E se provassimo a chiamarli profughi, invece che migranti? Secondo i dizionari, si dice profugo “chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese in seguito a persecuzioni politiche, cataclismi o sciagure collettive”. È il termine appropriato per indicare quanti affrontano la traversata del Mediterraneo su precari barconi ad alto rischio di naufragio, soggetti ad odiose estorsioni da parte di barcaioli senza scrupoli. Non è gente che va in vacanza in crociera.
Se li chiamassimo profughi, non potremmo accusarli di poco senso di responsabilità verso i figli che portano con sé in questi viaggi della disperazione. Non penseremmo di risolvere il problema pagando i dittatori da cui quelli scappano perché se li tengano prigionieri, come facciamo in Libia e altrove. Non approveremmo i Paesi nostri consoci se, avendo frontiere di terra e non di mare come noi, costruiscono muri per tenerli fuori. Forse non è colpa nostra (di noi italiani, di noi europei occidentali) se in tanti fuggono da realtà insopportabili. Ma un conto è parlare di colpe da pagare, e un conto è parlare di solidarietà. Il dovere di solidarietà non presuppone la colpa.
Se vedo uno che sta per affogare devo fare quello che posso per salvarlo, anche se non sono stato io a buttarlo in acqua. Certo sono problemi complessi e difficili. L’ideale sarebbe che in ogni angolo del mondo vi fossero condizioni di vita – quanto a libertà politiche, benessere, sicurezza, dignità delle persone – se non uguali alle nostre, almeno accettabili. Non siamo preparati né attrezzati per realizzare questi obiettivi in poco tempo, ma questa è la strada. Sarebbe il famoso “aiutiamoli a casa loro”, però fatto sul serio, non come scusa per tenere chiuse le porte. Si capisce che non potrebbe essere a costo zero, per noi. Ma noi (noi Italia, noi Europa occidentale) siamo già oltre la società dei consumi, siamo alla società dello spreco: potremmo fare moltissimo solo con una gestione più attenta, senza sacrifici.
Soprattutto, dobbiamo imparare a pensarci come una umanità sola; ed è inevitabile, giacché ormai tutto è globalizzato, nel bene e nel male. Se ci sono nel mondo regimi dittatoriali e sanguinari, oppure luoghi dove mancano l’acqua e il cibo, o dove c’è guerra permanente, dobbiamo sentirci chiamati in causa. Non erigere muri per proteggerci dall’invasione dei derelitti.