Senza l’Unione Europea, il diluvio

In un saggio celebre tra gli studiosi dei fenomeni politici, pubblicato a Londra subito dopo le prime elezioni europee del 1979, Karlheinz Reif e Hermann Schmitt attribuirono a questo voto il carattere di second-order. Il significato sostanziale di questa espressione dovrebbe risultare chiaro anche a chi non conosce l’inglese. Ma perché le elezioni europee sarebbero – diciamo così – di secondo piano, rispetto ovviamente a quelle politiche nazionali? Essenzialmente perché in esse la posta in gioco è inferiore, o almeno in questi termini viene percepita dall’opinione pubblica. Questo aspetto, tra l’altro, sarebbe anche alla base della minore partecipazione al voto. Tale percezione era inadeguata anche in passato, ma poteva essere comprensibile allo stato degli atti. Oggi, però, è veramente insostenibile.

Pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nella sua prima relazione annuale, ha affermato che “l’avanzamento dell’integrazione europea è la risposta ai mutati equilibri geopolitici e al rischio di irrilevanza cui i singoli Stati membri sarebbero altrimenti condannati dalla cruda aritmetica dei numeri”. Sono parole nettissime, pronunciate da una personalità di grande autorevolezza, con una specifica esperienza da membro del direttorio della Banca centrale europea, e la cui nomina è avvenuta nella stagione dell’attuale maggioranza, in cui pure le venature euroscettiche non mancano. Del resto, solo un pregiudizio ideologico potrebbe impedire di vedere quel che Panetta ha sottolineato con estrema lucidità. Da banchiere centrale, per giunta, egli è ben consapevole che la quasi totalità della nostra crescita economica è legata all’attuazione del Pnrr e quindi ai fondi europei.

Altro che di secondo piano! Oggi la posta in gioco nelle elezioni europee è d’importanza cruciale. E per una volta le ragioni ideali e quelle economiche spingono nella stessa direzione. Quando il card. Zuppi, presidente della Cei, formula l’auspicio che “l’Europa si ricordi delle sue radici” e che “la scelta sia per un futuro maggiore, e non minore, dell’Europa”, muove da presupposti chiaramente diversi da quelli pragmatici del governatore della Banca d’Italia, ma indica una prospettiva che tende a convergere. Del resto è una pericolosa illusione quella di chi immagina di poter fare a meno dell’Europa o comunque di ridimensionarne il ruolo.

La nostra collettività, ha scritto il Capo dello Stato nel messaggio ai prefetti per il 2 giugno, è “inserita oggi nella più ampia comunità dell’Unione europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri popoli liberi del Continente e di cui consacreremo, tra pochi giorni, con l’elezione del Parlamento Europeo, la sovranità”. Una sovranità che è l’esatto contrario di quei sovranismi che alimentano venti di guerra anche lì dove sembrava impossibile che fosse rimessa in discussione la pace. E che invece è in piena sintonia con le piccole sovranità dei nostri territori in cui “viene rinsaldata l’unità dell’edificio democratico, valorizzando il principio di autonomia nell’orizzonte della solidarietà”, per citare ancora il messaggio di Mattarella.

La coincidenza del voto europeo con quello in 3.700 Comuni ci ricorda che, statistiche alla mano, la partecipazione alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo è maggiore in quelle località in cui i seggi si aprono anche per le amministrative. Un effetto-traino sul piano pratico, certo, ma anche la conferma che la democrazia si costruisce dal basso.

Stefano De Martis

LASCIA UN COMMENTO