Se il Canone Romano presenta i ministri ordinati come “peccatori fiduciosi nella infinita misericordia di Dio”, il prefazio della Messa crismale li chiama “servi premurosi del popolo di Dio”. Questo è il profilo che la lex orandi traccia dei ministri ordinati, che hanno la missione di piegare le ginocchia oltre che calzare i sandali, di dilatare il cuore oltre che sottoporre le spalle al peso dell’ufficio pastorale, di porgere l’orecchio oltre che prendere la parola, di tendere le mani oltre che aprire gli occhi, di usare l’aspersorio oltre che il turibolo, di suonare il campanello delle case oltre che le campane. Come c’è una “teologia genuflessa”, così non può mancare una “pastorale genuflessa”. Invano si calzano i sandali se non si piegano le ginocchia, se non si sente il bisogno, ogni giorno, di “soffermarci in preghiera per chiedere al Signore che torni ad affascinarci”. Gesù, alla vista delle folle numerose, non prova agitazione ma sente compassione, spezza i pani per circa cinquemila uomini (cf. Mt 14,13-23), conservando la libertà di salire sul monte, in disparte, per raccogliersi in preghiera, “sorgente inesauribile della consegna di sé al Padre”. L’apostolato del cuore risponde a questa regola: “ciò che non si ama stanca”. Chi si affida al Signore conosce la fatica ma non la stanchezza, che è il salario di chi confida in se stesso. La stanchezza, oltre ad essere causa di affanno pastorale, è sintomo del mancato coinvolgimento del cuore nel portare, “come sigillo impresso sull’anima”, il giogo del gregge caricato sulle spalle. Spendersi senza donarsi, consumarsi senza consegnarsi, è una patologia di cui soffre chiunque ignori che non si può avere la stoffa del buon Pastore senza la lana dell’Agnello immolato. La pastorale dell’orecchio sollecita a “conservare un contatto continuo con le Scritture” e a prestare ascolto ai fratelli senza impazienza e senza fretta.
Papa Francesco afferma che un vero pastore, “avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro”. Frammenta il tempo, trasformandolo in spazio, chi rinuncia a passare dall’irrigazione “a pioggia” delle iniziative pastorali prive di iniziativa a quella “a goccia” della direzione spirituale che avvia processi. L’apostolato delle mani tese sente col cuore quello che vede con gli occhi, esprime nell’abbraccio dello sguardo il battito del cuore, non esitando a fermarsi e chinarsi ovunque ci sia qualcuno che chiede aiuto per rimettersi in piedi. La parabola del buon Samaritano insegna che nulla accade “a caso”, nemmeno negli incontri che avvengono “per caso” (cf. Lc 10,25-37). In ogni strada, per un misterioso accordo di circostanze e di eventi, c’è sempre una corsia che conduce a Dio, che offre alla Provvidenza l’occasione di misericordiosi interventi. La pastorale dell’aspersorio va incontro al popolo di Dio con l’acqua del Battesimo, “fonte dell’umanità nuova”. Chi sa usare l’aspersorio talora è allergico all’incenso, e tuttavia chi maneggia bene il turibolo non sempre prende in mano volentieri il secchiello e le ampolle con gli oli santi. Infonde l’incenso nel turibolo “in spirito e verità” chi non esita a ungere gli infermi, versando sulle loro ferite l’olio della consolazione, e a benedire l’acqua lustrale, mescolando in essa un po’ di sale che, nello sciogliersi, ricorda alla Chiesa la sua funzione risanatrice, quella di mostrare la capacità del Vangelo di umanizzare l’esistenza.
L’apostolato del campanello non rinuncia al suono delle campane, ma lo amplifica avvicinandosi alla porta di casa delle famiglie, senza “passare oltre” davanti a chi ha irrimediabilmente spento il fuoco dell’amore coniugale e senza trascurare quanti attendono di rattizzarlo, di ravvivarlo o, addirittura, di farlo divampare. Se non si riparte dalla famiglia, con una pastorale che “non predica ai bambini e benedice gli adulti ma benedice i bambini e predica agli adulti”, l’impegno per l’evangelizzazione sarà sempre una rincorsa affannosa.
“Instancabili nel dono di sé, vigilanti nella preghiera, lieti e accoglienti nel servizio della comunità”: questo è il “protocollo” stabilito dalla lex orandi per i ministri ordinati, chiamati ad essere “servi premurosi del popolo di Dio”.