Banca d'Italia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/banca-ditalia/ Settimanale di informazione regionale Thu, 14 Feb 2019 11:01:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg Banca d'Italia Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/tag/banca-ditalia/ 32 32 Anche le banche hanno i loro guai https://www.lavoce.it/banche-guai/ Thu, 14 Feb 2019 08:00:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=54003 Logo rubrica Il punto

di Pier Giorgio Lignani

Ancora polemiche intorno alle banche, e intorno alla Banca d’Italia, che non avrebbe vigilato a dovere per difendere i risparmiatori in buona fede. Qui bisogna mettere in chiaro che non sono e non sono mai stati in pericolo i soldi depositati nei conti correnti e nei libretti di risparmio.

Quelli sono garantiti al cento per cento: se occorresse, anche con l’intervento dello Stato. Ci sono stati invece - in qualche caso - problemi per i clienti che hanno accettato di investire i loro soldi in titoli che per loro natura erano a rischio. È vero comunque che in uno Stato ben ordinato chiunque affida soldi a una banca dovrebbe avere la certezza assoluta di averli indietro quando ne avrà bisogno.

Su questo sono tutti d’accordo. Ma siamo ugualmente tutti d’accordo sul principio che, a sua volta, chiunque prende soldi in prestito da una banca debba restituirli tutti, fino all’ultimo centesimo e con gli interessi?

Se in giro ci sono tante banche in difficoltà – e un pochino lo sono tutte – è proprio perché c’è troppa gente che ha un debito con la banca e non può o non vuole pagarlo. Sottolineo: c’è chi non può, e vive con dispiacere questa sgradevole situazione. Ma ci sono anche, e sono tanti, quelli che “ci marciano”.

D’altra parte, fra gli elementi fondativi dell’economia capitalistica c’è anche l’invenzione della “responsabilità limitata”, quel meccanismo grazie al quale un imprenditore si assume il rischio, male che vada, di perdere solo il suo investimento salvando il resto del suo patrimonio; e lascia in mano a qualcun altro il cerino acceso.

Tocca alle banche, quindi, cautelarsi in anticipo chiedendo solide garanzie prima di concedere un finanziamento. Però le garanzie, anche le più serie, hanno un valore relativo, perché per farle funzionare il creditore (di solito una banca) deve rivolgersi alla magistratura; ma a quel punto il debitore, automaticamente, fa scendere in campo i suoi avvocati; e questi, anche se il loro cliente ha torto marcio, possono tirarla in lungo finché il creditore non patteggia.

Perciò dipingere il quadro della “buona gente” vittima dell’“avidità delle banche” è un po’ esagerato.

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di Pier Giorgio Lignani

Ancora polemiche intorno alle banche, e intorno alla Banca d’Italia, che non avrebbe vigilato a dovere per difendere i risparmiatori in buona fede. Qui bisogna mettere in chiaro che non sono e non sono mai stati in pericolo i soldi depositati nei conti correnti e nei libretti di risparmio.

Quelli sono garantiti al cento per cento: se occorresse, anche con l’intervento dello Stato. Ci sono stati invece - in qualche caso - problemi per i clienti che hanno accettato di investire i loro soldi in titoli che per loro natura erano a rischio. È vero comunque che in uno Stato ben ordinato chiunque affida soldi a una banca dovrebbe avere la certezza assoluta di averli indietro quando ne avrà bisogno.

Su questo sono tutti d’accordo. Ma siamo ugualmente tutti d’accordo sul principio che, a sua volta, chiunque prende soldi in prestito da una banca debba restituirli tutti, fino all’ultimo centesimo e con gli interessi?

Se in giro ci sono tante banche in difficoltà – e un pochino lo sono tutte – è proprio perché c’è troppa gente che ha un debito con la banca e non può o non vuole pagarlo. Sottolineo: c’è chi non può, e vive con dispiacere questa sgradevole situazione. Ma ci sono anche, e sono tanti, quelli che “ci marciano”.

D’altra parte, fra gli elementi fondativi dell’economia capitalistica c’è anche l’invenzione della “responsabilità limitata”, quel meccanismo grazie al quale un imprenditore si assume il rischio, male che vada, di perdere solo il suo investimento salvando il resto del suo patrimonio; e lascia in mano a qualcun altro il cerino acceso.

Tocca alle banche, quindi, cautelarsi in anticipo chiedendo solide garanzie prima di concedere un finanziamento. Però le garanzie, anche le più serie, hanno un valore relativo, perché per farle funzionare il creditore (di solito una banca) deve rivolgersi alla magistratura; ma a quel punto il debitore, automaticamente, fa scendere in campo i suoi avvocati; e questi, anche se il loro cliente ha torto marcio, possono tirarla in lungo finché il creditore non patteggia.

Perciò dipingere il quadro della “buona gente” vittima dell’“avidità delle banche” è un po’ esagerato.

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Lo spread è misura della fiducia nella capacità dello Stato di pagare i debiti https://www.lavoce.it/spread-misura-fiducia-stato/ Fri, 12 Oct 2018 12:00:06 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53119 spread

Spread significa differenza fra due punti di misurazione. Tra un 25enne e un 75enne esiste uno ”spread d’età” di 50 anni. Lo spread non è solo utilizzabile in finanza; si usa però da anni prevalentemente nei mercati finanziari (le Borse) dove ogni differenza di prezzo fra due valori omogenei viene monitorata in continuazione.

Il vocabolo inglese è già entrato prepotentemente nella vita pubblica degli italiani nel novembre del 2011 quando uno spread molto vistoso (574 punti) contribuì alle dimissioni del governo Berlusconi. Lo spread non è una manovra oscura di soggetti stranieri, e da solo non fa cadere i Governi. È uno dei tanti segnali di forza o debolezza economico-finanziaria di un Paese. Bisogna conoscerlo e tenerne conto, senza caricarlo di compiti impropri. È manovrabile? Non più di tanto, certo è influenzabile da dichiarazioni e previsioni economiche.

Spread. La definizione

Lo spread di cui sentiamo parlare è la differenza di rendimento fra due titoli obbligazionari di Stato omogenei (cioè della stessa durata, solitamente decennale) posti a confronto nello stesso istante. Come base di riferimento, gli altri Paesi europei si confrontano con il titolo di Stato decennale tedesco (il Bund), perché è di un Paese ritenuto virtuoso nei conti pubblici.

Nulla impedisce di misurarsi in altri spread, cioè la distanza del titolo di Stato italiano (il Btp, Buono del tesoro poliennale) con il titolo di dieci anni della Spagna, della Francia e della Grecia e così via. Perché il confronto sia omogeneo i titoli devono essere stati emessi in euro, così si evita una distorsione della diversa valuta. Tenendo presente l’effetto cambio, si possono confrontare titoli di Stato decennali anche statunitensi o di altre aree.

Il confronto per verificare la differenza - appunto lo spread - di rendimento può essere fatto anche con titoli omogenei ma di durata inferiore (quindi 2 o 5 anni, ad esempio). Comunemente si usano i 10 anni come una durata di riferimento per evitare che titoli troppo “corti” possano subire sbalzi di prezzo eccessivi perché più vicini alla scadenza.

Come funziona

Generalmente le emissioni (cioè la vendita) di obbligazioni di durata 10 anni sono molto consistenti, e anche questo è importante: quando uno Stato emette obbligazioni (quindi si obbliga a restituire il capitale prestato e pagare nelle scadenze previste gli interessi promessi) offre grandi quantitativi che possono essere poi scambiati in Borsa.

Quindi in ogni momento di Borsa aperta (in Italia funzionano bene Mot-Mts, Mercati telematici dei titoli di Stato) chiunque può vedere quanto vale un titolo Btp che viene scambiato fra venditori e compratori. Più l’offerta di obbligazioni è grande (almeno alcuni miliardi), più scambi vengono effettuati, e più il prezzo fissato nella compravendita diventa credibile. Quindi contiene delle informazioni (ottimismo o pessimismo) sulle tendenze in atto.

Se l’emissione fosse di importo limitato, potrebbe accadere che molti debbano contendersi una “merce” rara, quindi il prezzo salirebbe per l’effetto scarsità. Sarebbe meno credibile, non sarebbe un segnale corretto per chi compra e vende, e neppure per quel messaggio di credibilità del Paese che deve restituire il prestito. Infatti, anche se molti lo dimenticano, comprare un titolo di Stato è fare un prestito al proprio Paese o ad altri Paesi.

Le famiglie (che detengono circa un 5% di tutti i titoli di Stato domestici), le banche e le assicurazioni italiane (che ne detengono un altro 60% abbondante) hanno prestato soldi al Governo italiano e chiedono giustamente che capitale e interesse vengano pagati. Figuriamoci il rimanente 30% circa che è in mano a cittadini e investitori stranieri quanto siano attenti alla puntualità del rimborso. Se uno Stato non paga è default (insolvenza), un fallimento. Accadde in Argentina all’inizio degli anni 2000 quando molti risparmiatori e investitori italiani restarono con i soldi bloccati.

Per tornare allo spread, se un investitore ha il dubbio che il Governo non sia oculato nella gestione dei conti pubblici, nelle entrate e nelle uscite, e possa non ripagare il debito alla scadenza, preferisce vendere subito la sua obbligazione. Se i venditori prevalgono sui compratori il prezzo scende, come succede in ogni mercato di quartiere sul banco della frutta.

E se il prezzo diminuisce, si amplia il rendimento, che è (schematicamente, perché ci sono formule più complesse) l’interesse dovuto cui si aggiunge la differenza fra il valore pagato sul mercato Mts e quello del futuro rimborso. Quindi, se il prezzo di acquisto è 90 e il rimborso avverrà a 100, oltre agli interessi il possessore incasserà quella differenza.

Perché lo spread è un indicatore politico?

Perché un investitore, piccolo o grande che sia, dovrebbe vendere a 90 quello che varrà 100 fra pochi anni? Evidentemente perché non è sicuro del rimborso, teme che lo Stato blocchi tutto. Ecco perché lo spread diventa un buon indicatore, politicamente rilevante. È la fiducia o sfiducia nella capacità di uno Stato di ripagare i suoi debiti.

L’Italia è già molto indebitata, quindi per comprare e detenere titoli di Stato chi compra, italiano o estero, vuole avere un premio per il rischio che assume. I circa 300 punti attuali di spread sono un 3% aggiuntivo che il compratore pretende per avere in mano obbligazioni dello Stato italiano. Che per ora sono ‘calde’ e potrebbero scottare o bruciare in caso di peggioramento grave dei conti pubblici.

Importanza dello spread

Allo spread, senza che diventi un’ossessione, va data un’occhiata. Andrebbe letto in abbinata al rendimento: anche il rendimento del Bund non è fisso, quindi se il titolo tedesco dovesse scendere più di quanto scendesse il rendimento italiano, lo spread si amplierebbe senza demerito di sfiducia per i nostri Btp.

Va anche ricordato che con ottobre si è dimezzata la rete di sicurezza della Banca centrale europea (Bce), che poteva acquistare titoli di Stato europei a determinate condizioni. Quella rete ha protetto lo spread da balzi eccessivi. Fino a tutto dicembre una mezza rete ci sarà ancora, dal 2019 le fluttuazioni potrebbero diventare più vistose. Nel bene e nel male, il termometro-spread mostrerà la vera temperatura della credibilità italiana agli occhi di chi ha prestato denaro.

Paolo Zucca

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spread

Spread significa differenza fra due punti di misurazione. Tra un 25enne e un 75enne esiste uno ”spread d’età” di 50 anni. Lo spread non è solo utilizzabile in finanza; si usa però da anni prevalentemente nei mercati finanziari (le Borse) dove ogni differenza di prezzo fra due valori omogenei viene monitorata in continuazione.

Il vocabolo inglese è già entrato prepotentemente nella vita pubblica degli italiani nel novembre del 2011 quando uno spread molto vistoso (574 punti) contribuì alle dimissioni del governo Berlusconi. Lo spread non è una manovra oscura di soggetti stranieri, e da solo non fa cadere i Governi. È uno dei tanti segnali di forza o debolezza economico-finanziaria di un Paese. Bisogna conoscerlo e tenerne conto, senza caricarlo di compiti impropri. È manovrabile? Non più di tanto, certo è influenzabile da dichiarazioni e previsioni economiche.

Spread. La definizione

Lo spread di cui sentiamo parlare è la differenza di rendimento fra due titoli obbligazionari di Stato omogenei (cioè della stessa durata, solitamente decennale) posti a confronto nello stesso istante. Come base di riferimento, gli altri Paesi europei si confrontano con il titolo di Stato decennale tedesco (il Bund), perché è di un Paese ritenuto virtuoso nei conti pubblici.

Nulla impedisce di misurarsi in altri spread, cioè la distanza del titolo di Stato italiano (il Btp, Buono del tesoro poliennale) con il titolo di dieci anni della Spagna, della Francia e della Grecia e così via. Perché il confronto sia omogeneo i titoli devono essere stati emessi in euro, così si evita una distorsione della diversa valuta. Tenendo presente l’effetto cambio, si possono confrontare titoli di Stato decennali anche statunitensi o di altre aree.

Il confronto per verificare la differenza - appunto lo spread - di rendimento può essere fatto anche con titoli omogenei ma di durata inferiore (quindi 2 o 5 anni, ad esempio). Comunemente si usano i 10 anni come una durata di riferimento per evitare che titoli troppo “corti” possano subire sbalzi di prezzo eccessivi perché più vicini alla scadenza.

Come funziona

Generalmente le emissioni (cioè la vendita) di obbligazioni di durata 10 anni sono molto consistenti, e anche questo è importante: quando uno Stato emette obbligazioni (quindi si obbliga a restituire il capitale prestato e pagare nelle scadenze previste gli interessi promessi) offre grandi quantitativi che possono essere poi scambiati in Borsa.

Quindi in ogni momento di Borsa aperta (in Italia funzionano bene Mot-Mts, Mercati telematici dei titoli di Stato) chiunque può vedere quanto vale un titolo Btp che viene scambiato fra venditori e compratori. Più l’offerta di obbligazioni è grande (almeno alcuni miliardi), più scambi vengono effettuati, e più il prezzo fissato nella compravendita diventa credibile. Quindi contiene delle informazioni (ottimismo o pessimismo) sulle tendenze in atto.

Se l’emissione fosse di importo limitato, potrebbe accadere che molti debbano contendersi una “merce” rara, quindi il prezzo salirebbe per l’effetto scarsità. Sarebbe meno credibile, non sarebbe un segnale corretto per chi compra e vende, e neppure per quel messaggio di credibilità del Paese che deve restituire il prestito. Infatti, anche se molti lo dimenticano, comprare un titolo di Stato è fare un prestito al proprio Paese o ad altri Paesi.

Le famiglie (che detengono circa un 5% di tutti i titoli di Stato domestici), le banche e le assicurazioni italiane (che ne detengono un altro 60% abbondante) hanno prestato soldi al Governo italiano e chiedono giustamente che capitale e interesse vengano pagati. Figuriamoci il rimanente 30% circa che è in mano a cittadini e investitori stranieri quanto siano attenti alla puntualità del rimborso. Se uno Stato non paga è default (insolvenza), un fallimento. Accadde in Argentina all’inizio degli anni 2000 quando molti risparmiatori e investitori italiani restarono con i soldi bloccati.

Per tornare allo spread, se un investitore ha il dubbio che il Governo non sia oculato nella gestione dei conti pubblici, nelle entrate e nelle uscite, e possa non ripagare il debito alla scadenza, preferisce vendere subito la sua obbligazione. Se i venditori prevalgono sui compratori il prezzo scende, come succede in ogni mercato di quartiere sul banco della frutta.

E se il prezzo diminuisce, si amplia il rendimento, che è (schematicamente, perché ci sono formule più complesse) l’interesse dovuto cui si aggiunge la differenza fra il valore pagato sul mercato Mts e quello del futuro rimborso. Quindi, se il prezzo di acquisto è 90 e il rimborso avverrà a 100, oltre agli interessi il possessore incasserà quella differenza.

Perché lo spread è un indicatore politico?

Perché un investitore, piccolo o grande che sia, dovrebbe vendere a 90 quello che varrà 100 fra pochi anni? Evidentemente perché non è sicuro del rimborso, teme che lo Stato blocchi tutto. Ecco perché lo spread diventa un buon indicatore, politicamente rilevante. È la fiducia o sfiducia nella capacità di uno Stato di ripagare i suoi debiti.

L’Italia è già molto indebitata, quindi per comprare e detenere titoli di Stato chi compra, italiano o estero, vuole avere un premio per il rischio che assume. I circa 300 punti attuali di spread sono un 3% aggiuntivo che il compratore pretende per avere in mano obbligazioni dello Stato italiano. Che per ora sono ‘calde’ e potrebbero scottare o bruciare in caso di peggioramento grave dei conti pubblici.

Importanza dello spread

Allo spread, senza che diventi un’ossessione, va data un’occhiata. Andrebbe letto in abbinata al rendimento: anche il rendimento del Bund non è fisso, quindi se il titolo tedesco dovesse scendere più di quanto scendesse il rendimento italiano, lo spread si amplierebbe senza demerito di sfiducia per i nostri Btp.

Va anche ricordato che con ottobre si è dimezzata la rete di sicurezza della Banca centrale europea (Bce), che poteva acquistare titoli di Stato europei a determinate condizioni. Quella rete ha protetto lo spread da balzi eccessivi. Fino a tutto dicembre una mezza rete ci sarà ancora, dal 2019 le fluttuazioni potrebbero diventare più vistose. Nel bene e nel male, il termometro-spread mostrerà la vera temperatura della credibilità italiana agli occhi di chi ha prestato denaro.

Paolo Zucca

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SPREAD. Tutti ne parlano, ma cos’è? https://www.lavoce.it/spread-definizione-esempio/ Thu, 11 Oct 2018 10:00:56 +0000 https://www.lavoce.it/?p=53115 spread

Che cosa è lo spread, e perché è tanto importante? È un numero che, per quanto riguarda noi, rappresenta la differenza fra il rendimento dei buoni del Tesoro emessi dallo Stato italiano e quelli analoghi emessi dallo Stato tedesco.

Indirettamente, rappresenta anche la differenza fra il valore di mercato degli stessi titoli, e dà la misura della fiducia che i due Paesi ispirano agli investitori. Per spiegare meglio faremo qualche esempio, con qualche semplificazione e approssimazione, ma cercando di rendere l’idea.

Cos'è lo spread? Un esempio pratico

Dunque, immaginiamo che il signor Bianchi abbia investito 100 mila euro acquistando buoni del Tesoro italiani, e precisamente buoni decennali al tasso del 2%. Bianchi dunque ha versato 100 mila euro contro la promessa di averli indietro allo scadere di dieci anni; nel frattempo riscuoterà ogni anno una cedola di 2.000 euro.

Immaginiamo però che, dopo un po’ di tempo, succedano fatti per cui Bianchi non si sente più tanto sicuro che lo Stato italiano sarà puntuale nei pagamenti, sia quelli delle cedole, sia soprattutto quello finale del capitale. Quindi preferisce cedere quei titoli per rientrare subito in possesso dei suoi soldi, anche se con una certa perdita.

Effettivamente trova qualcuno, chiamiamolo Rossi, che è disposto a prenderli, ma non per 100 mila euro: ne offre solo 66.666. Perché questa cifra? Perché Rossi, che sente anche lui odore di rischio, non vuole guadagnare un interesse del 2%, bensì del 3%. La cedola sarà sempre di 2.000 euro all’anno, ma per Rossi varrà, appunto, il 3% del suo investimento.

Dopo un po’ di tempo anche Rossi preferisce liberarsi di quei buoni, e trova Verdi che glieli prende; ma Verdi adesso vuole guadagnare il 4% e quindi offre a Rossi solo 50.000 euro. Nel frattempo i buoni del Tesoro tedeschi rendono solo 1,50%, ma tutti quelli che ce li hanno li tengono o, se li vendono, non fanno sconti. Perciò, all’inizio della nostra storiella c’era uno spread di 50 centesimi di punto, poi è salito a 150, poi ancora a 250.

Apparentemente per lo Stato italiano non è cambiato nulla, perché l’ammontare degli interessi che paga rimane, per il momento, sempre lo stesso. Però il salire dello spread è un brutto segnale (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Pier Giorgio Lignani

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spread

Che cosa è lo spread, e perché è tanto importante? È un numero che, per quanto riguarda noi, rappresenta la differenza fra il rendimento dei buoni del Tesoro emessi dallo Stato italiano e quelli analoghi emessi dallo Stato tedesco.

Indirettamente, rappresenta anche la differenza fra il valore di mercato degli stessi titoli, e dà la misura della fiducia che i due Paesi ispirano agli investitori. Per spiegare meglio faremo qualche esempio, con qualche semplificazione e approssimazione, ma cercando di rendere l’idea.

Cos'è lo spread? Un esempio pratico

Dunque, immaginiamo che il signor Bianchi abbia investito 100 mila euro acquistando buoni del Tesoro italiani, e precisamente buoni decennali al tasso del 2%. Bianchi dunque ha versato 100 mila euro contro la promessa di averli indietro allo scadere di dieci anni; nel frattempo riscuoterà ogni anno una cedola di 2.000 euro.

Immaginiamo però che, dopo un po’ di tempo, succedano fatti per cui Bianchi non si sente più tanto sicuro che lo Stato italiano sarà puntuale nei pagamenti, sia quelli delle cedole, sia soprattutto quello finale del capitale. Quindi preferisce cedere quei titoli per rientrare subito in possesso dei suoi soldi, anche se con una certa perdita.

Effettivamente trova qualcuno, chiamiamolo Rossi, che è disposto a prenderli, ma non per 100 mila euro: ne offre solo 66.666. Perché questa cifra? Perché Rossi, che sente anche lui odore di rischio, non vuole guadagnare un interesse del 2%, bensì del 3%. La cedola sarà sempre di 2.000 euro all’anno, ma per Rossi varrà, appunto, il 3% del suo investimento.

Dopo un po’ di tempo anche Rossi preferisce liberarsi di quei buoni, e trova Verdi che glieli prende; ma Verdi adesso vuole guadagnare il 4% e quindi offre a Rossi solo 50.000 euro. Nel frattempo i buoni del Tesoro tedeschi rendono solo 1,50%, ma tutti quelli che ce li hanno li tengono o, se li vendono, non fanno sconti. Perciò, all’inizio della nostra storiella c’era uno spread di 50 centesimi di punto, poi è salito a 150, poi ancora a 250.

Apparentemente per lo Stato italiano non è cambiato nulla, perché l’ammontare degli interessi che paga rimane, per il momento, sempre lo stesso. Però il salire dello spread è un brutto segnale (continua a leggere sull'edizione digitale de La Voce, basta registrarsi).

Pier Giorgio Lignani

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Economia umbra in picchiata: come invertire la rotta https://www.lavoce.it/dati-della-banca-ditalia-sulleconomia-umbra/ Fri, 10 Nov 2017 14:35:49 +0000 https://www.lavoce.it/?p=50498

L’Umbria, dal punto di vista dei risultati economici, fa ormai parte del “Sud” del Paese. Questo è quanto emerge dalla fotografia fornita dai dati sulle economie regionali della Banca d’Italia. Il reddito medio degli umbri nel 2015 (pari a 23.700 euro) è non solo il più basso di tutto il Centro-Nord (la cui media è di 31.900 euro) ma è rimasto indietro anche rispetto a quello medio nazionale (27.000 euro) e a quello di una regione considerata a tutti gli effetti del Sud come l’Abruzzo (24.200 euro). Non è una novità di oggi il ritardo dell’Umbria. Era già ben visibile molto prima della crisi. Già da tanti anni gli osservatori più attenti avevano lanciato l’allarme di una produttività pericolosamente stagnante. Ma con la crisi iniziata nel 2007-2008 il ritardo è diventato una voragine, che a questo punto non sarà facile richiudere. L’impoverimento degli umbri ha innanzitutto una spiegazione “ quantitativa” , dovuta al fatto che con la crisi si sono persi molti posti di lavoro. Ancora nel 2015 l’Umbria ha perso, in percentuale, più occupazione di tutte le altre regioni del Paese. E questa perdita ha riguardato tutti i settori. Pertanto anche il tasso di disoccupazione rimane a un livello elevato, pari quasi al 10%. Ma ha anche una spiegazione “qualitativa” , ancora più importante di quella quantitativa: la gran parte dei posti di lavoro esistenti, e anche la gran parte di quelli che le imprese hanno creato in questi ultimi anni, sono all’interno di attività a basso o medio contenuto tecnologico, quindi lontani dall’“economia della conoscenza” e dai processi che valorizzano il lavoro qualificato, che producono innovazioni e generano sviluppo. In Umbria il 63,8% dei nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese sono di livello mediobasso, una percentuale peggiore di ogni altra regione. Un profilo mediocre che l’Umbria condivide con Marche e Toscana, ma che nella nostra regione determina conseguenze particolarmente gravi. È questo deficit qualitativo la lente più utile a comprendere il declino economico dell’Umbria. Volendo indicare sinteticamente i fattori all’origine di questo stato di cose, si possono ridurre a due: un sistema economicoe imprenditoriale con tratti strutturali deboli, e un orientamento delle politiche , a partire da quelle regionali, sbagliato e dannoso. Ciò che risulta evidente a chiunque, a questo punto, è che serve un drastico cambio delle politiche pubbliche, così come una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità nuova da parte di tutti i soggetti, imprenditoriali, sindacali, culturali, che a diverso titolo concorrono alla definizione di tali politiche e sono in grado, per la loro parte, di orientare l’economia regionale o parti (settori o territori) di essa. Alcuni settori del laicato umbro, a partire dall’Azione cattolica, hanno offerto contributi di analisi e di discernimento in questa direzione. Vale la pena di ricordare, in particolare, la pubblicazione, qualche anno fa, del volume dedicato alla crescita dell’Umbria intitolato Poliarchia e bene comune (a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei per il Mulino). Tuttavia da parte della Chiesa, nelle sue varie componenti, sono mancate riflessioni e un esercizio di discernimento diffuso, è mancato un richiamo alle responsabilità proprie di chi esercita un potere nella vita politica, economica o culturale di fronte alla gravità della situazione, assecondando di fatto la deriva che ha portato l’Umbria a impoverirsi e a veder svilito il proprio potenziale di crescita. Tra le priorità da affrontare vi è la necessità di potenziare il ruolo dei poli urbani, a partire da quelli di Perugia e Terni, facendone centri attrattivi di risorse qualificate in una molteplicità di campi, da quelli della tecnologia a quelli delle attività del tempo libero, da quelli creativi a quelli della formazione, capaci di assorbire e diffondere innovazione e di migliorare la qualità dei servizi. A questo scopo è vitale far uscire la mobilità , tanto quella tra Perugia e Terni quanto quella dei due capoluoghi verso l’esterno, dalla situazione attuale, ormai “preistorica”, verso standard europei. L’ Università , da parte sua, è chiamata a riprendersi il ruolo che le compete coltivando l’ambizione di dar vita a un polo del sapere e della formazione universitaria del centro Italia di livello europeo. Lo si può fare ricercando sinergie con altri atenei delle regioni del Centro. C’è poi bisogno che la politicaindustriale si liberi finalmente della funzione impropria di ammortizzatore sociale a cui è stata sacrificata fino a oggi, per divenire leva per la crescita di attività manifatturiere e terziarie qualificate. A questo proposito, è auspicabile che le imprese approfittino delle opportunità dei programmi di “industria 4.0” per generare una forte domanda di servizi specializzati. E le politiche pubbliche hanno l’occasione per facilitare la crescita di nuclei importanti di servizi avanzati alle imprese, facendone i centri dinamici delle nuove economie urbane. Ultimo, ma non per importanza, il settore complessivo dellasanità, principale voce della spesa pubblica regionale e servizio di primaria importanza per una popolazione che invecchia, deve essere potenziato ricercando qualità ed efficienza.  ]]>

L’Umbria, dal punto di vista dei risultati economici, fa ormai parte del “Sud” del Paese. Questo è quanto emerge dalla fotografia fornita dai dati sulle economie regionali della Banca d’Italia. Il reddito medio degli umbri nel 2015 (pari a 23.700 euro) è non solo il più basso di tutto il Centro-Nord (la cui media è di 31.900 euro) ma è rimasto indietro anche rispetto a quello medio nazionale (27.000 euro) e a quello di una regione considerata a tutti gli effetti del Sud come l’Abruzzo (24.200 euro). Non è una novità di oggi il ritardo dell’Umbria. Era già ben visibile molto prima della crisi. Già da tanti anni gli osservatori più attenti avevano lanciato l’allarme di una produttività pericolosamente stagnante. Ma con la crisi iniziata nel 2007-2008 il ritardo è diventato una voragine, che a questo punto non sarà facile richiudere. L’impoverimento degli umbri ha innanzitutto una spiegazione “ quantitativa” , dovuta al fatto che con la crisi si sono persi molti posti di lavoro. Ancora nel 2015 l’Umbria ha perso, in percentuale, più occupazione di tutte le altre regioni del Paese. E questa perdita ha riguardato tutti i settori. Pertanto anche il tasso di disoccupazione rimane a un livello elevato, pari quasi al 10%. Ma ha anche una spiegazione “qualitativa” , ancora più importante di quella quantitativa: la gran parte dei posti di lavoro esistenti, e anche la gran parte di quelli che le imprese hanno creato in questi ultimi anni, sono all’interno di attività a basso o medio contenuto tecnologico, quindi lontani dall’“economia della conoscenza” e dai processi che valorizzano il lavoro qualificato, che producono innovazioni e generano sviluppo. In Umbria il 63,8% dei nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese sono di livello mediobasso, una percentuale peggiore di ogni altra regione. Un profilo mediocre che l’Umbria condivide con Marche e Toscana, ma che nella nostra regione determina conseguenze particolarmente gravi. È questo deficit qualitativo la lente più utile a comprendere il declino economico dell’Umbria. Volendo indicare sinteticamente i fattori all’origine di questo stato di cose, si possono ridurre a due: un sistema economicoe imprenditoriale con tratti strutturali deboli, e un orientamento delle politiche , a partire da quelle regionali, sbagliato e dannoso. Ciò che risulta evidente a chiunque, a questo punto, è che serve un drastico cambio delle politiche pubbliche, così come una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità nuova da parte di tutti i soggetti, imprenditoriali, sindacali, culturali, che a diverso titolo concorrono alla definizione di tali politiche e sono in grado, per la loro parte, di orientare l’economia regionale o parti (settori o territori) di essa. Alcuni settori del laicato umbro, a partire dall’Azione cattolica, hanno offerto contributi di analisi e di discernimento in questa direzione. Vale la pena di ricordare, in particolare, la pubblicazione, qualche anno fa, del volume dedicato alla crescita dell’Umbria intitolato Poliarchia e bene comune (a cura di Silvia Angeletti e Giorgio Armillei per il Mulino). Tuttavia da parte della Chiesa, nelle sue varie componenti, sono mancate riflessioni e un esercizio di discernimento diffuso, è mancato un richiamo alle responsabilità proprie di chi esercita un potere nella vita politica, economica o culturale di fronte alla gravità della situazione, assecondando di fatto la deriva che ha portato l’Umbria a impoverirsi e a veder svilito il proprio potenziale di crescita. Tra le priorità da affrontare vi è la necessità di potenziare il ruolo dei poli urbani, a partire da quelli di Perugia e Terni, facendone centri attrattivi di risorse qualificate in una molteplicità di campi, da quelli della tecnologia a quelli delle attività del tempo libero, da quelli creativi a quelli della formazione, capaci di assorbire e diffondere innovazione e di migliorare la qualità dei servizi. A questo scopo è vitale far uscire la mobilità , tanto quella tra Perugia e Terni quanto quella dei due capoluoghi verso l’esterno, dalla situazione attuale, ormai “preistorica”, verso standard europei. L’ Università , da parte sua, è chiamata a riprendersi il ruolo che le compete coltivando l’ambizione di dar vita a un polo del sapere e della formazione universitaria del centro Italia di livello europeo. Lo si può fare ricercando sinergie con altri atenei delle regioni del Centro. C’è poi bisogno che la politicaindustriale si liberi finalmente della funzione impropria di ammortizzatore sociale a cui è stata sacrificata fino a oggi, per divenire leva per la crescita di attività manifatturiere e terziarie qualificate. A questo proposito, è auspicabile che le imprese approfittino delle opportunità dei programmi di “industria 4.0” per generare una forte domanda di servizi specializzati. E le politiche pubbliche hanno l’occasione per facilitare la crescita di nuclei importanti di servizi avanzati alle imprese, facendone i centri dinamici delle nuove economie urbane. Ultimo, ma non per importanza, il settore complessivo dellasanità, principale voce della spesa pubblica regionale e servizio di primaria importanza per una popolazione che invecchia, deve essere potenziato ricercando qualità ed efficienza.  ]]>