Il 21 giugno 2009 gli elettori italiani saranno chiamati a pronunciarsi su alcuni quesiti referendari in materia elettorale per la sesta volta in diciotto anni. Sicuramente un record, in prospettiva comparata, ma anche la testimonianza di un processo di riforma del sistema elettorale che appare ben lungi dall’aver raggiunto un punto di equilibrio. In particolare, la riforma elettorale del 2005 ha prodotto un cambiamento significativo delle leggi elettorali adottate per le due Camere nel 1993, che erano basate su collegi uninominali maggioritari a turno unico, con un recupero proporzionale pari ad un quarto dei seggi complessivi. La nuova legislazione elettorale è invece a base proporzionale, con soglie di sbarramento di vario tipo e con premi di maggioranza distribuiti su base nazionale alla Camera e su base regionale al Senato. Tale legge è stata criticata in quanto sarebbe segnata da un vistoso deficit democratico: basata su liste bloccate, non consentirebbe all’elettore di scegliere le persone dei deputati e creerebbe un Parlamento non eletto, ma sostanzialmente nominato dalle segreterie di partito. L’ampiezza delle circoscrizioni ‘ coincidenti per lo più con le Regioni ‘ impedirebbe all’elettore di essere effettivamente consapevole dei soggetti cui attribuisce il suo voto, quando sceglie una lista. Infine la possibilità delle candidature multiple (uno stesso candidato può presentarsi in varie circoscrizioni) aumenta ulteriormente questo effetto, e rende inoltre dipendente dalle opzioni di alcuni leaders di partito l’effettiva elezione di molti deputati (oltre 100 nel 2008).D’altro canto, la legge elettorale del 2005 è stata criticata anche per l’irrazionalità del premio elettorale del Senato, distribuito Regione per Regione, con il rischio di una vanificazione dell’effetto maggioritario del premio e della produzione di un Parlamento ingovernabile (come nel 2006). Più in generale si è criticata l’attribuzione del premio di maggioranza a coalizioni potenzialmente molto eterogenee (come quelle che hanno concorso alle elezioni del 2006) con la conseguente rissosità della maggioranza vincitrice. I promotori degli attuali quesiti referendari hanno tentato di fronteggiare alcuni di questi limiti. I primi due quesiti sottoposti al voto il prossimo 21 giugno sposterebbero il premio di maggioranza dalla coalizione di partiti che ottiene più voti su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato (l’Unione nel 2006 e l’alleanza PDL-Lega Nord nel 2008) alla lista che ottenga il maggior numero di voti. L’obiettivo, al momento della formulazione dei quesiti (elaborati fra il 2006 e il 2007) era di evitare la formazione di coalizioni troppo eterogenee e di incoraggiare il bipartitismo. Naturalmente tale obiettivo è stato in parte svuotato dal modo in cui ha funzionato la competizione del 2008, che ha visto contrapposte due coalizioni ‘corte’, entrambe formate da due liste (Pdl+Lega Nord versus Pd+Idv). Il terzo quesito, invece, mira a eliminare l’anomalia tutta italiana delle candidature multiple. Di fronte ai quesiti referendari, l’elettore ha quattro diverse possibilità. La prima è l’astensione, che, se usata come strumento consapevole, può valere come una sorta di ‘sfiducia’ verso i promotori e la loro iniziativa. La seconda consiste nel partecipare votando ‘no’: in tal caso, l’elettore accetta i termini in cui la questione è stata impostata dai promotori, ma si esprime contro la proposta da essi formulata. La terza ‘ il ‘si’ ai quesiti, o a uno di essi ‘ manifesta la condivisione del quesito. La quarta, sinora poco utilizzata, consiste nel partecipare annullando la scheda, vale a dire condividendo o non rifiutando l’iniziativa dei promotori, ma manifestando dissenso sul modo in cui hanno formulato i quesiti. I quesiti del 2009 sollecitano riflessioni complesse. Il deficit democratico della legge elettorale attuale non è stato certo inventato dai promotori: essi indicano un problema reale, più volte sottolineato da molti. Per questo l’astensione dal voto è forse una misura troppo radicale. D’altro canto almeno uno dei tre quesiti ‘ quello volto ad abolire le candidature multiple ‘ appare sicuramente condivisibile: e questa è una seconda ragione per la partecipazione, in questo caso con un voto per il ‘si’. Resta il dubbio sugli altri due quesiti: l’effetto maggioritario da essi prodotto appare eccessivo, con la conseguenza che la strada più ragionevole potrebbe essere quella di una partecipazione critica al voto (che esprima il dissenso rispetto alla legge vigente), che si materializzi nel voto per il ‘no’ o nell’annullamento della scheda. Ma operare per far mancare il quorum nei quesiti del 21 aprile potrebbe, un domani, generare pentimenti: la riforma elettorale è un tema che non può essere abbandonato, se desideriamo una democrazia di qualità, che non si riduca alla scelta (più un plebiscito che un referendum) fra i due leaders delle principali coalizioni.
Si vota per decidere come si debba votare
Referendum sulla riforma elettorale: su quali punti siamo chiamati a dire 'sì' o 'no'.
AUTORE:
MARCO OLIVETTI