commento Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/commento/ Settimanale di informazione regionale Fri, 01 Dec 2017 16:11:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg commento Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/commento/ 32 32 Vegliate dunque! https://www.lavoce.it/vegliate-dunque/ Fri, 01 Dec 2017 08:00:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50689 logo reubrica commento al Vangelo

“Il tempo di Avvento ci restituisce l’orizzonte della speranza, una speranza che non delude perché è fondata sulla Parola di Dio. … Lui è fedele” (Papa Francesco 01.12.’13). Con domenica 3 dicembre inizia infatti il tempo dell’Avvento e il nuovo anno liturgico, Anno B, caratterizzato dall’ascolto del Vangelo secondo Marco. Quello di Marco è un Vangelo “riscoperto” nel senso che le testimonianze in merito al suo commento integrale non sono anteriori al V secolo, ma dalla maggior parte degli studiosi è ritenuto il primo ad essere stato composto perché Matteo e Luca dimostrano di dipendere da lui per le parti che hanno in comune. Lo stile letterario è intrigante oltre che suggestivo. Solo per citare alcuni elementi, presenta a volte la composizione a “incastro” come l’episodio dell’emorroissa incastonato nel mezzo del racconto della risurrezione della figlia di Giairo o come la narrazione della cacciata dei venditori dal tempio inserito tra la maledizione del fico e la descrizione dei suoi effetti. Oppure, tanto per evidenziare un’altra peculiarità, torna di frequente il n. 3 (3 traversate del lago, 3 scene del Battista, 3 momenti di Gesù nel Getsemani). Centrale è il tema della Pasqua annunciata per l’appunto 3 volte e presagita da Bartimeo, dalla donna di Betania e dal giovane che fugge lasciando il lenzuolo al momento dell’arresto di Gesù (e che alcuni esegeti ritengono identificabile con l’Autore). Le testimonianze in merito all’evangelista Marco ci provengono da Papia e da Clemente i quali ritengono che sia stato “interprete di Pietro” secondo il primo e “segretario di Pietro” secondo l’altro, comunque a fianco del primo degli Apostoli. E sempre del II secolo è la testimonianza di sant’Ireneo che lo identifica con “Giovanni Marco” nominato negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere paoline. L’intento di Marco è quello di rivolgersi sia ai cristiani provenienti dal giudaismo che a quelli provenienti dal paganesimo, e a tutti indistintamente di presentare il Messia il cui titolo viene riconosciuto dai malati e dagli indemoniati, ma taciuto da Gesù stesso (segreto messianico) perché sarà evidente nel momento supremo della Passione, Morte e Risurrezione. Considerato il messaggio catastrofico del cap. 13, si può ritenere che la stesura di questo Vangelo sia avvenuta tra la persecuzione avviata da Nerone contro i cristiani e la distruzione del tempio (o subito dopo). E proprio dalla conclusione del cap. 13 è tratta la pagina di Vangelo che ci riguarda. È l’ultimo discorso di Gesù prima di avviarsi alla Passione ed è significativa l’ubicazione in cui tutto ciò avviene. Gesù sta lasciando il tempio ed uno dei discepoli, estasiato, lo invita ad ammirare il tempio (“Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”), ma Gesù gli predice che non ne rimarrà “pietra su pietra”. Il versetto successivo informa che Gesù è “seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio” e viene interrogato da 4 apostoli sugli eventi futuri circa il tempio. Il tempio quindi è motivo di attenzione da parte di Gesù ed è per questo istigato ad annunciare le prove cui saranno sottoposti i cristiani: è la pericope della così detta “piccola apocalisse” che presenta richiami con l’apocalittica del libro di Daniele, anticipa gli episodi della Passione e conferma la continuità con l’Antico Testamento grazie all’uso del titolo “Figlio dell’uomo”. E nonostante il soggetto sia il “Figlio dell’uomo” che giungerà con “grande potenza e gloria”, tuttavia “quel giorno” della venuta solo il Padre lo conosce. Il brano ruota allora intorno al verbo “vigilare” (gregoreo) che è ripetuto 3 volte (34.35.37) e trova riscontro nel racconto dell’agonia nel Getsemani, in occasione della prova suprema di Gesù, e che anche in quella narrazione è riportato 3 volte (14,34.37.38). Tutto è costruito ad arte come anche la struttura concentrica di quest’ultima parte del discorso: parabola (28-29), tempo (30), autorità delle “parole” di Gesù (31, v. centrale), ancora il tempo (32) e di nuovo una parabola (33-37). E questa nuova parabola interpella l’uditore perché prende consapevolezza di essere lui colui a cui il “padrone” ha lasciato di adempiere il suo “compito”, ma nello stesso tempo c’è anche il “portinaio” che vigila perché deve essere pronto ad aprire al padrone e ad avvertire i servi del suo arrivo. Le indicazioni circa l’arrivo del “padrone” sono comunque date: sera, mezzanotte, canto del gallo, mattino. Questi orari corrispondono ai turni dei soldati romani che montavano la guardia di notte, ma alludono anche alle veglie notturne (Sal 90,4; 134,1) che si celebravano nel tempio. Tutto ben predisposto ed organizzato. Così il credente oggi: la Chiesa già gli fornisce i “metodi” e gli “orari” per essere desto. I Sacramenti e la Parola di Dio aiutano ad essere audaci come i soldati e costanti come gli addetti al tempio perché l’Avvento del Signore sia vissuto secondo il significato originario con cui nel mondo antico si indicava l’ Adventus ossia l’“arrivo”, l’imminente “presenza” di un re o della divinità! C’è anche l’altra opportunità che è quella di dedicare una domenica dell’Anno liturgico “all’approfondimento della Sacra Scrittura per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo” (Misericordia et misera 7), iniziativa che coinvolge alcune diocesi in questo tempo dell’Avvento. E Maria ci accompagna in questo cammino: “Santa Maria, Vergine dell’Avvento, stai aspettando la luce, le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro volto. E sveglieremo insieme l’aurora” (Don Tonino Bello). PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 63, 16b-17; 64, 2-7 SALMO RESPONSORIALE Salmo 79 SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo ai Corinzi 1, 3-9 VANGELO Dal Vangelo di Marco 13, 33-37  ]]>
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“Il tempo di Avvento ci restituisce l’orizzonte della speranza, una speranza che non delude perché è fondata sulla Parola di Dio. … Lui è fedele” (Papa Francesco 01.12.’13). Con domenica 3 dicembre inizia infatti il tempo dell’Avvento e il nuovo anno liturgico, Anno B, caratterizzato dall’ascolto del Vangelo secondo Marco. Quello di Marco è un Vangelo “riscoperto” nel senso che le testimonianze in merito al suo commento integrale non sono anteriori al V secolo, ma dalla maggior parte degli studiosi è ritenuto il primo ad essere stato composto perché Matteo e Luca dimostrano di dipendere da lui per le parti che hanno in comune. Lo stile letterario è intrigante oltre che suggestivo. Solo per citare alcuni elementi, presenta a volte la composizione a “incastro” come l’episodio dell’emorroissa incastonato nel mezzo del racconto della risurrezione della figlia di Giairo o come la narrazione della cacciata dei venditori dal tempio inserito tra la maledizione del fico e la descrizione dei suoi effetti. Oppure, tanto per evidenziare un’altra peculiarità, torna di frequente il n. 3 (3 traversate del lago, 3 scene del Battista, 3 momenti di Gesù nel Getsemani). Centrale è il tema della Pasqua annunciata per l’appunto 3 volte e presagita da Bartimeo, dalla donna di Betania e dal giovane che fugge lasciando il lenzuolo al momento dell’arresto di Gesù (e che alcuni esegeti ritengono identificabile con l’Autore). Le testimonianze in merito all’evangelista Marco ci provengono da Papia e da Clemente i quali ritengono che sia stato “interprete di Pietro” secondo il primo e “segretario di Pietro” secondo l’altro, comunque a fianco del primo degli Apostoli. E sempre del II secolo è la testimonianza di sant’Ireneo che lo identifica con “Giovanni Marco” nominato negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere paoline. L’intento di Marco è quello di rivolgersi sia ai cristiani provenienti dal giudaismo che a quelli provenienti dal paganesimo, e a tutti indistintamente di presentare il Messia il cui titolo viene riconosciuto dai malati e dagli indemoniati, ma taciuto da Gesù stesso (segreto messianico) perché sarà evidente nel momento supremo della Passione, Morte e Risurrezione. Considerato il messaggio catastrofico del cap. 13, si può ritenere che la stesura di questo Vangelo sia avvenuta tra la persecuzione avviata da Nerone contro i cristiani e la distruzione del tempio (o subito dopo). E proprio dalla conclusione del cap. 13 è tratta la pagina di Vangelo che ci riguarda. È l’ultimo discorso di Gesù prima di avviarsi alla Passione ed è significativa l’ubicazione in cui tutto ciò avviene. Gesù sta lasciando il tempio ed uno dei discepoli, estasiato, lo invita ad ammirare il tempio (“Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”), ma Gesù gli predice che non ne rimarrà “pietra su pietra”. Il versetto successivo informa che Gesù è “seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio” e viene interrogato da 4 apostoli sugli eventi futuri circa il tempio. Il tempio quindi è motivo di attenzione da parte di Gesù ed è per questo istigato ad annunciare le prove cui saranno sottoposti i cristiani: è la pericope della così detta “piccola apocalisse” che presenta richiami con l’apocalittica del libro di Daniele, anticipa gli episodi della Passione e conferma la continuità con l’Antico Testamento grazie all’uso del titolo “Figlio dell’uomo”. E nonostante il soggetto sia il “Figlio dell’uomo” che giungerà con “grande potenza e gloria”, tuttavia “quel giorno” della venuta solo il Padre lo conosce. Il brano ruota allora intorno al verbo “vigilare” (gregoreo) che è ripetuto 3 volte (34.35.37) e trova riscontro nel racconto dell’agonia nel Getsemani, in occasione della prova suprema di Gesù, e che anche in quella narrazione è riportato 3 volte (14,34.37.38). Tutto è costruito ad arte come anche la struttura concentrica di quest’ultima parte del discorso: parabola (28-29), tempo (30), autorità delle “parole” di Gesù (31, v. centrale), ancora il tempo (32) e di nuovo una parabola (33-37). E questa nuova parabola interpella l’uditore perché prende consapevolezza di essere lui colui a cui il “padrone” ha lasciato di adempiere il suo “compito”, ma nello stesso tempo c’è anche il “portinaio” che vigila perché deve essere pronto ad aprire al padrone e ad avvertire i servi del suo arrivo. Le indicazioni circa l’arrivo del “padrone” sono comunque date: sera, mezzanotte, canto del gallo, mattino. Questi orari corrispondono ai turni dei soldati romani che montavano la guardia di notte, ma alludono anche alle veglie notturne (Sal 90,4; 134,1) che si celebravano nel tempio. Tutto ben predisposto ed organizzato. Così il credente oggi: la Chiesa già gli fornisce i “metodi” e gli “orari” per essere desto. I Sacramenti e la Parola di Dio aiutano ad essere audaci come i soldati e costanti come gli addetti al tempio perché l’Avvento del Signore sia vissuto secondo il significato originario con cui nel mondo antico si indicava l’ Adventus ossia l’“arrivo”, l’imminente “presenza” di un re o della divinità! C’è anche l’altra opportunità che è quella di dedicare una domenica dell’Anno liturgico “all’approfondimento della Sacra Scrittura per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo” (Misericordia et misera 7), iniziativa che coinvolge alcune diocesi in questo tempo dell’Avvento. E Maria ci accompagna in questo cammino: “Santa Maria, Vergine dell’Avvento, stai aspettando la luce, le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro volto. E sveglieremo insieme l’aurora” (Don Tonino Bello). PRIMA LETTURA Dal Libro del profeta Isaia 63, 16b-17; 64, 2-7 SALMO RESPONSORIALE Salmo 79 SECONDA LETTURA I Lettera di Paolo ai Corinzi 1, 3-9 VANGELO Dal Vangelo di Marco 13, 33-37  ]]>
Le dieci vergini https://www.lavoce.it/le-dieci-vergini/ Fri, 10 Nov 2017 08:00:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50479 domenica della parola

Vegliate e tenetevi pronti”: sono gli imperativi che ascoltiamo nel Canto al Vangelo di questa XXXII Domenica, imperativi che sono riportati nel capitolo 24 del Vangelo secondo Matteo e che alludono alla “venuta del Figlio dell’uomo” alla quale si attende con la vigilanza del cuore e della mente. A questo insegnamento segue infatti la parabola delle “10 vergini” che la Liturgia ci propone perché da essa apprendiamo cosa davvero è necessario per saper attendere e scorgere la “venuta del Figlio dell’uomo”: la sapienza. Intanto i soggetti: 10 vergini, le lampade e lo sposo. L’ambito è quello dell’imminenza delle nozze che, secondo la tradizione giudaica, voleva che ad accompagnare lo sposo - solitamente verso sera - fossero le giovani donne, e in effetti qui ce ne sono 10 ad attendere lo sposo per “uscirgli incontro” ed avviare così il corteo nuziale. Anche nell’Antico Testamento sono presenti le donne che “escono incontro” all’amato o all’eroe (1Sam 18,6), ne accolgo festose l’arrivo per esaltarne le gesta ed unirsi alla sua gloria. Pure di un’altra donna, seppur legata ad un altro elemento che è quello della “lampada”, leggiamo nell’AT. Si tratta della “donna virile” dei Proverbi che è realizzata, stimata e, per lasciar intendere che mai nessun momento da lei è trascurato, è detto che “non si spegne di notte la sua lampada”, ed è quindi sempre pronta per qualsiasi evenienza. Ci sono quindi motivi che accomunano queste categorie femminili, ma, a fare la differenza, è la “stoltezza” di 5 delle 10 vergini che non hanno provveduto l’olio per alimentare le lampade. Di tutte e 10 si dice che sono “vergini” e che “si addormentarono”. Nel contesto, il carattere della “verginità” esprime l“‘idoneità” al matrimonio e in seguito, nel cristianesimo nascente, anche la qualità di chi si dona interamente a Cristo (1Cor 7,25.32). In ogni caso, si riferisce ad una persona che ha il cuore trepidante in attesa dell’“oggetto” del suo appagamento sentimentale. (S. Faustina esclama: “O Dio di grande Maestà, o mio Sposo, Tu sai che nulla soddisfa il cuore di una vergine”). Relativamente al “sonno” a cui tutte cedono, non è da considerare negativamente perché la letteratura antico e neo testamentaria attribuisce al sonno uno dei “luoghi” privilegiati in cui Dio si manifesta. Solo per citare alcuni esempi, si pensi al sonno a cui è indotto Adamo da Dio stesso, alla vocazione di Samuele o alla misteriosa paternità di Giuseppe, lo sposo di Maria, svelata appunto nel sonno. Non è quindi il sonno a destare antipatia nei riguardi dei soggetti della parabola, quanto piuttosto la sprovvedutezza delle 5 che sono sfornite di olio. Cos’è allora quest’“olio”? L’olio sigilla la presenza di Dio (Gn 28,18), attribuisce un potere indelebile (Es 29,7; 1Sam 16,13), è l’ornamento della gioia e della ricchezza (Sal 92,11) ed è soprattutto l’alimentazione della “lampada” che “sta al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza” (Es 27, 20-21). All’interno della Testimonianza venivano conservati la manna, il bastone di Aronne e le Tavole della Torah. La “lampada” accesa significava dunque la presenza del Signore nella Torah e la fede viva e desta dei credenti (lampada che sempre arde nella sinagoga davanti all’Armadio che conserva i rotoli della Torah). Allora ecco che il numero delle vergini ci aiuta nella comprensione del messaggio: 5 + 5. Il 5 rimanda necessariamente alla Torah (5 Libri) e quindi 5 vergini assecondano la Torah e sono “sagge”, le altre 5 non la assecondano e perciò sono “stolte”. La parabola inizia proponendo l’immagine del “Regno dei Cieli”, e quindi “si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, a tutti assolutamente” (S. Agostino, Disc. 93) e sicuramente desideriamo identificarci con le vergini sapienti che entrano alle “nozze”. Ma la sapienza va conquistata. “Essa si lascia vedere da coloro che la amano ... chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà ... chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni”. C’è infatti un altro comune denominatore nella Parola di questa domenica: la vigilanza con cui vanno vissute le ore notturne e mattutine e la prontezza che deve condizionare la quotidianità. Il Salmista ricerca il suo Dio sin “dall’aurora” e san Paolo parla della “voce dell’arcangelo e del suono della tromba di Dio” che irrompono a un “ordine”. La tradizione rabbinica afferma che “l’adulto deve occuparsi con lo studio della Torah ogni ora del giorno” (Berakot 9) e che “chiunque impara la Torah di notte viene ricompensato con una grazia durante il giorno” (Avodah Zarah 3). Al di là del fatto che determinate ore ben si confanno all’apprendimento, tuttavia non è solo all’attività mentale che si allude, perché è l’uomo nella sua interezza che deve tendere alla sapienza. E la “sapienza” è Gesù e consiste nel “saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù” (Papa Francesco, 24.04.’13). PRIMA LETTURA Dal libro della Sapienza 6, 12-16 SALMO RESPONSORIALE Salmo 62 SECONDA LETTURA Dalla I lettera ai Tessalonicesi 4, 13-18 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 1-13]]>
domenica della parola

Vegliate e tenetevi pronti”: sono gli imperativi che ascoltiamo nel Canto al Vangelo di questa XXXII Domenica, imperativi che sono riportati nel capitolo 24 del Vangelo secondo Matteo e che alludono alla “venuta del Figlio dell’uomo” alla quale si attende con la vigilanza del cuore e della mente. A questo insegnamento segue infatti la parabola delle “10 vergini” che la Liturgia ci propone perché da essa apprendiamo cosa davvero è necessario per saper attendere e scorgere la “venuta del Figlio dell’uomo”: la sapienza. Intanto i soggetti: 10 vergini, le lampade e lo sposo. L’ambito è quello dell’imminenza delle nozze che, secondo la tradizione giudaica, voleva che ad accompagnare lo sposo - solitamente verso sera - fossero le giovani donne, e in effetti qui ce ne sono 10 ad attendere lo sposo per “uscirgli incontro” ed avviare così il corteo nuziale. Anche nell’Antico Testamento sono presenti le donne che “escono incontro” all’amato o all’eroe (1Sam 18,6), ne accolgo festose l’arrivo per esaltarne le gesta ed unirsi alla sua gloria. Pure di un’altra donna, seppur legata ad un altro elemento che è quello della “lampada”, leggiamo nell’AT. Si tratta della “donna virile” dei Proverbi che è realizzata, stimata e, per lasciar intendere che mai nessun momento da lei è trascurato, è detto che “non si spegne di notte la sua lampada”, ed è quindi sempre pronta per qualsiasi evenienza. Ci sono quindi motivi che accomunano queste categorie femminili, ma, a fare la differenza, è la “stoltezza” di 5 delle 10 vergini che non hanno provveduto l’olio per alimentare le lampade. Di tutte e 10 si dice che sono “vergini” e che “si addormentarono”. Nel contesto, il carattere della “verginità” esprime l“‘idoneità” al matrimonio e in seguito, nel cristianesimo nascente, anche la qualità di chi si dona interamente a Cristo (1Cor 7,25.32). In ogni caso, si riferisce ad una persona che ha il cuore trepidante in attesa dell’“oggetto” del suo appagamento sentimentale. (S. Faustina esclama: “O Dio di grande Maestà, o mio Sposo, Tu sai che nulla soddisfa il cuore di una vergine”). Relativamente al “sonno” a cui tutte cedono, non è da considerare negativamente perché la letteratura antico e neo testamentaria attribuisce al sonno uno dei “luoghi” privilegiati in cui Dio si manifesta. Solo per citare alcuni esempi, si pensi al sonno a cui è indotto Adamo da Dio stesso, alla vocazione di Samuele o alla misteriosa paternità di Giuseppe, lo sposo di Maria, svelata appunto nel sonno. Non è quindi il sonno a destare antipatia nei riguardi dei soggetti della parabola, quanto piuttosto la sprovvedutezza delle 5 che sono sfornite di olio. Cos’è allora quest’“olio”? L’olio sigilla la presenza di Dio (Gn 28,18), attribuisce un potere indelebile (Es 29,7; 1Sam 16,13), è l’ornamento della gioia e della ricchezza (Sal 92,11) ed è soprattutto l’alimentazione della “lampada” che “sta al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza” (Es 27, 20-21). All’interno della Testimonianza venivano conservati la manna, il bastone di Aronne e le Tavole della Torah. La “lampada” accesa significava dunque la presenza del Signore nella Torah e la fede viva e desta dei credenti (lampada che sempre arde nella sinagoga davanti all’Armadio che conserva i rotoli della Torah). Allora ecco che il numero delle vergini ci aiuta nella comprensione del messaggio: 5 + 5. Il 5 rimanda necessariamente alla Torah (5 Libri) e quindi 5 vergini assecondano la Torah e sono “sagge”, le altre 5 non la assecondano e perciò sono “stolte”. La parabola inizia proponendo l’immagine del “Regno dei Cieli”, e quindi “si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, a tutti assolutamente” (S. Agostino, Disc. 93) e sicuramente desideriamo identificarci con le vergini sapienti che entrano alle “nozze”. Ma la sapienza va conquistata. “Essa si lascia vedere da coloro che la amano ... chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà ... chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni”. C’è infatti un altro comune denominatore nella Parola di questa domenica: la vigilanza con cui vanno vissute le ore notturne e mattutine e la prontezza che deve condizionare la quotidianità. Il Salmista ricerca il suo Dio sin “dall’aurora” e san Paolo parla della “voce dell’arcangelo e del suono della tromba di Dio” che irrompono a un “ordine”. La tradizione rabbinica afferma che “l’adulto deve occuparsi con lo studio della Torah ogni ora del giorno” (Berakot 9) e che “chiunque impara la Torah di notte viene ricompensato con una grazia durante il giorno” (Avodah Zarah 3). Al di là del fatto che determinate ore ben si confanno all’apprendimento, tuttavia non è solo all’attività mentale che si allude, perché è l’uomo nella sua interezza che deve tendere alla sapienza. E la “sapienza” è Gesù e consiste nel “saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù” (Papa Francesco, 24.04.’13). PRIMA LETTURA Dal libro della Sapienza 6, 12-16 SALMO RESPONSORIALE Salmo 62 SECONDA LETTURA Dalla I lettera ai Tessalonicesi 4, 13-18 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 25, 1-13]]>
Uno solo è il Padre https://www.lavoce.it/uno-solo-padre/ Thu, 02 Nov 2017 17:46:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50420 domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
domenica della parola

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, proclamiamo con il Canto al Vangelo anticipando e confermando insieme il messaggio della Parola di Dio di questa 31ma Domenica che ha appunto come finalità la riflessione in merito alla missione di “guida” che i credenti sono chiamati a vivere. Il brano evangelico coincide con la prima parte del capitolo 23, capitolo che fa percepire le difficoltà relazionali all’interno del cristianesimo nascente tra giudei rimasti tali e i giudei convertiti alla sequela di Gesù. Il capitolo è infatti caratterizzato per lo più (23,13-32) dai “guai” che Gesù indirizza agli “scribi e ai farisei” rivelando così un tono polemico nei riguardi di questi capi religiosi. Nello specifico del brano che ci riguarda questa domenica (23,1-12), Gesù ha appena ammutolito farisei, sadducei ed erodiani ed ora si rivolge “alla folla e ai suoi discepoli”, ma lo spunto da cui avvia il suo discorso è appunto la figura degli scribi e dei farisei. “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei” esordisce Gesù rifacendosi all’autorità che ritenevano di avere perché tramandata loro da Mosè e con cui queste due categorie esercitavano il loro insegnamento stando posizionati su seggi dai quali presiedevano le loro assemblee. E Gesù riconosce il loro importante ruolo perché esorta i suoi uditori a “fare” e a “osservare” quanto insegnano perché di fatto propongono le parole di Mosè. “Osservare” (gr. teréo) è lo stesso verbo che Gesù userà dopo la risurrezione per invitare gli Undici a proporre l’osservanza da parte delle “genti” degli insegnamenti di Gesù. A questo punto Gesù elenca alcuni atteggiamenti che evidenziano l’incoerenza tra il “dire” e il “fare” degli scribi e dei farisei. Intanto: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. “Fardello” deriverebbe dall’arabo fard, parola che indicava l’involto “pesante” che si poneva sulla schiena del cammello. Qui si riferisce all’attività interpretativa degli scribi che, per garantire la scrupolosa osservanza della Torah, l’avevano di fatto “appesantita” con numerose e minuziose prescrizioni che imponevano ai discepoli, ma che loro riuscivano ad evitare grazie all’acribia argomentativa svolta a loro favore. “Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano, infatti i loro filatteri e allungano le frange”. I filatteri (tefillim) sono piccoli contenitori di brani biblici pergamenati che, in virtù di Dt 6,8, vengono legati sulla fronte e sul braccio durante la preghiera e significanti la fede nel Dio unico che deve coinvolgere tutte le facoltà umane. Le frange (zizit) sono sfilacciature che si applicano ai 4 angoli dello scialle e sono fornite di un cordoncino di porpora viola e, vedendo queste frange, gli israeliti si ricorderanno di “tutti i precetti del Signore”(Nm 15,39). Quest’ultimo paramento è stato da Gesù stesso indossato (Mt 9,20; 14,36) e infatti, ciò che Lui critica, non è il suo utilizzo quanto l’ostentazione che si dimostra con l’ingigantire i suoi dettagli. La ricerca dell’esteriorità è ancora polemizzata quando Gesù mette in risalto la sete di protagonismo nello scegliere “posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze”. Soprattutto Gesù si dilunga nel convincere dell’inopportunità di chiamare qualcuno “rabbi”. Il titolo ebraico rab vuol dire “grande”. Dall’uso che gli evangelisti ne fanno, si deduce che già al tempo di Gesù rab veniva attribuito ai maestri autorevoli, anche se gli apostoli nel riferirsi a Gesù lo chiamano con il titolo di “Signore” (ad eccezione di Giuda che lo chiama “rabbi”) e con ciò Matteo vuol trasmettere l’idea della superiorità di Gesù sui capi religiosi del suo popolo. E tuttavia Gesù suggerisce di non attribuire a nessuno i titoli di ‘rabbi’, di ‘padre’ e di ‘guida’ perché “una sola è la vostra guida, il Messia”. In definitiva, Gesù non declassa la dottrina degli scribi e dei farisei che anzi proviene da Mosè e come tale va “praticata” e “ascoltata”, ma contesta l’incoerenza tra l’insegnamento e il comportamento. Anche nella I Lettura tramite Malachia il Signore usa parole di rimprovero nei riguardi delle guide che sono state “d’inciampo a molti” ottenendo solo disistima da parte del popolo. E tornando al brano evangelico, consideriamo che per diverso tempo gli ebrei e i seguaci di Cristo hanno convissuto pregando negli stessi luoghi e leggendo la stessa Sacra Scrittura. Gesù pertanto mette in guardia i cristiani “nascenti” dal lasciarsi condizionare dalla suggestione di una religiosità solo esteriore finalizzata all’esaltazione di sé, e li incoraggia piuttosto ad un servizio umile che dia risalto agli altri. La “guida” giusta è quindi quella caratterizzata dall’amore e dalla gratuità così come si evince dalla I lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica i cui membri hanno invece stima dei loro maestri perché sono stati “amorevoli come una madre”, “affezionati” al punto da essere disposti a dare la vita. Così oggi nella Chiesa: “Quanti hanno la missione di guide sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager, ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando se stesso, ci ha salvati con la sua misericordia” (Papa Francesco 26.05.’15). PRIMA LETTURA Dal libro di Malachia 1, 14b - 2,2b. 8-10 SALMO RESPONSORIALE Salmo 130 SECONDA LETTURA I lettera ai Tessalonicesi 2, 7b - 9.13 VANGELO Dal Vangelo di Matteo 23, 1-12]]>
Un amore concreto https://www.lavoce.it/un-amore-concreto/ Sun, 29 Oct 2017 08:00:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50358 domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>
domenica della parola

"Ti amo, Signore, mia forza", dichiara il salmista che ha sperimentato l’amore di Dio attraverso interventi concreti di Lui nella sua vita. E di amore ci parla la Parola di Dio di questa 30ma domenica del T. O., ma di un amore che si prova perché prima lo si è ricevuto. Il contesto evangelico da cui deduciamo il messaggio è la terza diatriba tra Gesù e i Suoi “avversari”. Dopo la prima che ha visto protagonisti gli erodiani inviati dai farisei (22,15-22) e la seconda portata avanti dai sadducei (22,23-33), questa è la volta dei farisei che impostano in prima persona la provocazione. Anzi, è un capo di loro, un “dottore della Legge” a farsi avanti e ad interrogare Gesù: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Il titolo “Maestro” riconosciuto a Gesù può essere stato pronunciato con sincerità perché Gesù ha appena chiuso la bocca ai rivali dei farisei, cioè ai sadducei. Inadeguata potrebbe sembrare la domanda sul “grande comandamento”. Nella tradizione giudaica, così come ci è pervenuto nel Talmud, erano totalizzati 613 precetti, di cui 365 “negativi” (n. dei giorni dell’anno) e 248 “positivi” (n. delle ossa che si riteneva avessero gli esseri umani). Ebbene, tra questi, ce n’era uno considerato “grande”? Per Gesù poteva costituire un trabocchetto visto che nella Sacra Scrittura si legge “Tu hai promulgato i tuoi precetti perché siano osservati interamente” e ancora “non dovrò vergognarmi se avrò considerato tutti i tuoi comandi” (Sal 119), per dire che l’uomo che ha osservato “tutti” i precetti e solo lui è un “giusto” e tale da poter essere fiero di sé. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura citando quello che è il cuore della dottrina e della preghiera israelita: l’ascolto! È il noto brano dello “Shemà, Israel” (“Ascolta, Israele”) che due volte al giorno veniva e ancora oggi viene recitato dagli ebrei osservanti, tra l’altro come obbligo espresso in uno dei precetti. Sebbene qui non venga riportato da Gesù l’imperativo “Ascolta”, forse perché scontato, è ripreso invece quasi letteralmente il testo del Deuteronomio (6,5): “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Il Signore va quindi amato a partire dal cuore (sede dei sentimenti), durante tutta la vita e con tutte le facoltà intellettive. L’evangelista Matteo nel mettere in bocca a Gesù questo “comandamento” alla fine si discosta dal Deuteronomio e al posto del terzo elemento “con tutte le forze” (letteralmente con “l’eccesso di sé”), propone “con tutta la tua mente” dando così risalto al coinvolgimento dell’intelletto nell’amare Dio. Tutto l’uomo deve essere armonicamente proteso ad amare Dio. Ma Gesù non si ferma all’amore per Dio e, sempre citando la Scrittura, aggiunge un secondo “comandamento”: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La fonte da cui è tratto questo comandamento è il libro del Levitico che ci aiuta anche ad identificare la fisionomia del “prossimo”: non è soltanto colui che mi è prossimo fisicamente e affettivamente, ma anche colui che mi è vicino eppure è stato causa di ingiustizia e di sofferenza o si trova esso stesso nell’indigenza! I versetti da cui è tratta la citazione dicono infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” e ancora “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,18.34). L’amore dunque, seppur necessiti di parole, si riscontra nella realtà dei fatti. Ecco quindi il nesso con la Prima Lettura che elenca i precetti dell’amore concreto: l’accoglienza del forestiero, il soccorso alle vedove e agli orfani, il prestito senza interesse, la pietà verso i poveri. Ma tali gesti d’amore si adempiono nella misura in cui si è fatta esperienza dell’amore di Dio e il Suo amore lo si sperimenta negli eventi della vita e soprattutto dall’incontro personale e comunitario con Lui attraverso l’ascolto della Parola. Come la fede e l’amore per Dio da parte del popolo d’Israele nasce dall’“ascolto”, così anche per le comunità cristiane, come quella dei Tessalonicesi cui Paolo scrive, ha origine dall’aver “accolto la Parola in mezzo a grandi prove” e la conseguenza è la fecondità spirituale tanto che la loro fede “si è diffusa dappertutto”. L’“ascolto” della Parola consente all’uomo di sentirsi amato da Dio e perciò atto ad amare a sua volta. Tornando perciò al brano evangelico, Gesù termina il Suo dialogo con i farisei i quali non fanno obiezione alcuna perché condividono l’amore per Dio e tuttavia Gesù si spinge oltre associandolo inscindibilmente all’amore per il prossimo: l’amore per Dio è vero se viene dimostrato altrettanto al prossimo. Infine Gesù sigilla il discorso affermando che ai due precetti dell’amore per Dio e per il prossimo “sono appesi” (letteralmente) la Legge e i Profeti. Gesù muore “appeso” alla Croce dell’amore per il Padre e per l’umanità, e volgendo lo sguardo a Lui che è stato trafitto “ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione” (san Giovanni Paolo II). PRIMA LETTURA Dal libro dell'Esodo 22, 20-26 SALMO RESPONSORIALE Salmo 17 SECONDA LETTURA I lettera di Paolo ai tessalonicesi 1,5c-10 Commento al Vangelo della XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40]]>