Nonostante la molteplicità di tante Chiese, con un lungo percorso diverso alle spalle; nonostante l’appartenenza a realtà locali e a storie così particolari, e nonostante qualche “assolo” un po’ egocentrico – inevitabile in un coro così vasto e appena rimesso insieme – il Sinodo dei vescovi del Medio Oriente si è concluso con un risultato sostanzialmente unitario e condiviso. A chi ha voglia e onestà intellettuale per guardare indietro, non può sfuggire il cammino importante e decisivo compiuto da Chiese che hanno alle loro spalle una tradizione di rivendicazione accesa – e non di rado anche litigiosa – della propria identità e della realtà sociale in cui si trovano incardinate. Le conclusioni del Sinodo, anche se destinate a una realtà drammatica e lacerante come quella del Medio Oriente, con una serie di guerre in corso accese o semispente, sono state inevitabilmente appassionate e partecipate, ma anche responsabili. Come ha ricordato il patriarca Antonios Naguib, che le ha riassunte nella sua Relatio, è stata rifiutata la sottomissione della religione allo Stato, è stato detto “no” alla violenza, è stata invocata la libertà religiosa, è stato scelto il dialogo ecumenico così come il dialogo interreligioso, è stata espressa solidarietà al popolo palestinese. Forse è stata quest’ultima presa di posizione a provocare la reazione del Governo israeliano, che per bocca del vice ministro degli Esteri Danny Avalon ha dichiarato che “il Sinodo è diventato un forum per attacchi politici contro Israele”. Ma non si può far finta di ignorare che i Vescovi riuniti a Roma appartenevano in gran parte al mondo arabo. Nessuno può negare che, con le loro ragioni, e perfino con i loro errori, fatti pagare con una condanna che è ormai lunga quanto la vita di un uomo, i palestinesi sono la principale vittima del Medio Oriente; e un cristiano non ha bisogno nemmeno di scomodare il Discorso della montagna per schierarsi a fianco di chi più soffre. La Chiesa, non solo quella del Medio Oriente e non da oggi, questo lo ha sempre saputo. Fu già nel 1949 con la Redemptoris nostri di un Papa non certamente sovversivo come Pio XII che la Chiesa invocò giustizia per il palestinesi. Più delicata è semmai l’affermazione del vescovo Cyrille Salim Bustros, secondo cui non ci si può basare sulla Bibbia per giustificare il ritorno degli ebrei in Palestina, perché la promessa di Dio è stata abolita secondo i cristiani dall’avvento di Cristo. Non si può interpretare né accettare questa dichiarazione come la dichiarazione della fine del rapporto speciale fra Dio e il suo popolo. La continuazione dell’Alleanza con gli ebrei “carissimi a Dio” è stata affermata dal Concilio e ribadita da Giovanni Paolo II durante la sua visita alla sinagoga di Roma, quando ricordò la “vocazione irrevocabile” della chiamata di Dio ad Abramo e ai suoi discendenti. E tuttavia da parte del Governo israeliano non si può chiedere ai cristiani di essere più ortodossi degli ebrei. A Gerusalemme si sa benissimo che la giustificazione del ritorno e della riconquista della cosiddetta Terra Promessa per mezzo della Bibbia è stata respinta proprio dal mondo ebraico più ortodosso di fronte al sionismo laico, e ha trovato eco anche fra le sue figure più importanti, compreso in buona parte anche un ebreo come Martin Buber. Per una sintesi del “Messaggio al popolo di Dio” e delle “propositiones” pubblicate al termine del Sinodo straordinario dei vescovi per il Medio Oriente, vedi articolo a pagina 8.
Sinodo per il Medio Oriente. Risposta al Governo di Israele che ha accusato i Vescovi di fare propaganda politica
AUTORE:
R. Cantini