomo accompagnata dalle note della banda musicale cittadina e ha percorso alcune vie adiacenti la cattedrale, facendo sosta nella chiesa del monastero delle Clarisse di san Bernardino. Alcuni ragazzi, portando bandierine di diverso colore, hanno aiutato la processione a non spezzettarsi.

 

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La vera ricchezza della Chiesa https://www.lavoce.it/la-vera-ricchezza-della-chiesa/ Wed, 27 May 2015 13:46:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=34282 L'albero dei carismi durante la veglia di Pentecoste
L’albero dei carismi durante la veglia di Pentecoste

La benedizione del fuoco e le sette lampade simboleggianti i doni dello Spirito, portate all’altare dai religiosi e religiosi delle famiglie presenti in diocesi: un segno di comunione nella Veglia di Pentecoste, che ha unito in un incontro di partecipata preghiera i gruppi, associazioni e movimenti della diocesi.

“La Pentecoste – ha detto il vescovo Piemontese – è il compimento della nostra esperienza del Signore risorto, che ci accompagna nella missione e nella testimonianza in tutta la nostra vita.

È la realtà della Chiesa arricchita di doni e carismi vari, che ammiriamo nei volti dei nostri fratelli, ognuno dei quali, diverso dagli altri, manifesta un aspetto particolare dello Spirito santo.

In questa Veglia siamo invitati a compiere questa esperienza nella nostra Chiesa particolare che, come quella universale, è comunione e missione.

Espressioni che identificano la nostra realtà, che vogliono essere la prospettiva nella quale intendiamo muoverci come Chiesa, riprendere il nostro cammino, intensificando la comunione tra carismi diversi, tra doni: della vita consacrata, gruppi, movimenti, associazioni, particolari cammini di spiritualità, tutti verso il Signore per abbracciare il Signore ispirati, illuminati e accompagnati dallo Spirito santo. E tutti pronti per la missione di annunciare il Vangelo ai nostri giorni e alle nostre comunità”.

La Veglia ha unito le diverse realtà ecclesiali che hanno simbolicamente appeso a un albero spoglio le “foglie” dei loro carismi per dare linfa nuova alla Chiesa, nella quale essenziale è l’apporto dei laici. “Nelle scelte pastorali – per citare Papa Francesco – la sensibilità ecclesiale (che è appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo: di umiltà, compassione, misericordia, concretezza, saggezza) si esplica nel rinforzare l’indispensabile ruolo dei laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono. Laici che non dovrebbero avere bisogno del vescovo-pilota o di input clericali per assumersi le loro responsabilità come battezzati”.

Nella Veglia si è pregato anche per i cristiani perseguitati perché – ha concluso il Vescovo – con l’aiuto dello Spirito “vivano la testimonianza senza la paura costante di essere uccisi”; perché lo Spirito “converta il cuore di tanti persecutori; perché ispiri nella Chiesa carismi generosi che si dedichino a costruire la comunione che impegnino nella missione. Perché tutti possiamo essere felici di essere cristiani”.

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In totale dedizione ai poveri https://www.lavoce.it/in-totale-dedizione-ai-poveri/ Wed, 27 May 2015 10:00:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=34195 Festa per la beatificazione di Oscar Romero a San Salvador
Festa per la beatificazione di Oscar Romero a San Salvador

Se i persecutori di mons. Romero “sono spariti nell’ombra dell’oblio e della morte, la memoria di Romero invece continua a essere viva e a dare conforto a tutti i derelitti e gli emarginati della terra”: lo ha sottolineato il card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cause dei santi, che sabato 23 maggio ha presieduto a San Salvador la solenne celebrazione per la beatificazione dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero Galdámez, ucciso in odium fidei il 24 marzo 1980.

Nella sua omelia il card. Amato ha sottolineato che l’“opzione per i poveri” di Romero “non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori, ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto”.

Mons. Romero non si fece scoraggiare dalle minacce di morte né dalle critiche quotidiane che riceveva, anzi andava avanti senza rancori per nessuno.

Per questo, ha sottolineato il Cardinale, non è un “simbolo di divisione, ma di pace, di concordia, di fratellanza. Ringraziamo il Signore per questo suo servo fedele, che alla Chiesa ha donato la sua santità e all’umanità la sua bontà e la sua mitezza”.

La Conferenza episcopale salvadoregna, nel messaggio pubblicato per la beatificazione di mons. Romero – intitolato Entra nella gioia del tuo Signore (Mt 25,21) – ricorda che “la morte di mons. Romero commosse il mondo”. Da allora, in questi trentacinque anni, “il cammino non è stato facile… La difficoltà maggiore è stata la manipolazione della figura e delle parole del Beato”. Per questo nel loro messaggio i Vescovi sottolineano, citando ampiamente le sue stesse parole, che Romero “fu uomo di Dio”, uomo di profonda comunione, totalmente abbandonato alla volontà di Dio.

Fu anche “uomo della Chiesa”, secondo il suo motto episcopale Sentire cum Ecclesia , a cui dedicò le quattro lettere pastorali scritte durante il suo ministero di arcivescovo.

In una di esse “spiegò ampiamente che la Chiesa esiste per annunciare e rendere presente il mistero di Cristo” e illustrò come la Chiesa che desiderava costruire in El Salvador fosse “in totale sintonia con la dottrina del Concilio Vaticano II come è stata intepretata dai documenti di Medellin”.

L’aspetto più conosciuto di Romero fu “il suo amore per i poveri e la sua completa dedizione per la promozione e la difesa della loro dignità come persone e come figli di Dio”, facendo propria l’opzione dei Vescovi latinoamericani espressa a Puebla nel 1977.

L’ultimo aspetto su cui si soffermano i Vescovi riguarda “mons. Romero testimone della fede fino allo spargimento del sangue”. Egli – scrivono – “fu assassinato perché amava i poveri, sull’esempio del suo Maestro, Gesù di Nazareth. A loro prestò la sua voce di profeta, e a loro dedicò la sua vita, rinunciando alla comoda soluzione di abbandonare il gregge e fuggire come fanno i mercenari”.

“Questo è l’uomo di Dio che a partire dal 23 maggio veneriamo come beato. La sua testimonianza ci stimoli a vivere coerentemente gli impegni battesimali. La sua parola illumini il nostro cammino di vita cristiana. La sua intercessione apra vie di riconciliazione tra noi, e ci aiuti a vincere tutte le forme di violenza, perché si stabilisca tra noi il Regno della vita, della giustizia, della verità, dell’amore e della pace”.

 

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Uno per Uno per Uno = Uno https://www.lavoce.it/uno-per-uno-per-uno-uno/ Tue, 26 May 2015 13:37:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=34121 Abbiamo constatato che, con l’Ascensione, Gesù manda i discepoli in tutto il mondo assicurando loro la sua presenza nel loro agire; abbiamo meditato che la Pentecoste è il momento del dono dello Spirito alla Chiesa nascente e a quanti accolgono l’invito ad amare come Egli ama.

Oggi, festa della santissima Trinità, contempliamo e gioiamo di questo “gioco d’amore” tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo guardando a Dio nella Sua intima relazione triadica, fatto Uno dall’amore. Gesù ci invita a entrare e immergerci in questa circolarità d’amore per scoprirne la bellezza, le conseguenze sulla nostra vita. Una comunione, quella delle tre Persone divine, che non resta tra sé e sé, ma invita ciascuno di noi a prenderne parte, misticamente.

La Trinità, questa straordinaria “famiglia”, nel Suo disegno salvifico ha scelto di entrare nella storia degli uomini per essere un tutt’uno con noi, e trasformarci in figli di Dio. Oggi questa festa ci interroga più che mai sulla grande sfida che viviamo in un contesto dove sembra massima la difficoltà e la frammentazione dei rapporti, dove l’individualità è assolutizzata, dove la diversità fa paura, anche quella tra uomo e donna; ma dove l’anelito e la condizione di vivere assieme, gli uni accanto agli altri, ha una dimensione globale come mai fino ad ora. Il Vangelo dunque ci rivela la Trinità non tanto e solo come una verità da credere, ma come una realtà da vivere.

Don Tonino Bello scriveva: “Secondo una suggestione semplicissima e splendida, nella Trinità non c’è Uno più Uno più Uno, uguale a Tre. Ma c’è Uno per Uno per Uno, che fa sempre Uno. Quando si vive veramente l’uno per l’altro, densificando questo rapporto di oblatività, la comunione raggiunge il vertice”.

La Trinità è un’esperienza di amore che solo amando possiamo comprendere, trovandovi luce per affrontare le sfide che ci sorprendono, e da riversare sugli altri. Come persone singole, come sposi, come comunità, dobbiamo entrare sempre di più nel dinamismo trinitario donatoci da Gesù con la sua morte e risurrezione, per sperimentarne le innumerevoli conseguenze – oltreché spirituali – culturali, relazionali, sociali, economiche, familiari, in un’esistenza resa nuova e plasmata dal “dimorare nel seno della Trinità”. L’esperienza mistica della Trinità, infatti, vissuta nella dimensione comunitaria, può aprire prospettive inedite e feconde di novità per tutte le dimensioni della vita umana, aiutandoci a trovare risposte ai più spinosi interrogativi dell’uomo di oggi, come l’incontro fra culture diverse, necessario e urgente per la pace universale e per la civiltà globale. E così, anche attraverso un nuovo umanesimo, l’umanità assaporerà in tutta la sua ricchezza il dono ricevuto dall’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù.

Da questo si comprende l’enorme portata dell’annuncio del Vangelo della Trinità, e della responsabilità che la comunità cristiana e la Chiesa hanno nei confronti dell’intera famiglia umana. La grande missione di “fare discepoli tutti i popoli”, figli dell’unico Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo, è dunque di estrema attualità anche oggi.

È proprio Gesù con la sua vicinanza, che incoraggia i discepoli “turbati” e dubbiosi e trasmette loro il potere ricevuto dal Padre. Così come, se facciamo esperienza della sua presenza nell’eucaristia, nella Parola, nella fraternità della comunione, nella missione, Egli oggi farà fiorire anche il deserto. E la vita trinitaria che fluisce liberamente, nei luoghi della comunione, genera l’unità che è il segno della Sua presenza fra noi, e il dono supremo che attira sulla terra la vita del Cielo e affascina: “L’unità, che divina bellezza! Chi potrà mai azzardarsi a parlare di lei? È ineffabile! Si sente, si vede, si gode, ma è ineffabile. Tutti godono della Sua presenza, tutti soffrono della Sua assenza. È pace, è gaudio, è ardore, è amore, è clima di eroismo, di somma generosità. È Gesù tra noi!… E io mi sono resa conto che oggi il mondo che non crede, o che crede diversamente, è particolarmente toccato da questa presenza di Gesù” (Chiara Lubich).

 

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Temi forti trattati con “sensibilità ecclesiale” https://www.lavoce.it/temi-forti-trattati-con-sensibilita-ecclesiale/ Thu, 21 May 2015 08:59:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=33782 Papa Francesco apre l’Assemblea generale della Cei
Papa Francesco apre l’Assemblea generale della Cei

“Sensibilità ecclesiale” è “appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo: di umiltà, di compassione, di misericordia, di concretezza – la carità di Cristo è concreta – e di saggezza”. Parole di Papa Francesco nel suo terzo discorso ai Vescovi italiani, pronunciato in apertura della 68a Assemblea generale della Cei.

Demoni? Fossero solo 7!

Appena il Papa è arrivato nell’aula del Sinodo, non è mancata una battuta scherzosa: “Quando leggo il Vangelo di Marco , dico: ‘Questo Marco ce l’ha con la Maddalena perché aveva ospitato sette demoni. E poi penso: ma io quanti ne ho ospitati? E rimango zitto”.

Dopo il discorso, il Papa si è invece fermato “a porte chiuse” con i Vescovi per un dialogo fatto di domande e risposte. I dieci minuti del discorso pubblico di apertura, molto intensi, hanno rimarcato come la sensibilità ecclesiale si sia “indebolita a causa del continuo confronto con gli enormi problemi mondiali e della crisi, che non risparmia nemmeno l’identità cristiana ed ecclesiale”.

Bisogna correre ai ripari, prendendo la parola contro la “corruzione privata e pubblica” e reagendo alle varie forme di “colonizzazione ideologica”. Per vincere la sfida, però, è decisivo il versante pastorale: i laici non hanno bisogno di “vescovi-pilota”, devono essere capaci di assumersi le loro responsabilità in tutti gli ambiti. Non servono convegni che “narcotizzano” le comunità, con documenti astrusi e incomprensibili: ci vogliono “collegialità e comunione” tra diocesi “ricche materialmente e vocazionalmente” e diocesi “in difficoltà”.

Andare controcorrente

In un quadro “realisticamente poco confortante” – ha detto Bergoglio – “la nostra vocazione cristiana ed episcopale è quella di andare controcorrente: ossia di essere testimoni gioiosi del Cristo risorto per trasmettere gioia e speranza agli altri”.

“La nostra vocazione – ha aggiunto Francesco citando Isaia – è ascoltare ciò che il Signore ci chiede: ‘Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio’. A noi viene chiesto di consolare, di aiutare, di incoraggiare, senza alcuna distinzione, tutti i nostri fratelli oppressi sotto il peso delle loro croci, accompagnandoli, senza mai stancarci di operare per risollevarli con la forza che viene solo da Dio… È assai brutto incontrare un consacrato abbattuto, demotivato o spento: egli è come un pozzo secco dove la gente non trova acqua per dissetarsi”, ha ammonito.

Di qui la necessità di recuperare “la gioia del Vangelo, in questo momento storico ove spesso siamo accerchiati da notizie sconfortanti, da situazioni locali e internazionali che ci fanno sperimentare afflizione e tribolazione”.

No alla corruzione

La “sensibilità ecclesiale”, per Francesco, “comporta anche di non essere timidi o irrilevanti nello sconfessare e nello sconfiggere una diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata che è riuscita a impoverire, senza alcuna vergogna, famiglie, pensionati, onesti lavoratori, comunità cristiane, scartando i giovani, sistematicamente privati di ogni speranza sul loro futuro, e soprattutto emarginando i deboli e i bisognosi”. È ancora la sensibilità ecclesiale che “come buoni pastori, ci fa uscire verso il popolo di Dio per difenderlo dalle colonizzazioni ideologiche che gli tolgono l’identità e la dignità umana”.

Laici emancipati

“I laici che hanno una formazione cristiana autentica non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del vescovo-pastore”.

È un forte invito all’emancipazione quello del Papa, secondo il quale la sensibilità “ecclesiale e pastorale si concretizza anche nel rinforzare l’indispensabile ruolo di laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono”. Anche nelle scelte e nei documenti pastorali “non deve prevalere l’aspetto teoretico-dottrinale astratto, quasi che i nostri orientamenti non siano destinati al nostro popolo o al nostro Paese ma soltanto ad alcuni studiosi e specialisti. Invece, dobbiamo perseguire lo sforzo di tradurle in proposte concrete e comprensibili”.

Ordine del giorno

Con il discorso del Papa si è aperta lunedì 18 maggio la 68a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. I lavori si sono svolti in Vaticano nell’aula del Sinodo, terminando giovedì 21. Martedì 19, dopo l’intervento del card. Bagnasco, i Vescovi si sono confrontati sul tema principale dell’Assemblea: la verifica della recezione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium . Tra gli altri argomenti all’ordine del giorno: il 5° Convegno ecclesiale nazionale (Firenze, 9-13 novembre), la presentazione di una griglia di lavoro sul tema centrale della scorsa Assemblea generale (“La vita e la formazione permanente dei presbiteri”), l’appuntamento con il Giubileo straordinario della misericordia (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016), l’approvazione del bilancio della Cei e la ripartizione dei fondi dell’8 per mille.

 

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La novità del comandamento https://www.lavoce.it/la-novita-del-comandamento/ Wed, 06 May 2015 14:22:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=32852 Il Vangelo di domenica narra del testamento che Gesù lasciò ai suoi discepoli nell’Ultima Cena, prima di andare verso l’orto del Getsemani; è davvero la “divina Charta della carità di Dio verso di noi, e della carità nostra verso tutti”. Gesù sente, per la morte ormai vicina, di dover aprire il suo cuore agli apostoli donando loro ciò che ha di più prezioso: l’amore trinitario, la natura stessa del legame che da sempre esiste in Dio. È un brano di vita intima, di grandissima confidenza, di commozione. Quello narrato da Giovanni in questi versetti è l’apice della missione di Gesù tra gli uomini: il dono che li abilita ad amare, anzi a ri-amare con lo stesso Amore suo. La novità assoluta, sconvolgente, impensabile, tanto attesa e da sempre agognata dall’uomo: amare di un amore che porta la felicità. Due realtà che l’uomo ha perso quel giorno in cui voltò le spalle a Dio nell’Eden; le due cose che ogni uomo cerca spasmodicamente. E spesso le cerca insieme perché intuisce che sono legate tra loro. Cerca amore e felicità nel rapporto tra uomo e donna, quasi come nostalgia di quell’Eden dove la prima coppia era fedele immagine di Dio.

Desideriamo amare ed essere amati, e soffriamo perché non riusciamo ad amare e ad essere amati come vorremmo, o come pensiamo di dover essere amati. Gesù sazia per sempre questo desiderio, e lo fa nell’ora più oscura della sua vita terrena – quella del fallimento e sconfitta segnata dalla condanna a morte – che si rivela come l’ora della “glorificazione”. In lui, che ama fino al dono della propria vita, si manifesta la vera natura della potenza di Dio, che è potenza di Amore. Per questo “Dio è stato glorificato in lui” ( Gv 17,31). È la più grande delle teofanie! Quello che avviene è l’abbraccio dell’uomo da parte di un Dio innamorato da sempre di lui, che gli si svela ora con il linguaggio del cuore. L’amore reciproco che gli umani possono avere tra loro inizia da questo Amore su cui l’uomo può contare sempre, da ora, e con il quale può generare rapporti realmente nuovi a immagine di quelli trinitari. Così tra coniugi, in famiglia, nelle comunità.

Gesù lascia come testamento un comandamento che è “nuovo” per la perfezione a cui lui l’ha portato, e perché costituisce il distintivo dei discepoli: “Figlioli, amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. Giovanni vede nell’amore reciproco il comandamento per eccellenza della Chiesa, la cui vocazione è appunto essere comunione, essere unità. Poteva Gesù lasciarci un testamento più bello di questo? Nella comunità, la cui profonda vita è l’amore reciproco, Gesù può rimanere efficacemente presente. Attraverso la comunità egli può continuare a rivelarsi al mondo, può continuare ad influire sul mondo. Con il comandamento nuovo, lega i suoi discepoli a ciò che ha vissuto, dona loro di amare come lui ama. Quella sera, ha pregato: “L’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17,26). Non dà una parola da osservare: dona se stesso. Con il dono del comandamento nuovo, Gesù fa dono della sua presenza. In casa, tra moglie e marito, con i figli, gli altri parenti, prima di lavorare, prima di studiare, prima di andare a messa, prima di ogni attività, possiamo verificare se regna fra noi il mutuo amore. Se è così, su questa base, tutto ha valore. Senza questo fondamento, nulla è gradito a Dio.

Il comandamento è nuovo, è capace di produrre novità. “Cieli nuovi e terra nuova” sono oggi l’aspirazione di tutti gli uomini e donne che sono impegnati in un superamento dell’attuale sistema sociale, così carico di ingiustizie e sfruttamenti. L’uomo da solo non riesce; cade con facilità nella tentazione di provarci con la forza e la violenza, ma il centro propulsore della storia non sono la lotta e la violenza. Per questo, prima di patire e morire, il Signore Gesù ha lasciato ai suoi il “comandamento nuovo”, che si ricapitola tutto nell’amore vicendevole, manifestazione dell’amore divino che circola tra il Padre e il Figlio. Se noi, che siamo discepoli del Signore e quindi suoi amici, dovessimo fare di questo testamento la regola della nostra vita, tutti dovrebbero riconoscerci proprio perché il nostro “dirci” cristiani non sarebbe una parola vuota, ma testimonianza di amore e di vita. È per questo amore che Cielo e terra sono collegati come da una grande corrente. Per questo amore, la comunità cristiana è portata nella sfera di Dio, e la realtà divina vive in terra dove i credenti si amano.

 

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La nostra vita è la Vite https://www.lavoce.it/la-nostra-vita-e-la-vite/ Wed, 29 Apr 2015 17:57:36 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31998 Nelle domeniche che vanno da Pasqua alla Pentecoste, la Chiesa propone passi del discorso “di commiato” che Gesù fa ai suoi. Attraverso un paragone, Gesù oggi ci rivela che tutti coloro che gli sono legati mediante una adesione incondizionata, vivono in Lui. Come i tralci della vite, che sono generati e nutriti dalla vite stessa, noi cristiani siamo legati in modo vitale a Gesù Cristo nella comunità della Chiesa.

L’immagine presentata nel brano evangelico di questa domenica, molto cara al popolo di Israele, è abbondantemente usata dai Profeti e nei Salmi: la vigna, la vite, i tralci, i frutti. Ma Gesù, per la prima volta, dice di se stesso “io sono la vite” e chiama tralci i suoi discepoli; ne consegue che la vigna è il regno di Dio e che il vignaiolo è il Padre. Qui, oltre al vitale legame con lui, a Gesù preme evidenziare un altro aspetto: i frutti. Un tralcio staccato dalla vite non ha futuro, non ha più alcuna speranza, non ha fecondità, non gli resta che seccare ed essere bruciato. È la sterilità completa… anche se sgobbi da mattina a sera, anche se credi di essere utile all’umanità, anche se gli amici ti applaudono, anche se i beni terreni crescono, anche se fai sacrifici notevoli.

Per essere un tralcio verde e rigoglioso che fa corpo con la vite occorre credere in Cristo, vivere conformemente a questa fede mettendo in pratica le parole di Gesù senza trascurare quei mezzi divini, i sacramenti, che Cristo ha lasciato, mediante in quali ottieni o riacquisti l’unità eventualmente spezzata con lui, e l’amore al fratello. La fecondità della vita del cristiano è legata a doppia mandata all’intima unione con Gesù, la vera vite, e alle potature del vignaiolo, il Padre. Tale fecondità costituisce la cartina di tornasole del legame vitale che fa scorrere nella vita di tutti i giorni la linfa stessa che il Risorto “passa” ai tralci e che viene dal seno della vita di Dio. “Chi rimane in me e io in lui”. Unità nostra con lui, e anche unità sua con noi. Se siamo uniti a lui, lui è in noi, è presente nell’intimo del nostro cuore. Ne nasce un rapporto e un colloquio d’amore reciproco, una collaborazione tra Gesù e te, discepolo suo. La conseguenza è quella di fare molto frutto, proprio come un tralcio ben unito alla vite dona grappoli saporosi. “Molto frutto” significa “molto”! Cioè può voler dire portare nell’umanità che ci circonda una corrente di bene, di comunione, di amore reciproco.

Cogliamo allora nel matrimonio e nella vita coniugale e familiare i tratti del solido legame alla Vite che dà solidità ai rapporti e ne genera di nuovi intorno, allargando la trama dei legami di comunione che generano la Chiesa e i brani di socialità fraterna. L’unicità dell’amore per Gesù, unica e vera vite, rende unico e duraturo il rapporto tra gli sposi. Così come le fragilità, i dolori, che si succedono negli anni sono le potature che fanno fruttificare a vantaggio di tutti, i membri della famiglia stessa e i suoi vicini. Il credente, per la sua scelta esistenziale di fondo, si colloca all’interno della vita stessa di Dio e ne fa parte. Questo significa che è parte della Vite.

Ogni battezzato è inserito in Cristo e ne condivide la vita e il destino (Rm 6,4-5), ne è rivestito come di un abito nuovo, è cristificato al punto tale che non è più lui a vivere, ma è Cristo stesso a vivere e operare in lui (Gal 2,20). Essere tralci non dipende da noi, bensì dalla vite, di cui siamo parte in virtù del battesimo, ma il rimanerci dipende da noi. Il termine “rimanere” non indica un esserci effimero e provvisorio, ma persistente e perseverante. Significa dimorare, sempre. Significa fare di quella vite, che è Cristo, la nostra dimora abituale. Ma se Gesù è nel Padre e noi siamo in lui, e lui in noi, allora anche noi siamo nel Padre; siamo inseriti nel ciclo vitale della stessa Trinità. Visto in questa prospettiva, il nostro vivere quotidiano, saldamente uniti alla Vite, diventa un vivere nella Trinità, diventa vivere la stessa vita della Trinità, per cui tutto ciò che facciamo – anche le cose più umili e insignificanti – acquista un valore salvifico immenso.

Perché non siamo più noi che viviamo e operiamo, ma il Padre, il Figlio e lo Spirito vivono e operano in noi, e noi diventiamo la loro dimora: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Il nostro vivere, dunque, diventa dimora della Trinità come la Chiesa; e la famiglia, come “ecclesia”, ne diventa un’icona.

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Alleanza d’amore https://www.lavoce.it/alleanza-damore/ Wed, 22 Apr 2015 13:18:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=31671 “Il Creatore presenta Eva ad Adamo” (Monreale, duomo)
“Il Creatore presenta Eva ad Adamo” (Monreale, duomo)

Nell’udienza generale di mercoledì in piazza San Pietro, Papa Francesco ha proseguito la catechesi sulla famiglia sul tema “Maschio e femmina li creò”, tratto dalla Genesi.

“Lo Spirito santo – ha affermato -, che ha ispirato tutta la Bibbia, suggerisce per un momento l’immagine dell’uomo solo: gli manca qualcosa, senza la donna. E suggerisce il pensiero di Dio, quasi il sentimento di Dio che lo guarda, che osserva Adamo solo nel giardino: è libero, è signore… ma è solo. E Dio vede che questo non è bene: è come una mancanza di comunione, gli manca una comunione, una mancanza di pienezza. ‘Non è bene’ dice Dio, e aggiunge: ‘Voglio fargli un aiuto che gli corrisponda’ (Gen 2,18).

Allora Dio presenta all’uomo tutti gli animali. L’uomo dà a ognuno di essi il suo nome (e questa è un’altra immagine della signoria dell’uomo sul creato), ma non trova in alcun animale l’altro simile a sé. L’uomo continua solo. Quando finalmente Dio presenta la donna, l’uomo riconosce esultante che quella creatura, e solo quella, è parte di lui: ‘Osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne’ (2,23)”.

“Finalmente – ha proseguito Francesco – c’è un rispecchiamento, una reciprocità. Quando una persona vuole dare la mano a un’altra, deve avere qualcun altro davanti a sé”. Se uno dà la mano ma non ha nessuno di fronte a sé, “gli manca la reciprocità. Così era l’uomo, gli mancava qualcosa per arrivare alla sua pienezza, gli mancava reciprocità”.

La donna – ha quindi sottolineato il Papa – “non è una ‘replica’ dell’uomo. Viene direttamente dal gesto creatore di Dio. L’immagine della costola non esprime affatto inferiorità o subordinazione, ma, al contrario, che uomo e donna sono della stessa sostanza e sono complementari, e che hanno questa reciprocità. Il fatto che, sempre nella ‘parabola’, Dio plasmi la donna mentre l’uomo dorme, sottolinea proprio che lei non è in alcun modo una creatura dell’uomo, ma di Dio.

E suggerisce anche un’altra cosa: per trovare la donna – e possiamo dire, per trovare l’amore nella donna – l’uomo prima deve sognarla, e poi la trova”.

Poi, la crisi: “La fiducia di Dio nell’uomo e nella donna, ai quali affida la terra, è generosa, diretta, e piena. Si fida di loro. Ma ecco che il Maligno introduce nella loro mente il sospetto, l’incredulità, la sfiducia. E infine arriva la disobbedienza al comandamento che li proteggeva. Cadono in quel delirio di onnipotenza che inquina tutto e distrugge l’armonia. Anche noi lo sentiamo dentro di noi, tante volte, tutti.

Il peccato genera diffidenza e divisione fra l’uomo e la donna. Il loro rapporto verrà insidiato da mille forme di prevaricazione e di assoggettamento, di seduzione ingannevole e di prepotenza umiliante, fino a quelle più drammatiche e violente. La storia ne porta le tracce. Pensiamo, ad esempio, agli eccessi negativi delle culture patriarcali. Pensiamo alle molteplici forme di maschilismo, dove la donna era considerata di seconda classe. Pensiamo alla strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica.

Ma pensiamo anche alla recente epidemia di sfiducia, di scetticismo, e persino di ostilità che si diffonde nella nostra cultura, in particolare a partire da una comprensibile diffidenza delle donne, riguardo a un’alleanza tra uomo e donna che sia capace, al tempo stesso, di affinare l’intimità della comunione e di custodire la dignità della differenza”.

“Se – ha esortato – non troviamo un soprassalto di simpatia per questa alleanza, capace di porre le nuove generazioni al riparo dalla sfiducia e dall’indifferenza, i figli verranno al mondo sempre più sradicati da essa, fin dal grembo materno. La svalutazione sociale per l’ alleanza stabile e generativa dell’uomo e della donna è certamente una perdita per tutti. Dobbiamo riportare in onore il matrimonio e la famiglia!

La Bibbia dice una cosa bella: l’uomo trova la donna, si incontrano, e l’uomo deve lasciare qualcosa per trovarla pienamente. ‘Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre’ per andare da lei. È bello! Questo significa incominciare una strada. L’uomo è tutto per la donna, e la donna è tutta per l’uomo”.

Il Papa ha così concluso: “La custodia di questa alleanza dell’uomo e della donna, anche se peccatori e feriti, confusi e umiliati, sfiduciati e incerti, è dunque, per noi credenti, una vocazione impegnativa e appassionante nella condizione odierna.

Lo stesso racconto della creazione e del peccato, nel suo finale, ce ne consegna un’icona bellissima: ‘Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelle e li vestì’ (Gen 3,21). È un’immagine di tenerezza verso quella coppia peccatrice, che ci lascia a bocca aperta: la tenerezza di Dio per l’uomo e per la donna! È un’immagine di custodia paterna della coppia umana. Dio stesso cura e protegge il Suo capolavoro”.

 

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Amiamo i Patroni… e imitiamoli, però! https://www.lavoce.it/amiamo-i-patroni-e-imitiamoli-pero/ Fri, 30 Jan 2015 15:48:39 +0000 https://www.lavoce.it/?p=30129 Mentre stendo queste note, si sta svolgendo la “luminaria” per la festa del patrono della città e diocesi di Perugia, san Costanzo. Una processione con autorità religiose e civili, popolo e figuranti con abbigliamenti medievali, simile – anche se più modesto – al Corteo storico di Orvieto. Una festa voluta e celebrata congiuntamente dalla Chiesa e dal Comune fin dal Trecento. Qualcosa di simile, e anche più ricco e sontuoso, avviene annualmente in varie città e perfino paesi grandi e piccoli. Il popolo si ritrova e si riconosce nel suo Patrono, che diviene il santo Protettore cui si affidano le ansie, i dolori e le angosce.

Per limitarci alle diocesi umbre possiamo ricordare, oltre a san Costanzo per Perugia (29 gennaio), la prossima festa del celebre patrono di Terni san Valentino (14 febbraio), i già celebrati san Ponziano a Spoleto e Feliciano a Foligno, i santi Florido e Amanzio a Città di Castello, san Rufino ad Assisi, san Giuseppe a Orvieto, senza dimenticare san Fortunato a Todi e sant’Ubaldo a Gubbio. Andrebbero aggiunti i patroni di città un tempo sedi vescovili, e poi la abbondantissima serie di patroni delle parrocchie, e i titolari dei santuari cari alle popolazioni di un determinato territorio.

Le manifestazioni esteriori, anche in un tempo considerato laico e secolarizzato, “tengono” e anzi si arricchiscono fino a diventare esagerate, finalizzate all’incremento del turismo locale, allo spettacolo folkloristico e al lancio dei prodotti tipici enogastronomici. Niente di male in tutto questo. Tutto si tiene e tutto si lega. Con un richiamo, però: i santi Patroni sono da ricordare, esaltare, invocare, ma soprattutto da considerare modelli di vita da imitare. Sono persone eroiche, legate a un ben determinato tempo e spazio, spesso lontani da noi per condizioni sociali e culturali, ma portatori di messaggi universali sempre attuali, quali la fedeltà a Cristo fino al martirio, l’amore alla Chiesa-comunità cui si sono dedicati, la determinazione e il coraggio nell’annuncio del Vangelo ai non credenti, la difesa di valori umani e cristiani. Varrebbe la pena proporre un esame di coscienza collettivo per mettere in luce la distanza tra la nostra vita morale e i modelli che celebriamo.

Tra questi Patroni rifulgono in modo speciale i fondatori delle comunità cristiane, o considerati tali, o comunque scelti quali patroni delle diocesi, cioè di comunità cristiane guidate da un vescovo come pastore e padre. Una storia delle diocesi ci porta a considerare non solo quelle attualmente esistenti (222 in Italia), ma moltissime altre che nel tempo si sono ridotte per numero di fedeli e sono state accorpate ad altre.

Del numero delle diocesi si è tornati a parlare a seguito della dichiarazione di Papa Francesco secondo cui in Italia le diocesi sarebbero troppe. I giornali locali, non solo in Umbria, hanno dato spazio a calcoli e ipotesi. Il taglio dei discorsi fa leva su criteri di tipo funzionale, economico e anche burocratico che, pur essendo utili per la vita di una comunità organizzata, non sono sufficienti per comunità che hanno storia, tradizione, ricchezze spirituali e un legame fraterno che trascende qualsiasi spending review.

Alcuni Vescovi, interpellati, si sono espressi affermando che si fidano del Papa. “Sa quello che fa” ha detto mons. Sorrentino. Il card. Bassetti ha detto che la questione non è attualmente all’ordine del giorno; quando ciò avverrà, sarà la Cei ad affrontarla, indicando criteri, regole e assetti. Le comunità ecclesiali, d’altra parte, esistono e resistono nel tempo in forme diverse, come è avvenuto nella storia, a patto che conservino la comunione nella fede e l’appartenenza a un popolo guidato da un Pastore, che può avere sede in un luogo o in un altro entro un territorio omogeneo.

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