Cina Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/cina/ Settimanale di informazione regionale Thu, 09 May 2024 08:40:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Cina Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/cina/ 32 32 Schiacciati tra Usa e Cina https://www.lavoce.it/schiacciati-russi-cina/ https://www.lavoce.it/schiacciati-russi-cina/#respond Thu, 09 May 2024 08:20:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=76044 Xi Ginpin a mezzo busto alle spalle le bandiere dell'Europa e della Cina

“Dopo la vittoria dell’Urss, la cosa peggiore per gli Usa sarebbe la fine dell’Urss” disse Eisenhower. Oggi quel detto risuona tra gli analisti, che paventano l’assenza di un nemico speculare, utile a disciplinare le strategie statunitensi nello scacchiere pluriverso e segmentato che ha soffocato l’euforia con cui, una trentina d’anni fa, si celebrava la “fine della storia” come porta spalancata all’unipolarismo planetario marca Usa.

Il multipolarismo che avanza è più problematico della distinzione del mondo in bianco e nero, disperde gli sforzi contenitivi e affanna in un’iperestensione militare, orfana dei primati economici di un tempo. Se proprio non può essere unipolare, meglio l’opzione bipolare allo sfiancamento. Di qui l’urgenza di selezionare gli impegni diretti e delegare i restanti ad alleati ingaggiati con rapporti di fedeltà esclusiva e totalizzante.

La Cina non gradisce le vesti di nemico esistenziale cucitele addosso, come capofila dei nuovi “Stati canaglia” che attentano al mondo libero. Il Gigante asiatico sa di non guidare un blocco egemonico analogo a quello degli Usa, con le loro 850 basi sparse nel mondo sul territorio altrui. Sa di non poter esportare modelli di omologazione culturale atti a diffondere un “sogno cinese” concorrente al mito dell’American way of life. Perciò enfatizza la cooperazione senza cessioni di sovranità, coltivando l’interesse alle interdipendenze articolate in geometrie dai perimetri porosi. Che è esattamente ciò su cui la Casa Bianca tenta di intervenire, progettando sanzioni e dighe protezionistiche, in deroga al libero scambio laddove questo avvantaggi altri e disallinei la globalizzazione e il Washington consensus.

Nonostante le dissimulazioni, queste strette preoccupano le economie occidentali, già azzoppate dai contraccolpi energetici del divorzio con la Russia, per le quali l’inibizione delle forniture cinesi sarebbe il colpo letale. L’azzardo di Scholz, volato a Pechino per auspicare nuovi investimenti, sta a dimostrarlo. Altrettanto significativo il disagio di Bruxelles per la mossa del Cancelliere, accolto al suo rientro dalla notizia dell’arresto in Germania di cinque presunte spie collegate a Pechino, come nelle migliori spy stories ambientate nella Guerra fredda.

Pechino rivendica la sovranità delle sue scelte economiche, compresa la libertà di scambiare con chiunque, pur escludendo supporti all’industria bellica russa mentre Washington fornisce armi a Ucraina e Israele. La ritorsione Usa ha preso forma pochi giorni fa, con sanzioni a carico di 16 aziende cinesi, accusate di vendere sul mercato russo componentistiche a uso civile che potrebbero giovare anche al comparto militare. Ora è il momento della contromossa cinese intesa a sfatare la narrazione bipolare.

Il tour europeo di Xi Jinping, dopo cinque anni di assenza dal Continente, prevede tre tappe: Francia, Serbia e Ungheria, tutte a loro modo desiderose di autonomia strategica, probabilmente scelte anche per evidenziare che la varietà delle loro posizioni verso la Russia non pone problemi di incompatibilità per la Cina. Al solco separativo del bipolarismo, Xi contrappone la diversificazione dei rapporti richiesta dalla direzione che la storia ha già intrapreso.

Chiudere qualcuno fuori significa anche rinchiudersi dentro, finendo per restare a corto di provviste. Non sarà una metafora cinese, ma potrebbe sintetizzare il messaggio che Pechino rivolge all’Occidente per vanificare la grande muraglia a stelle e strisce.

Giuseppe Casale Pontificia università lateranense
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Xi Ginpin a mezzo busto alle spalle le bandiere dell'Europa e della Cina

“Dopo la vittoria dell’Urss, la cosa peggiore per gli Usa sarebbe la fine dell’Urss” disse Eisenhower. Oggi quel detto risuona tra gli analisti, che paventano l’assenza di un nemico speculare, utile a disciplinare le strategie statunitensi nello scacchiere pluriverso e segmentato che ha soffocato l’euforia con cui, una trentina d’anni fa, si celebrava la “fine della storia” come porta spalancata all’unipolarismo planetario marca Usa.

Il multipolarismo che avanza è più problematico della distinzione del mondo in bianco e nero, disperde gli sforzi contenitivi e affanna in un’iperestensione militare, orfana dei primati economici di un tempo. Se proprio non può essere unipolare, meglio l’opzione bipolare allo sfiancamento. Di qui l’urgenza di selezionare gli impegni diretti e delegare i restanti ad alleati ingaggiati con rapporti di fedeltà esclusiva e totalizzante.

La Cina non gradisce le vesti di nemico esistenziale cucitele addosso, come capofila dei nuovi “Stati canaglia” che attentano al mondo libero. Il Gigante asiatico sa di non guidare un blocco egemonico analogo a quello degli Usa, con le loro 850 basi sparse nel mondo sul territorio altrui. Sa di non poter esportare modelli di omologazione culturale atti a diffondere un “sogno cinese” concorrente al mito dell’American way of life. Perciò enfatizza la cooperazione senza cessioni di sovranità, coltivando l’interesse alle interdipendenze articolate in geometrie dai perimetri porosi. Che è esattamente ciò su cui la Casa Bianca tenta di intervenire, progettando sanzioni e dighe protezionistiche, in deroga al libero scambio laddove questo avvantaggi altri e disallinei la globalizzazione e il Washington consensus.

Nonostante le dissimulazioni, queste strette preoccupano le economie occidentali, già azzoppate dai contraccolpi energetici del divorzio con la Russia, per le quali l’inibizione delle forniture cinesi sarebbe il colpo letale. L’azzardo di Scholz, volato a Pechino per auspicare nuovi investimenti, sta a dimostrarlo. Altrettanto significativo il disagio di Bruxelles per la mossa del Cancelliere, accolto al suo rientro dalla notizia dell’arresto in Germania di cinque presunte spie collegate a Pechino, come nelle migliori spy stories ambientate nella Guerra fredda.

Pechino rivendica la sovranità delle sue scelte economiche, compresa la libertà di scambiare con chiunque, pur escludendo supporti all’industria bellica russa mentre Washington fornisce armi a Ucraina e Israele. La ritorsione Usa ha preso forma pochi giorni fa, con sanzioni a carico di 16 aziende cinesi, accusate di vendere sul mercato russo componentistiche a uso civile che potrebbero giovare anche al comparto militare. Ora è il momento della contromossa cinese intesa a sfatare la narrazione bipolare.

Il tour europeo di Xi Jinping, dopo cinque anni di assenza dal Continente, prevede tre tappe: Francia, Serbia e Ungheria, tutte a loro modo desiderose di autonomia strategica, probabilmente scelte anche per evidenziare che la varietà delle loro posizioni verso la Russia non pone problemi di incompatibilità per la Cina. Al solco separativo del bipolarismo, Xi contrappone la diversificazione dei rapporti richiesta dalla direzione che la storia ha già intrapreso.

Chiudere qualcuno fuori significa anche rinchiudersi dentro, finendo per restare a corto di provviste. Non sarà una metafora cinese, ma potrebbe sintetizzare il messaggio che Pechino rivolge all’Occidente per vanificare la grande muraglia a stelle e strisce.

Giuseppe Casale Pontificia università lateranense
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La Cina alla riconquista di Taiwan. E del resto del mondo https://www.lavoce.it/cina-riconquista-taiwan-resto-mondo/ Thu, 27 Oct 2022 08:58:00 +0000 https://www.lavoce.it/?p=69071

Giornali e tv sono pieni di notizie e commenti sul nuovo Governo italiano e sulla dolorosa questione ucraina; non ci torno sopra, almeno questa volta. Ci sono all’orizzonte altre prospettive inquietanti. Per esempio, la questione di Taiwan. Il grande capo della Cina (riconfermato capo dello Stato e del partito unico), ha annunciato che intende chiudere la questione entro un anno, e se occorre, con la forza. Detto più crudamente, e tanto per tenerci di buon umore, è una minaccia di guerra. Quello è infatti uno dei fronti di guerra “congelati” ma non risolti che esistono qua e là nel mondo (un altro è quello fra le due Coree). Si tratta della guerra civile cinese, cominciata circa 90 anni fa fra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Tsetung. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il Governo di Chiang era uno dei cinque vincitori (gli altri erano Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia), e di conseguenza la Cina fu una delle cinque potenze che fondarono l’Onu riservandosi il “diritto di veto” su tutte le decisioni importanti. Ma nel frattempo Mao proseguiva la sua “lunga marcia” e nel 1949 proclamò la Repubblica popolare cinese, mentre Chiang si rifugiava nell’isola di Taiwan (che gli europei allora chiamavano Formosa), continuando per un po’ a essere riconosciuto sul piano internazionale come unico legittimo rappresentante della Cina. Solo nel 1971 le altre potenze decisero di riconoscere Mao, oltre che come capo dello Stato cinese, come titolare del seggio all’Onu (e annesso diritto di veto). Con il senno di poi, era quello il momento in cui gli occidentali avrebbero dovuto esigere da Mao, in cambio, il riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan; mentre i taiwanesi avrebbero dovuto rinunciare a qualificarsi come l’unica Cina legittima. Ma le cose non andarono così, e il fuoco rimase acceso sotto la cenere. Cosa accadrà ora? Se gli occidentali cederanno di nuovo (dopo che hanno ceduto sul Tibet e su Hong Kong), sarà accertato definitivamente che la Cina può fare tutto ciò che vuole; forte ormai, oltre che dei propri numeri e di una cultura millenaria, anche di un peso economico soverchiante. Conviene pensare a far imparare ai figli la lingua cinese.]]>

Giornali e tv sono pieni di notizie e commenti sul nuovo Governo italiano e sulla dolorosa questione ucraina; non ci torno sopra, almeno questa volta. Ci sono all’orizzonte altre prospettive inquietanti. Per esempio, la questione di Taiwan. Il grande capo della Cina (riconfermato capo dello Stato e del partito unico), ha annunciato che intende chiudere la questione entro un anno, e se occorre, con la forza. Detto più crudamente, e tanto per tenerci di buon umore, è una minaccia di guerra. Quello è infatti uno dei fronti di guerra “congelati” ma non risolti che esistono qua e là nel mondo (un altro è quello fra le due Coree). Si tratta della guerra civile cinese, cominciata circa 90 anni fa fra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Tsetung. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il Governo di Chiang era uno dei cinque vincitori (gli altri erano Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia), e di conseguenza la Cina fu una delle cinque potenze che fondarono l’Onu riservandosi il “diritto di veto” su tutte le decisioni importanti. Ma nel frattempo Mao proseguiva la sua “lunga marcia” e nel 1949 proclamò la Repubblica popolare cinese, mentre Chiang si rifugiava nell’isola di Taiwan (che gli europei allora chiamavano Formosa), continuando per un po’ a essere riconosciuto sul piano internazionale come unico legittimo rappresentante della Cina. Solo nel 1971 le altre potenze decisero di riconoscere Mao, oltre che come capo dello Stato cinese, come titolare del seggio all’Onu (e annesso diritto di veto). Con il senno di poi, era quello il momento in cui gli occidentali avrebbero dovuto esigere da Mao, in cambio, il riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan; mentre i taiwanesi avrebbero dovuto rinunciare a qualificarsi come l’unica Cina legittima. Ma le cose non andarono così, e il fuoco rimase acceso sotto la cenere. Cosa accadrà ora? Se gli occidentali cederanno di nuovo (dopo che hanno ceduto sul Tibet e su Hong Kong), sarà accertato definitivamente che la Cina può fare tutto ciò che vuole; forte ormai, oltre che dei propri numeri e di una cultura millenaria, anche di un peso economico soverchiante. Conviene pensare a far imparare ai figli la lingua cinese.]]>
Ideologie? No, potere https://www.lavoce.it/ideologie-no-potere/ Thu, 17 Feb 2022 15:26:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=65012 Logo rubrica Il punto

Ho sentito un signore di una certa età - quanto serve per ricordare certe cose - lamentarsi perché nella politica mondiale non si capisce più niente. Una volta, diceva, c’erano le ideologie e tutto era chiaro: l’America era per la democrazia capitalista, l’Urss e la Cina per il comunismo e la dittatura del proletariato, si capiva l’ostilità fra i due sistemi; ma adesso? Provo a rispondere. Lo dicevano già Machiavelli e Marx, sia pure con parole molto diverse l’uno dall’altro. Per l’uomo di potere conta solo il potere, il dominio: averlo, consolidarlo, allargarne sempre più i confini, fino a che non trova uno come lui che lo ferma.

L’ideologia è solo una copertura, un pretesto, uno strumento per farsi obbedire dal popolo. Non è sempre vero, o non del tutto: nella politica troviamo anche uomini che non pensano al potere come fine a se stesso: come De Gasperi, Adenauer, Schuman. Ma a livello planetario le superpotenze si fronteggiano per il dominio del mondo, o almeno di un pezzo di mondo, con o senza ideologie. Quando l’Urss mandò i carri armati in Ungheria nel 1956 e a Praga nel 1968, aveva il pretesto della difesa del socialismo (l’ideologia), ma quello che voleva difendere era il suo dominio. L’uomo che poteva sembrare il più ideologico, Stalin, non lo era affatto: nel 1939 si era alleato con Hitler per spartirsi con lui la Polonia e i tre Paesi baltici, si rivoltò contro la Germania quando questa tentò l’invasione della Russia, e a quel punto si alleò con le potenze democratiche occidentali, ma in cambio pretese ed ottenne il dominio dell’Europa centro-orientale.

Quel dominio, appunto, che i suoi eredi difendevano con i carri armati nel 1956 e nel 1968. Adesso al posto di Stalin è arrivato Putin: lui non è ideologico e non fa nemmeno finta di esserlo, la Russia è piena di capitalisti, ma la politica di potenza è sempre quella. L’Ucraina non deve diventare una pedina della potenza americana. Ma in fondo è la stessa logica che aveva portato gli Usa in Iraq e altrove. Potrebbe essere il compito dell’Unione europea portare a livello mondiale uno spirito di pacifica collaborazione; ma ammesso che sia possibile, ne siamo ancora molto lontani.

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Ho sentito un signore di una certa età - quanto serve per ricordare certe cose - lamentarsi perché nella politica mondiale non si capisce più niente. Una volta, diceva, c’erano le ideologie e tutto era chiaro: l’America era per la democrazia capitalista, l’Urss e la Cina per il comunismo e la dittatura del proletariato, si capiva l’ostilità fra i due sistemi; ma adesso? Provo a rispondere. Lo dicevano già Machiavelli e Marx, sia pure con parole molto diverse l’uno dall’altro. Per l’uomo di potere conta solo il potere, il dominio: averlo, consolidarlo, allargarne sempre più i confini, fino a che non trova uno come lui che lo ferma.

L’ideologia è solo una copertura, un pretesto, uno strumento per farsi obbedire dal popolo. Non è sempre vero, o non del tutto: nella politica troviamo anche uomini che non pensano al potere come fine a se stesso: come De Gasperi, Adenauer, Schuman. Ma a livello planetario le superpotenze si fronteggiano per il dominio del mondo, o almeno di un pezzo di mondo, con o senza ideologie. Quando l’Urss mandò i carri armati in Ungheria nel 1956 e a Praga nel 1968, aveva il pretesto della difesa del socialismo (l’ideologia), ma quello che voleva difendere era il suo dominio. L’uomo che poteva sembrare il più ideologico, Stalin, non lo era affatto: nel 1939 si era alleato con Hitler per spartirsi con lui la Polonia e i tre Paesi baltici, si rivoltò contro la Germania quando questa tentò l’invasione della Russia, e a quel punto si alleò con le potenze democratiche occidentali, ma in cambio pretese ed ottenne il dominio dell’Europa centro-orientale.

Quel dominio, appunto, che i suoi eredi difendevano con i carri armati nel 1956 e nel 1968. Adesso al posto di Stalin è arrivato Putin: lui non è ideologico e non fa nemmeno finta di esserlo, la Russia è piena di capitalisti, ma la politica di potenza è sempre quella. L’Ucraina non deve diventare una pedina della potenza americana. Ma in fondo è la stessa logica che aveva portato gli Usa in Iraq e altrove. Potrebbe essere il compito dell’Unione europea portare a livello mondiale uno spirito di pacifica collaborazione; ma ammesso che sia possibile, ne siamo ancora molto lontani.

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I tremendi effetti del coronavirus sul panorama geopolitico mondiale https://www.lavoce.it/i-tremendi-effetti-del-coronavirus-sul-panorama-geopolitico-mondiale/ Thu, 21 May 2020 17:01:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57205

Mappamondo con in primo piano la Cina. Il virus non piace al potere, in ogni sua forma. La Cina ha nascosto a lungo - ormai è assodato - informazioni sulla pandemia che in quel Paese si è originata (anche questo è fuori discussione), e che il resto del mondo avrebbe potuto utilizzare per arginare in modo decisivo il contagio. La Russia, secondo Paese al mondo per numero di contagi e vittime in rapido aumento, continua a ripetere che “la situazione è sotto controllo”. Ma il virus è entrato anche al Cremlino, infettando il portavoce di Putin. Così come non ha risparmiato alla Casa Bianca alcuni collaboratori del Presidente americano e lo stesso primo ministro inglese al numero 10 di Downing Street. Per non parlare del Brasile, dove si scavano ampie fosse comuni all’aperto per seppellire le vittime. Mentre il presidente Bolsonaro continua a minimizzare gli effetti della pandemia. “Il segreto appartiene al potere”, annotava Elias Canetti. Ma nel caso del contagio mondiale da Covid-19, è sempre più evidente che il virus sta mettendo in difficoltà quei sistemi di potere dove la ricerca del consenso si basa su un’immagine irrealistica di totale controllo degli avvenimenti e di reazione agli eventi. E su una narrazione di infallibilità e potenza dei singoli leader che i fatti, e i numeri, smentiscono in un batter d’occhio. Così il potere reagisce aumentando la quantità di fake news e di informazioni artefatte. Russia e Cina in questa classifica sono ai primi posti.

Nuovi equilibri internazionali

Osservano gli analisti dell’Aspen Institute che l’immagine del gigante cinese “esce almeno in parte deteriorata” da quanto successo con l’origine e la propagazione del virus. Tra l’altro - è sempre Aspen a farlo presente - “per un Paese che aspira al dominio tecnologico, la persistenza di forme di arretratezza come la commistione tra essere umani e animali è una contraddizione notevole”. La reazione mediatica della Cina alla sua caduta d’immagine è stata veemente; ogni invio di aiuti ai Paesi occidentali colpiti dal virus è stato accompagnato da un contorno cospicuo e penetrante di messaggi atti a magnificare la capacità di risposta di quel Paese alla pandemia e, nel contempo, a evidenziare le lentezze delle democrazie occidentali. Non è stata da meno la Russia. Ogni suo invio di aiuti ai Paesi europei è stato corredato da una quantità ingente di messaggi autocelebrativi. Nell’ambito di quella che è stata definita “diplomazia aggressiva della generosità”. Emerge da questo scenario il valore geopolitico che lo scoppiare del contagio e la sua evoluzione potrebbero giocare nel determinare nuovi equilibri internazionali. In questa ottica, è facile valutare l’aggressività diplomatica della Cina e della Russia come strategia per ‘riempire’, a livello planetario, quei vuoti che l’America di Trump (ma già prima quella di Obama) hanno lasciato in alcune zone del mondo, a partire dall’Europa. Quell’Europa in cui la presenza economica e finanziaria cinese è già consistente. Per alcuni Paesi, assolutamente vitale per tenere a galla i singoli sistemi produttivi. Questo, non soltanto per gli scambi commerciali. Ma anche e soprattutto perché la maggior parte di quegli stessi sistemi produttivi occidentali prevedono il partner cinese come fondamentale per certe forniture e produzioni (basti pensare che, con il lockdown di Wuhan, epicentro del contagio, l’Europa ha rischiato di rimanere senza paracetamolo, prodotto per larga parte nelle fabbriche di quella regione cinese).

Disinformazione per destabilizzare le democrazie

“Con propaganda e disinformazione sul Covid, Russia e Cina sono impegnate in atti destabilizzanti contro le democrazie occidentali”, ha detto il segretario della Nato, Jan Stoltenberg, rilanciando la richiesta, avviata dall’Unione europea, di un’inchiesta internazionale indipendente “che faccia chiarezza su quanto accaduto”. Inchiesta che Pechino continua a osteggiare, tenendo chiusi i laboratori di Wuhan e arrivando a minacciare il blocco delle esportazioni di forniture mediche. Un clima, insomma, che rende difficile prendere in seria considerazione gli studi scientifici che arrivano dalla Cina su origine e diffusione del Covid. Questo avviene proprio nel momento in cui, sul fronte scientifico, ci sarebbe bisogno della massima cooperazione tra gli istituti di ricerca coinvolti nella ricerca di un vaccino. A esasperare il clima di contrapposizione contribuisce la campagna elettorale in atto (fino al voto di novembre) negli Stati Uniti di quel Donald Trump che fin dall’inizio ha bollato il contagio come ‘virus cinese’ e che continua a esasperare i toni nei confronti di quel Paese, anche allo scopo di distogliere il suo elettorato dalle responsabilità che lui stesso ha avuto nel gestire in modo riduttivo, altalenante e confuso la reazione alla pandemia. Tenendo conto che, a causa del coronavirus, i disoccupati americani sono già oltre 36 milioni, si può facilmente prevedere che il Presidente in carica, per farsi rieleggere, non allenterà la presa nel rimarcare le origini cinesi del contagio. Fino a novembre. Poi si vedrà come sarà cambiato il mondo. Daris Giancarlini]]>

Mappamondo con in primo piano la Cina. Il virus non piace al potere, in ogni sua forma. La Cina ha nascosto a lungo - ormai è assodato - informazioni sulla pandemia che in quel Paese si è originata (anche questo è fuori discussione), e che il resto del mondo avrebbe potuto utilizzare per arginare in modo decisivo il contagio. La Russia, secondo Paese al mondo per numero di contagi e vittime in rapido aumento, continua a ripetere che “la situazione è sotto controllo”. Ma il virus è entrato anche al Cremlino, infettando il portavoce di Putin. Così come non ha risparmiato alla Casa Bianca alcuni collaboratori del Presidente americano e lo stesso primo ministro inglese al numero 10 di Downing Street. Per non parlare del Brasile, dove si scavano ampie fosse comuni all’aperto per seppellire le vittime. Mentre il presidente Bolsonaro continua a minimizzare gli effetti della pandemia. “Il segreto appartiene al potere”, annotava Elias Canetti. Ma nel caso del contagio mondiale da Covid-19, è sempre più evidente che il virus sta mettendo in difficoltà quei sistemi di potere dove la ricerca del consenso si basa su un’immagine irrealistica di totale controllo degli avvenimenti e di reazione agli eventi. E su una narrazione di infallibilità e potenza dei singoli leader che i fatti, e i numeri, smentiscono in un batter d’occhio. Così il potere reagisce aumentando la quantità di fake news e di informazioni artefatte. Russia e Cina in questa classifica sono ai primi posti.

Nuovi equilibri internazionali

Osservano gli analisti dell’Aspen Institute che l’immagine del gigante cinese “esce almeno in parte deteriorata” da quanto successo con l’origine e la propagazione del virus. Tra l’altro - è sempre Aspen a farlo presente - “per un Paese che aspira al dominio tecnologico, la persistenza di forme di arretratezza come la commistione tra essere umani e animali è una contraddizione notevole”. La reazione mediatica della Cina alla sua caduta d’immagine è stata veemente; ogni invio di aiuti ai Paesi occidentali colpiti dal virus è stato accompagnato da un contorno cospicuo e penetrante di messaggi atti a magnificare la capacità di risposta di quel Paese alla pandemia e, nel contempo, a evidenziare le lentezze delle democrazie occidentali. Non è stata da meno la Russia. Ogni suo invio di aiuti ai Paesi europei è stato corredato da una quantità ingente di messaggi autocelebrativi. Nell’ambito di quella che è stata definita “diplomazia aggressiva della generosità”. Emerge da questo scenario il valore geopolitico che lo scoppiare del contagio e la sua evoluzione potrebbero giocare nel determinare nuovi equilibri internazionali. In questa ottica, è facile valutare l’aggressività diplomatica della Cina e della Russia come strategia per ‘riempire’, a livello planetario, quei vuoti che l’America di Trump (ma già prima quella di Obama) hanno lasciato in alcune zone del mondo, a partire dall’Europa. Quell’Europa in cui la presenza economica e finanziaria cinese è già consistente. Per alcuni Paesi, assolutamente vitale per tenere a galla i singoli sistemi produttivi. Questo, non soltanto per gli scambi commerciali. Ma anche e soprattutto perché la maggior parte di quegli stessi sistemi produttivi occidentali prevedono il partner cinese come fondamentale per certe forniture e produzioni (basti pensare che, con il lockdown di Wuhan, epicentro del contagio, l’Europa ha rischiato di rimanere senza paracetamolo, prodotto per larga parte nelle fabbriche di quella regione cinese).

Disinformazione per destabilizzare le democrazie

“Con propaganda e disinformazione sul Covid, Russia e Cina sono impegnate in atti destabilizzanti contro le democrazie occidentali”, ha detto il segretario della Nato, Jan Stoltenberg, rilanciando la richiesta, avviata dall’Unione europea, di un’inchiesta internazionale indipendente “che faccia chiarezza su quanto accaduto”. Inchiesta che Pechino continua a osteggiare, tenendo chiusi i laboratori di Wuhan e arrivando a minacciare il blocco delle esportazioni di forniture mediche. Un clima, insomma, che rende difficile prendere in seria considerazione gli studi scientifici che arrivano dalla Cina su origine e diffusione del Covid. Questo avviene proprio nel momento in cui, sul fronte scientifico, ci sarebbe bisogno della massima cooperazione tra gli istituti di ricerca coinvolti nella ricerca di un vaccino. A esasperare il clima di contrapposizione contribuisce la campagna elettorale in atto (fino al voto di novembre) negli Stati Uniti di quel Donald Trump che fin dall’inizio ha bollato il contagio come ‘virus cinese’ e che continua a esasperare i toni nei confronti di quel Paese, anche allo scopo di distogliere il suo elettorato dalle responsabilità che lui stesso ha avuto nel gestire in modo riduttivo, altalenante e confuso la reazione alla pandemia. Tenendo conto che, a causa del coronavirus, i disoccupati americani sono già oltre 36 milioni, si può facilmente prevedere che il Presidente in carica, per farsi rieleggere, non allenterà la presa nel rimarcare le origini cinesi del contagio. Fino a novembre. Poi si vedrà come sarà cambiato il mondo. Daris Giancarlini]]>
La lezione che viene da Wuhan https://www.lavoce.it/lezione-wuhan/ Thu, 13 Feb 2020 18:14:12 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56288 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Wuhan è una grande città cinese: undici milioni di abitanti con l’area metropolitana. Dunque, una delle città più grandi del mondo. E stando a quello che ne abbiamo visto in fotografia, è anche molto moderna, costruita senza risparmio. Ma fino a pochi giorni fa, pochi fra noi l’avevano sentita nominare.

Ora siamo tutti in pensiero per l’epidemia che si è manifestata in quel remoto angolo di mondo, e abbiamo scoperto che poi tanto remoto non è: ci sono studenti di Wuhan nelle università italiane, mentre nelle università di Wuhan ci sono studenti italiani e docenti italiani. Compreso un noto cattedratico che insegna Diritto romano; che a me, antico cultore della materia, pare una favola. Se poi si considera la Cina nel suo insieme, si scopre che i turisti cinesi che vengono in Italia sono un milione e mezzo all’anno, forse più.

Studenti cinesi affollano i nostri Conservatori di musica e le nostre Accademie di belle arti (anche a Perugia). Più tutti gli immigrati che lavorano. Il va e vieni delle persone è continuo, per la gioia di albergatori, ristoratori e venditori di souvenir. Il traffico delle merci è ancora più intenso: importiamo dalla Cina prodotti per oltre 30 miliardi di euro l’anno, ne esportiamo per 13 miliardi (senza contare Hong Kong e Taiwan).

Quindi a viaggiare non sono solo i turisti e gli studenti, ma anche gli imprenditori e gli uomini di affari. Con queste premesse, che effetti può produrre sull’economia il blocco delle comunicazioni imposto dall’epidemia? Un mezzo disastro, se non finisce presto.

Insomma, abbiamo una volta di più la prova che il mondo è interconnesso, nel bene e nel male; che la globalizzazione è un prodotto irreversibile della storia; che chiudere le frontiere è, per un verso, impossibile e, per un altro, inutile; e che nella misura in cui si riesce a farlo – quando è proprio necessario – si paga caro, molto caro, più di quanto saremmo disposti ad accettare.

La nostalgia di un mondo fatto di nazioni separate, ciascuna chiusa nei propri confini e autosufficiente, è il sogno di un mondo che non è mai esistito.

Poiché la globalizzazione non si può abolire, bisogna studiare il modo di organizzarla politicamente per sfruttarne (tutti insieme) gli effetti positivi, ed eliminare quelli perversi.

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di Pier Giorgio Lignani

Wuhan è una grande città cinese: undici milioni di abitanti con l’area metropolitana. Dunque, una delle città più grandi del mondo. E stando a quello che ne abbiamo visto in fotografia, è anche molto moderna, costruita senza risparmio. Ma fino a pochi giorni fa, pochi fra noi l’avevano sentita nominare.

Ora siamo tutti in pensiero per l’epidemia che si è manifestata in quel remoto angolo di mondo, e abbiamo scoperto che poi tanto remoto non è: ci sono studenti di Wuhan nelle università italiane, mentre nelle università di Wuhan ci sono studenti italiani e docenti italiani. Compreso un noto cattedratico che insegna Diritto romano; che a me, antico cultore della materia, pare una favola. Se poi si considera la Cina nel suo insieme, si scopre che i turisti cinesi che vengono in Italia sono un milione e mezzo all’anno, forse più.

Studenti cinesi affollano i nostri Conservatori di musica e le nostre Accademie di belle arti (anche a Perugia). Più tutti gli immigrati che lavorano. Il va e vieni delle persone è continuo, per la gioia di albergatori, ristoratori e venditori di souvenir. Il traffico delle merci è ancora più intenso: importiamo dalla Cina prodotti per oltre 30 miliardi di euro l’anno, ne esportiamo per 13 miliardi (senza contare Hong Kong e Taiwan).

Quindi a viaggiare non sono solo i turisti e gli studenti, ma anche gli imprenditori e gli uomini di affari. Con queste premesse, che effetti può produrre sull’economia il blocco delle comunicazioni imposto dall’epidemia? Un mezzo disastro, se non finisce presto.

Insomma, abbiamo una volta di più la prova che il mondo è interconnesso, nel bene e nel male; che la globalizzazione è un prodotto irreversibile della storia; che chiudere le frontiere è, per un verso, impossibile e, per un altro, inutile; e che nella misura in cui si riesce a farlo – quando è proprio necessario – si paga caro, molto caro, più di quanto saremmo disposti ad accettare.

La nostalgia di un mondo fatto di nazioni separate, ciascuna chiusa nei propri confini e autosufficiente, è il sogno di un mondo che non è mai esistito.

Poiché la globalizzazione non si può abolire, bisogna studiare il modo di organizzarla politicamente per sfruttarne (tutti insieme) gli effetti positivi, ed eliminare quelli perversi.

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