Spostando l’accento

ABAT JOUR

Spostando l’accento le cose cambiano, oh! se cambiano!! Io l’ho verificato due volte di fila, in questa torrida estate, così inadatta alle verifiche, una in negativo e una in positivo. In negativo lo spostamento d’accento riguarda il nostro Presidente del Consiglio. Si sa che molto spesso, mentre lui era seduto alla scrivania presidenziale, entrava un commesso e gli diceva: ‘Signor Presidente, c’è qui un cubano’; e lui: ‘Lo faccia accomodare’. Poco dopo entrava di nuovo: ‘Signor Presidente, c’è qui un cinese’; e lui: ‘Lo faccia accomodare’. E più avanti: ‘Signor Presidente, c’è qui un lituano’; e lui: ‘Lo faccia accomodare’. Ma un bel giorno il commesso motu proprio spostò l’accento, e invece di dire: ‘Signor Presidente, c’è qui un lèttone’ disse ; ‘Signor Presidente, c’è qui un lettòne’ e lui: ‘Ah! Quello di Putin!!’.La mia informativa si ferma qui. Ma il seguito, anche secondo quanto (finalmente!) dice Avvenire, non è stata un bella cosa. In positivo. Per me invece gratificante fino alla commozione è stato lo spostamento d’accento operato da Agnese Borsellino nell’intervista che il 19 luglio, nel 17’anniversario dell’assassinio di suo marito Paolo da parte della mafia, ha rilasciato a Giovanni Minoli. Intervista bellissima, proprio perché spostava l’accento dal ricordo personale custodito nel silenzio alla testimonianza affettuosa, e dal giudice agli ‘angeli custodi’, i cinque agenti della sua scorta, morti con lui. Era in assoluto la prima intervista che la signora Borsellino’rilasciava.Mi sentivo interiormente scosso al pensiero di come, dentro una situazione tipicamente istituzionale, in quel rapporto fra magistrato e scorta che in genere s’immagina ingessato, ufficiale, potessero fiorire sentimenti così vivi, affettuosi, delicati, ad onta dell’ipoteca pesantissima del nuovo, inevitabile colpo mortale da parte della mafia, atteso giorno dopo giorno. Poi Agnese ha rivelato un particolare che io non avevo mai sentito da nessun altro: il giudice Paolo, a mano a mano che passavano quei 57 giorni che avrebbero diviso la sua dalla morte di Giovanni Falcone, aveva mantenuto l’abitudine di uscire ogni mattina alla stessa ora, provocatoriamente, allo scoperto; a prendere un caffè, a comprare il giornale. In realtà si esponeva ai cecchini della mafia. ‘Eccomi, eccomi!’: forse lo cantava in chiesa, la domenica, ma in quelle mattinate il suo essere totalmente indifeso esprimeva la speranza che lo uccidessero lì, davanti al bar, davanti all’edicola: così sarebbero stati risparmiati i suoi ‘angeli custodi’. Ma la mafia voleva anche loro. E li ebbe. È eccessivo il sogno che la nostra Chiesa annoveri un giorno tra i suoi santi anche questi eroi civili? Oppure la santità e il martirio debbono seguire sempre e soltanto lo schema collaudato da duemila anni di esperienza di Chiesa? Il clichet che ce li ha resi cari dovrà essere sempre lo stesso?

AUTORE: Angelo M. Fanucci