Sulla via di Emmaus rinasce il desiderio di Dio

Abbiamo ascoltato domenica scorsa l’incredulità di Tommaso (Lc 24,25) e, precedentemente, nel Vangelo di Pasqua, la fatica di Maria Maddalena e degli Apostoli a confrontarsi con l’evento della resurrezione (Gv 20,2.8). La liturgia di questa III Domenica di Pasqua, 26 aprile 2020, ci riporta a quel giorno, il primo della settimana (Lc 24,13). Questa volta non siamo però nel cenacolo, due dei discepoli, di cui uno di nome Cleopa, non sono con gli altri e come Tommaso non erano presenti all’apparizione di Gesù di quella stessa sera, del primo giorno dopo il sabato (Gv 20,19).

I riferimenti temporali non sono marginali; secondo la scansione presentataci dai Vangeli, i due discepoli si mettono in cammino verso Emmaus nel primo pomeriggio, infatti si trovano in prossimità della località poco prima di sera. La distanza da Gerusalemme è di circa 10-11 chilometri (v. 13).

Possiamo immaginare che hanno ascoltato il primo annuncio delle donne di ritorno dal sepolcro, forse anche la conferma di alcuni apostoli ma la conclusione è la stessa: il sepolcro era vuoto e il Signore non lo hanno visto (Lc 24,22-24).

Perché allora rimanere a Gerusalemme con il rischio di essere arrestati?

Con un po’ più di intraprendenza decidono di fuggire da Gerusalemme. Con quale animo si mettono in cammino? Il testo ci dice che erano senza speranza, la loro condizione emerge dal dialogo con Gesù che si accoda a loro: “Noi speravamo” (Lc 24,19-21). Il verbo sperare coniugato all’imperfetto indica un’azione, in questo caso un atteggiamento interiore, iniziata nel passato che permane nel presente. Una vera e propria negazione del significato del verbo sperare, che invece apre all’orizzonte del futuro. Un passato che segna la loro vita, con ferite indelebili, capaci di togliere il futuro alla loro prospettiva di vita: un venerdì di passione senza la prospettiva della domenica di Pasqua.

Che cosa interviene in questa linea retta senza prospettiva, che sembra inabissarsi nel mare del “nichilismo”? Un percorso parallelo di una presenza, quella del Risorto, che accompagna al passo dei due discepoli la condizione di quel momento. Una presenza discreta ma non accattivante, impegnativa ma che non schiaccia la condizione di debolezza dei due discepoli.

Il risorto questa volta non usa l’evidenza dei segni della passione, come aveva fatto nel cenacolo e come aveva fatto permettendo a Tommaso di toccare le ferite. Qui il risorto ripercorre i “segni” della presenza di Dio nella storia, a partire da uno scuotimento: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti” (Lc 24,25-26).

I Profeti per capire la Resurrezione

I due erano incapaci di leggere in modo sapienziale la storia della salvezza, ma soprattutto come questa storia era entrata nella loro vita e li aveva resi protagonisti. Avevano bisogno di qualcuno che interrompesse la loro lettura orizzontale e immodificabile (Lc 24,27). Quanto annunciato dai profeti, per Gesù sembra essere la via maestra per comprendere, sembra addirittura superiore al segno della resurrezione. Così infatti si era già espresso nella parabola del ricco epulone: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31).

Ecco che la strada parallela, che il Risorto percorre accanto ai due discepoli, compie una decisa deviazione verso i due, costringendoli ad arrestarsi all’incrocio di un interrogativo più profondo. Gesù, che ancora non hanno riconosciuto, con la sua presenza illumina il loro cuore, mette una sana nostalgia di infinito che chiede di indagare ancora sull’identità del pellegrino-compagno di strada (Lc Lc 24,32). “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,29).

È l’invito amicale, che trasforma il pellegrino-compagno di strada in ospite, anche se diventa difficile, a questo punto, capire chi è l’ospite e chi il pellegrino, chi ha fatto la proposta e chi veramente l’ha accolta.

… ed ora si torna a Gerusalemme

Il pellegrino-compagno di strada e ora ospite, ancora una volta cammina con delicatezza sul terreno accidentato del cuore umano, senza le forzature dell’evidenza. Egli diviene il “maieuta” per eccellenza e pedagogo della verità, facendo debordare dal cuore dei due discepoli la nostalgia di Dio. Non un sentimento effimero che il tramonto della sera può riportare nella notte della paura, lì ad Emmaus la notte si è nuovamente illuminata della luce del risorto. Non nell’evidenza della presenza, ma nel segno del pane, vero nutrimento della fede, che fa vedere ciò che la cecità, dovuta alla durezza di cuore aveva nascosto.

Ed ora si può annunciare la novità che ha trovato dimora nel loro cuore?

No, è necessario tornare a Gerusalemme perché ogni esperienza personale del risorto sia vagliata per divenire patrimonio della Cattolicità.

don Andrea Rossi